Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’importanza di Claudio Monteverdi nella storia della musica occidentale si misura su due dimensioni: la qualità estetica delle sue opere, che sono fra le vette più alte della nostra tradizione colta, e l’esemplarità del suo percorso di compositore. La formidabile sensitività della sua intelligenza creativa e una felice combinazione di condizioni favorevoli gli hanno permesso di conquistare una posizione di assoluto rilievo nella rivoluzione musicale avvenuta tra fine Cinquecento e inizio Seicento.
La formazione a Cremona
La vita e la produzione di Claudio Monteverdi si articolano in tre fasi corrispondenti alle tre principali città che gli hanno fatto, insieme, da sfondo e da motore: Cremona, Mantova e Venezia.
A Cremona, città natale, si svolge l’apprendistato del giovane musicista all’illustre scuola del compositore veronese Marcantonio Ingegneri. La rete delle conoscenze familiari (il padre Baldassarre era speziale, cerusico e medico affermato, nonché personaggio in vista della comunità cittadina) e la dimensione provinciale consentono di esaltare al massimo, con qualche sproporzione entusiastica, le indiscutibili e precoci manifestazioni del talento di Claudio.
Fra il 1582 e il 1590 (cioè fra i 15 e i 20 anni di vita) vengono infatti stampati ben cinque libri di sue composizioni. La pubblicazione precoce di raccolte monografiche, per di più in vesti tipografiche ricercate, è un privilegio singolare se si pensa ai costi notevoli della stampa musicale, e se si ricorda che molto di rado un compositore poteva ambire alla stampa di un proprio libro prima dei 25 anni (come Orlando di Lasso, Palestrina e Luca Marenzio che aspettarono i 27; o come Orazio Vecchi che stampò intorno ai 30 anni).
I primi tre libri monteverdiani, Sacrae cantiunculae del 1582, Madrigali spirituali del 1583, Canzonette del 1584 (finanziati da mecenati locali, dedicatari delle opere) sono lavori di buona fattura, ma di qualità artistica non singolare; hanno quindi il principale scopo di mostrare nel “theatro del mondo” che il loro giovane autore è in pieno possesso di tutte le conoscenze richieste a un musicista professionista.
Il primo e il secondo libro dei madrigali, rispettivamente del 1587 e 1590, testimoniano invece che intorno ai vent’anni Monteverdi era già pervenuto a un alto livello di maturazione compositiva, e stava già elaborando quella cifra stilistica così particolare e originale che in seguito lo avrebbe caratterizzato.
Specie il secondo libro rivela una nuova attenzione ai contenuti dei testi poetici messi in musica e una concezione estremamente duttile e articolata della costruzione polifonica, che porterà direttamente agli elementi principali dell’idioma musicale barocco (il declamato monodico e lo stile concertato).
Ecco mormorar l’onde del secondo libro, costruito su di un commosso testo di Torquato Tasso che canta l’impalpabile e miracoloso trascolorare della natura nel breve tempo dell’aurora, è già un capolavoro del genere madrigalesco.
Gli ingressi sfalsati e variamente combinati delle cinque voci, con brevi afflati di canto che efficacemente corrispondono alla frammentata meraviglia delle parole di Tasso, introducono l’ascoltatore in un mondo sonoro di sfumature, trasformazioni, echi; una sfera incantata in cui perdono consistenza i confini tra notte e giorno, sonno e veglia, coscienza e incoscienza. È già la poetica del sogno, del magico, dell’impalpabile, che tanta parte avrà nella letteratura del Seicento, da Shakespeare e Calderón in poi.
Monteverdi a Mantova
Tra il 1590 e il 1591 Monteverdi viene assunto come suonatore di viola alla corte di Vincenzo Gonzaga duca di Mantova, dove una tradizione secolare aveva riservato alla musica un posto d’onore, prima con Isabella d’Este, tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, poi con il duca Guglielmo, egli stesso compositore di non infima qualità.
Ma un impulso decisivo arrivò a Mantova da Vincenzo, che, assunta la signoria alla morte del padre Guglielmo (1587), spese ingenti somme per affermare una rinnovata e magnificente immagine internazionale del suo ducato, patrocinando costosi e raffinati eventi spettacolari incentrati sulla musica.
