Abstract
Si offre un’analisi della natura delle clausole vessatorie, nonché dei rimedi previsti nell’interesse del contraente debole sia nella disciplina codicistica (artt. 1341 e 1342 c.c.), che nella più recente normativa a tutela del consumatore (art. 33 ss. c. cons.). Si esaminano il sindacato di vessatorietà, nonché la peculiare sanzione della nullità di protezione e le nuove forme di tutela collettiva ed amministrativa.
Nel linguaggio giuridico il termine ‘clausola’ viene utilizzato, in senso formale, per indicare ciascun enunciato autonomo del testo contrattuale, in senso sostanziale, per indicare un precetto che vincola le parti o una di esse al contenuto negoziale.
In ossequio all’autonomia privata, le parti sono solitamente libere di regolare i propri interessi, combinando la clausole come credono, senza che possa in sé considerarsi giuridicamente rilevante la predisposizione unilaterale, ovvero il grado di coinvolgimento di una delle parti nella definizione del contenuto contrattuale. In determinati casi, tuttavia, l’ordinamento caratterizza in modo peculiare l’autonomia privata, in ragione del tipo di operazione, della specificità di determinate clausole, delle caratteristiche delle parti: ciò avviene in particolare nel caso di operazioni standardizzate o poste in essere tra soggetti dotati di diversa forza contrattuale. È questo il terreno di elezione delle cd. clausole vessatorie, ossia quelle previsioni contrattuali che pongono uno dei contraenti in una situazione particolarmente sfavorevole rispetto alla controparte.
L’economia contemporanea ha reso pressoché marginale il tradizionale modello di formazione e conclusione del contratto a mezzo di trattative individuali tra parti che contribuiscono equamente alla determinazione dello stesso: la rapidità negli scambi e l’estendersi della standardizzazione nella produzione e distribuzione di beni e servizi hanno reso crescente e più facilmente praticabile la prassi della negoziazione uniforme o di massa, estesa a settori disparati e ad attività complesse, come quella bancaria o assicurativa.
L’approccio normativo non può che essere duplice: da un lato, è forte la spinta a favorire gli affari, assicurando uniformità nei rapporti di identica natura, garantendo razionalizzazione e contenimento di tempi e costi, dall’altro, persistono esigenze di giustizia contrattuale a tutela del cd. contraente debole. La predisposizione unilaterale delle condizioni contrattuali, la distanza tra gli operatori, la rapidità di acquisizione del consenso, eliminando la negoziazione precontrattuale e riducendo i tempi di maturazione dell’accordo, accentuano, infatti, il rischio di scarsa ponderazione.
Nel Codice civile alla contrattazione di massa sono dedicati gli ultimi articoli della sezione sull’accordo; i contratti ivi disciplinati vengono definiti contratti per adesione e si caratterizzano non in base allo status dei contraenti, ma per il fatto di esser concepiti in modo tale che una delle parti, l’aderente, non possa intervenire sul contenuto negoziale, ma solo limitarsi ad accettarlo o meno.
Più precisamente, la fattispecie delineata nell’art. 1341 c.c. si riferisce al caso dell’operatore economico che predispone un modello contrattuale da impiegare in serie in futuri contratti omogenei: è il fenomeno delle condizioni generali di contratto. La fattispecie di cui all’art. 1342 c.c. riguarda, invece, i contratti conclusi mediante moduli o formulari: è il caso in cui l’operatore economico impiega nei rapporti contrattuali suoi moduli o formulari, oppure quello in cui le parti impiegano moduli o formulari predisposti da terzi.
Secondo l’orientamento tradizionale, le condizioni generali di contratto sono clausole predisposte unilateralmente e destinate ad un impiego generalizzato ed uniforme per una serie indefinita di rapporti contrattuali dello stesso tipo (si veda per tutti Bianca, C.M., Le condizioni generali di contratto, Milano, 1979).
Il co. 1 dell’art. 1341 c.c. precisa che siffatte clausole sono efficaci nei confronti dell’altro contraente solo se, al momento della conclusione dell’accordo, questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza. Ciò significa che, se richiamate nella proposta, entrerebbero per relationem nel contenuto del contratto solo se rese conoscibili; diversamente, sarebbero inefficaci se l’aderente non avesse avuto modo di prenderne conoscenza, ad esempio perché contenute in un documento diverso o non oggetto di diffusione.
