GRILLO, Clelia (del)
Nacque a Genova nel 1684 (entro il luglio: alla morte, nell'agosto 1777, aveva già compiuto i 93 anni), in una famiglia patrizia illustre e doviziosa, da Marcantonio, duca di Mondragone e marchese di Clarafuente, e da Maria Antonia dei marchesi Imperiali.
Ebbe numerosi fratelli e sorelle, le cui vicende sarebbe interessante seguire, anche perché ben rappresentano le tradizioni filospagnole della famiglia che tanto pesarono sulle scelte di vita della Grillo. Dei due fratelli, Agapito e Carlo, il secondo fu generale di Filippo V e cavaliere del Toson d'oro, mentre le femmine furono tutte convenientemente accasate: Livia con Andrea Doria duca di Tursi, Nicoletta con Alberico (III) Cibo Malaspina duca di Massa, Anna Ginevra con un marchese Loffredi di Trevico, Teresa col principe Camillo Pamphili. L'ultima tenne a Roma un rinomato salotto letterario, che potrebbe essere indizio di un'educazione accurata comune alle sorelle: purtroppo, infatti, della G. si sa solo che ricevette la sua formazione presso il monastero della Misericordia; è dunque difficile ipotizzare da dove traesse la cultura, anche scientifica, che le si attribuiva già a vent'anni.
Le vicende che portarono la G. sposa a Milano sono complesse: il conte milanese M.A. Visconti, parente dei Grillo, aveva iniziato fin dal 1705 non facili trattative per il suo matrimonio col conte Giovanni Benedetto Borromeo Arese, appartenente alla nota famiglia lombarda e uno dei Sessanta decurioni di Milano. Nell'archivio Borromeo sono conservate due lettere d'informazioni sulla candidata sposa: una, non firmata, la definisce "Oracolo, per lo grande spirito di cui è dotata, e particolarmente per la pronta facondia infiorata di motti argutissimi"; l'altra, del predicatore gesuita A. Visetti, allora a Genova, informa che "vive in educazione nel monastero della Misericordia, è in età di vent'anni, avvenente più di ogni altra delle sorelle". La proposta di nozze fu però vivacemente contrastata dal padre del promesso sposo, il conte Carlo, che - cavaliere del Toson d'oro, grande di Spagna di I classe di nomina asburgica e futuro viceré di Napoli (madre dello sposo era la defunta prima moglie di Carlo, Giovanna Odescalchi, nipote di Innocenzo XI) - si mostrò diffidentissimo sui Grillo, soprattutto per le informazioni raccolte sulle sorelle della candidata, alcune delle quali, entrate in famiglie devote a Vienna, "vi avevano portato lo scompiglio": specialmente Nicoletta duchessa di Massa, "altera e stravagante", che aveva coronato anni di dissidi con una romanzesca fuga. Solo le insistenze del Visconti (che poi lasciò erede del suo pingue patrimonio lo sposo Borromeo, quasi a titolo di risarcimento) e, soprattutto, l'intervento del principe Eugenio di Savoia, allora governatore di Milano, sbloccarono la situazione. Il matrimonio fu celebrato dal prevosto di S. Maria Podone, chiesa gentilizia dei Borromeo, a Badile, nell'oratorio del Pilastrello, l'8 marzo 1707; la dote, di 30.000 scudi, venne concordata il 22 successivo con atto rogato dal notaio milanese G.P. De Notaris.
Con simili premesse, i rapporti familiari non si presentavano certo facili. A Milano la G. manifestò ben presto una fortissima personalità che, se riuscì a imporsi sul debole marito, si scontrò con quella non meno forte del suocero in termini a volte vivaci, per contrasti non solo politici (il Borromeo era accesissimo sostenitore della casa d'Austria), ma anche relativi alle convenzioni sociali, per lui regolate da una ferrea tradizione e da massime austere, per lei fonte d'irritazione e occasione di caparbie trasgressioni (per esempio, riceveva amici anche a notte inoltrata). Le tensioni si accentuarono dopo la nascita dei figli, per dissensi sulla loro educazione.
