Abstract
Vengono analizzate le principali problematiche inerenti alle disposizioni di legge e di contratto collettivo finalizzate a tutelare sia le condizioni di lavoro (cd. clausole sociali di equo trattamento) sia l’occupazione (cd. clausole di riassunzione) dei lavoratori impiegati nell’ambito degli appalti pubblici e privati.
Con il termine “clausole sociali” si identificano quelle disposizioni normative che impongono ad un datore di lavoro il rispetto di determinati standard di protezione sociale e del lavoro come condizione per svolgere attività economiche in appalto o in concessione o per accedere a benefici di legge ed agevolazioni finanziarie. Si tratta di una risalente tecnica di regolazione della quale lo Stato si serve per orientare il mercato a fini socialmente rilevanti (sulla sua evoluzione storica nell’ordinamento italiano, Centofanti, S., Sub art. 36, in Prosperetti, U., a cura di, Commentario dello Statuto dei lavoratori, Milano, 1975, 1196).
Il prototipo di tali disposizioni è rappresentato dalle cd. clausole di equo trattamento(l’espressione è già inCarnelutti F., Sul contratto di lavoro relativo ai pubblici servizi assunti da imprese private, in Riv. dir. comm., 1909, I, 416 ss.), che vincolano l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico a rispettare i trattamenti economici e normativi fissati dai contratti collettivi, al fine di garantire un’adeguata tutela dei lavoratori e di contrastare dinamiche di concorrenza al ribasso del costo del lavoro. Un simile “meccanismo di recezione mediata dei contratti collettivi” (Ghera, E., Le c.d. clausole sociali: evoluzione di un modello di politica legislativa, in Dir. rel. ind., 2001, 134) è previsto dalla legislazione di molti ordinamenti nazionali ed ha trovato la sua legittimazione sul piano delle fonti internazionali con la Convenzione OIL n. 94/1949 (Bruun, N.-Jacobs, A.-Schmidt, M., La Convenzione 94 dell’OIL alla luce del caso Rüffert, in Riv. giur. lav., 2009, I, 649 ss.), ratificata dall’Italia con la l. 2.8.1952, n. 1305. Già presente in diverse disposizioni settoriali, nel nostro ordinamento la clausola di equo trattamento è stata generalizzata ed imposta come regola per qualsiasi pubblica amministrazione dall’art. 36, l. 20.5.1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori).
A finalità di tutela dell’occupazione sono rivolte invece quelle clausole sociali che impongono in capo ad un datore di lavoro l’obbligo di riassumere i lavoratori impiegati dall’impresa alla quale questi succede nella gestione di un’attività in appalto o in concessione. Questo genere di clausole “di seconda generazione” (cd. clausole di riassunzione) sono previste in alcune leggi di liberalizzazione dei servizi pubblici (ad es., art. 28, co. 6, d.lgs. 23.5.2000, n. 164 recante norme comuni per il mercato interno del gas), ma è soprattutto la contrattazione collettiva a ricorrervi diffusamente.
Entrambe queste tipologie di clausole sociali configurano dei limiti alle libertà di mercato e condizionano le dinamiche concorrenziali tra le imprese. Per questa ragione il loro utilizzo solleva complessi – ed in parte ancora irrisolti – problemi di compatibilità con i principi di diritto dell’UE che guidano il processo di integrazione del mercato unico.
L’art. 36 dello Statuto dei lavoratori impone di inserire nei provvedimenti di concessione di “benefici” di legge agli imprenditori (agevolazioni o finanziamenti) e nei capitolati d’appalto «l’obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi della categoria e della zona». L’ambito di applicazione della norma è stato esteso dalla Corte costituzionale alle concessioni di pubblici servizi grazie ad una sentenza interpretativa di accoglimento (C. cost., 19.6.1998, n. 266). Nel riprodurre quanto già previsto dall’art. 18, co. 7, d.lgs. 19.3.1990, n. 55 in relazione agli appalti di opere pubbliche, l’art. 118, co. 6, d.lgs. 12.4.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici) ha successivamente declinato in termini più rigidi la clausola sociale per le imprese partecipanti a qualsiasi procedura di affidamento dei contratti pubblici, prevedendo che «l’affidatario è tenuto ad osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona per la quale si eseguono le prestazioni». Al rispetto delle medesime condizioni di lavoro sono tenuti i subappaltatori e delle loro eventuali inadempienze risponde in solido l’affidatario. La portata dell’art. 118, co. 6, d.lgs. n. 163/2006 è stata infine ulteriormente precisata dal regolamento di attuazione del Codice dei contratti pubblici, che identifica i contratti collettivi da applicare in quelli «stipulati tra le parti sociali firmatarie di contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentative» (art. 4, co. 1, d.P.R. 5.10.2010, n. 207).
Configurando in termini sensibilmente diversi la clausola sociale, le norme del Codice dei contratti pubblici e del regolamento di attuazione sostituiscono, innovandolo, il disposto statutario, che resta comunque in vigore in ragione del suo diverso e più ampio ambito di applicazione. Con riferimento ai pubblici appalti, la nuova formulazione scioglie una serie di dubbi interpretativi sollevati dalla lettera dell’art. 36 dello Statuto, a partire da quelli relativi all’identificazione del destinatario della norma ed alla sua efficacia soggettiva.
