Clemente V
. Bertrand de Got, il futuro Clemente V, nacque a Villandraut (Gironda), non sappiamo in che anno, da Beraldo de Got, signore di quei luoghi.
Avviato assai. presto alla vita ecclesiastica, venne educato nel convento di Defés, appartenente all'ordine di Grammont, nella diocesi di Agen, passando poi a studiare diritto civile e diritto canonico a Orléans e a Bologna. Dopo aver avuto dei canonicati a Bordeaux, ad Agen, a Tours e a Lione, venne scelto da suo zio, arcivescovo di Lione, a suo vicario generale. Entrando nell'attività politica fu in Inghilterra e, forse in considerazione dei suoi servigi, venne eletto vescovo di Comminges (28 marzo 1295), donde passò al seggio arcivescovile di Bordeaux (23 dicembre 1299).
Durante il contrasto tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII, seppe mantenere un'abilissima posizione di equilibrio: si recò infatti a Roma, nel 1302, per prender parte al concilio indetto dal papa contro il re di Francia; ma d'altra parte non rifiutò di pagare i contributi che il sovrano chiedeva agli ecclesiastici del suo regno. Un'eguale posizione d'equilibrio mantenne tra il re d'Inghilterra che era in Aquitania l'alto sovrano della sua famiglia e suo, e quello di Francia, godendo, anzi, della fiducia e della benevolenza d'entrambi e avendo quindi tra gli ecclesiastici del suo paese una posizione di notevole prestigio.
Il suo nome dovette emergere perciò nel conclave di Perugia, che dopo la morte di Benedetto XI era diviso dal contrasto tra i cardinali bonifaciani, e quelli favorevoli a Filippo il Bello. Bertrand de Got, pur non essendo cardinale e quindi non presente, realizzò una convergenza di voti insperata: vi contribuì di certo anche l'influenza di re Filippo che sapeva di avere in lui un amico sicuro e di poter, comunque, contare sulla sua gratitudine. Incoronato papa il 14 novembre 1305, C. creò, dopo un incontro col sovrano, ben nove cardinali francesi e uno inglese, rafforzando il fronte antibonifaciano nel Sacro Collegio con la reintegrazione di Pietro e Giacomo Colonna, deposti da Bonifacio: in questo modo veniva anche messo in minoranza il gruppo degl'Italiani.
Non meno importante fu la decisione di non lasciare il Mezzogiorno della Francia pur senza esprimere mai ufficialmente una sua volontà in proposito, ma di volta in volta adducendo esigenze di natura politica, d'indole religiosa, o infine di carattere personale come la sua salute, invero assai cagionevole forse per un'ulcera allo stomaco, che gli causava gravi sofferenze. Per C. furono fonte di spinosi problemi i suoi rapporti col re di Francia, verso il quale sentiva di dovere una gratitudine profonda, pur senza voler mancare ai suoi doveri di uomo di Chiesa e di papa. Ne venne un atteggiamento di apparente arrendevolezza, che nascondeva un'abilissima resistenza, in un'altalena di ondeggiamenti, che lo mantenevano però sempre nelle sue posizioni, donde non fu facile smuoverlo neppure a Filippo il Bello, con tutta la sua impetuosità ed energia.
Fu così per quanto riguarda il processo contro Bonifacio VIII, che venne per molti anni rinviato e ritardato, finché fu definitivamente insabbiato in seguito a una serie di compromessi, come la canonizzazione di Celestino V (ma col nome secolare di Pietro del Morrone) e l'assoluzione a Guglielmo di Nogaret, a Sciarra Colonna e ad altri partecipi dello ‛ schiaffo d'Anagni '.
Ben più difficile fu la resistenza al re per quanto riguardò l'affare dei templari. Il papa cercò invano di adottare la politica del rinvio; arrestati, infatti, il 13 ottobre 1307, incarcerati e sottoposti a tortura, i cavalieri finirono per far le confessioni più folli ai giudici del sovrano. E poiché Filippo IV insisteva per una condanna rapida, se non immediata, C. ricorse al concilio, che avrebbe anche dovuto risolvere la questione del soccorso da portare in Terra Santa con una nuova crociata e numerosi problemi della vita della Chiesa, come l'annoso contrasto fra la comunità francescana e gli spirituali. Venne così iniziato, il 16 ottobre 1311, il concilio di Vienne, nel Delfinato, ove vennero organizzate una serie di commissioni per le varie questioni sul tappeto. Quella incaricata di esprimere un parere sui templari concluse con una decisione sostanzialmente a loro favore. Intervenne persino Filippo il Bello, che esercitò le più vive pressioni sul papa. Questi, ancora con una soluzione di compromesso, sciolse l'ordine, senza condannarlo, trasferendo i suoi beni agli Ospedalieri di S. Giovanni di Gerusalemme (2 maggio 1312).