Esiste in archivio Borromeo una memoria del conte Carlo, che deplora che la G. tenga "conversazione nel suo quarto, alla quale admette forestieri non conosciuti, ministri sospetti, e altri difidenti dell'Augustissima Casa d'Austria". È forse questo un primo accenno, fatto con occhio ostile, alla nascita a palazzo Borromeo del centro di cultura che fu il salotto della G., conosciuto come "Academia Cloelia Vigilantium", che, anche se non corrispose mai interamente ai connotati formali di un'accademia, ne esercitò tuttavia in modo egregio e abbastanza originale le funzioni e ne ebbe le apparenze.
Vi fu, a stretto rigore, anche uno statuto, stilato verso il 1719 dall'illustre naturalista e biologo Antonio Vallisnieri, professore di medicina nell'Università di Padova e grande amico della G., della quale, appunto, nel 1719 fu ospite per diversi mesi insieme con il somasco G. Crivelli. Esso è costituito di 12 articoli in latino (riportati per intero dal Maylender, p. 22), che rivelano la volontà di prendere le distanze dalle mille accademie d'ispirazione arcadica esistenti in Italia (sebbene la G. fosse arcade, col nome di Aspasia Tentidia): vi è stabilito che oggetto dell'istituzione sono le scienze sperimentali e le arti liberali (matematica, fisica, astronomia, medicina, anatomia ecc.); fa eccezione la storia, intesa però in senso antiquario e filologico, come studio critico di dati archeologici e testuali. Furono ammesse tutte le lingue, compreso l'arabo (l'italiano fu però privilegiato) e fu prevista l'ammissione di accademici non solo europei, ma americani, asiatici e africani (art. X); "exilio arcebitur Poesis omnis italica seu latina, admisso unico studio inscriptionum, lapidum, nummorum, iconum etc." (art. V); sono invece auspicate ricerche su animali e piante rare, per le quali viene raccomandato agli accademici di viaggiare. La Cloelia Vigilantium, che ebbe per emblema un grillo (dallo stemma della G.) e per motto "Diuque noctuque", ebbe un ruolo nella diffusione delle teorie newtoniane in Italia. La stessa G. tenne lezioni di matematica e fisica, ma la totale mancanza di pubblicazioni, la distruzione dei suoi manoscritti durante l'ultima guerra e la scomparsa della sua estesa e qualificata corrispondenza obbligano ad affidarsi ai giudizi quasi unanimi dei contemporanei, italiani e stranieri, che affollarono il suo salotto. Se certo è che, comunque la si giudichi, la G. fu un'intelligente e vivace animatrice culturale, questi le attribuirono cognizioni linguistiche e matematiche eccezionali, che la misero suo malgrado in competizione con la più popolare e assai più giovane Maria Gaetana Agnesi. Quanto alle lingue, si diceva che conoscesse "il toscano, il latino, il greco, il francese, lo spagnolo, il tedesco e l'inglese, e alcune orientali ancora, in gran parte possedute sino alla più fine eleganza". Per la matematica poi basterebbero le espressioni del famoso camaldolese G. Grandi, il matematico in rapporto con Newton e professore nell'Università di Pisa, che, nella dedica a lei dei Flores geometrici ex Rhodonearum, et Cloeliarum curvarum… (Firenze 1728), espresse grandissima ammirazione per la sua cultura matematica e dette il nome di "clelie" a particolari curve tracciate su una superficie sferica, da lui studiate. Oltre ai già citati, furono membri stabili dell'accademia i gesuiti T. Ceva, G. Saccheri e, più tardi, G.C. Brusati; il Crivelli, matematico e fisico di fama; il conte A.G. Della Torre di Rezzonico, studioso di Plinio, A. Volta e G.A. Sassi, prefetto della Biblioteca Ambrosiana (il Grandi fu prevalentemente un socio corrispondente). Fra i visitatori stranieri spiccano Montesquieu, che conobbe la G. nel 1728 (trovandola incantevole le si offrì scherzosamente come cavalier servente), e che descrisse nella sua matronale bellezza ("intenta a vezzeggiare con un lupo cerviero"), nonché Ch. de Brosses che, nelle Lettres familières écrites d'Italie (lett. VIII, del 16 luglio 1739), scrisse non senza ironia: "La contessa Clelia Borromeo, la quale non soltanto conosce tutte le scienze e le lingue d'Europa, ma parla arabo come il Corano, ci invitò a casa sua e poi nella sua residenza di campagna, dove si stava trasferendo. Glielo promettemmo subito, e con la stessa facilità mancammo di parola. Stasera andrà peggio: dobbiamo avere una riunione con la Signora Agnesi".
