Clemente VII
Giulio de’ Medici, «figliuolo naturale» di Giuliano de’ Medici e di una certa Fioretta, nacque a Firenze il 26 maggio 1478, un mese dopo l’uccisione del padre nella congiura dei Pazzi (M. lo ricorda in Istorie fiorentine VIII ix). Crebbe assieme ai cugini, i figli di Lorenzo il Magnifico, seguendo il medesimo cursus studiorum di Giovanni, il futuro papa Leone X, maggiore di tre anni. Ricevette, dunque, un’accurata formazione umanistica e, probabilmente, frequentò con Giovanni le lezioni di diritto canonico presso lo Studio di Pisa. Dopo la caduta dei Medici, nel novembre 1494, Giulio dimorò a Bologna e poi a Roma, accanto al cugino nel frattempo diventato cardinale. Alla morte del fratello primogenito Piero, nel 1503, Giovanni assunse il ruolo di capo della famiglia Medici e Giulio cooperò attivamente ai suoi tentativi di abbattere la Repubblica fiorentina. In particolare, tra 1510 e 1512, egli fu in costante relazione con i membri del partito filomediceo, muovendo le fila delle cospirazioni che si proposero di rovesciare il regime soderiniano.
Tornati i Medici al potere, Giulio rientrò in patria il 14 settembre 1512 e coordinò la riorganizzazione delle istituzioni governative. L’anno dopo Leone X, appena eletto papa, lo nominò arcivescovo di Firenze nel mese di aprile e cardinale il 29 settembre, aggirando il problema della sua nascita illegittima. Il cardinale Giulio, che fu ordinato sacerdote soltanto nel 1517, cumulò un ingente numero di benefici con le relative rendite e ricevette incarichi di elevata responsabilità, quale per esempio quello legato al titolo di protettore del regno di Francia. In armonia con i progetti politici di famiglia, egli si impegnò soprattutto nell’opera di raccordo tra il pontefice e i nuovi signori di Firenze, Giuliano, il futuro duca di Nemours (→ Medici, Giuliano de’), e Lorenzo, poi duca di Urbino (→ Medici, Lorenzo de’, duca di Urbino), che furono posti sotto la sua discreta ma ferma sorveglianza. Inoltre, Giulio diventò il punto di riferimento dei fiorentini che cercavano favori e fortuna presso la corte papale. Di conseguenza, gli amici di M., e principalmente Francesco Vettori – all’epoca oratore di Firenze a Roma –, si rivolsero proprio a «monsignor de’ Medici» per tentare di far assegnare all’ex Segretario qualche incarico (cfr. le tre missive di Vettori a M., 24 dic. 1513, 3 e 15 dic. 1514; la citazione proviene da quest’ultima). Analoghe pressioni vennero esercitate anche nei riguardi di Giuliano de’ Medici. Il cardinale intervenne nella questione con tutta la sua autorità, ammonendo Giuliano a «non s’impacciare con Niccolò» (Piero Ardinghelli a Giuliano de’ Medici, lettera del 15 febbr. 1515, in Tommasini 1883-1911, 2° vol., t. 2, p. 1064). Tuttavia, nonostante il rifiuto subìto, M. non interruppe i rapporti con gli ambienti medicei, come attestano due lettere che egli inviò, rispettivamente, a Paolo Vettori e a Lodovico Alamanni. In quest’ultima inoltrò i propri saluti al sopra ricordato Ardinghelli, segretario particolare di Leone X (missive del 10 ott. 1516 e del 17 dic. 1517: cfr. De principatibus, a cura di G. Inglese, 1994, p. 13).
