Claudio Napoleoni
Claudio Napoleoni è una delle voci più significative dell’economia politica italiana, nell’ambito della quale ha svolto una funzione essenziale, critica e ricostruttiva insieme. Il rigore scientifico e la passione politica sono sempre state in lui inscindibili. Non si è stancato mai di indicare le ragioni di una lotta che puntasse a una trasformazione sociale profonda. Nei suoi scritti si ritrova un pensiero radicale, che sa cioè andare alla radice delle cose. La teoria economica, per Napoleoni, è scienza sociale che deve mutarsi in ‘critica dell’economia politica’, senza tradire il rigore del proprio statuto disciplinare; e al tempo stesso farsi critica del processo storico dato, mantenendo forte un legame intrinseco con il movimento reale di soppressione dell’alienazione e dello sfruttamento.
Napoleoni nasce a L’Aquila il 5 marzo del 1924. Dopo la maturità al liceo Mamiani di Roma, si iscrive a scienze naturali. Interrompe gli studi a causa dell’occupazione tedesca. Dal 1945 studia economia politica da autodidatta, leggendo Karl Marx e Léon Walras. Al termine del conflitto si iscrive al Partito comunista italiano (PCI). Collabora al Ministero della Costituente, occupandosi dei sistemi educativi su scala mondiale. Nel frattempo, si iscrive alla facoltà di Lettere e filosofia di Roma, studi che interrompe nel 1947: il suo è uno dei rari casi di docente universitario privo di laurea. Nel 1946 collabora con Mauro Scoccimarro, ministro delle Finanze nel governo Parri. Napoleoni fa parte della Commissione economica, diretta allora da Bruzio Manzocchi, e si interessa dei problemi relativi ai Consigli di gestione. Dal 1948 al 1950 dirige «La realtà economica», bollettino quindicinale del Comitato nazionale dei Consigli di gestione.
Nel 1951 abbandona il partito. Nel 1953 entra alla SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) di Pasquale Saraceno, dove dirigerà, dal 1958 al 1963, il Corso di formazione e specializzazione sui problemi della teoria e della politica dello sviluppo economico. Collabora allo Schema Vanoni, e fa poi parte della commissione di esperti che preparerà la nota aggiuntiva al bilancio 1962 del ministro Ugo La Malfa (Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano). Nel 1956-57 riprende i rapporti con Franco Rodano, e collabora a «Il dibattito politico». Cessate nel 1958 le pubblicazioni della rivista, i due dirigeranno insieme dal 1962 «La rivista trimestrale».
Alla metà degli anni Cinquanta si rivela anche pensatore di notevole dottrina e di statura internazionale. Nella primavera del 1950 Giorgio Fuà gli aveva chiesto di sostituirlo nella preparazione del Dizionario di economia politica per Adriano Olivetti. Nel 1956 il Dizionario vede la luce. Pochi anni dopo, nel 1961, Napoleoni pubblicherà sul «Giornale degli economisti e Annali di economia» (gennaio-febbraio 1961) una tempestiva recensione al volume Produzione di merci a mezzo di merci (1960) di Piero Sraffa e la prima edizione del Pensiero economico del Novecento (la seconda edizione, diversa in punti rilevanti, esce nel 1963).
Un lavoro di approfondimento analitico e di innovazione teorica che si accompagnò a una carriera accademica travagliata. Non supera infatti la libera docenza nel 1957 e incontra identica sorte nel 1962. Ottiene infine la libera docenza nel 1965: insegna ad Ancona, Napoli, Roma. Dalle lezioni ad Ancona (come da quelle alla SVIMEZ) nasce l’Equilibrio economico generale del 1965. Nel 1971 si trasferisce a Torino. Nel frattempo, dal 1968 al 1974, dirige a Roma la SISPE (Scuola Italiana di Scienze Politiche ed Economiche). È il Sessantotto studentesco a spingere Napoleoni e Rodano a costituire la scuola, e sarà il Sessantanove operaio (così come il rapporto con Lucio Colletti) a gettare i semi della divisione. Consumata la rottura con Rodano, e chiusa la prima serie della «Rivista trimestrale», tra il 1970 e il 1971, Napoleoni prosegue per qualche anno l’esperienza, ridenonimando la SISPE come Scuola italiana di storia del pensiero economico. Il 1971 è in effetti un anno di rotture e svolte. Napoleoni ha appena pubblicato, l’anno precedente, la prima edizione di Smith, Ricardo, Marx e l’antologia con Colletti su Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo?, e ha curato la Teoria dello sviluppo capitalistico di Paul M. Sweezy.