In altre parole, sia pur imponendo a carico del predisponente un onere di pubblicità, vi si attribuisce una sorta di potere privato tramite una deviazione normativa, che sostituisce la consueta regola dell’accettazione e, quindi, il principio generale del consenso ex art. 1326 c.c., con la regola della conoscibilità con l’ordinaria diligenza (si veda sul punto del Prato, E., I regolamenti privati, Milano, 1988, 300 ss.).
La regola della vincolatività senza consenso incontra però il limite delle clausole vessatorie: laddove le condizioni generali contengano pattuizioni particolarmente sfavorevoli per l’aderente ne è richiesta la specifica approvazione per iscritto al fine di indurre un’adeguata riflessione.
Nella contrattazione di massa è frequente che le imprese, al fine di disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti, predispongano i contratti mediante moduli o formulari prestampati, in cui di solito sono inserite condizioni generali.
In tal caso non si pone tanto un problema di conoscibilità, quanto piuttosto di corrispondenza tra quanto predisposto e l’intento delle parti. Non è un caso, pertanto, che per espressa disposizione normativa, le clausole contenute in moduli o formulari, così come le condizioni generali di contratto, s’interpretano, nel dubbio, a scapito del predisponente (cd. interpretatio contra proferentem, art. 1370 c.c.), e che, peraltro, le clausole aggiunte, sicura manifestazione della volontà delle parti, se incompatibili, prevalgano su quelle del modulo o del formulario, anche se non cancellate (art. 1342, co. 1, c.c.). Per espresso rinvio, anche ai contratti conclusi mediante moduli o formulari si applica la disciplina delle clausole vessatorie di cui all’art. 1341, co. 2, c.c.
Come anticipato, laddove le condizioni generali o i moduli o formulari contengano pattuizioni che aggravano la posizione dell’aderente, se ne richiede la specifica approvazione per iscritto: ai sensi dell’art. 1341, co. 2, c.c., cui rinvia l’art. 1342, co. 2, c.c., «non hanno effetto, se non specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria».
Si tratta di un elenco, tassativo ma passibile di prudente interpretazione estensiva, nel quale, fatta eccezione per le deroghe alla competenza giudiziaria, sono sostanzialmente ricomprese clausole poste a vantaggio del predisponente.
In questi casi non sarà sufficiente la conoscenza o conoscibilità secondo l’ordinaria diligenza, ma occorrerà una sorta di presa d’atto formale, anche se non sempre supportata da attenta lettura e comprensione: il perfezionamento dell’accordo viene sottratto alla regola della vincolatività senza consenso, richiedendosi un livello, sia pur minimo, di consensualità.
Cercando di superare il contrasto interpretativo tra sostenitori della nullità o dell’inefficacia, si potrebbe dire che il disposto normativo non impone una forma per la validità della clausola, ma, incidendo sulla formazione dell’accordo, prevede modalità più rigorose per il perfezionarsi dello stesso: a prescindere dalla forma in cui è manifestato lo specifico consenso, in mancanza dello stesso le clausole vessatorie non entrano a far parte dell’accordo, quindi, «non hanno effetto» (Cataudella, A., I contratti – parte generale, Torino, 2014, 60 ss.).
Chiaramente la ratio è quella di stimolare la reazione dell’aderente, fornendogli strumenti che lo mettano in grado di rendersi conto della portata normativa della clausola e partecipare in qualche modo alla formazione del contratto. È di tutta evidenza però come si tratti di una tutela meramente formale che non assicura il carattere equo o quantomeno ragionevole delle clausole: l’approvazione scritta (ammissibile anche se cumulativa purché sia effettivamente percepibile il carattere vessatorio della clausola, tra le molte Cass., ord., 29.2.2008 n. 5733) è un rimedio illusorio che si risolve generalmente in una sottoscrizione meccanica di un documento che l’aderente, pur volendo, non potrebbe modificare.
È, peraltro, discussa l’applicazione dell’art. 1341 c.c., ed in particolare del 2 co., agli statuti associativi (per l’opinione affermativa, in dottrina, del Prato, E., Contratto associativo e condizioni generali di contratto, in Giur. it., 1988, I, 1, e, in giurisprudenza, Cass., ord., 21.10.2009, n. 22382).