Nel marzo 1517 Giulio venne nominato vicecancelliere della curia romana, dunque principale collaboratore del papa nel governo della Chiesa. Due anni più tardi, morto Lorenzo duca di Urbino, nel maggio Giulio fu inviato in Toscana come legato pontificio, divenendo, di fatto, il signore di Firenze. In quegli anni, la scena italiana era dominata dalla Francia che, grazie alle campagne militari di Francesco I, aveva riconquistato la Lombardia. Per conservare il potere a Firenze, i Medici dovevano assolutamente evitare che si ricreasse la tradizionale alleanza tra la corona francese e le famiglie ottimatizie cittadine legate all’esperienza repubblicana. Allo scopo di sventare tale pericolo, Giulio fu indotto a fare delle concessioni. Alternando i soggiorni nella città a mesi trascorsi a Roma, avviò un’accorta strategia di riconciliazione con il ceto dirigente fiorentino, aprendosi all’ascolto di coloro che proponevano riforme istituzionali. In questo quadro, il cardinale accettò di ricevere M. attraverso la mediazione di Lorenzo Strozzi. L’incontro si svolse presumibilmente ai primi di marzo del 1520, come attesta una lettera inviata a Lorenzo dal fratello Filippo. Quest’ultimo era uno dei banchieri papali, nonché uno stretto parente di Leone X; godeva, dunque, di notevole ascendente sui Medici. Filippo Strozzi scrisse al fratello: «Piacemi assai habbiate condotto el Machiavello in casa e’ Medici, che, ogni poco di fede acquisti co’ padroni, è persona per surgere» (17 marzo 1520, in Tommasini 1883-1911, 2° vol., t. 2, p. 1082). La distensione dei rapporti tra M. e la casata medicea avvenne, naturalmente, con il beneplacito del pontefice, come si desume da un’altra missiva: il 26 aprile successivo, infatti, Giovanni Battista Della Palla, da Roma, riferì a M. che il papa l’aveva autorizzato a parlare con il cardinale Giulio riguardo «a farvi dare una provisione per scrivere o altro» (Lettere, p. 362).
Il nuovo clima non tardò a dare i suoi frutti. Nell’estate 1520 il cardinale incaricò M. di svolgere una missione a Lucca. Egli doveva seguire il fallimento di Michele Guinigi, nel quale erano rimasti coinvolti diversi creditori fiorentini, tra cui Jacopo Salviati, segretario nonché cognato di Leone X (cfr. LCSG, 7° t., pp. 7 e 139-43). Inoltre, Giulio chiese a M. di trattare con gli Anziani di Lucca l’espulsione di tre studenti dell’Università pisana che creavano problemi di ordine pubblico. Nella missiva contenente questa richiesta, il cardinale definì M. «amico nostro carissimo» (da Firenze, 31 luglio 1520, LCSG, 7° t., p. 144). Al soggiorno lucchese è legata la composizione di due opere machiavelliane: il Sommario delle cose di Lucca e la Vita di Castruccio Castracani. Nei mesi successivi, auspice l’intervento degli amici comuni, le relazioni tra M. e il cardinale si intensificarono. Filippo Nerli promise di consegnare a Giulio una copia manoscritta dell’Arte della guerra, facendosela inviare da Zanobi Buondelmonti (cfr. Filippo Nerli a M., da Roma, 17 nov. 1520). Tale impegno attesta che l’opera circolava negli ambienti medicei, tra Firenze e Roma, prima della sua pubblicazione a stampa, che avvenne l’anno seguente. Il processo di riabilitazione di M. trovò compimento nello scorcio dell’anno, allorché si realizzarono le promesse riguardanti la «provisione per scrivere o altro». L’8 novembre 1520 lo Studio fiorentino, di cui era a capo il cardinale Giulio, affidò a M. l’incarico di storiografo di Firenze «et alia faciendum» (ASF, Libro degli Stipendiati dello Studio [1514-1521], c. 104, cfr. SPM, p. 624). Tra queste ‘altre cose’ rientrò, forse, la committenza del Discursus florentinarum rerum, composto tra il novembre 1520 e il gennaio 1521. Il testo proponeva una serie di riforme delle istituzioni fiorentine, indirizzate sia al papa, dedicatario dell’opera, sia allo stesso Giulio (§ 91, in SPM, p. 638). Al maggio 1521 risale, invece, la missione compiuta da M. a Carpi, presso il capitolo dei frati minori. Dopo aver espletato l’incombenza, M. ne riferì l’esito al cardinale, che gli aveva affidato personalmente l’incarico (cfr. LCSG, 7° t., pp. 151-52 e 156-60 per la relazione finale, datata 20 maggio).