L’art. 36 st. lav. vincola la stazione appaltante, che in virtù di esso è tenuta ad inserire la clausola sociale nel capitolato di appalto. Secondo la giurisprudenza maggioritaria l’obbligo di rispettare il contratto collettivo non opera di diritto, dipendendo l’operatività della clausola dal suo effettivo recepimento negli atti di gara (Cass., 12.12.1991, n. 13834 e Cass., 23.4.1999, n. 4070). Questa interpretazione della norma statutaria è contestata da buona parte della dottrina, che ritiene operante il meccanismo di integrazione ex lege del contratto previsto dall’art. 1339 c.c. (Centofanti, S., op. cit., 1201; Bortone, R., Commento all’art. 36, in Giugni, G., a cura di, Statuto dei lavoratori, Milano, 1979, 649; Tullini, P., Finanziamenti pubblici alle imprese e ‘clausole sociali’, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 52; Romeo, C., La clausola sociale dell’art. 36 dello Statuto, Corte costituzionale e L. n. 327/2000, in Lav. giur., 2001, 615); meccanismo che la giurisprudenza esclude in ragione del fatto che la sostituzione automatica non opererebbe quando – come nel caso di specie – il legislatore prevede a carico del datore una sanzione diversa dalla sostituzione medesima o dall’invalidità della clausola. Giurisprudenza e dottrina (sin da Assanti, C., Sub art. 36, in Assanti, C.-Pera, G., a cura di, Commento allo Statuto dei lavoratori, Padova, 1972, 421 e Mancini, G.F., Sub art. 36, in Romagnoli, U.-Montuschi, L.-Ghezzi, G.-Mancini, G.F., a cura di, Statuto dei lavoratori. Commentario al codice civile diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1972, 551; contra Ghera, E., op. cit., 136) convengono invece nel qualificare la clausola sociale come una forma (atipica) di contratto a favore di terzi (artt. 1411-1414 c.c.), con conseguente attribuzione al lavoratore di un diritto soggettivo all’adempimento (Cass., 13.8.1997, n. 7566; Cass., 22.4.2002, n. 5828); diritto che, per la giurisprudenza, è come detto condizionato dall’inserzione della clausola nel capitolato da parte della stazione appaltante.
Il testo dell’art. 118, co. 6, d.lgs. n. 163/2006 attribuisce l’obbligo di rispettare il contratto collettivo direttamente in capo all’appaltatore. Ne esce sostanzialmente modificato lo stesso meccanismo operativo della clausola. Dal momento che il destinatario della norma è il datore di lavoro e non la stazione appaltante, quest’ultima non è più tenuta ex lege ad inserire la clausola sociale negli atti di gara, ma è chiamata a verificare le condizioni di lavoro applicate dall’impresa aggiudicataria (in sede di valutazione della congruità del costo del lavoro in caso di offerta anomala, ai sensi dell’art. 86, co. 3-bis, d.lgs. n. 163/2006) sul presupposto che questa applichi i contratti collettivi previsti dall’art. 118, co. 6.
Quanto all’estensione dell’obbligo, se l’art. 36, l. n. 300/1970 si limita a prevedere siano rispettate «condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi», la norma del Codice dei contratti impone all’impresa aggiudicataria ed agli eventuali subappaltatori l’integrale applicazione del contratto collettivo nella parte relativa al «trattamento economico e normativo», precludendo così la possibilità di qualsiasi scostamento in peius, pure se in ipotesi compensato da altri benefici contrattuali (Varva, S., Il lavoro negli appalti pubblici, in Aimo, M.-Izzi D., a cura di, Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Torino, 2014, 214).
Il nuovo quadro normativo incide anche sulla questione relativa alla selezione dei soggetti firmatari del contratto collettivo applicabile in virtù della clausola sociale. Se – al pari dell’art. 36 st. lav. – l’art. 118, co. 6, d.lgs. n. 163/2006 si limita a richiamare genericamente i contratti collettivi in vigore, è il regolamento d’attuazione a precisare che questi debbano necessariamente essere sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (art. 4, co. 1, d.P.R. n. 207/2010)(sui dubbi che da ciò conseguono circa il rispetto dei principi relativi alla gerarchia delle fonti, Varva, S., op. cit., 215).
L’entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici non dovrebbe cambiare invece i termini della questione relativa alla possibilità per l’impresa aggiudicataria di applicare un contratto diverso da quello del settore di appartenenza: l’art. 36 st. lav. fa riferimento ai contratti collettivi «della categoria e della zona» e l’art.118, co. 6, con espressione equivalente, rinvia a quelli nazionali e territoriali «in vigore nel settore e nella zona». Sull’interpretazione della norma dello Statuto si è espressa la Cassazione, riconoscendo come parametro di conformità alla clausola sociale il CCNL corrispondente all’attività effettivamente svolta dall’impresa appaltante, indipendentemente dalla sua iscrizione alle associazioni firmatarie e dalla sua eventuale adesione ad un diverso contratto (Cass., 25.7.1998, n. 7333). L’art. 36 st. lav. configurerebbe una residua ipotesi di operatività dell’art. 2070 c.c., norma altrimenti da considerare superata con il venir meno dell’ordinamento corporativo (Bellavista, A., La clausola sociale dell’art. 36 St. Lav. e l’art. 2070, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 462). Pur negando l’utilizzabilità della norma codicistica, anche i giudici amministrativi hanno fino ad oggi escluso la possibilità per l’impresa aggiudicataria di non applicare un CCNL coerente con l’attività oggetto dell’appalto (Cons. St., ord., 18.8.2010, n. 5820; Cons. St., ord., 30.3.2010, n.1813).
