Clima e ambiente nel Quaternario
di Antonio Longinelli
In questo ambito di ricerca, infatti, pur essendo noto da tempo il fatto che la radiazione solare, sia termica che nontermica, e l'emissione di particelle fossero fattori di rilevante importanza nel determinare le condizioni climatiche del nostro pianeta, con lo sviluppo degli studi ci si è resi conto che il "sistema clima" è estremamente complesso. Esso dipende infatti anche dalla concentrazione e dalla distribuzione, sulla superficie terrestre e nel suo intorno, di fasi solide, liquide e gassose, tanto che l'attività solare, pur estremamente importante, è solamente una delle variabili da considerare. Tra le diverse cause che hanno contribuito a determinare i rilevanti cambiamenti climatici succedutisi a più riprese sulla superficie della Terra, se ne possono mettere in evidenza due che hanno pesato in maniera determinante: le caratteristiche astronomiche che definiscono il moto del nostro pianeta intorno al Sole e le vistose modificazioni nella distribuzione delle terre e dei mari legate alla dinamica delle placche crostali. Quest'ultima, a sua volta, può avere contribuito in maniera diretta (posizionamenti diversi dei continenti e degli oceani, formazione e degradazione di catene di montagne, migrazione dei poli) o in maniera indiretta (ad es., determinazione di aree con intensa attività vulcanica). La definizione della correlazione diretta esistente tra cause astronomiche e variazioni climatiche della Terra, con particolare riferimento ai cicli climatici del Quaternario, si deve alle ricerche di M. Milanković (1879-1958), il quale, integrando studi astronomici, geologici e climatologici, giunse a calcolare le variazioni della quantità di radiazione solare incidente sulla superficie terrestre nel corso degli ultimi 650.000 anni. Queste variazioni sono essenzialmente legate all'eccentricità dell'orbita terrestre, all'obliquità dell'asse di rotazione e alla precessione degli equinozi. Questi parametri, nei periodi durante i quali si sono trovati in fase, hanno contribuito a causare condizioni climatiche decisamente anomale rispetto a quelle medie della superficie terrestre, e quindi a determinare una successione di epoche glaciali e di periodi interglaciali. La distribuzione delle terre e dei mari, la presenza e l'andamento delle maggiori correnti oceaniche, l'interferenza di catene montuose ed una quantità di altri fattori hanno contribuito poi a definire le condizioni climatiche specifiche di una certa area. Fin dall'inizio delle loro ricerche, i paleoclimatologi hanno studiato prima di tutto le diverse associazioni faunistiche e floristiche fossili, di notevole interesse per le informazioni che possono fornire relativamente alle condizioni ambientali esistenti all'atto del loro sviluppo, le rocce sedimentarie di origine biogenica e le formazioni caratteristiche di particolari condizioni ambientali (sedimenti varvati, evaporiti, depositi di origine eolica, accumuli di materiali morenici, sedimenti glaciomarini, ecc.). I primi significativi apporti delle nuove tecniche, particolarmente nell'ambito della fisica e della chimica, si possono far risalire alla fine degli anni Quaranta. La realizzazione del metodo di datazione con il carbonio-14 (Libby - Anderson - Arnold 1949) ha consentito di cominciare a definire cronologicamente, con buona accuratezza, i diversi eventi climatici del passato più recente. Quasi contemporaneamente, le prime applicazioni delle tecniche della geochimica isotopica (isotopi stabili) allo studio dei carbonati biogenici di origine marina (McCrea 1950; Epstein et al. 1953) hanno cominciato a fornire dati semiquantitativi sulle condizioni paleoclimatiche e paleoambientali degli oceani. Da tempo è stato utilizzato il principio dell'attualismo. Infatti, anche ben prima che tale termine venisse creato, questo principio ha consentito di avanzare ipotesi spesso giudicate assurde e incongruenti, ma successivamente suffragate da considerazioni ben più puntuali. Basterà ricordare a tale riguardo che già oltre venticinque secoli fa il poeta e filosofo greco Senofane di Colofone, nel suo scritto Intorno alla natura delle cose, applicava questo principio all'osservazione della presenza, nelle rocce circostanti la città nella quale viveva, di fossili analoghi agli organismi marini a quel tempo viventi, traendone razionali considerazioni sulla loro origine e sulle condizioni ambientali durante la loro vita. Entrando nel merito delle tecniche di lavoro più recenti, il maggiore impulso alla definizione in termini quantitativi delle situazioni paleoambientali è venuto dall'applicazione delle tecniche della geochimica isotopica, a partire dall'inizio degli anni Cinquanta.