Il 1° dicembre 1521 morì Leone X. Nei mesi che seguirono, Giulio risiedette frequentemente a Firenze per controllare da vicino la situazione politica: il cardinale, infatti, era preoccupato per gli sviluppi diplomatici internazionali. Nel maggio 1521 aveva stretto un accordo con l’imperatore Carlo V, nel quale trovò il naturale alleato soprattutto nei riguardi del problema rappresentato dalla Riforma luterana, che si stava diffondendo in Germania. L’avvicinamento all’impero del vicecancelliere apostolico provocò la dura reazione della Francia, e quindi l’esito del conclave, apertosi il 27 dicembre. I cardinali filofrancesi, forti dell’appoggio dei porporati Francesco Soderini e Pompeo Colonna, impedirono l’elezione di Giulio, che pure appariva favorito. Nel contempo, Soderini ottenne dalla corona francese un concreto impegno contro il regime dominante a Firenze. Per tutelare il governo mediceo da questa situazione, subito dopo l’elezione di Adriano VI (9 genn. 1522), Giulio dovette nuovamente blandire il ceto dirigente di Firenze. Tornato nella città, si disse disponibile ad approvare talune riforme auspicate da più parti, come la restituzione del Consiglio grande. In particolare, vennero avanzate specifiche proposte, maturate nell’ambiente degli Orti Oricellari, da parte di Zanobi Buondelmonti, Alessandro de’ Pazzi e Machiavelli. Questi compose per l’occasione il Ricordo al cardinale Giulio (scritto ante aprile 1522) e la Minuta di provvisione per la riforma dello stato di Firenze, stilata nel medesimo aprile 1522 (per le datazioni cfr. SPM, pp. 643, 645).
Le speranze riformatrici si arrestarono bruscamente nel mese di maggio, allorché venne scoperta la congiura, maturata proprio nella cerchia degli Oricellari, per assassinare il cardinale de’ Medici. Con un’abile mossa, Giulio dimostrò al papa che il cardinale Soderini era implicato nel complotto e che questo avrebbe condotto, qualora fosse stato realizzato, a una nuova fase di guerra tra la Francia e l’impero. Così, Soderini fu arrestato e Giulio poté rientrare a Roma trionfalmente, ponendo una seria ipoteca sui destini della sede apostolica. Dopo la morte di Adriano VI (sett. 1523), grazie all’appoggio imperiale, Giulio riuscì a essere eletto papa il 19 novembre 1523 (fu incoronato il 26 successivo). Il nome di C., che scelse di assumere, alludeva forse alla sua volontà di conciliare gli schieramenti in lotta, sia nella curia sia nell’intero orbe cristiano.
C. rafforzò ulteriormente i legami esistenti tra Roma e Firenze. Egli affidò gran parte della gestione finanziaria pontificia alle compagnie dei banchieri fiorentini e inviò nella città toscana i giovani Ippolito e Alessandro de’ Medici (quest’ultimo, a parere di molti, era suo figlio), affinché rappresentassero la continuità dell’esperienza signorile di famiglia. Sul piano politico più generale, inizialmente C. fu un sostenitore della cosiddetta libertà d’Italia, intesa come pilastro della libertas Ecclesiae, una formula che riprendeva motivi cari ai suoi predecessori, come Giulio II. Egli sperò che tale indirizzo potesse aggregare, sotto il coordinamento papale, le varie e difformi aspirazioni diffuse tra i potentati della penisola. La difesa della libertà italiana implicava, tra le altre cose, la neutralità della sede apostolica nei confronti dell’espansionismo francese e imperiale. C. era incline a seguire questa strategia in base a considerazioni di natura internazionale. Infatti, l’aggravarsi del problema luterano in terra tedesca e la persistenza delle minacce turche nel Mediterraneo lo spingevano verso l’alleanza con Carlo V. D’altro canto, però, egli non voleva rafforzare troppo il partito imperiale in Italia, né tantomeno ottemperare a specifiche richieste formulate dall’imperatore, quali la convocazione di un concilio finalizzato a risolvere la questione religiosa in Germania. C. deliberò alcuni provvedimenti di riforma ecclesiastica, ma si oppose al progetto del concilio, temendo, tra l’altro, che l’assemblea volesse deporlo, prendendo a pretesto la sua condizione di figlio illegittimo.