L’opzione di politica legislativa seguita nel Codice dei contratti pubblici risponde alla ratio di garantire la massima effettività della clausola sociale, configurando un diritto esigibile direttamente in capo ai lavoratori e precludendo alle imprese aggiudicatarie la possibilità di applicare un contratto collettivo diverso da quello firmato dalle organizzazioni più rappresentative, onde limitare la concorrenza giocata sui salari e sulle condizioni di lavoro. Ne conseguono dubbi di compatibilità del disposto di cui all’art. 118, co. 6, d.lgs. n. 163/2006 con l’art. 39 Cost., dai quali l’art. 36 st. lav. può ritenersi immune. La legittimità costituzionale della norma statutaria si fonda infatti sul carattere indiretto del vincolo posto dalla clausola: il contratto collettivo è assunto dal legislatore come parametro per identificare le tutele minime da garantire ai lavoratori impiegati nell’appalto ed il datore è gravato ex lege di un onere – e non di un obbligo – derivando il rispetto di tali standard di tutela dalla sua libera scelta di partecipare alla procedura di aggiudicazione (così, per primo Mancini, G. F., op. cit., 546). Sotto questo secondo profilo anche la nuova versione della clausola sociale può salvarsi dai vizi di costituzionalità (già Ghera, E., op. cit., 139 in relazione a norme speciali previgenti), ma restano i dubbi di compatibilità con l’art. 39 Cost. di una norma di legge che vincola direttamente il datore ad applicare uno specifico contratto collettivo. Tali dubbi si pongono sia in relazione al co. 4 del disposto costituzionale, che – nella sua perdurante inattuazione – preclude la possibilità di estendere per legge l’efficacia del contratto collettivo; sia in relazione al co. 1, che presidia l’autonomia collettiva (anche) dei datori e la loro conseguente libertà di inquadramento contrattuale (Scarpelli, F., Regolarità del lavoro e regole della concorrenza: il caso degli appalti pubblici, in Riv. giur. lav., 2006, 772; Bellomo, S., Esternalizzazioni, norme a tutela dei lavoratori e normativa speciale in materia di servizi pubblici locali, in Lav. giur., 2010, 56; Alvino, I., Appalti delle pubbliche amministrazioni e tutela dei lavoratori dipendenti da appaltatori e sub- appaltatori, in Carabelli, U.-Carinci, M. T., a cura di, Il lavoro pubblico in Italia, Bari, 2010, 282).
È vero che quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 266/1998 in merito all’art. 36, st. lav. può valere anche a legittimare il nuovo quadro normativo, quanto meno sotto il profilo dell’art. 39, co. 1. Secondo i giudici delle leggi la norma statutaria persegue una «miglior realizzazione dell’interesse pubblico, secondo i principi della concorrenza tra imprenditori (per ottenere la Pubblica amministrazione le condizioni più favorevoli) e della parità di trattamento dei concorrenti della gara (per assicurare il miglior risultato della procedura concorsuale senza alterazioni e/o trattative)». I limiti posti alla libertà sindacale e d’impresa del datore si giustificano dunque con il duplice fine di tutelare i lavoratori e di assicurare la parità di trattamento tra gli imprenditori partecipanti alla gara pubblica, a garanzia del buon andamento e dell’imparzialità dell’agire pubblico (ex art. 97 Cost.). E proprio il principio della parità di trattamento dovrebbe giustificare l’applicazione di un unico CCNL da parte di tutte le imprese concorrenti. Tuttavia, nell’argomentazione della Corte costituzionale manca la considerazione dei principi di diritto dell’UE relativi alla concorrenza ed al mercato interno, come successivamente declinati dalla Corte di giustizia.
I giudici di Lussemburgo hanno affrontato il problema dell’utilizzo delle clausole sociali di prima generazione nella sentenza Rüffert (C. giust., 3.4.2008, C-346/06, Dirk Rüffert c. Land Niedersachesen), che si iscrive nel celebre e controverso quartetto di decisioni relative al rapporto tra libertà di mercato e diritti del lavoro (cd. Laval quartet). Chiamata ad esprimersi in merito ad una legge del Land della Bassa Sassonia che condizionava l’aggiudicazione dell’appalto pubblico al rispetto del contratto collettivo territoriale privo di efficacia generale, la Corte di giustizia ne ha affermato la contrarietà al diritto dell’UE sia alla luce della dir. CE n. 71/1996 relativa al distacco transnazionale dei lavoratori, sia alla luce dei generali principi posti dal TFUE a presidio del libero accesso al mercato dei servizi. La direttiva infatti da un parte non contempla la clausola sociale come meccanismo di estensione del contratto collettivo alle imprese straniere erogatrici di servizi sul territorio di un altro Stato membro (art. 3, par. 8); dall’altra non consente di applicare ai lavoratori da queste distaccati standard di tutela superiori a quelli minimi che essa stessa identifica all’art. 3, par. 1. Quanto ai principi del mercato interno deducibili dall’art. 56 TFUE, per i giudici europei non può giustificarsi per ragioni imperative di interesse pubblico la compressione della libertà di prestazione dei servizi dell’impresa appaltatrice, se derivante dall’applicazione di un contratto collettivo che vincola solo una parte delle imprese di un settore economico (nel caso, quelle aggiudicatarie di appalti pubblici). Alla luce di questi stessi principi, la Corte di Lussemburgo è tornata a censurare l’applicazione della clausola sociale anche in relazione ad una legge (di nuovo, di un Land tedesco) che fissava i minimi salariali per tutti i lavoratori dipendenti dalle imprese coinvolte nella catena di subappalto, ivi compresi quelli impiegati per eseguire l’appalto in un altro Stato membro (C. giust., 18.9.2014, C- 549/13, Bundesbruckerei GmbH c. Stadt Dortmund).