La misura della composizione isotopica si effettua con lo spettrometro di massa, le cui caratteristiche consentono di definire con estrema precisione e rapidità non tanto l'abbondanza assoluta dell'uno o dell'altro isotopo, quanto il valore del rapporto di abbondanza fra gli isotopi di un elemento in un certo composto rispetto al valore dello stesso rapporto in uno standard di riferimento. Si tratta cioè di effettuare non misure assolute, ma misure relative, il cui vantaggio è quello di indicare con un segno + o ‒ che precede il valore calcolato il fatto che il campione sia arricchito o impoverito in isotopo pesante rispetto allo standard di riferimento. La misura isotopica si riporta in termini di unità δ per mille, secondo la seguente espressione che è valida per la misura di qualsiasi isotopo stabile, anche se viene qui riportata, come esempio, per il caso dell'ossigeno nel carbonato:
formula
Gli standard internazionali più comunemente usati per riportare le misure isotopiche di elementi leggeri sono: lo SMOW (Standard Mean Ocean Water), valido sia per l'ossigeno che per l'idrogeno e che si riferisce al valore medio ponderato dell'acqua oceanica in quanto massima riserva di acqua del mondo, nonché inizio e fine di ogni ciclo idrologico; il PDB (Pee Dee Belemnite), utilizzato per il carbonio e spesso per l'ossigeno dei carbonati, standard che si riferisce alla composizione di una calcite precipitata in condizioni di equilibrio isotopico con l'acqua media oceanica alla temperatura di 16,5 °C. Esistono, naturalmente, numerosissimi altri standard internazionali, sia per questi che per altri elementi, anche perché, normalmente, più vicina è la composizione isotopica dello standard e del campione, migliore è l'accuratezza della misura strumentale. Per poter effettuare la misura isotopica il campione deve essere opportunamente trattato e preparato; infatti, gli spettrometri di massa per elementi leggeri consentono solo la misura di campioni gassosi, per cui è indispensabile trasformare il campione da analizzare. Nella preparazione del gas per la misura isotopica tutti gli atomi dell'elemento da misurare devono essere trasferiti dal campione originale al gas da analizzare, perché altrimenti la misura perderebbe ogni validità. Misura isotopica di carbonati biogenici di origine marina - Questo metodo di studio è stato il primo ad essere realizzato, con lo scopo specifico di determinare, possibilmente in termini quantitativi, le condizioni climatiche dei paleo-oceani (Epstein et al. 1953). Alla base di questo metodo si trova il concetto che la composizione isotopica dell'ossigeno nel carbonato di calcio (CaCO₃) del guscio o dello scheletro di organismi marini è controllata essenzialmente dalla composizione isotopica dell'acqua oceanica e dalla temperatura di precipitazione secondo l'equazione:
t (°C) = 16,9 ‒ 4,2 (δc ‒ δa) + 0,13 (δc ‒ δa)²
nella quale t è la temperatura di precipitazione del CaCO₃, δc la sua composizione isotopica e δa la composizione isotopica dell'ossigeno nell'acqua oceanica. Per quanto riguarda la composizione isotopica attuale dell'acqua oceanica, il suo valore è uniforme, con l'eccezione di alcune particolari situazioni. Si è ritenuto quindi che, anche in considerazione dell'enorme massa dell'acqua marina, non ci siano state nel tempo rilevanti variazioni della sua composizione isotopica; di conseguenza, diventava possibile, sulla base della composizione isotopica dell'ossigeno nel carbonato, calcolare la temperatura di precipitazione del CaCO₃ di fossili marini appartenenti alle diverse ere geologiche e costruire una dettagliata curva paleoclimatologica per gli oceani. A tale impostazione, teoricamente valida, non ha purtroppo corrisposto una coerente serie di dati interpretabili nei termini previsti, per interferenze legate ai seguenti processi: la composizione isotopica del CaCO₃ di un fossile non si mantiene inalterata per tempi indefiniti, ma è sottoposta a modificazioni, anche di rilevante entità ma normalmente non valutabili in termini quantitativi, causate dalle azioni diagenetiche alle quali vengono sottoposti i fossili nel