La rottura con Rodano è all’insegna di una proposta di ricostruzione critica e problematica della teoria del valore-lavoro sia sul terreno filosofico sia su quello scientifico. Le Lezioni sul capitolo sesto inedito del 1971 sono un testo di transizione. Il nuovo programma di ricerca sul Marx del valore-lavoro è testimoniato dalla seconda edizione di Smith, Ricardo, Marx, e avrà breve (ma significativa) durata. Entrerà in crisi già nel 1975-76 con Valore, ed è abbandonato nel 1978 con un intervento a un importante convegno a Modena (pubblicato su «Rinascita»).
Nel 1976 Napoleoni è eletto deputato come indipendente di sinistra nelle liste del PCI. Rieletto, come senatore, nelle successive legislature, sarà presidente della Sinistra indipendente. Dal 1976 collabora a «La Repubblica», ed è poi condirettore del mensile «Pace e guerra». La sconfitta operaia alla Fiat del 1980 porta a modifiche di rilievo nel pensiero di Napoleoni che troveranno espressione compiuta nel Discorso sull’economia politica del 1985. Muore ad Andorno Micca (Biella) il 31 luglio del 1988.
Sulla «Realtà economica» Napoleoni sostiene una ‘riforma strutturale’ del capitalismo italiano, nel quale sono inattuabili tanto le politiche neoclassiche quanto quelle keynesiane. La linea del governo, della Banca d’Italia e della Confindustria viene definita una politica produttivistica basata sulla stabilità monetaria, che va rovesciata in una stabilità monetaria basata su una politica produttivistica. Napoleoni svolge anche un’accurata analisi dell’European recovery program (ERP). L’impostazione keynesiana del rapporto Hoffman è apprezzata da Napoleoni come analisi, ma ritenuta insufficiente sul piano degli interventi. L’ottica dell’ERP resta interna alla struttura (capitalistica) data, mentre una politica economica di sviluppo in funzione dell’occupazione è ritenuta incompatibile con tale struttura. Sono necessarie riforme strutturali per rimuovere le strozzature produttive, gli ingenti prelievi sui profitti, le artificiose lievitazioni dei prezzi che i monopoli stessi producono. I Consigli di gestione sono lo strumento per la realizzazione del controllo sociale della produzione. Questo segno ‘strutturale’ del discorso si accentuerà negli anni successivi, ma Napoleoni diverrà in seguito un critico aspro della nazionalizzazione come strumento di politica economica.
Su «Cultura e realtà» Napoleoni prende atto della caduta della concorrenza perfetta quale condizione reale del mercato a favore di una progressiva concentrazione monopolistica del capitale. Occorre uscire dall’analisi statica, che si vuole astorica. L’unico abbozzo di analisi dinamica lo si ha in Marx e Joseph A. Schumpeter. Il loro tentativo di ‘spiegare’ il processo che rompe il flusso circolare li rende particolarmente significativi, ma la formulazione integralmente storica delle loro teorie costituisce un limite se si vuole dar conto della naturale dinamicità della realtà umana.