Se sul piano teoretico l'accademia si era allineata ai principî di fondo della cultura gesuitica, in direzione di una sintesi tra tradizione e modernità, in politica fu sostanzialmente su posizioni antiaustriache; forse per questo ebbe vita breve, silenziosamente soffocata dalle autorità, insospettite "dalla celebrità e dall'influenza che erasi acquistata la contessa" (Cusani, p. 62). Bisogna però riconoscere che la G. si comportava talvolta in modo bizzarro e stravagante, che certi ambienti milanesi considerarono scandaloso: lo stesso Vallisnieri (lettera del 2 genn. 1719 al prefetto della Biblioteca Ambrosiana: ivi conservata, Mss., 208.Z.sup) narrò che a Padova, quando ancora non la conosceva, nel cuor della notte una carrozza si era arrestata davanti alla sua porta e un lacché con fiaccola aveva chiesto di lui; una volta sceso si era trovato dinnanzi la G., che tranquillamente gli aveva detto "non voglio altro che conoscere il Vallisnieri di vista, giacché l'ho conosciuto nelle sue opere, che ho letto tutte", ed era ripartita. Nel giugno 1722, passando in carrozza al tramonto per i bastioni di porta Tosa, dove la moglie del governatore Gerolamo di Colloredo stava passeggiando con il suo seguito, mentre il cocchiere accennava a fermarsi per ossequio la G. gli ordinò a voce alta di proseguire. Tutta Milano lo seppe e il povero conte Borromeo dovette recarsi dal Colloredo per profondersi in scuse. Una crisi con gravi conseguenze si aprì quando si trattò del matrimonio del suo primogenito Renato (1710-78), i.r. ciambellano e decurione, con Marianna Odescalchi; i capitoli nuziali erano già stati stipulati, con il suo consenso, quando ella cambiò repentinamente idea. Si volle ugualmente portare avanti la cosa ma ella assunse posizioni rigidissime, finché Maria Teresa d'Asburgo, duchessa di Milano, alla quale lo sposo era ricorso, intervenne personalmente (dispaccio del 9 sett. 1743) ordinando al governatore J.G. von Lobkowitz di deferirla al Senato se non si fosse piegata. Le fu giocoforza obbedire, ma accumulò per la sovrana un rancore che trovò facile esca nelle sue antiche convinzioni antiaustriache. L'anno seguente, morto il marito e in rotta col figlio primogenito, lasciò palazzo Borromeo per ritirarsi in una vecchia residenza della famiglia in via Rugabella, avendo ottenuto (decreto senatorio 3 ott. 1744) un lauto assegno mensile. Nella nuova casa ammise solo pochi amici e si ridusse a una vita più semplice. Nella guerra di successione austriaca vide un'occasione di rivincita e partecipò con ardore a un abbozzo di cospirazione filospagnola, facente capo al conte F. Melzi. Quando, nelle alterne vicende belliche, nel 1745 don Filippo di Borbone presidiò Milano, si espose imprudentemente insieme con il vecchio amico A.G. Della Torre di Rezzonico e con molti altri; nel marzo 1746, allorché la breve occupazione spagnola cessò e gli Imperiali rioccuparono la città, i congiurati furono imputati di delitti gravissimi (ribellione e lesa maestà).