Contrastati saranno sempre i rapporti fra Monteverdi e l’amministrazione ducale, che riconosce presto le molteplici doti del musicista e se ne avvale largamente, ma non si mostra altrettanto solerte nel remunerarle. In diverse lettere Monteverdi lamenta pagamenti mancati o fortemente ritardati, e l’ossequiosa prosa cortigiana riesce appena a dissimulare rabbia profonda e oscuro risentimento.
Al seguito di Vincenzo, come responsabile di una piccola cappella di quattro musicisti, Monteverdi partecipa a due viaggi: in Ungheria (1595) e ai bagni di Spa nelle Fiandre (1599). Economicamente essi si rivelano per il musicista eventi rovinosi, di cui si lamenterà ancora alcuni anni dopo, perché è costretto a provvedere di tasca propria a ingenti spese personali; musicalmente tuttavia rappresentano occasioni preziose di confronto con altri contesti culturali e con altri professionisti di valore.
Quanto sia stato importante per Monteverdi il viaggio nelle Fiandre è attestato dal fratello Giulio Cesare, anch’egli al servizio del duca Vincenzo, quando in uno scritto del 1607 ricorda come Claudio fosse stato il primo a introdurre in Italia il nuovo “canto alla francese in questo modo moderno che per le stampe da tre o quattro anni in qua si va mirando... di quando venne da li bagni di Spà, l’anno1599”.
Morto nel 1596 Giaches de Wert, maestro di cappella della corte mantovana, Monteverdi aspira legittimamente alla successione, ma gli viene preferito il più anziano concittadino Benedetto Pallavicino.
Probabilmente in seguito a questa delusione egli cerca una sistemazione alternativa presso Alfonso II, duca di Ferrara, ma la morte di questi, nel 1597, blocca ogni cosa. Finalmente alla fine del 1601, morto a sua volta Pallavicino, arriva per lui la nomina a “maestro di musica del serenissimo signor duca di Mantova”, come si legge nel frontespizio del Quarto libro de madrigali (1603). Intanto, nel maggio 1599, erano state celebrate le sue nozze con Claudia Cattaneo, figlia di un collega musicista, anch’essa al servizio del duca come cantante.
Al primo decennio mantovano è legato un episodio importantissimo, che ci permette di osservare da vicino quale straordinario complesso di problematiche accompagnasse l’evoluzione del pensiero musicale agli inizi del barocco: la disputa sulla “seconda prattica”. Protagonisti sono, da un lato Claudio Monteverdi e suo fratello Giulio Cesare, dall’altro il canonico e teorico bolognese Giovanni Maria Artusi.
Nella sua opera intitolata l’Artusi, overo Delle imperfettioni della moderna musica (1600), quest’ultimo si propone “di dimostrare i traviamenti di certe tendenze compositive moderne che contraddicono in modo palese le regole tradizionali”.
Come esempi negativi sono citati nel volume alcuni passi da quattro madrigali, dei quali non è menzionato l’autore, ma che sono appunto composizioni di Monteverdi date alle stampe solo più tardi, due nel Quarto libro de madrigali (1603) e due nel Quinto libro (1605).
Artusi riconosce in essi una certa qualità generale, ma ne critica aspramente l’eccessiva libertà nel trattamento delle dissonanze, nella commistione dei generi, nella disinvolta manipolazione dei modi, che ai suoi occhi appaiono gravi e ingiustificati arbitri.
Monteverdi replicherà solo nel 1605 con un breve scritto in prefazione al Quinto libro; ma la vera risposta ad Artusi arriva nel 1607, in un’ampia Dichiaratione che Giulio Cesare Monteverdi scrive come introduzione agli Scherzi musicali del fratello Claudio. In essa è affermato che Monteverdi e gli altri suoi compagni di strada, quando si allontanano dalle regole lo fanno con perfetta coscienza e a ragion veduta, allo scopo di evidenziare il contenuto affettivo delle poesie messe in musica.
Vengono poi identificate due distinte concezioni compositive: una prima prattica in auge fino alla metà del Cinquecento, e una seconda prattica, affermatasi gradatamente nella seconda metà del secolo.