L’incontro con Saraceno avviene sull’idea che il dualismo italiano vada superato con un’industrializzazione del Mezzogiorno di carattere privatistico. L’intervento statale è giudicato essenziale per rendere conveniente l’investimento industriale al Sud e lavori pubblici che rimuovano i vincoli costituiti da carenza di capitali, condizioni ambientali sfavorevoli, mancanza di sbocchi. Il controllo della qualità della domanda e lo stimolo al consumo sociale possono rivelarsi la leva efficace per piegare il processo accumulativo al fine di soddisfare i bisogni collettivi. In Ristagno e depressione nell’economia italiana del 1954, con Jacopo Muzio («Il Mercurio», 1954, 7, pp. 10-11), si sostiene che i problemi del Mezzogiorno e il ristagno delle industrie del Nord vanno interpretati mediante un impianto analitico che superi la dicotomia tra microeconomia e macroeconomia, riprendendo la teoria endogena dello sviluppo e del ristagno classico-marxiana.
Su «Il dibattito politico» Napoleoni critica l’idea che la grande industria ‘monopolistica’ sia arretrata e immobilista a confronto di una supposta maggiore vivacità e capacità di innovazione della piccola e media industria. Sotto lo pseudonimo di Claudio Ramolino contesta le tesi di Emilio Sereni sulla soffocante presenza di un capitalismo finanziario nelle campagne, cui andrebbe contrapposto un capitalismo di piccola proprietà contadina. Nell’uno e nell’altro caso l’errore sta nel mantenere una visione del rapporto capitalistico come blocco allo sviluppo, diffusa soprattutto nella tradizione del comunismo italiano.
Il Dizionario di economia politica ha 60 voci, 29 redatte da Napoleoni. L’opera costituisce una rassegna rigorosa e completa non soltanto del sapere acquisito, ma anche della ‘frontiera’ della disciplina. Augusto Graziani ha ricordato come il Dizionario segnò la tappa iniziale di una rivoluzione nell’insegnamento dell’economia politica, aprendolo a una molteplicità di paradigmi in conflitto fra loro. La teoria economica non si riduceva più soltanto a indagine sul calcolo razionale dei singoli soggetti ma si ridefiniva come dottrina sociale, studio delle interrelazioni fra gruppi, analisi del conflitto.
In questa seconda fase della riflessione di Napoleoni l’equilibrio generale di Walras e la definizione di economia di Lionel Robbins sono giudicati capaci di fornire un’analisi dei criteri di razionalità astorica del fatto economico, in quanto scelta in condizione di scarsità dei mezzi, essenzialmente il lavoro, e di molteplicità dei fini, naturalmente il consumo; come definizione, insomma, della problematica, affermatasi storicamente ma cionondimeno universale, dell’efficienza. Marx mette l’accento sull’altro aspetto fondamentale, ossia che il lavoro è sfruttato in conseguenza delle relazioni sociali tra gli esseri umani. A un primo tentativo di sintesi tra le due teorie del valore, neoclassica e marxiana, Napoleoni accompagna un giudizio non completamente negativo sulla seconda. Come nella teoria del valore-ricchezza di Adam Smith il lavoro comandato va letto come categoria chiave nella trattazione dinamica dello sviluppo capitalistico, così la teoria del valore-lavoro ‘generico’ di Marx svolge anche altri scopi, non limitandosi alla determinazione dei prezzi: segnatamente quello di teoria delle leggi di movimento del sistema, e di teoria di uno sviluppo squilibrato. Lo stesso fallimento della trasformazione conferma la tesi di Marx secondo cui il capitalismo è segnato da una contraddizione reale tra produzione e mercato, tra capitale e consumo. I prezzi di produzione, quali prezzi di equilibrio, comportano l’espunzione del momento essenziale della crisi e si limitano a essere meri prezzi di conto.
Sul terreno della politica economica l’accento passa dalle riforme di struttura al riconoscimento, di nuovo di ascendenza smithiana, che i molti dualismi dell’economia italiana vanno ricondotti alla presenza di consistenti aree non capitalistiche, di lavoro improduttivo, da contrastare e comprimere. Se ora Napoleoni giudica lungimirante la scelta politica di rendere operante, dal 1950, un’economia di libero mercato, la crescita è stata quantitativamente insufficiente rispetto alle potenzialità, e qualitativamente inaccettabile nella sua composizione.