La G. cercò rifugio nello Stato veneto, a Bergamo, mentre il Melzi fuggì a Brescia, il Rezzonico a Roma e il conte G.A. Biancani (il più compromesso) seguì l'infante don Filippo in ritirata. Per tutti fu decretato il sequestro dei beni e l'esilio. Il Biancani pagò il prezzo più alto: catturato a tradimento in territorio veneziano, fu decapitato il 26 nov. 1746: l'esecuzione seminò il terrore fra gli altri fuggiaschi. La G. aveva avuto l'astuzia di "menar seco tutta la sua servitù" in modo che non fosse possibile inquisire sulle frequentazioni cospiratorie in casa sua; ebbe inoltre la fortuna che il comandante generale di Maria Teresa a Milano fosse il genovese G.L. Pallavicini, suo concittadino, che le dimostrò benevolenza nei limiti del possibile, permettendo che la figlia Giulia maritata Archinto, da lei nominata sua procuratrice, le inviasse soccorsi in danaro nonostante i severi divieti.
La ribellione di Genova contro gli Austriaci inasprì ulteriormente Maria Teresa, che con rescritto del 24 giugno 1747 minacciò di trasformare il sequestro dei beni in confisca se ella non si fosse consegnata immediatamente in territorio austriaco, a Gorizia, "per cercare di cancellare le sinistre impressioni che si erano formate per la sua precedente condotta" (Cusani, p. 148). La G. fittò un'abitazione a Gorizia, ma capitolare le ripugnava talmente che, pur partendo da Bergamo, dopo soste a Palazzolo e Lonato si fermò a Padova, dove inscenò una finta (o molto esagerata) serie di malattie, tempestando il nuovo governatore, conte F.B. Harrach, di certificati medici in forma notarile (alcuni persino di G.B. Morgagni). Lo Harrach le credette, ma non l'imperatrice, che con dispaccio del 20 genn. 1748 ordinò di pubblicare in tutto lo Stato una "grida" di confisca contro di lei e il bando dagli Stati imperiali per chiunque intrattenesse rapporti con lei. Ridotta quasi in miseria la G. resistette ancora un anno, ma infine dovette cedere; il 9 luglio 1749 giunse a Gorizia. Avendola domata, in considerazione delle parentele, del rango e della mancanza di vere prove contro di lei (ma anche in esecuzione di alcune clausole del trattato di Aquisgrana) Maria Teresa revocò i provvedimenti a suo carico, con i.r. dispaccio dato a Vienna il 30 agosto seguente. La G., tuttavia, non rientrò subito a Milano ma trascorse qualche tempo a Venezia, da dove intentò lite giudiziaria al figlio Renato per la restituzione di 104.000 lire, rappresentanti i crediti maturati in quegli anni sulle sue pensioni vedovili. L'arrivo a Milano fu un vero trionfo: fu accolta alle porte della città dal popolo festante (con una venatura di fronda al governo); gli amici fecero coniare all'estero una medaglia commemorativa recante da un lato la sua effigie, dall'altro Minerva che stringe la mano a Genova, con impresso il motto "Gloria Genuensium" (già il Sassi l'aveva esaltata come "Fenice dell'Insubria" ed "esimio decoro d'Italia"; il Grandi come "ornamento singolare del gentil sesso e del secolo"). Rientrò nel palazzo di via Rugabella, ma i rapporti col primogenito rimasero tesi, e invano amici e parenti tentarono di riavvicinarli: esiste nella Biblioteca Ambrosiana (Mss., 213.Z.sup) una lettera di un altro figlio, mons. Vitaliano (nunzio a Firenze e a Vienna, e dal 1776 cardinale), inviata da Roma al Sassi il 2 apr. 1745, in cui lo supplica di interporre i suoi buoni uffici per una riconciliazione. Invano. Passata la tempesta la G. riprese gli studi e riaprì il salotto, sia pure in tono minore (G.C. Passeroni, Il Cicerone, Milano 1755, c. IX, la ritrae ormai matura nella sua austera bellezza, simile a "l'alme matrone dell'antica Roma").