Nella prima prattica l’oratione (la poesia da mettere in musica) è serva dell’armonia (la musica su di essa composta); cioè le leggi della costruzione musicale prevalgono sui principi della teoria degli affetti, sulle passioni espresse dalla poesia. Nella seconda prattica invece è l’armonia a essere serva dell’oratione; cioè il compositore non esita a eludere o contraddire le regole musicali consolidate, quando la fedele rappresentazione delle passioni lo richieda. Assistiamo qui alla contrapposizione appassionata fra un’estetica “classicista” (la prima prattica) e una “manierista” (la seconda prattica), o meglio alla ripresa di una dialettica, costante nella cultura occidentale, che ha origine nella Grecia antica dal contrasto fra atticismo (culto della forma olimpica e del sovrano equilibrio) e asianesimo (indagine negli oscuri labirinti delle pulsioni e delle passioni umane).
Potente illustrazione dell’estetica di seconda prattica sono il quarto e quinto libro di madrigali.
Si guardi come esempio Piagn’e sospira, madrigale di chiusura del quarto libro, costruito su di un’ottava ad ambientazione pastorale dalla Gerusalemme conquistata del Tasso.
Sotto l’ardente sole della canicola, una donna perdutamente innamorata, ma non ricambiata, incide sulle cortecce degli alberi il nome dell’amato e le dolorose vicende del suo caso. L’ansia febbrile che la guida cresce con l’intensificarsi dei suoi gesti, finché si arresta a rileggere “le proprie note”, e, come improvvisamente liberata dalla disperazione, si scioglie in un tenero, accorato pianto. La musica si articola in due parti: nella prima le voci si inseguono ansiose in una varietà di motivi, sui quali spicca un frammento cromatico che nel suo movimento fa saltare le divisioni fra generi e modi; così come i gesti della donna infrangono i confini fra saviezza e follia, ragione e sentimento, amore e furore. Nella seconda parte le voci ritrovano la concordia armonica in un affettuoso declamare ad accordi.
Culmine del periodo mantovano sono i due ambiziosi spettacoli del 1607 e 1608, l’Orfeo e l’Arianna. In un gioco al rialzo nell’emulazione fra le corti italiane, essi sono le amplificate risposte del duca Vincenzo alle feste fiorentine del 1600 per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia, comprendenti la rappresentazione dell’Euridice, “favola” di OttavioRinuccini con musica di JacopoPeri. L’Euridice era stata una sorta di coronamento dell’appassionato dibattito sviluppatosi lungo il secondo Cinquecento nel cenacolo fiorentino noto come Camerata de’ Bardi.
Grande novità di questi spettacoli, a imitazione della rappresentazione fiorentina, è che i personaggi sulla scena cantano in assolo dall’inizio alla fine del dramma.
Era usuale nel Cinquecento che la musica avesse un ruolo importante negli spettacoli teatrali, sia come canzoni occasionalmente cantate dagli attori, sia come musica di sfondo e di accompagnamento ai balli, sia soprattutto come intrattenimenti intercalati fra gli atti, detti intermezzi. Era invece inusuale che i personaggi in scena non parlassero ma cantassero solamente; cosa che suscitò compiaciuta meraviglia negli ascoltatori e provocò infinite discussioni fra i dotti sull’opportunità e sulla verosimiglianza della trovata.
Era comunque assente dalle intenzioni dei protagonisti la consapevolezza che quegli eventi avrebbero contribuito ad aprire un nuovo e sterminato campo di espressione musicale, l’opera. Essi, piuttosto, volevano sperimentare la possibilità di ripristinare, con le dovute differenze, quel meraviglioso connubio fra poesia e musica che era stato uno dei più alti esiti artistici della Grecia antica, e del quale i teorici di tutta l’era cristiana avevano magnificato concordi le magiche capacità di modificare e suscitare le passioni dell’animo. Il fatto che delle musiche greche fossero sopravvissuti solo pochissimi ed enigmatici frammenti lasciò ai compositori la più totale libertà nell’immaginare e nell’inventare le proprie soluzioni musicali. Convinzione unanime era comunque che la restaurata musica antica dovesse essere monodica, cioè a voce sola; diversa quindi dalla imperante polifonia che si basava sul concerto di più voci.
Grazie alla buona qualità del libretto, l’Orfeo ha una struttura d’insieme molto armoniosa e allo stesso tempo estremamente variegata, nella ricca e felice alternanza di momenti solistici, passi corali, sinfonie e toccate strumentali, duetti, trii ecc.