La giurisprudenza in questione solleva irrisolti interrogativi in merito all’utilizzabilità delle clausole sociali nei paesi dove (come in Italia) queste servono ad imporre il rispetto di contratti collettivi privi di efficacia generale. Il principale nodo problematico da sciogliere attiene al rapporto tra i dicta della Corte di giustizia ed il principio di parità di trattamento posto dallo stesso diritto dell’UE a base delle procedure di aggiudicazione degli appalti (art. 18, par. 1, dir. UE n. 24/2014 sugli appalti pubblici). La Corte di giustizia si è espressa in merito ai vincoli che la clausola sociale pone alle imprese stabilite in uno Stato diverso da quello della stazione appaltante, ma la disapplicazione della clausola sociale per le sole imprese straniere aggiudicatarie dell’appalto contrasta evidentemente con tale principio. Non aiuta a risolvere il problema la dir. UE n. 24/2014, la quale, nella stessa norma contenente il principio della parità di trattamento, prevede che gli Stati adottino «misure adeguate per garantire che gli operatori economici, nell’esecuzione di appalti pubblici, rispettino gli obblighi applicabili in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro stabiliti dal diritto dell’Unione, dal diritto nazionale, da contratti collettivi» (art. 18, par. 2); salvo precisare nei considerando che tali misure vadano applicate «conformemente alla direttiva 96/71 quale interpretata dalla Corte di giustizia» (considerando 98).
Dalla giurisprudenza amministrativa nazionale emerge una crescente attenzione ai vincoli del mercato interno, non per negare tout court la legittimità della clausola di equo trattamento, ma per escludere la possibilità di vincolare le imprese al rispetto di un unico CCNL tramite di essa. In questo senso si è espressa la giurisprudenza che ha riconosciuto come illegittima la pretesa dell’ENAC (ente nazionale per l’aviazione civile) di condizionare la certificazione di idoneità dei prestatori di servizi aeroportuali al rispetto del contratto collettivo più diffuso tra le imprese del settore (Cons. St., ord., 8.6.2009, n. 3489; TAR Lazio, Roma, 30.12.2012, n. 982; TAR Lazio, Roma, 9.2.2012, n. 1295). In questo caso la questione si è posta con riferimento all’interpretazione dell’art. 13, d.lgs. n. 18/1999, di recepimento della dir. CE n. 67/1996 di liberalizzazione del settore dell’handling; norma che rinvia genericamente al rispetto del contratto collettivo ed interpretata restrittivamente dall’ENAC nel suo regolamento. Quanto alla previsione di simili vincoli negli atti di gara di un appalto pubblico, la rigida formulazione dell’art. 118, co. 6, d.lgs. 163/2006 non ha impedito alla recente giurisprudenza di primo grado di ritenere inammissibile l’indicazione di uno specifico CCNL tra quelli in ipotesi compatibili con l’attività oggetto dell’appalto (TAR Toscana, Firenze, 11.6.2013, n. 1160; TAR Piemonte, Torino, 9.1.2015, n. 23; ma già, seppur in termini problematici, Cons. St., ord., 30.3.2010, n. 1813).
Il legislatore fa riferimento alle cd. clausole di riassunzione “in negativo” (Lima, A., La successione negli appalti e le possibili conseguenze per i lavoratori: prosecuzione del rapporto, licenziamento, risoluzione consensuale, nuova assunzione dopo la c.d. riforma Fornero, in Argomenti dir. lav., 2013, 636) per escludere che il passaggio dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore subentrante comporti l’applicazione della disciplina del trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 c.c. (art. 29, co. 3, d.lgs. 10.9.2003, n. 276), del licenziamento collettivo di cui all’art. 24, l. 23.7.1991, n. 223 (art. 7, co. 4-bis, d.l. 31.12.2007, n. 248 conv. dalla l. 28.2.2008, n. 311) e della procedura di conciliazione preventiva prevista in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 7, co. 6, l. 15.7.1966, n. 604 come sostituito dall’art. 1, co. 40, l. 28.6.2012, n. 92), nonché per esonerare il datore uscente dall’obbligo di versare i contributi previdenziali parametrati alla cd. Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) (art. 2, co. 34, l. n. 92/2012). Da ultimo, tali clausole sono richiamate per riconoscere ai lavoratori riassunti dal nuovo appaltatore l’anzianità precedentemente maturata ai fini del calcolo dell’indennità di licenziamento prevista dal cd. contratto a tutele crescenti (art. 7, d.lgs. 4.3.2015, n. 23). Queste disposizioni segnalano come dato acquisito dall’ordinamento la possibilità di imporre obblighi di riassunzione in caso di successione nell’appalto, vuoi in virtù di disposizioni di legge speciale, vuoi in virtù di clausole dello stesso contratto d’appalto o del contratto collettivo. Nulla tuttavia da esse è ricavabile in merito al contenuto ed alle caratteristiche “morfologiche” di simili clausole sociali, né tanto meno in merito alla loro efficacia ed al loro grado di vincolatività.