La prosecuzione delle guerre in Italia vanificò le aspirazioni del papa, che si vide costretto a scegliere tra Francesco I e Carlo V, seppure dopo molte esitazioni. Se in gioventù Giulio era stato reputato un politico provetto, una volta asceso al papato egli offrì di sé un’immagine assai diversa. Le difficoltà che incontrò nel destreggiarsi tra le grandi potenze europee lo fecero additare già da Francesco Guicciardini come un politico caratterizzato da continue esitazioni (il ‘ritratto’ guicciardiniano di C. in Storia d’Italia XVI xii; cfr. inoltre Prosperi 2000).
Abbandonando i suoi trascorsi filoimperiali, nel dicembre 1524 C. scelse di allearsi con la Francia, che in quel momento sembrava più forte dello schieramento avversario, giacché aveva nuovamente occupato la Lombardia. Tuttavia, la clamorosa sconfitta francese nella battaglia di Pavia (24 febbr. 1525) distrusse i suoi piani. Nel frattempo, M. aveva terminato le Istorie fiorentine e voleva consegnare la copia di dedica al pontefice. Conoscendo la condizione psicologica in cui C. era precipitato dopo la rotta di Pavia, M. chiese consiglio all’amico Francesco Vettori, che risiedeva a Roma; questi rispose che, pur essendo «e tempi [...] contrari a leggere e donare», lo stesso C. lo sollecitava a presentarsi al suo cospetto (Vettori a M., 8 marzo 1525). Nel maggio 1525, pertanto, M. si recò alla corte papale e offrì le Istorie a C., che lo gratificò con 120 ducati. La dedicatoria dell’opera si concludeva accennando alla volontà dell’autore di «seguitare l’impresa mia, quando [...] la V.S. non mi abbandoni» (N. Machiavelli, Opere storiche, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, 2° vol., t. 1, p. 88). Al medesimo periodo risale un’altra testimonianza che rinvia alla persistente diffidenza del papa nei confronti dell’ex Segretario. C., infatti, negò il proprio assenso all’ipotizzata nomina di M. a segretario del cardinale Giovanni Salviati, che era in procinto di partire in qualità di nunzio in Spagna: «di Niccolò Machiavelli bisogna farne fora, perché veggo che il papa ci va adagio» (Jacopo Salviati al figlio, cardinale Giovanni, 17 maggio 1525; cfr. Ridolfi 1954, 19787, p. 331).
In seguito, C. lasciò intendere di voler tornare a una politica improntata alla neutralità, mentre in segreto mandò avanti una nuova trattativa con gli emissari francesi. Apparve presto chiaro che si stava per aprire un’altra stagione di conflitti. Nell’ambito dei preparativi, il papa affidò a M. alcuni incarichi di natura militare. Nel giugno 1525 egli venne inviato a Faenza presso Guicciardini, allora presidente della Romagna, per organizzare una milizia di fanti locali (il breve papale di nomina in Tommasini 1883-1911, 2° vol., t. 2, p. 1150). Tuttavia, il progetto sfumò rapidamente per le perplessità dello stesso Guicciardini. Alcuni mesi più tardi, M. fu consultato intorno a un progetto cui il pontefice teneva molto, ossia il rafforzamento delle fortificazioni che difendevano Firenze. Egli compì un minuzioso sopralluogo il 5 aprile 1526, assieme all’ingegnere militare Pietro Navarra. Il giorno dopo partì per Roma, per consegnare a C. la Relazione di una visita fatta per fortificare Firenze (per la datazione cfr. SPM, p. 663). Nel corso di questo soggiorno romano, che durò una ventina di giorni, M. convinse il papa ad autorizzare la creazione di un’apposita magistratura preposta a dirigere gli ampliamenti della cerchia muraria fiorentina. Concordata con il pontefice, la Minuta di provvisione per l’istituzione dei cinque procuratori delle mura fu approvata dalle autorità cittadine nel maggio successivo (SPM, § 3, p. 672). M. venne nominato provveditore e cancelliere del nuovo organismo.