Monteverdi fa tesoro delle esplorazioni da lui avviate in nuovi domini musicali lungo il precedente decennio, adattandole alle diverse esigenze drammaturgiche richieste dal libretto.
Vi ricorda boschi ombrosi, ad esempio, un passo cantato da Orfeo nel secondo atto, è formalmente una canzonetta strofica, del tipo di quelle raccolte nei coevi Scherzi musicali; nel contesto scenico però appare come un presentimento di aria. La partitura dell’Orfeo viene stampata nel 1609; manoscritta rimane invece l’Arianna, la cui partitura non ci è pervenuta. È stata avanzata l’ipotesi che la mancata stampa sia derivata dalla coscienza che il lavoro nel suo complesso fosse abbastanza debole, mancando varietà nell’azione; fu per questo che la duchessa madre, in sede di progetto, pretese l’inserzione nel corso dello spettacolo di balli e altri diversivi che alleggerissero la staticità della trama.
La rappresentazione dell’Arianna resta in forse quando muore di vaiolo la giovane cantante romana Caterina Martinelli che impersona la protagonista. Dopo febbrili e infruttuosi tentativi di trovare un’altra cantante adeguata alla difficoltà della situazione, il ruolo è impersonato da Virginia Ramponi Andreini, formidabile attrice nota come Florinda, che impara a memoria la parte in pochi giorni, rappresentandola poi trionfalmente. Le cronache sono unanimi nel testimoniare che il lungo e straziato lamento di Arianna su uno scoglio sia stato un momento straordinario, che strappò le lacrime a tutti i presenti.
Il Lamento d’Arianna come pezzo staccato circolerà manoscritto per molti decenni, e sarà dato alle stampe solo nel 1623, insieme ad altri brani in “genere rappresentativo”, cioè composizioni da camera che richiedono però dall’interprete l’impiego di una gestualità di natura teatrale.
Esso è quindi l’unico frammento a noi noto dell’Arianna, e per molti decenni resterà modello indiscusso per il profluvio di lamenti che inonderanno le scene operistiche del Seicento. La performance di Arianna “fu tanto gradita che non è stata casa la quale, avendo cembali o tiorbe in casa, non avesse il lamento di quella”.
Ma il lavoro per l’Arianna portato avanti a tappe forzate, si rivela per Monteverdi uno sforzo disastroso; ancora una ventina d’anni dopo scriverà in una lettera che “la brevità del tempo fu cagione ch’io mi riducessi quasi alla morte nel scrivere l’Arianna”. Inoltre nell’estate del 1607 muore la moglie Claudia, lasciandogli tre figli ancora piccoli. Matura allora la decisione, già da tempo rimuginata, di cercare altrove una sistemazione alternativa, che sia meno onerosa e allo stesso tempo riconosca con adeguati salari la qualità del suo ingegno.
È in questa prospettiva che Monteverdi dà alle stampe nel 1610 una raccolta sacra dedicata al pontefice Paolo V, comprendente una messa in stile tradizionale e di struttura notevolmente complessa, e una serie di pezzi in stile moderno variamente concertati. Egli spera così di ottenere una buona sistemazione per il figlio Francesco, e intende proporsi per qualche impiego professionale a Roma; ma queste aspettative andranno entrambe deluse.
Il trentennio veneziano
Nel febbraio 1612 muore però il duca Vincenzo, e qualche mese dopo, per ragioni che ci sono ignote, il successore Francesco licenzia Claudio e suo fratello.
Un anno dopo, essendo morto il titolare Giulio Cesare Martinengo, Monteverdi sostiene a Venezia, una prova per diventare maestro di cappella a San Marco; così nell’ottobre 1613 inizia il nuovo lavoro.
Si apre così finalmente per Monteverdi un lungo periodo di calma, che durerà fino alla morte.
La carica di maestro di cappella gli garantisce un buon stipendio regolarmente pagato ed, esonerato dalla routine quotidiana assolta dai suoi collaboratori, gli lascia agio di dedicarsi alla composizione; non solo di musica sacra, ma anche di musica profana da teatro e da camera per vari e facoltosi committenti. Inoltre, la collettività del governo della Repubblica veneziana lo mette al riparo dai cambi d’umore e dai capricci del principe, che aveva dovuto sopportare a Mantova.
