CLAVICEMBALO (fr. clavecin; sp. clavicémbalo; ted. Klavizymbel; ingl. harpsichord)
L'adozione di monocordi a più corde (nonostante il controsenso, il nome per qualche tempo rimase) nella pratica musicale del Medioevo generò notevoli varietà di strumenti a pizzico o a plettro, a taluno dei quali, con l'andare del tempo, fu applicata la tastiera. Quando questo avvenisse è difficile precisare: probabilmente tra il secolo XIV e il XV (v. tastiera). La confusa e imprecisa nomenclatura degli strumenti primitivi, le scarse conoscenze che abbiamo sulla loro struttura e sulle loro particolarità, spiegano in grande parte il dissenso delle opinioni degli organologi nel determinare da quale strumento abbiano avuto origine gli strumenti a tastiera e a becco di penna dei quali il tipo più importante è, con la spinetta, il clavicembalo. Conviene innanzi tutto notare come alcuni nomi che designavano strumenti dapprima trattati a pizzico o col plettro, siano rimasti inalterati quando a questi strumenti venne applicata la tastiera. Tale è precisamente il salterio, dal quale probabilmente derivò il clavicembalo, così come dal monocordo era derivato il clavicordo.
Solo che dal salterio si passò alla spinetta e al clavicembalo - a quanto pare - non direttamente, ma attraverso alcune varietà quali il dulcimello e lo scacchiere d'Inghilterra, ai quali era applicata la tastiera.
Raffigurazioni del salterio - quale strumento a pizzico o a plettro - sono molto frequenti nelle miniature e nelle pitture del Due e Trecento. Esso ci si presenta in forma di piccolo trapezio munito di corde digradanti toccate con le dita o con ditali uncinati. Questa forma trapezoidale rimase intatta quando gli fu applicata la tastiera e fu conservata anche negli strumenti a becco di penna. Quanto al dulcimello e allo scacchiere, le descrizioni e i disegni rimastici sono alquanto imprecisi, ma sufficienti a far ritenere che essi fossero in sostanza strumenti analoghi al salterio e muniti di tastiera. Così un documento del sec. XIV definisce grosso modo lo scacchiere come "un organo che suona ab cordis".
Il clavicembalo vero e proprio, detto anche gravicembalo, varia nelle forme esteriori della cassa per il fatto che mentre la spinetta assume l'aspetto di un pentagono irregolare allungato, nel cui mezzo s'avanza la tastiera, il clavicembalo prende le forme una cassa entro cui si adagi perfettamente un'arpa; onde il nome di arpicordo che spesso lo designava.
L'elemento attivo degli strumenti a becco di penna è costituito dal "saltarello", piccolo bastoncello biforcato, collocato nella estremità interna del tasto che, quando il tasto è premuto, scatta e va ad urtare la corda sovrastante mettendola in vibrazione. Per compiere questo ufficio il saltarello porta nel mezzo della biforcazione una penna di corvo (o anche posteriormente un pezzetto di cuoio o di metallo flessibile) che funge da plettro. Non appena la corda viene urtata, il saltarello ricade e, a mezzo di un semplice congegno a molla, la penna si ritrae e ritorna nella sua posizione normale. Un piccolo feltro attaccato su ognuna delle biforcazioni agisce da smorzatore impedendo il prolungarsi della vibrazione della corda toccata. Tutti i saltarelli sono posti sotto un regolo nel quale sono praticati altrettanti buchi dai quali essi già elevano ogni volta che vengano messi in azione.
Le corde, varie di lunghezza, di numero, di spessore e di materia, semplici o aggruppate, erano tese sopra una tavola armonica fatta di legno resinoso, con in mezzo un'apertura detta "rosa", finemente intagliata e sovente intarsiata con avorio o con prezioso metallo.