La recensione a Sraffa, la prima edizione de Il pensiero economico del Novecento, così come l’articolo La posizione del consumo nella teoria economica (1962) sono ancora segnati dagli strascichi della fase ‘smithiana’. Una seconda fase, ‘ricardiana’, è coestensiva con l’esperienza della «Rivista trimestrale» e va dal 1962 alla prima metà del 1971. Al suo inizio troviamo la seconda edizione del Pensiero economico del Novecento e al suo termine l’antologia su Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo? in collaborazione con Colletti, la prima edizione di Smith, Ricardo, Marx e l’introduzione alla Teoria dello sviluppo capitalistico di Sweezy.
Produzione di merci a mezzo di merci (1960) di Sraffa è la dimostrazione dell’insuperabilità delle aporie tanto della teoria walrasiana dell’equilibrio economico generale quanto della teoria del valore-lavoro classico-marxiana. Se Sraffa torna alla visione ricardiana del processo capitalistico come processo circolare, e pone le basi della critica al concetto marginalista di capitale, chiarisce pure l’inessenzialità dei valori-lavoro nel determinare i prezzi di produzione. La struttura dei prezzi relativi trova la sua determinante esclusivamente nella struttura tecnica del capitale, in cui viene risolto, tra gli altri mezzi di produzione, anche il lavoro nelle sue diverse articolazioni concrete.
La crescita quantitativa secondo il modello di von Neumann – dove si ha la massima crescita bilanciata, in equilibrio, con stato della tecnica dato – esprime l’accumulazione ‘ottimale’ dal punto di vista del capitale. È il sentiero che seguirebbe il capitale ‘puro’ se non incontrasse ostacoli esterni. Il vincolo naturale costituito dalla scarsità delle materie prime e da una data popolazione lavorativa costituisce un limite di tal fatta. Quando la crescita esaurisce le risorse originarie, il prezzo delle materie prime e/o il salario aumentano, comprimono il profitto e inducono un salto qualitativo, innovazioni in senso schumpeteriano: ‘nuove combinazioni’ che rivoluzionano lo stato della tecnica, mutano la configurazione produttiva e innalzano il prodotto netto. La sequenza di crescita quantitativa alla von Neumann e lo sviluppo qualitativo schumpeteriano danno conto della produttività di sovrappiù da parte di quella configurazione tecnica dei processi di produzione che è data, in modi diversi, da Sraffa e da John von Neumann.
Il capitale ‘puro’ incontra però una difficoltà interna che mette in scacco sin dall’inizio questo circolo ‘virtuoso’. In una società di mercato il consumo è ‘naturalmente’ un termine di orientamento essenziale per gli investimenti. Affiorano suggestioni malthusiane e luxemburghiane in Napoleoni, che integra crisi da sproporzioni e crisi da sottoconsumo. Il capitalismo può vivere e crescere come formazione storica soltanto sfuggendo all’impossibilità della sua configurazione pura, grazie cioè al consumo improduttivo, e alla riproposizione di uno sfruttamento precapitalistico. Nella «Rivista trimestrale» lo sfruttamento si identifica con la rendita.
È su questo sfondo che si può comprendere il senso della ‘lotta alle rendite’ proposta da Napoleoni. La crisi dell’economia italiana negli anni Sessanta è ricondotta a una compressione del saggio di profitto indotta da una dinamica dei salari più elevata di quella della produttività media. Quest’ultima dipende da una gestione del capitale caratterizzata da vaste aree di inefficienza, da sprechi e parassitismi, e dall’estensione patologica del lavoro improduttivo, ed è dunque cresciuta meno di quanto fosse possibile. I salariati non possono accettare la produttività media come termine di riferimento per moderare le proprie rivendicazioni, come pretende la ‘politica dei redditi’, perché è un dato truccato. Il salario deve muoversi come ‘variabile indipendente’.