La presenza di clausole di riassunzione è diffusa nei CCNL relativi al settore dei servizi e la loro gamma tipologica è molto varia (ampia analisi in Mutarelli, M.M., Contrattazione collettiva e tutela dell’occupazione negli appalti, in Ferraro, G., a cura di, Redditi e occupazione nelle crisi d’impresa, Torino, 2014, 303 ss.). I CCNL più recenti tendono a non configurare in termini rigidi e assoluti l’obbligo di riassunzione in capo al datore subentrante. Spesso tale obbligo è condizionato all’invarianza dei termini e delle modalità di esecuzione dell’appalto (ad es. art. 4 CCNL imprese di pulizia e servizi integrati/multi servizi del 51.5.2011 e art. 7 CCNL servizi postali in appalto – Fise Assoposte del 15.6.2012), o all’assenza di modifiche organizzative o tecnologiche da parte dell’impresa subentrante (ad es. art. 6, co. 7, CCNL Servizi ambientali Federambiente del 24.5.2013; art. 336, CCNL Turismo Confcommercio del 25.2.2010). Se tali condizioni mancano, si prevede l’attivazione di una procedura di consultazione sindacale finalizzata a concordare diverse modalità di utilizzo del personale. D’altra parte il cambiamento dell’oggetto e delle condizioni dell’appalto può comunque giustificare il licenziamento collettivo o plurimo (per giustificato motivo oggettivo) dei lavoratori eccedenti da parte del datore subentrante; e ciò spiega la diffusione di clausole che declinano in maniera più flessibile gli obblighi gravanti su quest’ultimo. Ad un diversa ratio anti-abusiva risponde invece la previsione (presente in molti CCNL) di un minimo di anzianità come condizione per far sorgere il diritto all’assunzione del lavoratore.
Non mancano infine CCNL che – in luogo della clausola sociale – si limitano ad imporre procedure di informazione e consultazione sindacale, senza configurare direttamente alcun obbligo di assunzione in capo al nuovo appaltatore (ad es. art. 53 CCNL Telecomunicazioni del 1.2.2013; art. 9 CCNL Strutture socio-sanitarie Anaste del 25.5.2004).
In ogni caso l’efficacia della clausola sociale è condizionata dal fatto che l’impresa subentrante applichi un CCNL che la prevede (lo ricorda il Ministero del lavoro nell’Interpello del 1.8.2012, n. 22). In teoria è irrilevante il CCNL applicato dall’impresa uscente, ma frequentemente la clausola è configurata sul presupposto che questa applichi il medesimo CCNL di quella subentrante; com’è, ad esempio, quando sono posti obblighi di informazione e consultazione sindacale in capo ad entrambe. In presenza di imprese che applicano CCNL diversi possono dunque presentarsi problemi di effettività della clausola stessa, non risolvibili sul piano giuridico (Mutarelli, M.M., Gli effetti delle clausole di riassunzione nell’avvicendamento di appalti privati, in AA.VV., Dall’impresa a rete alle reti d’impresa, Milano, 2015).
Dal modo con cui la clausola è formulata dipendono gli effetti che conseguono alla sua violazione ed i rimedi a disposizione dei lavoratori. Anche le clausole di riassunzione sono riconducibili alla fattispecie del contratto a favore di terzi (art. 1411 c.c.), sempre che i lavoratori da riassumere siano in base ad essa determinati o determinabili (ex pluris, Marinelli, M., Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, Torino, 2002, 217). In caso di mancato rispetto dell’obbligo di riassunzione da parte dell’appaltatore subentrante, dottrina maggioritaria (Vallebona, A., Successione nell’appalto e tutela dei posti di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 219; Carinci, M.T., Utilizzazione e acquisizione indiretta del lavoro, somministrazione e distacco, appalto e subappalto, trasferimento d’azienda e di ramo, Torino, 2010, 141 ss.; Aimo, M., Stabilità del lavoro e tutela della concorrenza. Le vicende circolatorie dell’impresa alla luce del diritto comunitario, in Lav. dir., 2007, 11) e giurisprudenza prevalente (Cass., 26.8.2001, n. 12516; Cass., 30.12.2009, n. 27841) ritengono invocabile l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cc.; ciò a condizione che la clausola configuri l’obbligo di assunzione individuando con sufficiente precisione gli elementi essenziali del contratto di lavoro (in specie, con riferimento all’orario ed alle mansioni dei lavoratori da riassumere), residuando altrimenti la sola tutela risarcitoria (Cass., 5.10.2010, n. 18277).
Quando l’obbligo di riassunzione è sostituito da vincoli meramente procedurali, il diritto all’assunzione può sorgere per effetto dell’accordo eventualmente raggiunto tra le parti in sede di consultazione. Producendo la clausola sociale effetti obbligatori e non normativi, la sua violazione legittima l’azione per repressione della condotta antisindacale ex art. 28 st. lav. da parte delle organizzazioni stipulanti. La valutazione degli effetti della clausola non può comunque prescindere dalla sua specifica formulazione, se è vero che la giurisprudenza ha dedotto anche dall’obbligo a trattare sulle modalità di riassunzione la concorde volontà di impegnarsi a garantire la continuità dell’occupazione attraverso lo strumento contrattuale (Cass., 3.10.2011, n. 20192 con riferimento all’art. 4 CCNL imprese appaltatrici nel settore dello smaltimento dei rifiuti del 2.8.1995).
