TIBERIO, Claudio Nerone (Tiberius Claudius Nero, dopo l'adozione di Augusto: Tiberius Iulius Caesar)
Imperatore romano. Nato il 16 novembre del 42 a. C. da Tiberio Claudio Nerone primo marito di Livia, passata in seconde nozze per divorzio a Ottaviano, il futuro Augusto, nel 38 a. C. Fu allevato col fratello Druso nella nuova famiglia della madre; ma nel 33, novenne, pronunciò l'elogio funebre del padre. Nel trionfo per Azio di Ottaviano nel 29 cavalcò accanto al cocchio trionfale. Nel 27 prese la toga virile e festeggiò con grandi giuochi funebri sostenuti dalla madre e dal padrigno la memoria di suo padre e di suo nonno Druso.
La sua educazione fu aristocraticamente accurata, letterariamente piuttosto ellenistica: i suoi poeti preferiti resteranno Euforione, Riano e Partenio. Conosceva il greco perfettamente, aveva gusto di erudizione, più tardi interesse per l'astrologia. Ma coltivò pure eloquenza latina, per cui riconobbe modello Messalla Corvino e, nel parlare e scrivere la tino, fu purista. Di arte plastica fu ugualmente intenditore: noto il suo entusiasmo per l'apoxyómenos di Lisippo. In vecchiaia scrisse brevi memorie della sua vita, che furono la lettura prediletta dell'imperatore Domiziano.
Nel 26 fu tribuno militare nella guerra cantabrica. Nel 23 con cinque anni di anticipo era questore con vaste competenze. Nel 20 per incarico di Augusto incoronò re di Armenia Tigrane II in sostituzione di Artasse. Al ritorno fu in Rodi per ascoltare le lezioni di retorica di Teodoro di Gadara. Nel 16 era questore e accompagnava Augusto nel viaggio in Gallia. Dalla Gallia nel 15 guidava uno dei due attacchi convergenti contro Reti e Vindelici, che portò alla loro sottomissione. Console nel 13, presiedeva la seduta in cui fu decisa, tra l'altro, la consacrazione dell'Ara Pacis.
La morte di Agrippa nel 12 poneva sempre più alto T., l'unico tra i familiari della casa imperiale che per maturità d'anni e di esperienza potesse sostituirlo. Augusto impose quindi a T. di separarsi dalla moglie Vipsania Agrippina, figlia di Agrippa in prime nozze, per sposare la propria figlia e vedova di Agrippa stesso, Giulia. T. aveva avuto dalla prima moglie un figlio Druso e ne attendeva un secondo. Il suo matrimonio era felice. Doversi separare da Vipsania Agrippina fu la prima e decisiva tragedia intima della sua vita. Con Giulia, di condotta scandalosa, non poté andare d'accordo, e, morto un loro bimbo, si separò ben presto da lei. Intanto, sempre nel 12, era stato inviato come legato propretore a reprimere la ribellione pannonica; e nell'11 reprimeva analoga ribellione in Dalmazia. Per le due repressioni otteneva due volte gli ornamenti trionfali, dopo che il senato aveva proposto per lui la prima volta, urtando nell'opposizione di Augusto, l'onore del trionfo. Nel 10 e nel 9 proseguiva l'opera pacificatrice in quelle regioni. Erano appena conclusi i festeggiamenti solenni in suo onore a Roma per questa impresa, che doveva affrettarsi in Germania a raccogliere l'ultimo respiro del fratello Druso. Accompagnò il cadavere del fratello sino in Italia dove ne tenne l'elogio; nell'8 era di ritorno in Germania. Il dominio romano sembrava stabilmente fissato sino all'Elba e Tiberio ne veniva ricompensato col trionfo e il consolato del 7 a. C. Dedicava allora in nome suo e del fratello un tempio alla Concordia, come simbolo imperiale. In realtà già nello stesso anno doveva tornare in Germania. Nel 6 Augusto chiedeva per lui dal Senato il conferimento della tribunicia potestas per 5 anni.