Una tregua salariale va sì concessa, ma in cambio di una compressione delle rendite che avvicini il capitalismo concreto al capitale ‘puro’. Sappiamo però che in tali condizioni il capitale è destinato al crollo per insufficienza di domanda. Lo sviluppo può comunque darsi se la domanda privata insufficiente viene integrata da una programmazione che si traduce in una domanda esogena di consumi sociali ‘finali’, in grado di orientare il meccanismo economico. Si realizza così una ‘gestione proletaria del capitale’, il necessario controllo politico dell’accumulazione. Se l’alienazione si generalizza, lo sfruttamento scompare.
All’inizio degli anni Settanta Napoleoni muta drasticamente il giudizio su Marx e si cimenta in una ripresa originale ed eterodossa della teoria del valore-lavoro tanto sul terreno filosofico quanto su quello strettamente analitico. Si tratta di una fase strettamente ‘marxiana’, non priva di suggestioni ‘schumpeteriane’.
Sulle orme di Colletti, Napoleoni vede ora nell’astrazione del lavoro non una generalizzazione mentale, ma un’astrazione reale, operata concretamente nello scambio. Il lavoro astratto ha una traduzione quantitativa nel lavoro socialmente necessario. Quest’ultimo, tanto per il marxismo quanto per i critici neoricardiani (e la stessa «Rivista trimestrale»), è nient’altro che lavoro tecnico-naturale, un dato della configurazione produttiva. Ma per Marx quel concetto non si dà al di fuori del mercato, in una doppia accezione: nel determinarlo non si può astrarre dal processo concorrenziale; a costituirlo interviene in modo essenziale la ‘sanzione’ del mercato. Inoltre, il capitale, mero accrescimento quantitativo circolare della ricchezza astratta che ha il proprio fine in se stesso, non può tollerare altri scopi, essere ridotto a puro mezzo, come voleva ancora la «Rivista trimestrale».
Il lavoro astratto, che si realizza nello scambio effettivo sul mercato, è già presente nella produzione capitalistica: è il lavoro vivo del lavoro salariato, organizzato da capitali singoli in competizione tra loro. I lavori immediatamente ‘privati’ – la cui socialità è condizionale all’effettiva vendita contro denaro – sono infatti proprio i ‘molti capitali’ in opposizione l’uno contro l’altro. La produttività di plusvalore aumenta in conseguenza di questa competizione, che è irriducibile al mero pareggiamento del saggio del profitto (la concorrenza ‘statica’), e che invece esprime la caccia all’extraprofitto nella ‘lotta di concorrenza’ (la concorrenza ‘dinamica’). In questa fase la ragione fondamentale della crisi del capitale è ‘sociale’, e consiste non (come prima) nel conflitto distributivo ma nell’opposizione operaia dentro la produzione.
La teoria marxiana del valore-lavoro, lungi dall’esaurirsi nella teoria dei prezzi di produzione ‘di equilibrio’, è innanzi tutto teoria della moneta, teoria dello sviluppo in disequilibrio, teoria della crisi. Ogni fissazione in sfere analiticamente separate dei componenti di questo oggetto analiticamente unitario conduce a un’analisi inaccettabile del capitale, assolutizzando (come in Sraffa e in von Neumann) il solo momento dell’equilibrio, a scapito dell’altro, altrettanto e più essenziale, quello della contraddizione. Si rovescia la sequenza sviluppo qualitativo-crescita quantitativa rispetto agli anni Sessanta: sono le innovazioni autonome, spinte dal conflitto di classe nei luoghi di lavoro, a rompere continuamente la tendenza alla crescita bilanciata, e non sono invece i limiti di quest’ultima a indurre i salti tecnologici.