Al fine di incentivare la protezione del consumatore, generalmente aderente ad un regolamento contrattuale predisposto da altri, a seguito della dir. 93/13/CEE, è stata introdotta un’innovativa tutela volta ad accertare l’equilibrio sostanziale del regolamento negoziale (Minervini E., Dei contratti del consumatore in generale, Torino, 2006).
La disciplina, fondata su una comminatoria di invalidità delle clausole abusive, è stata dapprima inserita negli artt. 1469 bis-1469 sexies c.c., e trova oggi collocazione, con alcune modifiche, nella Parte III, Titolo I, del Codice del consumo (d.lgs. 6.9.2005, n. 206).
In generale, la protezione contrattuale del consumatore è congegnata al fine di limitare l’autonomia del professionista impedendo a questi di abusare della propria forza contrattuale: ciò avviene mediante un controllo sul contenuto dei contratti stipulati tra professionista («persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario») e consumatore («persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta»).
È proprio nell’ambito dei contratti del consumatore che la disciplina delle clausole vessatorie trova non solo terreno d’elezione, ma finanche testuale riconoscimento normativo considerato che l’espressione, sebbene in uso da decenni, è in questa sede divenuta per la prima volta normativa.
Il Codice del consumo definisce le clausole vessatorie in modo volutamente generico, garantendo un ambito di applicazione ampio ed elastico: sono tali le clausole che «malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» (art. 33, co. 1, c. cons.).
L’accertamento della vessatorietà non può prescindere dal rispetto delle norme dell’ordinamento; perciò, senza che sia necessaria una perfetta coincidenza testuale, sono sottratte al sindacato le clausole che riproducono disposizioni o attuano principi di leggi ovvero di convenzioni internazionali (opinioni discordanti si registrano circa la possibilità di considerare esenti anche clausole che riproducono disposizioni regolamentari e usi normativi: cfr. De Nova, G., Le clausole vessatorie, Milano, 1996, 34 ss.).
A dire il vero, la formulazione non troppo felice dell’espressione «malgrado la buona fede», derivata da una discutibile traduzione della direttiva, ha dato luogo a non poche dispute interpretative. Ci si chiede, in particolare, se la buona fede vada intesa in senso oggettivo, secondo canoni contrattuali, attinenti a correttezza e lealtà, ovvero in senso soggettivo, con riferimento allo stato psicologico delle parti.
Ferma l’esigenza di mantenere il senso della frase come teso a negare rilevanza alla buona fede, e considerato che, nel complessivo assetto di interessi, il significativo squilibrio rappresenta di per sé un’ipotesi sintomatica di contrarietà a correttezza, esso consente una sorta di concretizzazione contenutistica della buona fede (Troiano, S., Art. 1469 bis, in Alpa G. - Patti S., a cura di, Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori. Commentario agli articoli 1469 bis-1469 sexies del Codice Civile, I, Milano, 1997).
In questo senso sarebbe preferibile intendere il riferimento come rivolto alla buona fede in senso soggettivo, in modo da negare rilevanza all’attitudine psicologica del professionista, anche per l’obiettiva difficoltà della relativa prova.
L’art. 33 c. cons., salvo deroghe in materia di servizi finanziari, fornisce una lista, estremamente dettagliata, ma dichiaratamente indicativa, di clausole da considerarsi presuntivamente vessatorie fino a prova contraria (cd. ‘clausole grigie’). L’elenco, da ultimo arricchito con i riferimenti alla procedura di risoluzione stragiudiziale delle controversie dell’art. 1, co. 9, lett. a), del d.lgs. 6.8.2015, n. 130, corrisponde, con qualche aggiunta, a quello offerto dalla direttiva e contiene una rassegna delle clausole più frequenti, che, con diverse modalità, incidenti su profili esecutivi o patologici, abbiano per effetto, mediato o immediato, di creare un apprezzabile divario nell’equilibrio contrattuale.
Nell’art. 36 c. cons. sono invece contenute le ‘clausole nere’ che, tra quelle vessatorie, sono da ritenersi sempre nulle.