Da un punto di vista biografico il trentennio veneziano appare come ovattato dalla dolcezza lagunare, ma nei risultati artistici si rivela estremamente prolifico e multiforme, sanzionando l’affermazione internazionale di Monteverdi fra i primi e indiscussi maestri dell’epoca.
Le stampe principali di questi anni sono il Concerto. Settimo libro de madrigali (1619), preziosa antologia di un quindicennio di produzione da camera, e soprattutto Madrigali guerrieri et amorosi... Libro ottavo (1638), e la Selva morale e spirituale (1640). Fortemente legato al periodo mantovano è invece il Sesto libro de madrigali (1614), nel quale spicca la versione polifonica del Lamento d’Arianna.
Il Sesto libro è uno dei momenti più intensi e meditati della produzione polifonica monteverdiana, complesso nella concezione formale ed esoterico nelle scelte stilistiche. La fine penna di Don Angelo Grillo, letterato di fama e corrispondente del musicista, dirà che “non è musica da orecchia popolare, né da popolare ingegno, perché popolare non è la maniera, popolare non è l’autore, ma sollevato oltre le vie ordinarie et fuor della plebe de’ musici”.
Nel 1615 riprendono intanto i contatti con la corte mantovana, per la quale Monteverdi comporrà diversa musica teatrale in gran parte andata perduta, distrutta nel terribile saccheggio patito dalla città nel 1630 ad opera dei lanzichenecchi. Di questa produzione ci è pervenuto il balletto Tirsi e Clori, pubblicato nel Concerto.
Altri importanti contatti Monteverdi tiene anche con la corte di Parma, in occasione delle nozze fra il duca Odoardo Farnese e Margherita de’ Medici, nel dicembre 1628. Egli compone per la circostanza gli intermezzi per la rappresentazione dell’Aminta di Tasso e per altri eventi spettacolari. Conosciamo l’importanza di queste opere dalle cronache, ma purtroppo le musiche non ci sono pervenute.
Estremamente importanti sono i lavori che Monteverdi realizza a Venezia per la famiglia Mocenigo, il Combattimento di Tancredi e Clorinda e la Proserpina rapita, rappresentati nel palazzo di famiglia rispettivamente il 1624 e il 1630. Del secondo, la musica non ci è pervenuta, ma il primo, un vero capolavoro del “genere rappresentativo”, verrà fortunatamente pubblicato nei Madrigali guerrieri et amorosi.
I Madrigali guerrieri et amorosi compendiano vent’anni di produzione profana, lussureggiante nella sua varietà di forme e di temi, ma unitaria nell’ispirazione poetica e fondata sulla seconda prattica. La loro forza straordinaria sta nella capacità di far coesistere la nuova monodia (il canto solistico intrinsecamente “rappresentativo”), e la polifonia (concerto di più voci). Ciò è possibile perché Monteverdi reinterpreta la polifonia in chiave drammatica; non tanto in un senso visivamente scenico (come i leggiadri cori di ninfe e pastori dell’Orfeo), ma piuttosto in una dimensione più interiorizzata.
Se al canto solistico si addice la rappresentazione del singolo personaggio, al complesso polifonico compete la messa in scena della dinamica psicologica, del processo mentale, dell’immagine onirica; essa è insomma, come diceva Orazio Vecchi qualche decennio prima, “teatro della mente”.
Questa duplicità è splendidamente espressa nel Lamento della ninfa, un trittico pastorale su testo di Rinuccini compreso nella seconda sezione dell’ottavo libro, i Canti amorosi. Nella prima parte del testo un narratore introduce il quadretto e ci descrive una tenera ragazza che esce dal proprio rifugio silvano: il pallore del suo volto, il suo palpitante e quasi inconsapevole vagabondare tra i fiori fanno intuire quali tristi pensieri le occupino la mente. Nella seconda parte è la ninfa stessa a parlare e a palesarci con voce rotta e con frasi spezzate l’infedeltà dell’amato, alternando parole di sdegno e abbandoni di tenerezza e nostalgia. Nella terza parte, quando la passione della ninfa si è ormai rinchiusa nelle stanze della mente, ritorna il narratore che commenta malinconicamente come nei cuori amanti “mesce Amor fiamma e gel”.