L’applicazione delle clausole di seconda generazione solleva non agevoli problemi di coordinamento con la disciplina del licenziamento. Secondo il Ministero del lavoro, il datore che voglia risolvere il rapporto di lavoro al cessare dell’appalto dovrebbe sempre ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non potendosi ritenere applicabile la disciplina dei licenziamenti collettivi per assenza delle causali previste dall’art. 24, l. n. 223/1991 (Ministero del lavoro, Interpello n. 22/2012). Si tratta però di una posizione contraddetta sia dalla giurisprudenza (Cass., 24.2.2006, n. 4166; Cass., 9.6.2005, n. 12136) sia dalla dottrina maggioritaria (Scarpelli, F., Cessazione degli appalti di servizi e licenziamenti collettivi, in Dir. prat. lav., 2001, 2063; Marinelli, F., La tutela del posto di lavoro in caso di cessazione dell’appalto, in Carinci, M.T.-Cester, C.- Mattarolo, M.G.- Scarpelli, F., a cura di, Tutela e sicurezza negli appalti pubblici e privati. Inquadramento giuridico ed effettività, Torino, 2011, 229) e non compatibile con quanto dispone l’art. 7, co. 4-bis, d.l. n. 248/2007 che, escludendo l’applicazione della l. n. 223/1991 se il passaggio di personale avviene «a parità di condizioni economiche e normative» e in applicazione di contratti collettivi firmati dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative, ne riconosce implicitamente l’applicabilità al di fuori delle ipotesi che tipizza. Ciò evidentemente qualora sussistano i presupposti numerici e cronologici per applicare la norma in questione, dovendo altrimenti l’impresa uscente ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo (senza rispettare la procedura di conciliazione di cui all’art. 7, l. n. 604/1966: supra § 3.1)
In un simile quadro normativo, si pone il problema di valutare se il passaggio presso l’appaltatore subentrante per effetto di una clausola di riassunzione implichi o meno la rinuncia del lavoratore all’impugnazione del licenziamento intimato dall’appaltatore cessante. La minoritaria opinione dottrinale che vuole il rapporto con quest’ultimo risolto consensualmente per effetto dell’accettazione da parte del lavoratore del nuovo rapporto di lavoro presso il subentrante (Vallebona, A., op. cit., 220) è da considerarsi incompatibile con i vincoli formali al cui rispetto l’art. 4, co. 17 e ss., l. n. 92/2012 condiziona la legittimità della risoluzione consensuale e delle dimissioni (Lima, op. cit., 346 ss.). Anche l’opinione di chi legge la stipula del nuovo contratto di lavoro come acquiescenza al licenziamento (Buoncristiani, D., Forme di tutela del lavoratore “ereditato” nel cambio di gestione di appalti labour intensive, in Riv. it. dir. lav., 2007, 179) è contraddetta dalla giurisprudenza maggioritaria che non consente di desumere la rinuncia all’impugnazione dalla mera accettazione di un nuovo rapporto di lavoro, dovendosi quella ricavare o da un’espressa manifestazione di volontà o da inequivoci fatti concludenti (Cass., 24.2.2006, n. 4166; Cass., 29.5.2007, n. 12613). Ne consegue il riconoscimento del diritto del lavoratore ad impugnare il licenziamento anche a seguito dell’avvenuta riassunzione da parte dell’appaltatore subentrante.
Qualora non lo preveda la stessa clausola, il datore subentrante non è tenuto ad applicare ai lavoratori passati alle sue dipendenze le medesime condizioni di lavoro da questi godute presso il precedente appaltatore né a riconoscergli la pregressa anzianità di servizio. Ciò è confermato dall’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 ai sensi del quale il passaggio del personale in attuazione della clausola sociale non integra la fattispecie del trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 c.c.. La norma sembra escludere che i lavoratori possano godere dei diritti conseguenti alla continuità ex lege del rapporto di lavoro previsti dalla disposizione codicistica, implicando sempre l’applicazione della clausola la costituzione di un nuovo rapporto in ragione di un obbligo a contrarre negozialmente pattuito (Vallebona A., op. cit., 218).
L’apparente univocità dell’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 deve fare i conti però con la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia relativa alla dir. CE n. 23/2001, in virtù della quale questa trova applicazione anche nel caso di mutamento di titolarità di un appalto, qualora il nuovo appaltatore prosegua l’attività riassumendo «una parte essenziale, in termini di numero e di competenza, del personale specificamente destinato dal predecessore» a tale attività (C. giust., 11.3.1997, C-13/95, Ayse Süzen c. Zehnacker Gebäudereinigung GmbH Krankenhausservice). In relazione ad attività a bassa intensità di capitale (cd. labour intensive), il passaggio di un «complesso strutturato» di dipendenti può dunque configurare trasferimento d’azienda (C. giust., 6.9.2011, C-108/10, Ivana Scattolon c. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca); e ciò anche nel caso in cui la riassunzione dei lavoratori sia imposta da un contratto collettivo (C. giust., 24.1.2002, C-51/00, Temco Service Industries SA c. Samir Imzilyen e altri). Se non si vuole concludere per un contrasto tra l’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 con i dicta della Corte di giustizia (Speziale, V., Le ‘esternalizzazioni’ dei processi produttivi dopo il d.lgs. n. 276 del 2003, in Riv. giur. lav., 2006, I, 24; Aimo, M., op. cit., 131), non resta che optare per una lettura “conservativa” della norma che lasci aperta la possibilità di verificare se, nel caso concreto, il passaggio di personale non si configuri in modo tale da integrare i presupposti della fattispecie del trasferimento d’azienda, come definita dai giudici europei (tra gli altri, Scarpelli, F., Art. 29. Appalto, in Gragnoli, E.-Perulli, A., a cura di, La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali. Commentario al D.lgs. 276/03, Padova, 2004, 440; Carinci, M.T., Gli appalti nel settore privato. La distinzione tra appalto e trasferimento d’azienda ed il trattamento dei lavoratori impiegati negli appalti, in Dir. merc. lav., 2006, 438). Va da sé che, così interpretata, la disposizione in questione perde buona parte della sua portata precettiva.