Poco dopo avveniva il colpo di scena. Incaricato di una nuova missione diplomatica in Armenia, ricaduta sotto l'influenza partica, si rifiutava e chiedeva di tornare privato. L'infelicità e la vergogna di un legame matrimoniale con una depravata si era unito forse alla rivalità e gelosia per il diretto nipote di Augusto, Gaio Cesare, a cui avrebbe dovuto tenere solo il posto. Ma più in fondo ancora stava quella sazietà degli onori e del comando - tanto più sofferta quanto più alta l'ambizione e aspro era il senso del dovere nel comandare - che caratterizzerà tutta la vita di T. e provocherà in altra forma il ritiro a Capri. T. è forse il primo sovrano che abbia vissuto in pieno l'esperienza del comandare come ambizione, necessità e vanità nello stesso tempo, che poi si trasferirà in termini cristiani nel mondo medievale e moderno. Per la resistenza di Augusto egli quasi fuggiva a Rodi, dove, nonostante gli ozî letterarî, le amarezze si accrebbero: lo esacerbava la trascuranza in cui era lasciato, talvolta espressa in forma offensiva, e si aggiungeva l'ultima vergogna di sapersi divorziato d'autorità da Giulia, condannata per immoralità (2 a. C.). Nello stesso anno scadeva la sua potestà tribunicia, che non gli fu rinnovata, e gli restava la sola qualità di legato di Augusto, ottenutagli con fatica dalla madre. Un colloquio nel 1 a. C. tra lui e Gaio Cesare in missione in Oriente sembrava aggravare la situazione: in realtà nel 2 d. C., avvenuta la riconciliazione tra i due, intermediario P. Sulpicio Quirinio, Augusto permetteva a T. di ritornare a Roma come privato. Poco dopo le morti di Lucio Cesare nel 2 e di Gaio nel 4 d. C. costringevano Augusto a richiamare T. alla vita pubblica nella forma più alta. Egli era, ancor più, l'unico successore; il figlio di Agrippa e Giulia, Agrippa Postumo, essendo squalificato per ogni comando. Nel 4 d. C., T. era adottato da Augusto, e la potestà tribunicia gli era attribuita per 10 anni. T. doveva adottare il figlio del fratello Druso, Germanico. Poco dopo ritornava in Germania, dove il prestigio fra le truppe era conservato altissimo. Nel 4 e nel 5 la pacificazione fino all'Elba fu ripresa, di nuovo dando l'impressione di essere conclusiva. Nel 6 doveva essere sottomesso Maroboduo in Boemia, che T. avrebbe attaccato dalla Pannonia, mentre C. Senzio Saturnino lo avrebbe assalito dal nord, quando Pannonia e Dalmazia si ribellavano. T., conclusa la pace con Maroboduo, fu alla testa della repressione, protrattasi con l'impegno di 15 legioni fino al 9. Nel 10 era di nuovo sul Reno dopo il disastro di Varo. Fu in sostanza lavoro di riorganizzazione del confine renano, di tale prudenza ed efficacia però, che Augusto, in uno dei pochi momenti in cui sentì vero affetto per il figliastro, lo salutò con una ripresa del verso enniano: "unus homo nobis vigilando restituit rem". Nel 12 egli celebrava in Roma il trionfo pannonico, poi otteneva il rinnovamento della potestà tribunicia e l'imperio proconsolare maggiore, che completava i titoli alla successione. Doveva quindi tornare in Pannonia a riorganizzarla. Vi era appena giunto che la notizia della malattia mortale di Augusto lo richiamava. T. faceva ancora in tempo a intrattenersi col morente sovrano.
Dal 19 agosto al 17 settembre del 14, per quanto gli organi dello stato giurassero lealtà a lui, T. non assunse la successione. Solo dopo la seduta del senato del 17 settembre, riluttante e consapevole di "tenere un lupo per gli orecchi" accettò di essere il successore di Augusto: la forma giuridica della sua elezione non è ben chiara. L'unico possibile rivale, Agrippa Postumo, era stato soppresso immediatamente dopo la morte di Augusto, non si sa bene per ordine di chi.
T. era aristocratico ed era roso da malcontento: non aveva dunque nessuna tendenza a innovare. Suo scopo fu di conservare l'ordinamento augusteo avendo collaboratore il Senato. Al Senato trasferì subito le elezioni dei magistrati, seguendo a quanto pare uno schema di provvedimento di Augusto. Ma nel suo malcontento c'era asprezza e diffidenza e quindi anche tendenza inconsapevole a scambiare la collaborazione con l'imposizione. Donde l'acuirsi dell'ostilità con gli ambienti aristocratici romani, i quali, appunto per avere una mentalità fondamentalmente affine, interpretavano i diritti dell'aristocrazia in modo ben diverso e ora, sparito Augusto, si rifacevano con tanta più agevolezza alle tradizioni repubblicane. In misura maggiore o minore tutto il governo di T. si svolse in attrito con l'aristocrazia; il che avrà la più ampia eco nella tradizione storica. Ma chi guardi non al piccolo mondo dell'aristocrazia romana, ma alla vita complessiva dell'impero, riconosce facilmente nel contrasto tra T. e l'aristocrazia solo un'accentuazione psicologica di quell'affermarsi del potere dell'imperatore, che era cominciato da Cesare, e trova che in questo senso T. compì un lavoro di prim'ordine, impedendo che l'opera di Augusto avesse un carettere di provvisorietà, consolidando l'amministrazione imperiale in confronto alla senatoria, tenendo l'occhio vigile sulle provincie, in cui il prestigio dell'imperatore non diminuì. Impacciato e perciò duro nel rapporto con i suoi affini, T. ritrovò tutta la sua serietà e capacità di comando nel rapporto con i sudditi. Ebbe accortezza nel mantenere la pace ai confini, fu eccellente nella gestione finanziaria (lasciò alla sua morte un avanzo memorabile nelle casse dello stato), pronto e generoso nell'intervento in ogni circostanza interna difficile.