Finirono invece tragicamente sul rogo, come eretici, il gran maestro e alcuni alti dignitari dell'ordine, stretti nelle maglie delle loro confessioni e della rigida procedura inquisitoriale (18 marzo 1314).
Non meno spinoso il problema del contrasto interno dell'ordine francescano: ancora una volta C. tentò una soluzione di equilibrio riconoscendo, da una parte, la validità e la verità delle critiche che, sul piano religioso, gli spirituali muovevano ai loro confratelli della comunità e concedendo loro una qualche autonomia; ma, d'altra parte, negava valore alle esigenze rigorosamente pauperistiche e teoricamente giustificate degli spirituali, confermando alla comunità il riconoscimento della loro qualità di ordine francescano. Ne venne che le due parti ritennero, entrambe, di aver ragione e ne nacquero, poco tempo dopo, nuovi scontri più accaniti che mai.
Quanto ai negoziati politici, se i contrasti franco-inglesi sembrarono chetarsi dopo l'avvento al trono d'Inghilterra di Edoardo II e dopo le sue nozze con Isabella di Francia, richieste e celebrate per consiglio di C., questi dovette ben presto preoccuparsi delle aspirazioni di Filippo IV circa la corona imperiale per suo fratello Carlo di Valois (1308). Pur richiesto del suo appoggio dal re di Francia, il papa, silenziosamente, sollecitò l'elezione di Enrico VII, pur cautelandosi con una serie di garanzie da parte del re dei Romani, e iniziò anche una serie di trattative prima con Carlo II e poi con Roberto d'Angiò. Cercò inoltre di rinviare e ritardare il più possibile l'incoronazione di Enrico VII, senza partecipare personalmente alla cerimonia, che ebbe luogo a Roma, il 29 giugno 1312, in S. Giovanni in Laterano.
Morto a Buonconvento Enrico VII, il papa s'accingeva a riunire tutte le forze guelfe d'Italia intorno a Roberto d'Angiò, quando, colpito da una delle crisi del suo male, morì a Roquemaure, il 20 aprile 1314.
Figura, per molti aspetti, difficile e sfuggente, C. fu tuttavia uomo colto, specialmente sul piano del diritto, desideroso di giustizia e di verità pur nella consapevolezza della difficoltà di raggiungerla e di realizzarla; ma le sue innegabili qualità furono gravemente limitate da un'inerzia che, se celava spesso una volontà di resistere, era, però, troppo debole di fronte a una vera ed energica attività, quale fu quella di Filippo IV o di Enrico VII. Ma forse la sua colpa più grave fu l'avidità di danaro per sé come per i suoi familiari, che colmò di benefici ecclesiastici e di cospicue rendite.
Per queste ragioni C. si profila come una personalità, sul piano umano e su quello psicologico, nettamente antitetica a quella di D., che non manca mai occasione per esprimergli il suo più profondo disprezzo. Comincia col non nominarlo mai: è il Guasco in Pd XVII 82; il pastor sanza legge in .lf XIX 83, e non manca di sottolineare le sue colpe più gravi: prima di tutte la simonia, che gli viene rimproverata come ancor più laida di quella dello stesso Bonifacio VIII, in quanto per ottenere il pontificato era ricorso all'aiuto, addirittura, di Filippo il Bello, mostrandoglisi arrendevole come aveva fatto l'ebreo Giasone col re Antioco Epifane, per raggiungere il sommo sacerdozio (Il Machab. 4, 1-20). E la condanna della simonia viene ancor più ribadita, esplicitamente, in Pd XXX 145-148 Ma poco poi sarà da Dio sofferto / nel santo officio: ch'el sarà detruso / là dove Simon mago è per suo merto, / e farà quel d'Alagna intrar più giuso, ponendo C. ancora una volta in un rapporto di continuità, nella colpa, con Bonifacio VIII.