Cambia il discorso sulla crisi. La controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto per l’aumento della composizione del capitale – e cioè il ‘progresso’ tecnico e organizzativo che svalorizza capitale costante e variabile – spinge verso l’alto il saggio di plusvalore, determinando prima o poi un’insufficienza di domanda. La risposta keynesiana alla crisi da realizzo determina il pieno impiego grazie a un sostegno statale alla domanda ‘generica’ di merci, cui si accompagna un gonfiamento delle spese improduttive. Si accentua la dipendenza dello sviluppo capitalistico da un’estrazione di plusvalore secondo un saggio di sfruttamento crescente nell’area che produce (plus)valore.
Napoleoni rilegge anche il Monopoly capital (1966) di Paul A. Baran e Sweezy. È vero che con il passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico la caduta del saggio di profitto è soppiantata da una tendenza del sovrappiù ad aumentare. Ciò potrebbe creare una difficoltà dal lato del realizzo, ma la spesa per investimenti e consumi viene integrata dalla domanda che proviene dallo ‘spreco’. È soltanto il conflitto sul valore di scambio e sul valore d’uso della forza-lavoro a rendere insostenibile il prelievo sul plusvalore delle aree di rendita. Un conflitto che deve prolungarsi in uno ‘sbocco politico’ che trascenda gli equilibri capitalistici. Sul terreno della politica economica, il sostegno alle riforme del consumo lascia di conseguenza il posto a una critica radicale del riformismo incentrata non tanto sull’impossibilità delle riforme, quanto piuttosto sulla loro inevitabile funzionalità al capitale, in quanto presuppone lo smantellamento dei punti di forza del conflitto di classe.
Dalla metà degli anni Settanta la riflessione di Napoleoni vive una nuova trasformazione. In Valore del 1976 l’esito della trasformazione dei valori in prezzi consegue a una scissione irreparabile tra scienza e filosofia. Il fallimento del valore-lavoro quale analisi del reificato non cancella la sua essenzialità nell’analisi del processo di reificazione. Seguendo Herbert Marcuse, l’alienazione va fatta risalire all’assolutizzazione del momento negativo presente originariamente nel lavoro, in quanto ‘accettazione della legge della cosa’. Nella produzione di merci a mezzo di merci è questa negatività ad avere ormai cancellato le tracce dell’attività, ad aver condotto alla perdita dei soggetti. La liberazione non è più l’uscita dalla contraddizione determinata del capitalismo, ma diviene la riduzione della presa dell’economico sulla società. In questo periodo, che possiamo qualificare come un intermezzo marcusiano, si può registrare una (peraltro rivendicata) ‘schizofrenia’ tra l’analisi del meccanismo capitalistico e l’approfondimento del discorso marxiano sul terreno filosofico, tra i saggi teorici e gli interventi di politica economica.
Su quest’ultimo terreno Napoleoni argomenta ancora l’insostenibilità per il sistema delle richieste salariali, in conseguenza delle persistenti aree di rendita. Le lotte operaie possono costringere a una conciliazione temporanea delle esigenze del capitale e di quelle del lavoro attivando un nuovo sviluppo capitalistico che veda la compressione di quel lavoro improduttivo proliferato in Italia in conseguenza di un insufficiente processo accumulativo, stretto tra consumo opulento degli anni Cinquanta, lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, e sostegno statale a occupazioni e settori non retti dal rapporto capitalistico. In questo periodo Napoleoni interviene più volte sul tema del bilancio pubblico, della lotta all’inflazione e delle proposte di modificazione della scala mobile.
