GATTOLA, Clemente
Nacque a Vico Equense, nella penisola sorrentina, fra il 1448 e il 1455, appartenente a una illustre famiglia. Laureatosi in medicina a Napoli cominciò a insegnare logica nel 1479-80, percependo un compenso annuo di 25 ducati; somma che nel 1487-88 salì a 80 ducati, con molta probabilità per la lettura ordinaria di filosofia naturale. Nel 1507 passò alla cattedra di medicina pratica con uno stipendio di 50 ducati, che venne innalzato a 60 solo dopo il 1516.
Nonostante l'agguerrita concorrenza, la perizia medica di cui il G. fece ben presto mostra gli guadagnò stima e reputazione nel Regno e oltre. Nel 1486 Giovanni Antonio Petrucci, conte di Policastro, figlio del regio segretario Antonello, e probabilmente già allievo del corso di logica del G., travolto nella congiura dei baroni contro la Corona, espresse tutta la sua stima per il G. dedicandogli un sonetto invocatore dalla prigione.
Va comunque notato che il G., nonostante l'amicizia con il Petrucci, fu annoverato fra i fedeli servitori della Corona, atteggiamento questo che, unito all'abilità professionale, gli consentì di prestare la sua opera in favore di illustri personaggi: fra questi Diomede Carafa, conte di Maddaloni e governatore di Vico, del quale il 19 maggio 1487 il G. assistette alla stesura del testamento.
Ben presto la notorietà del G. travalicò i confini del Regno. Nel giugno del 1489 si ammalò di febbre terzana la duchessa di Milano Isabella, figlia di Alfonso II d'Aragona. Questi, poco fiducioso dell'operato dei medici milanesi, decise di inviare il G., che aveva già avuto modo di seguire in qualità di medico personale Isabella quando ancora soggiornava a Napoli. Così fra il 7 e l'8 luglio il G. partì alla volta di Milano, accompagnato da Alfonso d'Alagno, gentiluomo del duca di Calabria. Il 22 agosto fece ritorno a Napoli. Non è possibile sapere quali furono i risultati della cura somministrata in quel frangente, giacché la duchessa Isabella, dopo pericolose ricadute, guarì completamente dalla febbre terzana solo l'anno successivo. Comunque fosse, la stima del re per il G. era fuori discussione: egli fu tra i medici prescelti da Alfonso per assolvere diversi incarichi fuori della città di Napoli, come avvenne per una malattia del cardinale Pietro di Foix, parente della regina Giovanna d'Aragona, per cui il duca di Calabria lo inviò a Roma accompagnato da un eccellente seguito.
Nel 1488 dopo il decesso del medico Silvestro Galeota, il G. probabilmente ottenne l'ufficio di protomedico, anche se non continuativamente.
Sebbene non si abbiano riscontri certi, è assai probabile che negli anni in cui dovette ricoprire la carica di protomedico regio, divenne a Roma archiatra di papa Alessandro VI. Che egli comunque prestasse servizio a Roma è fatto certo, tanto che a queste missioni è legato anche un gravoso evento, occorso nell'estate del 1500 allorché il G. fu inviato colà dal re di Napoli per curare Alfonso d'Aragona, duca di Bisceglie, secondo marito di Lucrezia Borgia, ferito il 15 luglio ad opera di sicari al servizio probabilmente di Cesare Borgia. Il 18 agosto il Borgia "per predisporre e giustificare l'assassinio [di Alfonso] cominciò col fare arrestare tutti coloro che si trovavano presso il capezzale del ferito [il G. tra questi] adducendo il pretesto di una congiura antiborgiana […]" (De Frede, p. 114).
Non ci è noto il modo in cui il G. scampò il pericolo, ma il ritorno a Napoli è cosa certa dal momento che a partire dal 1507, anno di riapertura dello Studio di Napoli, egli riprese a insegnare fino al 1518, data oltre la quale non si hanno più notizie riguardanti la sua attività di medico e professore, e che pertanto andrà collocata anche come termine post quem della data di morte.
A una così intensa vita professionale non fece riscontro una produzione scientifica altrettanto significativa. Del G. è infatti nota una sola opera intitolata Questio de anima, stampata a Napoli nel 1511. L'occasione dell'opera è raccontata dallo stesso G., il quale riferisce che allorché venne chiamato dal re Ferdinando I alla lettura di filosofia naturale intorno all'anno 1487, gli studenti lo pregavano insistentemente affinché affrontasse l'ardua questione dell'unità dell'anima. Le intenzioni del G. si limitano però a una semplice escussione delle opinioni dei filosofi sull'argomento. L'opera ripartita su due colonne per facciata presenta una struttura consolidata dalla tradizione scolastica che vede l'enunciazione della tesi, poi le obiezioni e i dubbi sollevati intorno a essa e infine le conclusive risposte. Il carattere dell'opera nonché l'argomento affrontato sono un'eloquente spia della persistenza nello Studio napoletano nei primi anni del XVI secolo della tradizione scolastica e in particolare di s. Tommaso e Alberto Magno.
Fonti e Bibl.: I. Anysius, Poemata et satyrae, Neapoli 1531, p. 94; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 382; Notar Giacomo, Cronica di Napoli, a cura di P. Garzilli, Napoli 1845, pp. 235 s.; J. Lesostello, Effemeridi, Napoli 1883, pp. 151, 252, 357; E. Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, Torino 1895, docc. 942-1423 e passim; T. Persico, Diomede Carafa uomo di Stato e scrittore del secolo XV, Napoli 1899, pp. 319, 335; T. De Marinis, Nuovi documenti per la storia dello Studio di Napoli nel Rinascimento (per nozze Padoa-Sacerdoti), Firenze 1904, pp. 13 s.; L. Volpicella, Regis Ferdinandi primi instructionum liber, Napoli 1916, p. 265; E. Perito, La congiura dei baroni e il conte di Policastro, Bari 1926, p. 66; G. Bresciano, Napoletana II. Nuovi contributi alla storia della tipografia napoletana nel sec. XVI, Firenze 1936, pp. 4 s.; C. De Frede, Un medico-filosofo del Rinascimento: C. G. di Vico, in Archivio storico per le provincie napoletane, LXXVI (1958), pp. 105-119.