Fra i visitatori di quel tempo vanno ricordati lo storico Giorgio Giulini, che, pur legato alla corte, le testimoniò pubblicamente amicizia, e il gesuita F.S. Quadrio, grande amico suo e futuro amico di Voltaire, per il quale ella si espose nel tentativo di ottenerne la secolarizzazione (in proposito sembra che Benedetto XIV commentasse: "Quella benedetta Borromea coi suoi consigli attraversati l'ha reso mezzo matto"). La G. aveva nel suo palazzo un piccolo teatro nel quale faceva rappresentare commedie e melodrammi, privilegiando possibilmente gli autori contemporanei: nel 1760 vi fu rappresentata L'invidia debellata di G. Ghelfi, il segretario di Pietro Verri. Com'era moda, ella ebbe anche il gusto del gioco d'azzardo, non sdegnando bassetta e faraone; nell'archivio Borromeo si è rinvenuto un suo ordine di pagare una grossa somma a G. Borgazzi, "tenitore del banco della bassetta".
Nel 1760 fu in punto di morte per una grave malattia; guarì (sempre presso l'archivio Borromeo è conservato un opuscolo di Poesie per la recuperata salute della contessa Clelia Grilla Borromeo-Arese de li compagni dilettanti di sceniche rappresentazioni nell'eccellentissima sua casa, Milano 1760), ma non si riprese mai completamente, mentre le morti di quasi tutti i vecchi amici (anche un altro figlio, Francesco, colonnello di fanteria, scomparve nel 1775) la ridussero in tale isolamento che "a Milano i più ignoravano che fosse ancora viva" (Giulini, Contributi…, p. 392). Il Cusani (p. 187) afferma che, resa ancor più bizzarra dalle sventure, "compiacevasi di avere vicino a se soltanto persone volgari", il che trova conferma in una lettera di P. Verri al fratello Alessandro (Archivio Verri, Carteggi, n. 967, 29 ag. 1777) che commenta la scomparsa della G.: "ella diceva chiaramente che non amava mai trovarsi con persona che avesse superiorità alcuna sopra di lei. Anzi si potrebbe dire che amava sommamente le persone che avessero la massima inferiorità"; questo però suona ingiusto, se si ricordano i nomi di tanti suoi illustri amici di un tempo.
La G. morì a Milano la notte del 23 ag. 1777 e fu sepolta nella collegiata di S. Maria Podone.
Solo nel 1920 un lontano discendente, il principe Giberto Borromeo Arese, vi fece murare una lapide che ricorda come "le agitazioni e le ansie della politica conobbe e fieramente sofferse". Aveva comunque riportato trionfi mondani, come nel giugno 1708, quando aveva ricevuto all'Isola Bella con fasto veramente regale Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel, che andava in sposa a Barcellona al re di Spagna Carlo III d'Asburgo (futuro imperatore Carlo VI), la quale fu poi madre di Maria Teresa. Tanti anni di attività scientifica e di passione civile (molte volte dichiarò il suo amore per l'Italia, intesa come fatto culturale) fanno di lei un personaggio davvero ragguardevole, anche se la cultura ufficiale ne ha finora quasi cancellato la memoria. G. Rovani, in Cento anni, ne adombrò la figura nel personaggio della contessa Clelia V., cui attribuì avventure assai romanzesche; è possibile che, essendo stato precettore in diverse case nobili milanesi e scriptor dell'Ambrosiana, fosse venuto a conoscenza di qualche segreto retroscena.
Fonti e Bibl.: I pochissimi documenti relativi alla G. sopravvissuti (rinvenuti all'inizio del Novecento da A. Giulini e poi da L. Tenca nell'archivio di casa Borromeo a Milano e nella Biblioteca Ambrosiana) sono segnalati nel testo. Nella biblioteca del palazzo Borromeo nell'Isola Bella sul lago Maggiore esistono numerosi volumi provenienti dalla biblioteca personale della Grillo.