Si tenga presente che la disciplina delle clausole vessatorie va estesa alla totalità dei negozi fra vivi a contenuto patrimoniale stante la ratio di garantire il consumatore dalla unilaterale predisposizione ed imposizione del contenuto negoziale. Secondo la Suprema Corte, detta disciplina si applicherebbe, quindi, non soltanto ai contratti perfezionati, ma a tutti i negozi preparatori già vincolanti per il consumatore aderente -tra cui la proposta irrevocabile-, e anche laddove il consumatore risulti formalmente proponente (tra le ultime, Cass., 30.4.2012, n. 6639).
Nonostante la normativa operi un controllo contenutistico, essa non appare propriamente tesa a garantire un ‘giusto’ regolamento di interessi. Ne è conferma la disciplina sul sindacato di vessatorietà.
Un primo limite alla presunzione di vessatorietà risiede nella prova che le clausole siano state oggetto di trattativa individuale, cioè che le parti ne abbiano dibattuto: un assetto contrattuale squilibrato diventa legittimo purché il consumatore lo abbia 'concordato' con il professionista.
Più precisamente, le 'clausole grigie' non sono sempre vessatorie, gravando sul professionista l’onere di dimostrare che le stesse sono state oggetto di uno specifico ed effettivo negoziato, dotato dei caratteri di individualità, da intendersi in senso oggettivo, ossia con riferimento alle clausole singolarmente intese e nel complessivo tenore dell’accordo (Scarano, L., Art. 1469 ter, co. 4, c.c., in Alpa, G. – Patti, S., a cura di, Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, cit., 1997), oltre che di effettività e serietà (per orientamento consolidato a partire da Cass., ord., 26.9.2008, n. 24262; non sarebbe, invece, sufficiente la prova della negoziazione parziale, cfr. Cass., ord., 20.8.2010, n. 18785).
Si consideri che, sebbene la norma sull’onere a carico del professionista riguardi l’impiego di moduli o formulari, la ratio ne impone l’estensione ad ogni contratto che ricada nell’ambito di cui agli artt. 33 e ss. (ex multis Cass., ord., 28.8.2010, n. 18785).
Si tenga presente però che l’aver semplicemente discusso il significato di una clausola non esclude che il consumatore possa trovarsi in una situazione di debolezza e che in concreto sarebbe facile per il professionista ottenere dal consumatore attestazioni, anche fittizie, sull’avvenuto negoziato. Si tratta, in definitiva, di un regime fondato su basi incerte perché, da una parte, indica l’interesse presidiato, dall’altra, salvaguarda l’autonomia privata.
Il secondo limite al sindacato di vessatorietà sta nel fatto che non rileva l’eventuale sproporzione economica delle prestazioni, ma solo lo squilibrio giuridico delle rispettive posizioni contrattuali. Fermo restando che la vessatorietà della clausola va valutata tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e delle circostanze in cui esso è stato concluso, l’art. 34 c. cons. precisa, infatti, che essa non attiene all’oggetto del contratto, e, quindi, alla determinazione del corrispettivo (art. 34, co. 2), purché essi siano individuati in modo «chiaro e comprensibile», al fine di garantire al consumatore la piena consapevolezza delle regole contrattuali.
A tal proposito si noti che l’art. 35, co. 2, c. cons., detta una regola ermeneutica identica a quella dell’art. 1370 c.c., ossia la prevalenza, in caso di dubbio, dell’interpretazione più favorevole al consumatore: se, però, l’oggetto o il corrispettivo rimangono comunque oscuri, il contratto dovrà ritenersi nullo in ragione dell’incertezza sull’intenzione delle parti che rende il contratto inidoneo a funzionare.
Il sindacato di vessatorietà non può, quindi, riguardare la misura dello scambio, cuore dell’insindacabile autonomia contrattuale: il «significativo squilibrio» va inteso in senso normativo, riferito ai diritti e agli obblighi derivanti dal contratto, esclusa ogni valutazione sulla convenienza economica dell’affare e sul rapporto tra le due prestazioni.
Alcune aperture sembrano però provenire dall’ordinamento europeo: da un lato, la Corte di Giustizia ha precisato che la nozione di «significativo squilibrio» deve essere valutata tramite un’analisi delle disposizioni nazionali applicabili in mancanza di accordo, onde valutare la posizione del consumatore (C. giust., 14.3.2013, C-415/11), dall’altro, la dir. 2011/83/UE, recepita con d.lgs. 21.2.2014, n. 21 (che modifica gli artt. 45-67 c. cons.), sembra dar spazio ad interventi più incisivi estesi anche al profilo economico dello scambio e all’adeguatezza del prezzo.