Si tratta di una posizione instabile dal punto di vista sia teorico sia di politica economica. A far precipitare le cose contribuì l’esito negativo della lotta alla Fiat nell’ottobre del 1980. Napoleoni rileva che l’introduzione dell’informatica comporta aumenti di produttività decisamente superiori a quelli, effettivi ma anche potenziali, della produzione. Si determina, di conseguenza, una situazione di disoccupazione tecnologica, rispetto alla quale le tradizionali politiche keynesiane sono inefficaci. Il keynesismo, peraltro, incontra anche una difficoltà di altro tipo: esso richiede una condizione distributiva, e dunque un dato livello del salario reale, ma la piena occupazione spinge i soggetti sociali a richieste sociali incompatibili. Tali richieste – espresse nell’unico modo possibile in una società dominata dalle cose, cioè come richiesta di maggior reddito e maggior consumo – hanno come loro origine profonda l’insoddisfazione per il sistema sociale dato. L’idea che il riformismo possa compensare, sul terreno del consumo, una situazione di alienazione radicale non può che rivelarsi illusoria.
L’espressione più compiuta della nuova sintesi con cui Napoleoni cercò di uscire dall’impasse è il Discorso sull’economia politica del 1985. Come trent’anni prima, Napoleoni propone una sintesi tra teoria neoclassica e teoria marxiana: non più nel loro versante di teorie dei prezzi e della distribuzione ma nella loro qualità di teorie sull’origine del sovrappiù, di teorie del capitale. I neoclassici – il riferimento è ora più a Eugen von Böhm-Bawerk che a Walras – sottolineano l’aspetto per cui il lavoro è lavoro mediato, assistito dallo strumento: caratteristica ‘naturale’ che nell’inversione capitalistica conduce, con le macchine, all’attribuzione di tutta la produttività al capitale. Marx è ripreso per il discorso sul lavoro alienato: la società capitalistica si impone dall’esterno a tutti i soggetti, il capitalista è mero funzionario della produzione, dominato dal meccanismo tanto quanto il lavoratore salariato. Il lavoro, ridotto a mero strumento, si riduce integralmente a parte del capitale: incluso senza via di scampo nell’orizzonte capitalistico, incapace di un superamento dall’interno, di un antagonismo portatore di un altro modello e di altri valori, non competitivi, che rompano davvero il primato della produzione. Rimane però, negli esseri umani, un ‘residuo’ irriducibile, che può far vivere la speranza di un possibile superamento del dominio della ‘cosa’, cui sfuggono i soggetti non ancora inclusi nella produzione, come le donne e i giovani.
La teoria dell’alienazione di Marx viene qui riletta in un confronto serrato con il pensiero di Martin Heidegger, tanto che questa fase può essere definita ‘heideggeriana’. La ‘produzione per la produzione’ del primo sarebbe l’inverarsi di quella ‘producibilità di tutto’ del secondo. L’accento sulla natura ‘chiusa’ della totalità capitalistica permea i contributi dell’ultimo Napoleoni. Dal punto di vista della teoria economica ogni deduzione dal sovrappiù diversa dal profitto appare arbitraria. Dal punto di vista della teoria politica la conclusione, preveggente, è che tra capitale e democrazia si dà opposizione e non armonia.
Di notevole interesse l’ultimo intervento di politica economica, sul tema ‘Quali risposte alle politiche neo-conservatrici?’. Tre le tesi: il ripristino conflittuale di un vincolo ‘interno’ al capitale sul terreno della distribuzione deve essere obiettivo primo della sinistra; il capitale ha un’immanente tendenza totalitaria; la crisi si manifesta ora nella distruzione di occupazione e nella frantumazione sociale. Per rispondere alla distruttività del capitale e restaurare una dinamica di classe e democratica occorre coniugare conflitto distributivo con politiche strutturali che configurino concretamente una fuoriuscita dal capitalismo. Il risanamento finanziario e il miglioramento dell’efficienza – la ‘lotta alla rendita’ – non sono valori in sé, ma parte di una politica economica di più largo respiro che deve avere obiettivi al di là di quanto l’assetto capitalistico può tollerare.
Tra le numerose opere di Napoleoni si citano qui le principali:
Dizionario di economia politica, Milano 1956.