Non meno implacabilmente è condannato il suo comportamento nei confronti di Enrico VII: D., come molti al suo tempo, considera tutta la politica del pontefice come un inganno turpe, una trappola fatta all'imperatore, un evento d'importanza tale da costituire un elemento cronologico a cui riferirsi. Infatti le faville della virtude di Cangrande della Scala si manifesteranno appunto pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni (Pd XVII 82-83): in che consista questo inganno viene precisato là dove D. indicherà le cause della sconfitta dell'imperatore nella cupidigia e nel fatto che fia prefetto nel foro divino / allora tal, che palese e coverto / non anderà con lui per un cammino (Pd XXX 142-144): D. coglie, così, acutamente uno degli aspetti vivi e concreti del carattere e della doppiezza di Clemente.
Il culmine però della bassezza umana e spirituale di questo papa risulta ben netto nel finale della visione del canto XXXII del Purgatorio (vv. 147-160) che rappresenta la fornicazione fra il gigante e la puttana sciolta, la corte di Francia appunto e la Chiesa carnale, rappresentata nella simbologia apocalittica della " meretrix magna ". Il gigante, infatti, per aver la meretrice volto attorno l'occhio cupido e vagante la flagellò prima, con evidente riferimento allo ‛ schiaffo d'Anagni '; poi disciolse il mostro, e cioè l'animale spaventoso nel quale s'era trasformato il carro della Chiesa, e trascinò nella selva - simbolo di confusione morale e spirituale - insieme la puttana e la nova belva. L'interpretazione è addirittura evidente per chi conosca i fatti e la loro traduzione in simboli compiuta da D., sotto l'influenza dell'Apocalisse e dei suoi interpreti della corrente gioachimitica-spirituale: si allude al fatto che Filippo il Bello, il gigante, appunto, volle il trasferimento della curia papale e del pontefice, ormai ‛ Chiesa carnale ' caratterizzatasi nel mostro e nella meretrice, da Roma ad Avignone.
D., in verità, aveva da prima deplorato questo trasferimento nella sua epistola ai cardinali italiani (XI 10-11), esortandoli a tornare a Roma, battendosi pro sponsa Christi, pro sede Sponsae, quae Roma est, e a rendere esemplare per i secoli futuri il Vasconum obprobrium; inoltre nella stessa lettera aveva già, con sprezzo, paragonato C. ad Alcimo, il sommo sacerdote che contro Giuda Maccabeo aveva chiesto l'aiuto di Demetrio (I Machab. 7, 5).
Di tanta severità di giudizio e asprezza di linguaggio la ragione si trova, forse, su un piano psicologico e umano, nella delusione che C. deve aver provocato in D., dopo le speranze suscitategli al momento della spedizione di Enrico VII in Italia. Infatti nell'epistola a tutti i grandi d'Italia egli avverte che anche Clemens, nunc Petri successor, luce apostolicae benedictionis illumina l'imperatore e la sua impresa (V 30). È appunto il parlare palese che più tardi D. si accorse essere ben diverso da quello coverto.
Da questa constatazione nacque incompatibilità essenziale fra C. e D., che lo considerò come l'espressione peggiore del male, nella Chiesa e nel mondo.
Bibl. - Su C., va prima di tutto consultato G. Mollat, Les papes d'Avignon, Parigi 19499, ad indicem (opera importante specialmente per la vastissima bibliografia). Inoltre si veda: E. Dupré Theseider, I papi d'Avignone e la questione romana, Firenze 1939 (specialmente 3-36), con ottime osservazioni su D. e il suo giudizio su Clemente. Per l'influenza dell'inganno del Guasco sull'evoluzione del pensiero politico di D., si veda F. Ercole, Le tre fasi del pensiero politico di D., in Il pensiero politico di D., II, Milano 1928, 271-407 (specialmente 345-393); mentre sui rapporti fra C. e Filippo il Bello è classico ormai G. Lizerand, Clément V et Philippe le Bel, Parigi 1910. Si vedano infine E. Gorra, D. e C., in " Giorn. stor. " LXIX (1917) 193-216; e P. Brezzi, D. e la Chiesa del suo tempo, in D. e Roma, Firenze 1965, 97-115 (specialmente 103-104).