G. Gimma, Dell'idea della storia dell'Italia letterata, Napoli 1723, p. 486; G.A. Sassi, De studiis litterariis Mediolanensium antiquis et novis…, Mediolani 1729, coll. LXVII-LXXII; F. Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, IV, Mediolani 1745, passim; Le vite degli Arcadi illustri, V, Roma 1751, pp. 144 s.; M. Tomini Floresti, prefazione alle Rime dedicate a s.e. la signora contessa donna C. Borromeo G., Bergamo 1751; F.S. Quadrio, Storia e ragione d'ogni poesia, VII, Milano 1752, p. 15; Nuove di diverse corti e paesi, 1° sett. 1777, p. 230 (necrologio della G.); G. De Castro, Milano nel Settecento, giusta la poesia, le caricature e altre testimonianze dei tempi, Milano 1833, pp. 67-70; F. Cusani, Storia di Milano, Milano 1861-84, III, pp. 60-66, 158, 185-188; L. Vicchi, La Società Palatina di Milano, Milano 1880, p. 168; G. Sforza, Cronache di Massa in Lunigiana, Lucca 1882, pp. 157 s., 298 s.; Guida al famedio del cimitero Monumentale di Milano, Milano 1888, pp. 47 s.; Giorn. stor. della Lunigiana, IV (1913), 3, pp. 214 s.; C. Villani, Stelle femminili, Napoli 1915, p. 113 e Appendice, p. 113; A. Giulini, Note biografiche di Giorgio Giulini, in Nel secondo centenario della nascita del conte Giorgio Giulini istoriografo di Milano, Milano 1916, p. 58; Id., Contributi alla biografia della contessa C. Borromeo del G., in Arch. stor. lombardo, s. 5, XLVI (1919), 1-2, pp. 383-392; A. Giulini, A Milano nel Settecento. Studi e profili, Milano 1926, pp. 31-43; M. Maylender, Storia delle accademie d'Italia, II, Bologna 1927, pp. 21-23; E. Verga, Storia della vita milanese, Milano 1931, pp. 368-370; G. Natali, Il Settecento, Milano 1936, pp. 134, 177; L. Tenca, Cinque lettere inedite di C. Borromeo del G. al matematico Grandi (dal 30 marzo 1728 al 28 febbr. 1731, conservate presso la Domus Galilaeana di Pisa), in Arch. stor. lombardo, LXXVIII-LXXIX (1951-52), pp. 22-30; C.A. Vianello, Lettere inedite di C. Borromeo G., in Letterature moderne, V (1954), pp. 590-595; W. Eastwood, Literature and science, Oxford 1955, pp. 157-164; R. Levi Pisetzky, Le nuove fogge e l'influsso della moda francese a Milano, in Storia di Milano, XI, Il declino spagnolo (1630-1706), Milano 1958, p. 585; A. Annoni, Gli inizi della dominazione austriaca, ibid., XII, L'età delle riforme (1706-1796), Milano 1959, pp. 147 s., 235; M. Romani, L'economia milanese nel Settecento, ibid., pp. 501, 509 n. 1; G. Seregni, La cultura milanese nel Settecento, ibid., pp. 571 e n. 4, 574 (ritratto), 578 n. 2, 580 n. 2, 634, 640; R. Levi Pisetzky, La vita e le vesti dei milanesi nel '700, ibid., p. 871; G. Rovani, Cento anni, Milano 1960, I, p. 27 e passim; Ch. de Brosses, Viaggio in Italia, lettere familiari, Bari-Roma 1973, p. 62; A.M. Giorgetti Vichi, Gli Arcadi dal 1690 al 1800, Roma 1977, p. 287; Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell'età di Maria Teresa, a cura di A. De Maddalena - E. Rutelli - G. Barbarisi, II, Cultura e società, Milano 1982, pp. 511 s.; Enc. biografica e bibliografica "Italiana", M. Bandini Buti, Poetesse e scrittrici, I, p. 111 (s.v. Borromeo Del G., C.); v. anche Ibid., F. Orestano, Eroine, ispiratrici e donne d'eccezione, p. 66 (s.v. Borromeo, C.); I.E. Cosenza, Biographical and bibliographical dictionary of the Italian humanists, I, Boston 1962, p. 680; Diz. biografico delle donne lombarde, a cura di R. La Farina, Milano 1995, pp. 383 s.