A prescindere dalle scelte dei legislatori nazionali, la direttiva prevede che la clausola ritenuta vessatoria sia estromessa dal regolamento contrattuale.
L’art. 36 c. cons., sulla scia di recenti tendenze volte a modellare i rimedi negoziali sulle caratteristiche della fattispecie e le esigenze di tutela, ha introdotto l’esplicita menzione della sanzione della «nullità», configurandone però un’ipotesi peculiare, cd. di protezione, modellata in funzione dello scopo protettivo del contraente debole.
Il legislatore avrebbe così posto fine al dibattito che era insorto, vigente l’art. 1469 quinquies c.c., circa la conseguenza della vessatorietà, indicata originariamente come «inefficacia».
In generale la nullità di protezione tutela interessi particolari, ascrivibili a gruppi qualificati di operatori economici, in posizione di debolezza contrattuale, non a caso è proprio nella tutela consumeristica che ha trovato sua prima emersione. Essa si caratterizza per essere rilevabile d’ufficio, ma altresì relativa, in quanto operante a solo a vantaggio del consumatore. I dubbi sulla compatibilità tra legittimazione relativa e potere officioso sono stati superati da recenti pronunce della Corte di giustizia, la quale ha precisato che il giudice, esaminata d’ufficio la natura della clausola, se la ritiene vessatoria, ne dichiara la nullità e, quindi, l’inapplicabilità, salvo che sia lo stesso consumatore ad opporvisi (C. giust., 27.6.2000, cause da 240/98 a 244/98, Océano; C. giust., 26.10.2006, causa C-168/05, Mostaza Claro; C. giust., 4.6.2009, causa 243/08, Pannon; si veda anche, da ultimo, Cass., 21.3.2014, n. 6784, e in dottrina per tutti Valle, L., La nullità delle clausole vessatorie: le pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea e il confronto con le altre nullità di protezione, in Contr. impr., 2011, 1378).
Si tratta inoltre di una nullità parziale, in quanto la clausola si considera non apposta e per il resto il contratto rimane efficace: anche la regola della conservazione opera solo in favore del consumatore, il quale potrebbe risentire un danno dalla caducazione del contratto; al contrario, il professionista non potrà sostenere ex art. 1419 c.c. l’essenzialità della clausola.
Si tenga presente che la Corte di giustizia, pur precisando che il giudice non può integrare il contratto modellando il contenuto della clausola abusiva, ha stabilito che, pronunciata la nullità, possa colmare la lacuna applicando una «disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva» (C. giust., 30.4.2014, C-26/12).
Si segnala, infine, che è nulla la clausola che, prevedendo l’applicazione di una normativa extracomunitaria, sottrae alla disciplina sulle clausole vessatorie un contratto che ha un più stretto collegamento con uno Stato membro dell’UE.
La disciplina contenuta nel Codice del consumo non supera del tutto la disciplina codicistica, mantenendo un ambito di applicazione differente.
Da un lato, infatti, l’elenco dell’art. 33 c. cons. è dichiaratamente esemplificativo, mentre quello dell’art. 1341, co. 2, c.c. è tassativo (per quanto se ne consenta una misurata interpretazione estensiva). La disciplina consumeristica è inoltre più ricca ed è lex specialis per tutti i contratti tra ‘professionista’ e ‘consumatore’, a prescindere dal tipo contrattuale, dalla natura della prestazione, dalle modalità di conclusione e, quindi, dalla predisposizione unilaterale o tramite moduli o formulari. Per altri versi ha, però, un ambito più ristretto, applicandosi solo ai contratti con il consumatore persona fisica.
Resta, quindi, uno spazio di applicazione alle condizioni generali vessatorie quando le stesse siano inserite in contratti in cui il consumatore è persona giuridica, oltre che nei contratti per adesione in cui anche l’aderente sia un professionista.
Fermo restando il carattere meramente formale della disciplina codicistica, non si esclude un possibile cumulo, laddove le due discipline siano compatibili (si veda anche il rinvio al codice civile di cui all’art. 38 c. cons.); non è un caso, perciò, che entrambe le figure siano tutelabili mediante l’azione collettiva ex art. 140 bis c. cons.