Conservatore T. si dimostrò nel cercar di restaurare le fortune finanziarie dei senatori decaduti, nel tutelarne la moralità, soprattutto nel rifiutare per quanto possibile onori divini. Non usò il titolo di imperatore come prenome, rifiutò due volte il titolo di padre della patria, non permise che il mese di novembre fosse chiamato Tiberius. Diffidò delle religioni straniere in Roma: per uno scandalo nel 19 distrusse il tempio di Iside e perseguitò i suoi sacerdoti e cultori; nello stesso anno, per un altro scandalo, cacciò via gli Ebrei da Roma e 4000 che avevano cittadinanza romana come libertini inviò a prestare servizio militare in Sardegna. Anche gli astrologi furono espulsi nel 16 dall'Italia, e i druidi furono perseguitati in Gallia. Nella politica ai confini seguì il principio augusteo di mantenere la barriera verso i Germani al Reno e troncò presto le operazioni militari sostanzialmente improduttive e pericolose, a cui si era abbandonato Germanico negli anni 14-16. Germanico ebbe l'onore del trionfo nel 17, ma fu trasferito in quell'anno ad accomodare varie questioni che erano sorte in Oriente: il re partico Artabano aveva imposto suo fratello Orode sul trono di Armenia; il re Archelao di Cappadocia sospetto di tradimento era stato portato a Roma; i re vassalli di Commagene e Cilicia erano morti. Germanico, fornito d'imperio proconsolare maggiore, incoronò ad Artassata re di Armenia un membro della famiglia reale del Ponto, Zenone figlio di Polemone I, col nome di Artassia. La Commagene era annessa alla Siria; la Cilicia fornita di nuovo re, e la Cappadocia trasformata quasi tutta in provincia (eccetto la Licaonia orientale e la Cilicia Tracheia lasciate al figlio omonimo di Archelao): i demanî del re di Cappadocia erano annessi al patrimonio imperiale con tale incremento di entrate che poteva essere ridotta di metà l'impopolare tassa dell'1/100 sulle vendite. La politica in Germania si dimostrò solida. Lasciati a sé stessi i Germani ripresero le discordie interne, opportunamente poi aiutate in taluni momenti dai Romani. Un gruppo di tribù con alla testa Arminio sconfiggeva Maroboduo e lo costringeva a cercare rifugio in Italia (18 d. C.), e T. lo internava a Ravenna: poco dopo, nel 19, Arminio era assassinato dai suoi. Altrettanto solida fu la politica verso i Parti. L'Armenia fu governata da Zenone sino alla morte, nel 34. La politica di pace ai confini si accompagnò a una sostanziale pace nell'interno dell'impero. La scontentezza delle legioni del Reno (estesasi poi alle pannoniche) che avevano chiesto riduzioni di ferma al principio del regno, se era stata malamente placata da Germanico, portando alla diminuzione della ferma dei legionarî a 16 anni, fu presto corretta con un'effettiva ripresa del prestigio dell'imperatore, e la ferma riportata a 20 anni. Solo tre regioni tra le più recenti annesse ebbero disordini gravi. In Africa la rivolta dei Musulamî capitanata da Tacfarinas si prolungò per parecchi anni richiedendo il rinforzo di legioni di altre regioni: nel 24 la rivolta poteva dirsi domata, con l'aiuto del re Tolomeo di Mauretania, a cui fu riconosciuto il titolo di socio e amico del popolo romano. In Gallia la soppressione dei druidi e il malessere economico spinsero i due Galli romanizzati. Giulio Floro e Giulio Sacrovir a organizzare una ribellione tra Edui e Treviri, che fu repressa con non grande difficoltà. Infine in Tracia (19 d. C.) che, sebbene divisa tra due stati vassalli, era sotto diretto controllo romano, il re di uno degli stati, Rescuporis, uccise il nipote Coti, dell'altro stato: Rescuporis era esiliato, datogli a successore il figlio Remetalces, e il regno di Coti era messo sotto l'amministrazione di funzionarî romani, senza essere ridotto formalmente