Monteverdi musica il narratore con un coretto di tre voci virili, che alternando efficacemente passi accordali a momenti imitativi, modellano il loro canto sulla mobile e simpatetica descrizione della scena. Il lamento della ninfa è affidato a una voce sola, una dolce e accorata voce di donna che intona commossi frammenti di canto sopra un basso continuo di quattro accordi (una sequenza nota come passacaglio) ripetuto ossessivamente fino alla fine del lamento. Le tre voci commentano partecipi il canto della ninfa esclamando di tanto in tanto “miserella”, e creano così due piani espressivi: quello immediato, patetico, quasi corporeo della protagonista, che è monodico; e quello riflessivo, mentale, ombreggiato, degli spettatori, che è polifonico.
L’utilizzo di schemi di basso ripetitivi come tappeto sonoro per sostenere il canto è un elemento di grande rilievo nel barocco; si afferma nel primo Seicento e dilaga poi per tutto il secolo, spingendosi anche oltre, pur se in mutate forme.
Un altro straordinario esempio ne è dato da Monteverdi in Zefiro torna sopra un sonetto di Rinuccini, pubblicato negli Scherzi musicali. Cioè Arie, e Madrigali in stil recitativo, piccola raccolta del 1632.
Il testo di Zefiro torna è modellato sul famoso sonetto di Petrarca che ha lo stesso incipit, ma sotto l’influenza del platonismo rinascimentale la poesia di Rinuccini trasforma il motivo del risveglio della natura in un inno panico alla musica; tutto è gioia di suono, dal lieve mormorio di fronde all’ampio risonar di valli e di caverne.
La musica è per due tenori e basso continuo. Le due voci trattano le frasi melodiche in modo che l’ascoltatore senta sì un soggetto unico, ma come sdoppiato in due facce dello stesso principio vitale.
Il fiore del magistero monteverdiano come compositore di musica sacra è raccolto nella Selva morale e spirituale, ultima opera pubblicata vivente l’autore.
Come la precedente raccolta del 1610 anch’essa accosta una messa a un gruppo di pezzi concertati; ma qui la varietà è ancor più notevole, e conferma come a metà secolo tutte le novità elaborate nella musica profana, da camera e da teatro, fossero ormai pienamente assimilate anche nel più severo dominio della musica sacra. La Selva, arioso capolavoro di un grandissimo, canuto maestro, ha certamente intento autocelebrativo sancito dal brano che chiude la raccolta: Pianto della Madonna.
È un’ulteriore trasformazione del Lamento d’Arianna, questa volta in chiave spirituale con testo latino a devozione mariana (“Iam moriar, mi fili”).
Nel trentennio veneziano Monteverdi aveva continuato a scrivere musica teatrale, ma per le corti di Mantova e Parma; a Venezia invece, per diverse ragioni, si limita a occasioni rappresentative di natura più cameristica, come appunto Tancredi e Clorinda. Con l’apertura a Venezia di teatri pubblici a pagamento riservati al teatro musicale (1637), Monteverdi torna invece a impegnarsi in musiche sceniche di più ampie dimensioni. Nel 1640 viene ripresa, con gran successo, l’Arianna; e lo stesso anno viene rappresentato Il ritorno di Ulisse in patria, un nuovo e impegnativo lavoro su libretto di Giacomo Badoaro. Seguono poi nel 1641 Le nozze d’Enea in Lavinia, la cui musica è andata perduta, e nel 1643 La coronatione di Poppea, a cui secondo un’usanza corrente contribuiscono anche altri compositori.
Molti anni separano questi lavori dalle due opere mantovane; anni di grandi e turbinosi fermenti, nella musica come negli eventi storici. Questa distanza è avvertibile nei drammi veneziani, che fanno uso di uno stile recitativo molto più articolato e di una concezione formale più complessa e originale. Rimane tuttavia uguale, indelebile, la stessa attenzione acuta e partecipata verso gli affetti dei personaggi, l’estetica della seconda prattica che guida i passi di Monteverdi compositore fin dai suoi primi anni mantovani.
E rimane, in sintonia del resto con i tempi, la predilezione per i momenti altamente patetici; così ad esempio nel commovente, bellissimo lamento di Penelope che apre il primo atto del Ritorno di Ulisse in patria.
La voce vaga mesta fra diversi poli modali alterando le note in un fluire di emozioni, rimpianti, ricordi, paure e speranze.