Ai lavoratori passati alle dipendenze dell’impresa subentrante è riconosciuto in ogni caso il mantenimento dell’anzianità maturata ai fini del calcolo dell’indennità per licenziamento illegittimo associata al cd. contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (art. 7, d.lgs. n. 23/2015). La disposizione in parola si applica ai soli lavoratori assunti successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, ivi compresi quelli “riassunti” in attuazione della clausola sociale; a meno che non sia configurabile un trasferimento d’azienda, trovando in questo caso applicazione il regime sanzionatorio dettato dall’art. 18 st. lav. in ragione della continuità ex lege del rapporto di lavoro garantita dall’art. 2112 c.c.
Se il subentro nell’appalto avviene nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica, il rispetto della clausola sociale di riassunzione può essere imposto (anche) dalla lex specialis della gara. Ciò solleva l’ulteriore problema di vagliarne la compatibilità con i principi posti dal diritto nazionale ed europeo a tutela della concorrenza e della libertà d’impresa, cui le procedure di aggiudicazione degli appalti devono conformarsi.
Sul problematico rapporto tra libertà d’iniziativa economica ed obblighi di assunzione sanciti ex lege la Corte costituzionale ha avuto modo di esprimersi più volte, sin dalla sua nota giurisprudenza relativa al cd. imponibile di manodopera, censurato per contrarietà all’art. 41 Cost. (C. cost., 30.12.1958, n. 78). Per il tema che qui interessa, merita attenzione la sentenza C. cost., 3.3.2011, n. 68, con la quale si è colta una violazione dell’art. 97 Cost. nella normativa regionale della Puglia che imponeva di inserire in ogni contratto di affidamento di servizi (anche ad ente o azienda pubblica) l’obbligo di assumere a tempo indeterminato il personale utilizzato (a qualsiasi titolo) dall’impresa uscente. Nel censurare la legge pugliese, la Corte ha incidentalmente riconosciuto la legittimità costituzionale di altre disposizioni di legge che configurano clausole sociali a tutela dell’occupazione senza ledere il principio del pubblico concorso; ed a queste ha ricondotto l’art. 69, d.lgs. n. 163/2006, che consente l’imposizione di condizioni di esecuzione dell’appalto attinenti ad «esigenze sociali ed ambientali». Se ne ricava che i giudici delle leggi, in linea di principio, non considerino in contrasto con l’art. 41 Cost. gli obblighi di riassunzione posti a carico delle imprese aggiudicatarie di un pubblico appalto. Il che non garantisce di per sé una presunzione di legittimità della clausola sociale, dipendendo questa da un giudizio di bilanciamento tra le esigenze di tutela sociale perseguite ed il grado di compressione imposto alla libertà d’impresa.
Un simile giudizio è operato dai giudici amministrativi, che non rinunciano ad una valutazione di compatibilità della clausola con l’esercizio della libertà d’impresa neppure nei casi in cui questa trovi fondamento nel contratto collettivo. In particolare, nella più recente giurisprudenza si consolida la tendenza a leggere le clausole di seconda generazione come strumenti flessibili di protezione della continuità dell’occupazione, da applicare senza automatismi e considerando il contesto tecnico ed organizzativo dell’impresa che ne è gravata. Il che d’altra parte è in sintonia con l’evoluzione della stessa contrattazione collettiva. Ne consegue che, se i diversi assetti organizzativi (anche dovuti a mutamenti tecnologici) dell’impresa subentrante impediscono il rispetto della clausola, di quest’ultima si ammette una parziale disapplicazione (Cons. St., ord., 16.6.2009, n. 3900; Cons. St., ord., 10.5.2013, n. 2533).
Sensibilmente diverso appare l’approccio seguito dalla Corte di giustizia, che si è espressa in merito agli obblighi di riassunzione con riferimento alla normativa italiana di recepimento della dir. CE n. 67/1996 relativa alla liberalizzazione dei servizi aeroportuali (C. giust., 9.12.2004, C-460/02, Commissione c. Repubblica italiana; analogamente, con riferimento alla normativa tedesca, C. Giust., 14.7.2005, C-386/03, Commissione c. Repubblica federale di Germania). L’imposizione ai nuovi prestatori di servizi dell’obbligo di riassumere il personale impiegato dal precedente prestatore (in origine previsto dall’art. 14, co. 2, d.lgs. 13.1.1999, n. 18), è stato giudicato dai giudici di Lussemburgo irrimediabilmente in contrasto con i principi regolatori del mercato unico dei servizi, configurando un’ingiustificata limitazione all’accesso al mercato nazionale.