a provincia. Alcuni anni dopo (25) avvenivano disordini gravi, che richiedevano l'intervento delle armi romane. In Italia piccoli movimenti di schiavi e in particolare un tentativo insurrezionale di uno schiavo di Agrippa Postumo, che intendeva farsi passare per il defunto padrone, furono soffocati sul nascere. Il governo delle provincie fu molto curato. Tipica l'espressione di T., anche per quanto di aspramente burocratico rivela, che il gregge va tosato, non scorticato. I governatori stimati buoni erano tenuti a lungo nelle provincie, le accuse contro le malversazioni portate sino in fondo con implacabile severità: l'intervento delle assemblee provinciali nel controllo fu favorito. Sia ricordato come il buon governatore del periodo tiberiano L. Vitellio in Siria, che spodestò il procuratore da lui dipendente della Giudea, Ponzio Pilato. Un governatore di grande esperienza come Poppeo Sabino, della Mesia, ebbe anche il controllo delle senatorie Macedonia e Acaia nonché della Tracia. Quando nel 17 d. C. un terremoto rovinò Sardi e altre città, seguito poi da un secondo, che colpì Efeso e Cibira, T. concesse 5 anni di esenzione dal tributo e aiuti finanziarî: le città restaurate eressero in Roma presso il tempio di Venere Genitrice una statua colossale di T. circondata dalle rappresentazioni delle città medesime, e il monumento fu replicato a Pozzuoli.
Se si aggiunge che nella crisi finanziaria che colpì nel 33 l'Italia T. costituì una specie di banca di stato, amministrata da senatori, da cui furono distribuiti prestiti per 100 milioni di sesterzî privi d'interesse per tre anni; se si tien conto dei molti lavori compiuti e fra l'altro delle vaste costruzioni di strade nelle provincie, si può avere un'immagine dell'opera compiuta da T. nell'impero: buona amministrazione senza grandi problemi e solo con una certa tendenza a rafforzare gli organi periferici e centrali dell'amministrazione imperiale di fronte alla senatoria.
Ma psicologicamente veniva rotto col governo di T. l'equilibrio tra aristocrazia e governo imperiale. La morte improvvisa di Germanico in Oriente nel 19, dopo che da un lato egli aveva violato la proibizione di Augusto ai senatori di visitare l'Egitto e dopo che dall'altro si era urtato col legato di Siria Cn. Pisone, posto da Tiberio a controllarlo, non faceva che danneggiare la popolarità di T., appunto perché Germanico era molto amato. Il processo di Pisone, accusato dalla famiglia di Germanico di averlo avvelenato, ma anche accusato d'insubordinazione al potere imperiale, era politicamente infelice, se pure depone per l'onestà di T. l'averlo lasciato compiere: che Pisone si uccidesse prima della condanna, dopo essersi ben difeso dall'accusa di veneficio, aumentava i sospetti su T. Da allora si creava, se non un partito, un ambiente di opposizione intorno ad Agrippina moglie di Germanico e al maggior figlio Nerone. In quest'atmosfera di sospetto si comprende che prendesse sviluppo l'accusa di lesa maestà, con il corteggio di delatori, sebbene T. respingesse le accuse futili e fosse anche lento nel punire i casi più gravi. Ma già nel 16 faceva grande impressione che un aristocratico, Libone Druso, accusato soprattutto sul fondamento di presunte pratiche magiche nei riguardi dell'imperatore, si uccidesse: nonostante che T. dichiarasse che se Libone fosse vissuto gli avrebbe perdonato, è certo che il Senato dichiarò festivo il giorno (13 settembre) del suo suicidio. Un altro accusato suicida illustre fu nel 25 lo storico Cremuzio Cordo. E insomma, per quanto non si abbia alcuna ragione per ritenere che i condannati non lo fossero per ragioni serie, è certo che i processi si moltiplicarono e tesero in particolare a colpire persone vicine alla famiglia di Germanico.