Sia pur limitatamente alle clausole vessatorie contenute in condizioni generali di contratto, è stata introdotta un’ulteriore tutela preventiva e collettiva in favore dei consumatori. Si tratta dell’azione inibitoria, possibile anche in via cautelare, cui sono legittimate le associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti, nonché le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura (art. 37 c. cons.) al fine di impedire l’uso di condizioni (anche solo predisposte e non ancora impiegate) di cui sia accertata, sia pure in astratto, la vessatorietà.
Essendo oggetto del giudizio lo schema contrattuale standard, saranno inapplicabili il criterio delle circostanze esistenti al momento della conclusione o la scriminante della trattativa individuale; si applicherà, invece, il riferimento alle altre condizioni generali di contratto.
Il provvedimento inibitorio (così come la pronuncia di rigetto) non vincola il giudice chiamato a vagliare in concreto la vessatorietà della clausola e la responsabilità del professionista; allo stesso modo l’inibitoria non preclude l’impiego delle stesse clausole da altro professionista.
Il giudice può altresì ordinare la pubblicazione del provvedimento, previsione (così come quella ex art. 37 bis) finalizzata a rendere effettiva la tutela e a disincentivare l’adozione di clausole abusive, tramite il discredito che la diffusione della notizia comporta nell’ambiente commerciale.
Si ricordano poi altri strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie ed in particolare la procedura di conciliazione che le associazioni di consumatori possono attivare dinanzi organismi di composizione delle liti per ottenere i provvedimenti inibitori di cui all’art. 140 c. cons. e gli altri strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie introdotti, negli artt. 141 ss. c. cons. dal d.lgs. n. 130/2015.
Per ovviare allo scarso impiego del rimedio inibitorio, il sistema si è altresì arricchito di una tutela preventiva e generalizzata di tipo amministrativo, nell’ottica del sempre più stretto legame tra tutela della concorrenza e tutela del consumatore.
Il d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito in l. 24.3.2012, n. 27, ha introdotto l’art. 37 bis c. cons., ai sensi del quale all’Autorità garante della concorrenza del mercato può dichiarare, d’ufficio o su denuncia anche di un singolo consumatore o su richiesta della stessa impresa che intende utilizzarle (cd. interpello preventivo), con efficacia erga omnes, la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori che si concludono mediante adesione a condizioni generali di contratto o con la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari.
Tale provvedimento potrà essere emesso solo una volta ‘sentite’ le associazioni di categoria, rappresentative a livello nazionale, e le camere di commercio o loro unioni.
Il provvedimento dell’Autorità che accerta la vessatorietà, adeguatamente pubblicizzato anche sul sito del professionista, attiene, ovviamente, ad un controllo generalizzato, estraneo al concreto singolo rapporto contrattuale su cui non incide. Non comporta la caducazione delle clausole né il divieto dell’uso delle stesse, rimanendo salva la giurisdizione del giudice ordinario per valutare l’effettivo squilibrio contrattuale e decidere sull’eventuale risarcimento (allo stesso modo la dichiarazione di non vessatorietà di per sé non esclude la responsabilità del professionista laddove si accerti l’abuso nel singolo contratto).
Siffatta valutazione ha, quindi, un’efficacia squisitamente dissuasiva nei confronti del proponente, nonché divulgativa ed informativa nei riguardi della generalità dei consumatori (Rossi Carleo, L., La tutela amministrativa contro le clausole vessatorie, in Obbl. contr., 2012, 493).
Viene inoltre previsto un preciso riparto di giurisdizione: contro i provvedimenti dell’Autorità (che agisce a tutela di un interesse pubblico) si dovrà ricorrere al giudice amministrativo, mentre per la declaratoria di nullità della clausola vessatoria o il risarcimento del danno occorrerà adire il giudice ordinario (venendo, peraltro, in gioco diritti soggettivi).
Si noti che, rispetto alla competenza riferita alle pratiche commerciali scorrette, il rimedio in questione non appare superfluo ma complementare, operando i due istituti su piani differenti: una volta accertata, su un piano statico, la vessatorietà della clausola, in caso di utilizzo del modello, in prospettiva dinamica, l’Autorità potrà sanzionarne la circolazione, configurabile come pratica commerciale scorretta.
Artt. 1341-1342 c.c.; d.lgs. 6.9.2005, n. 206, artt. 33 ss.
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