La tastiera (che dapprima era unica e poi divenne doppia e tripla) comprendeva ordinariamente circa quarantanove tasti per i clavicembali di grande formato e trentuno per quelli di piccolo formato. Non tutte le ottave erano uguali; la più bassa era irregolare e procedeva per intervalli di sesta come negli organi. Ma nel sec. XVIII, quando i clavicembali avevano doppia tastiera, si usò integrare l'ottava grave incompleta, collocando in una delle tastiere le note mancanti. Anche nei più antichi clavicembali il colore dei tasti diatonici variava da quello dei cromatici: neri gli uni e gialli gli altri o viceversa.
Strettamente connessa alla tastiera era la risoluzione pratica del temperamento in ossequio alle teorie acustiche che distinguevano il semitono diatonico da quello cromatico. Nel Cinquecento e altre furono fatte varie applicazioni in ossequio a tale principio. Un clavicembalo di Domenico da Pesaro in data del 1548 - secondo quanto narra lo Zarlino - aveva divise tanto le seconde maggiori quanto quelle minori; è noto che l'abate Nicola Vicentino fece costruire a Venezia un archicembalo in cui ogni tono era diviso in cinque parti; ma l'esempio più ragguardevole per tale riguardo rimane nel clavemusicum omnitonum modulis diatonicis cromaticis enharmonicis di Alessandro Trasuntino nel quale si contano ben centoventiquattro saltarelli. Questi tentativi, 1iecessariamente impratici, ebbero termine con l'adozione del temperamento uguale.
La meccanica del clavicembalo, basata sul gioco dei saltarelli, non consentiva che il suonatore potesse a suo agio regolare la sonorità dello strumento come avveniva nel clavicordo, cioè col tocco. La pressione delle dita sul tasto doveva essere sempre in grado di vincere la resistenza opposta dalla corda tesa all'urto della penna del saltarello stesso onde si potesse effettuare la vibrazione. Ora, come nell'organo l'intensità fonica è il risultato della contemporanea immissione dell'aria in un numero maggiore o minore di tubi unisoni o consonanti, così si pensò che in un analogo modo si sarebbe potuto ottenere una graduazione di sonorità nel clavicembalo facendo in modo che il saltarello potesse azionare più corde. Si escogitarouo pertanto i mezzi più acconci per trarre effetti dal doppio ordine di corde e dalle doppie tastiere e, come nell'organo, si applicarono i "registri". Il congegno che regolava questi registri consisteva in un movimento di leve che obbedivano alla volontà dell'esecutore in modo che le corde potessero essere variamente toccate dai saltarelli. Così non solo fu possibile graduare il suono, ma anche modificare il timbro. Si ebbero due specie di registri: registri di sonorità e registri di colore. L'arte dei cembalari si sbizzarrì nelle più ingegnose trovate per ottenere sullo strumento sempre nuovi effetti. E fra essi si distinsero i Ruckers nel Seicento e Pasquale Taskin nel Settecento.
I registri di sonorità erano destinati a regolare la dinamica dello strumento sia diminuendo, sia accrescendo, progressivamente o immediatamente, l'intensità. Di questo genere erano il registro di unisono, che riuniva le due tastiere, e quello dell'ottava, nel quale ultimo a due corde unisone si aggiungeva una terza corda all'ottava inferiore o superiore.
Registro di sonorità deve pure considerarsi la "finestra veneziana" che si trovava già negli organi e che fu applicata nei cembali dal londinese Burkart Tschudi nel 1769. Questo registro consisteva in una specie di persiana, incastrata nella cassa dello strumento, che a volontà dell'esecutore si apriva e si chiudeva.
Molto più interessanti e importanti erano i registri di colore che avevano l'intento di modificare il timbro del clavicembalo imitando su di esso la voce di altri strumenti analoghi o no. Il Mersenne dice che al suo tempo (sec. XVII) si costruivano clavicembali con sette od otto registri che unendosi ed alternandosi davano un grande numero di combinazioni. Questi registri prendevano nome dallo strumento che imitavano: arpa, liuto, tiorba, mandolino, e anche flauto, fagotto, ecc. Tali imitazioni, più o meno felici, si ottenevano o col far toccare la corda dalla penna vicino al "ponte", oppure nel punto più lontano, col modificare la sonorità della corda a mezzo di feltri o di strisce di cuoio, ecc. L'alternare registri di liuto e di arpa con i registri di sonorità delle due tastiere era, ad esempio, uno dei più piacevoli e consueti effetti nelle esecuzioni cembalistiche. Fra i registri che apportarono un sensibile miglioramento nella sonorità del clavicembalo si deve annoverare il registro peau de buffle dovuto al Taskin. Questi nel 1768, allo scopo di ottenere un più delicato suono, sostituì alle penne di corvo innestate nei saltarelli, dei pezzetti di cuoio. Questa innovazione - come è stato già da altri osservato - non importava un accrescimento di sonorità, ma un "pizzicato" più dolce e d'intonazione più precisa.