Di questa politica ispiratore, più che collaboratore, deve ritenersi L. Elio Seiano, prima associato al padre nella prefettura del pretorio, poi rimasto solo come prefetto. Avendo ottenuto fra il 21 e il 23 di raccogliere in Roma nei castra praetoria vicino alla porta Viminale le coorti pretorie fino allora sparse, egli aveva anche in mano la vera forza militare d'Italia. Nel 23 era riuscito a fare avvelenare Druso, il figlio di T., circuendone la moglie Livilla, che più tardi rivelò la cosa. Dopo, il suo intrigo rivolto a impadronirsi se non del trono, della sua tutela, fu naturalmente diretto contro la famiglia di Germanico. Egli provocava la discordia fra i due figli di Germanico, dandosi a sostenere il secondo, Druso, contro il primo, Nerone. Acquistarsi la piena fiducia di T. gli era tanto più facile quanto più l'imperatore era preoccupato della sua tranquillità intima e, infine, addolorato per la morte del figlio, esasperato per le ostilità di Roma, decideva di ritirarsi a Capri, residenza imperiale già dal tempo di Augusto (27 d. C.). Che Seiano mettesse una volta in pericolo la sua vita per salvare l'imperatore, durante un banchetto in cui precipitava un soffitto, dava naturalmente a T. la misura della devozione del ministro. Nel 29 morì la vedova di Augusto, Livia, che teneva ancora insieme la famiglia, e cominciò la persecuzione diretta contro Agrippina e il figlio di lei Nerone: Agrippina veniva deportata nell'isola Pandataria, dove moriva nel 33, mentre Nerone, deportato a Ponza, si uccideva l'anno appresso.
Nel 30 era anche imprigionato Druso. L'autorità di Seiano era crescente: per il 31 era nominato console avendo a collega lo stesso imperatore. Era una designazione per la successione o almeno per la tutela degli unici familiari superstiti, Tiberio Gemello figlio del figlio Druso e Gaio, l'ultimo figlio di Germanico. Sembra per altro che Seiano desiderasse anticipare la fine dell'imperatore e che una sua congiura nel 31 fosse rivelata all'imperatore. Allora anche verso Seiano T. non esitò.
Pur non ritornando a Roma, preparò in modo così abile la destituzione del suo favorito da comandante dei pretoriani e la sua accusa in Senato, che Seiano cadde nell'agguato e fu condannato a morte (18 ottobre 31).
L'asprezza di T., dopo quest'ultima esperienza, si fece ancora maggiore. Così la sua irrequietezza. Egli, dopo essere stato chiuso per parecchi mesi a Capri, rese più frequenti i suoi spostamenti da luogo a luogo senza peraltro rimettere piede a Roma. Le denunce s'infittirono, per quanto il senso della legalità accompagnasse T. fino all'ultima ora, ed egli ponesse anche limite all'attività dei delatori. Tra coloro che si uccisero per terrore furono Druso, il figlio di Germanico, e Livilla. Ma, viaggiasse o fosse a Capri, l'imperatore non perdeva mai di vista gl'interessi dell'impero, e i suoi ordini giungevano precisi. Sulle leggende dei mostruosi piaceri a cui si sarebbe abbandonato a Capri (trasmesse da Tacito e Svetonio) nessuno oggi si sofferma più. A Capri T. era andato circondato da alcuni dei più dotti del suo tempo, tra gli altri dall'astrologo Trasillo. Da Capri regolò, oltre la crisi economica d'Italia nel 33, anche la risorgente questione partica nel 34, alla morte di Zenone.
Il re Artabano di Partia, convinto che T. da Capri non avrebbe opposto resistenza, pose il figlio Arsace sul trono di Armenia, avanzando insolentemente anche pretese su tutta l'eredità dei Seleucidi. Ma T. adoperava successivamente due Arsacidi ostaggi a Roma, Fraate, e, lui morto, Tiridate come campioni di legittimismo nella stessa Partia; mentre sosteneva un pretendente, Mitridate fratello del re Farasmane di Iberia, per il trono di Armenia. Tiridate dopo i primi successi non sapeva sostenersi in Partia, ma Mitridate s'insediava in Armenia, e Artabano doveva stringere un nuovo trattato di pace con Roma poco prima della morte di Tiberio, che avveniva il 16 marzo 37 nella villa di Lucullo a Miseno. Egli aveva lasciato eredi alla pari Tiberio Gemello e Gaio.
Fonti principali. - Tacito, Annali, I-VI (ma il V quasi per intero perduto); Svetonio, Vita di Tiberio; Dione Cassio, Storia Romana, LVII-LVIII. Di particolare importanza come fonte contemporanea Velleio Patercolo.
Bibl.: Opere più recenti: F. B. Marsh, The reign of Tiberius, Londra 1931; E. Ciaceri, Tiberio successore di Augusto, Roma 1934; M. P. Charlesworth, in Cambridge Ancient History, X (1934), con eccellente bibliografia sistematica; J. H. Thiel, Kaiser Tiberius. Ein Beitrag zum Verständnis seiner Persönlichkeit, in Mnemosyne, n. s., II (1935) e III (1936), da prendere con ogni riserva.