Considerazioni sui concetti di ‘valore economico’ e di ‘valore-lavoro’, «Economia internazionale», 1957, 43, pp. 425-49.
Il pensiero economico del Novecento, Torino 1961 (2a ed. 1963).
Sulla teoria della produzione come processo circolare, «Giornale degli economisti e Annali di economia», 1961, 1, pp. 101-17.
La posizione del consumo nella teoria economica, «La rivista trimestrale», 1962, 1, pp. 3-26.
Salari e politica sindacale nella relazione Carli, «La rivista trimestrale», 1963, 5-6, pp. 157-73.
L’equilibrio economico generale, Torino 1965.
Elementi di economia politica, Firenze 1967.
L’origine del profitto: una lettera a Piero Sraffa, in C. Napoleoni, Dalla scienza all’utopia, a cura di G.L. Vaccarino, Torino 1967.
Teoria dello sviluppo, Napoli 1969.
C. Napoleoni, R. Antinolfi, Lezioni di macroeoconomia, Napoli 1969.
Smith, Ricardo, Marx, Torino 1970 (2a ed. 1973).
Su alcuni problemi del marxismo, in P.M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, a cura di C. Napoleoni, Torino 1970, pp. XIII-XXXIX.
C. Napoleoni, L. Colletti, Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo?, Bari 1970.
Lezioni sul capitolo sesto inedito, Torino 1972.
Valore, Milano 1976.
Discorso sull’economia politica, Torino 1985.
Cercate ancora. Lettera sulla laicità e ultimi scritti, a cura di R. La Valle, Roma 1990.
Dalla scienza all’utopia. Saggi scelti 1961-1988, a cura di G.L. Vaccarino, Torino 1992.
R. Bellofiore, La passione della ragione, Scienza economica e teoria critica in Claudio Napoleoni, Milano 1991.
A. Graziani, L’insegnamento universitario dell’economia politica, in G. Becattini, Economisti allo specchio, Firenze 1991, pp. 19-38.
M. Ranchetti, Come stanno le cose. Un ricordo di Claudio Napoleoni, «Linea d’ombra», 1991, 58, pp. 38-40.
La critica in economia. Su Claudio Napoleoni, a cura di G.L. Vaccarino, Roma 1992 (in partic. G.L. Vaccarino, Alla ricerca della marxiana ‘critica dell’economia politica’, pp. IX-XX, 13-68; G. Rodano, La critica della teoria economica dopo Marx, pp. 69-92; M. D’Antonio, Note sul contributo di Napoleoni al dibattito di politica economica, pp. 93-110).
R. Bellofiore, Quale Napoleoni, «Il pensiero economico italiano», 1993, 2, pp. 99-135.
G. Rodano, Claudio Napoleoni e la politica economica, «Il pensiero economico italiano», 1993, 2, pp. 207-20.
R. Bellofiore, Quanto vale il valore-lavoro? La discussione italiana intorno a Marx: 1968-1976, «Rivista di politica economica», 1999, 4-5, pp. 33-76.
P. Garbero, Claudio Napoleoni e l’economia italiana, «Il pensiero economico italiano», 1999, 2, pp. 107-57.
L. Magri, Un comunista eterodosso, «Critica marxista», n.s., 1999, 1-2, pp. 103-11.
R. Bellofiore, Claudio Napoleoni e la politica economica, «Critica marxista», 2000, 1, pp. 57-63.
R. Bellofiore, G. Beltrame, L’insegnamento dell’economia politica come problema in Claudio Napoleoni, in La formazione degli economisti in Italia (1950-1975), a cura di G. Garofalo, A. Graziani, Bologna 2004, pp. 183-268.
D. Cavalieri, Scienza economica e umanesimo positivo. Claudio Napoleoni e la critica della ragione economica, Milano 2006.
R. Bellofiore, Teoria del valore, crisi generale e capitale monopolistico. Napoleoni in dialogo con Sweezy, «Quaderni materialisti», 2009, 7, pp. 9-48.