Per azionare questi registri, rispondenti ad altrettanti congegni che si trovavano nell'interno dello strumento, furono dapprima usati dei tiranti manuali collocati nella parete esterna prospiciente la tastiera o nell'estremità di essa. Si comprende però come il suonatore dovesse interrompere molte volte l'esecuzione per fare agire i registri e ciò riusciva incomodo. Ai tiranti manuali si sostituirono quindi delle ginocchiere e infine dei pedali. Uno dei primi pedali applicati al clavicembalo fu inventato dall'italiano Pietro Prosperi per ottenere la "sordina". La ginocchiera serviva soprattutto per ottenere effetti di "crescendo". Il gioco dei pedali e delle ginocchiere si combinava da principio con quello dei tiranti manuali fino a che poi questi vennero col tempo del tutto soppressi, mentre aumentarono notevolmente i pedali. Il clavicembalo, che nel Cinquecento e nei primi del secolo seguente aveva la forma di cassetta portatile ed era di proporzioni moderate, s'ingrandì per l'ampliarsi del numero dei tasti e si munì di proprî sostegni fissi. Esistono ancora nei musei e nelle collezioni private clavicembali, che, oltre all'interesse che destano nel musicista, hanno un grande valore per la bellezza delle linee, per la ricchezza degl'intarsî, per la finezza delle pitture con le quali spesso venivano ornati i coperchi. Grandi maestri del pennello non disdegnarono di dipingere veri quadri (per lo più scene campestri, pastorali o allegoriche) sulle casse e sui coperchi dei clavicembali.
L'arte di costruire strumenti a tasto e a becco di penna fu fiorentissima in varî paesi d'Europa dal sec. XVI al XVIII, nel periodo, cioè, nel quale il clavicembalo ebbe parte cosi importante nella pratica e nella vita musicale, sia come strumento da concerto e solista gia come realizzatore del basso continuo nell'accompagnare altri strumenti o la voce umana.
L'Italia ebbe sin dal Cinquecento cembalari abilissimi, a cominciare da Girolamo da Bologna e da Domenico da Pesaro, da Vincenzo da Prato, dal Portalupi, dallo Zenti, per finire col Baffo e con lo stesso Bartolomeo Cristofori. Con ogni verisimiglianza furono italiani quelli che per primi costruirono cembali. Delle altre nazioni abbiamo già ricordato i Ruckers di Anversa (il più celebre dei quali fu Hans R.); ad essi aggiungiamo il Haghens, il Heinemann, il Bull, il Couchet; in Francia ebbero chiara rinomanza il Blanchet e il Richard, in Germania i due Hass e l'Oesterlein, in Inghilterra il già menzionato Tschudi e il Broadwood.
Bibl.: O. Bie, Das Clavier, Monaco 1901; L. De Burbure, Recherches sur les facteurs de clavecins et les luthiers d'Anvers depuis le XVIe jusqu'au XIXe siècle, Bruxelles 1863; A. J. Hipkins, The history of the pianoforte, Londra 1883; id., id., A description and history of the pianoforte, Londra 1896; A. Marmontel, Histoire du piano et de ses origines, Parigi 1885; O. Paul, Gechichte des Claviers, Lipsia 1868; C. Ponsicchi, Il pianoforte, sua origine e sviluppo, Firenze 1876; E. F. Rimbault, The pianoforte, its origin, progress and construction, Londra 1860; J. A. Wiernsberger, Le piano et ses prédécesseurs, Parigi 1916.