Dal confronto tra la giurisprudenza nazionale e quella europea emergono due diverse dimensioni della libertà economica, che spiegano i diversi esiti del suo bilanciamento con le esigenze sociali perseguite attraverso le clausole di riassunzione. Se i giudici nazionali identificano la libertà d’impresa nella sua dimensione "statica" – di libertà di organizzare i fattori produttivi – quelli europei ne considerano anche la dimensione “dinamica” – di libertà di accedere al mercato – tutelata dal diritto dell'UE; dimensione, quest’ultima, che la stessa Corte costituzionale altrove riconosce nella sua recente giurisprudenza (inter alia, C. cost. 23.11.2007, n. 401).
Il quadro di diritto dell’UE resta comunque incerto ed in evoluzione. Alla chiusura della Corte di giustizia si contrappongono timide aperture del legislatore europeo. Ne è espressione l’art. 4 del reg. CE n. 1370/2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia, ai sensi del quale, «fatta salva la legislazione nazionale e comunitaria, compresi i contratti collettivi tra le parti sociali, le autorità competenti possono imporre all’operatore del servizio pubblico prescelto di garantire al personale precedentemente assunto per fornire i servizi i diritti di cui avrebbe beneficiato se avesse avuto luogo un trasferimento ai sensi della Direttiva 2001/23/CE»; con ciò riconoscendosi quanto mai è stato ammesso dai giudici di Lussemburgo, ovvero che il diritto alla continuità dell'occupazione per il singolo lavoratore può essere garantito anche al di là dello stretto ambito di applicazione della fattispecie del trasferimento d’azienda.
Anche nella dir. UE n. 24/2014 sugli appalti pubblici il legislatore europeo ha manifestato segnali di apertura nei confronti delle clausole sociali finalizzate alla tutela dell’occupazione, pur non cogliendo l’occasione per fare chiarezza sui loro limiti di compatibilità con il diritto dell’UE. Nell’art. 70 trova, infatti, spazio il riferimento alle «considerazioni […] relative all’occupazione» che – accanto a quelle «di ordine ambientale e sociale» già richiamate dall’art. 26 della previgente dir. CE n. 18/2004 – possono essere comprese tra le condizioni di esecuzione dell’appalto.
Art. 36, l. 20.5.1970, n. 300; art. 69 e art. 118, co. 6, d.lgs. 12.4.2006, n. 163; art. 4, co. 1, d.P.R. 5.10.2010, n. 207; art. 29, co. 3, d.lgs. 10.9.2003, n. 276; art. 7, co. 4-bis, d.l. 31.12.2007, n. 248 conv. dalla l. 28.2.2008, n. 311; art. 7, d.lgs. 4.3.2015, n. 23; art. 18, par. 2 e art. 70, dir. UE 24/2014; Convenzione OIL 29.6.1949, n. 94.
Aimo, M., Stabilità del lavoro e tutela della concorrenza. Le vicende circolatorie dell’impresa alla luce del diritto comunitario, in Lav. dir., 2007, 417 ss.; Brino, V., Successione di appalti e tutela della continuità dell’occupazione, in Aimo, M.-Izzi, D., a cura di, Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Torino, 2014, 110 ss.; Buoncristiani, D., Forme di tutela del lavoratore “ereditato” nel cambio di gestione di appalti labour intensive, in Riv. it. dir. lav., I, 2007, 165 ss.; Carinci, M.T., Gli appalti nel settore privato. La distinzione tra appalto e trasferimento d’azienda ed il trattamento dei lavoratori impiegati negli appalti, in Dir. merc. lav., 2006, 425 ss.; Carinci, M.T., Utilizzazione e acquisizione indiretta del lavoro, somministrazione e distacco, appalto e subappalto, trasferimento d’azienda e di ramo, Torino, 2010; Costantini, S., La finalizzazione sociale degli appalti pubblici. Le “clausole sociali” tra tutela del lavoro e tutela della concorrenza, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT –196/2014; Ghera, E., Le c.d. clausole sociali: evoluzione di un modello di politica legislativa, in Dir. rel. ind., 2001, 133 ss.; Mancini, G.F., Sub art. 36, in Romagnoli, U.-Montuschi, L.-Ghezzi, G.-Mancini, G.F., a cura di, Statuto dei lavoratori. Commentario al codice civile diretto da Scialoja e Branca, Bologna- Roma, 1972, 551 ss.; Lozito, M., Tutele e sottotutele del lavoro negli appalti privati, Bari, 2013; Luciani, V., La clausola sociale di equo trattamento nell’art. 36, in Dir. lav. merc., 2010, 909 ss.; Marinelli, M., Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, Torino, 2002; Mutarelli, M.M., Contrattazione collettiva e tutela dell’occupazione negli appalti, in Ferraro, G., a cura di, Redditi e occupazione nelle crisi d’impresa, Torino, 2014, 303 ss.; Orlandini, G., Mercato unico dei servizi e tutela del lavoro, Milano, 2013; Scarpelli, F., Regolarità del lavoro e regole della concorrenza: il caso degli appalti pubblici, in Riv. giur. lav., 2006, I, 753 ss.; Varva, S., Il lavoro negli appalti pubblici, in Aimo, M.-Izzi D, a cura di, Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Torino, 2014, 194 ss.