Nel medesimo maggio 1526, poco dopo la liberazione di Francesco I dalla prigionia, venne conclusa la lega di Cognac, cui aderì anche il papa, il quale sperava così che il fronte antiasburgico formato dalla Francia, da Milano e da Venezia, con l’appoggio del re d’Inghilterra, riuscisse a difendere la libertà d’Italia. Da Firenze, M. caldeggiò l’adesione alla lega; scrivendo a Guicciardini, gli chiese di sollecitare l’intervento di C. nella guerra che si profilava: «Liberate diuturna cura Italiam!» (17 maggio 1526; cfr. Inglese 2007, p. 90). Nel medesimo torno di tempo, M. indirizzò alcune lettere ai potenti amici fiorentini legati agli ambienti medicei, nelle quali trattò ampiamente la situazione politica e militare internazionale. Le missive furono lette a C., che mostrò di apprezzarle: «udì con molta attenzione [...] e n’ebbe piacere assai» (Filippo Strozzi a M., 31 marzo 1526; cfr. Ridolfi 1954, 19787, p. 359).
Gli eventi che seguirono smentirono le aspettative. Nell’aprile 1527 le truppe imperiali discesero la penisola, dirigendosi verso Roma. A quel punto, il pontefice si vide preclusa ogni via d’uscita diplomatica:
io non credo che mai si travagliassino i più difficili articuli che questi, dove la pace è necessaria e la guerra non si puote abbandonare, et avere alle mani un principe [il papa] che con fatica può supplire o alla pace sola o alla guerra sola (M. a F. Vettori, 16 apr. 1527).
E ancora: «quando [il papa] non riesca [a concludere una tregua in extremis], ci farà in tutto abbandonare da ognuno» (M. a F. Vettori, 5 apr. 1527).
Dopo aver evitato Firenze – ben difesa dalle sue fortificazioni – l’esercito imperiale iniziò il saccheggio di Roma il 6 maggio 1527, costringendo C. a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo. Dieci giorni dopo, i fiorentini si ribellarono al governo mediceo e restaurarono la Repubblica. M., morto il 21 giugno, non assistette all’umiliazione del papa, che fuggì da Roma in dicembre, trovando riparo a Orvieto e a Viterbo, e infine dovette accettare le condizioni di pace imposte da Carlo V. Queste furono ratificate nel trattato di Barcellona (1529), con il quale l’imperatore si impegnò a restaurare i Medici a Firenze, promettendo loro il titolo ducale. Il nuovo assetto della penisola venne sancito simbolicamente dalla cerimonia svoltasi a Bologna nel febbraio 1530, in cui C. pose la corona imperiale sul capo di Carlo. Nell’agosto successivo Firenze capitolò, al termine di un lungo assedio; Alessandro de’ Medici poté così essere acclamato «duca della Repubblica fiorentina» nell’aprile 1532 (von Albertini 1955, trad. it. 1970, p. 200). Il titolo principesco, assai ambiguo nella sua denominazione, esplicitava il compromesso raggiunto tra la famiglia Medici e il gruppo degli ottimati cittadini. L’intesa fu preparata da laboriosi negoziati, condotti personalmente da Clemente VII che cercò di mantenere saldo il legame tra Roma e Firenze sino alla morte (25 settembre 1534). In questo clima di rinnovato accordo tra il pontefice e i maggiorenti fiorentini maturò l’edizione delle maggiori opere machiavelliane. Tra il 23 agosto 1531 e l’8 maggio 1532 Antonio Blado, a Roma, e Bernardo Giunta, a Firenze, pubblicarono i Discorsi, il Principe e le Istorie fiorentine. Le stampe, munite della «gratia et privilegio» papale, furono promosse da importanti personaggi della cerchia medicea (cfr. Bertelli, Innocenti 1979, pp. 6-9 e De principatibus, a cura di G. Inglese, 1994, pp. 22-25).
Bibliografia: Fonti ed edizioni critiche: N. Machiavelli, De principatibus, a cura di G. Inglese, Roma 1994.
Per gli studi critici si vedano: O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2 voll., Torino-Roma 1883-1911 (rist. anast. Bologna 1994-2003); R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; R. von Albertini, Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern 1955 (trad. it. Firenze dalla repubblica al principato. Storia e coscienza politica, Torino 1970); S. Bertelli, P. Innocenti, Bibliografia machiavelliana, Verona 1979; A. Prosperi, Clemente VII, in Enciclopedia dei papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, 3° vol., Roma 2000, ad vocem; The pontificate of Clement VII. History, politics, culture, ed. K. Gouwens, S.E. Reiss, Aldershot 2005; G. Inglese, Machiavelli Niccolò, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 67° vol., Roma 2007, ad vocem; M. Pellegrini, Le guerre d’Italia, 1494-1530, Bologna 2009.