corso dei tempi geologici. La composizione isotopica dell'acqua oceanica attraverso le ere geologiche è tuttora sconosciuta e comunque essa dovrebbe aver subito variazioni che, pur modeste, rendono quanto meno inesatte le valutazioni fatte nell'ipotesi di una costanza nel tempo di questo dato; nel caso di alcuni organismi marini (ad es., coralli, alcuni Echinodermi, alcune specie di Foraminiferi, ecc.), è stato appurato che esiste un comportamento anomalo, a causa del quale il CaCO₃ del loro scheletro non viene precipitato in condizioni di equilibrio isotopico con l'acqua oceanica. L'utilizzazione dell'equazione sopra riportata diventa quindi impossibile. Nonostante questi problemi, che hanno pesantemente interferito con la possibilità di una piena utilizzazione di tale tecnica di lavoro, sono stati ottenuti risultati di notevole rilievo, specialmente nell'ambito di periodi geologicamente recenti. Come esempi di tali acquisizioni vengono qui riportate (Figg. 572 e 573) due curve relative alle variazioni isotopiche misurate su Foraminiferi planctonici e bentonici di carote di sedimenti marini. È evidente l'eccezionale importanza di questi risultati al fine di una conoscenza dettagliata dell'evoluzione nel tempo delle condizioni climatiche, anche se molte riserve e incertezze pesano ancora a questo riguardo. Ad esempio, nel caso di entrambe le figure, non è possibile separare quantitativamente l'effetto dovuto alla variazione reale della temperatura dall'effetto della modificazione della composizione isotopica dell'acqua oceanica. Quest'ultima, particolarmente nel caso della formazione di calotte di ghiaccio, subisce modificazioni di una certa entità legate all'accumulo sulle aree polari di enormi quantità di ghiaccio isotopicamente molto negativo (il δ¹⁸O dei ghiacci polari è compreso all'incirca tra ‒30 e ‒40‰). Inoltre, esiste una concreta possibilità che almeno i campioni più antichi (Eocene - Cretaceo) abbiano subito processi diagenetici che ne possono aver modificata, anche se solo parzialmente, la composizione isotopica originaria. Scarsa è l'affidabilità delle misure su materiali di età mesozoica, mentre del tutto inaffidabili sono quelle concernenti materiali ancora più antichi.
Misura della composizione isotopica di carbonati in sedimenti lacustri - Tra i materiali più interessanti per la ricostruzione di situazioni paleoclimatiche sui continenti, i sedimenti lacustri occupano una posizione di grande rilievo. Particolarmente nel caso dell'intervallo di tempo Pleistocene-Olocene, essi forniscono spesso dati continui e ad altissima risoluzione. Sia nel caso di carbonati autigeni che di gusci o scheletri di organismi, i sedimenti lacustri offrono un materiale di studio che è quantitativamente legato alla temperatura e alla composizione isotopica dell'acqua. Quest'ultima, almeno nei casi di laghi non chiusi (dotati cioè di immissario e di emissario), posizionati geograficamente alle medie latitudini e caratterizzati da un rapido ricambio, segue da vicino le variazioni del valore medio della composizione isotopica delle piogge, valore legato direttamente alle variazioni climatiche. Nel caso di laghi chiusi esiste invece una buona correlazione tra composizione isotopica dell'acqua e processi evaporativi, per cui diventa possibile distinguere periodi di elevata piovosità da periodi di maggiore aridità. Di speciale interesse è lo studio di sedimenti lacustri varvati, che spesso consentono non solamente una dettagliata ricostruzione delle variazioni climatiche a lungo termine, ma anche una ricostruzione dei gradienti inverno - estate e la definizione di una scala cronologica di estrema finezza, anche se solamente in termini relativi. Diventa talvolta possibile raccordare in maniera attendibile la cronologia relativa delle varve alla cronologia radiometrica quando è possibile disporre di campioni di origine biogenica misurabili per l'attività ¹⁴C, magari con l'ausilio dell'acceleratore (Hajdas et al. 1993). Nella Fig. 574 viene riportato un tratto della curva isotopica determinata nei sedimenti del Lago Gościąz, in Polonia centrale, confrontata con un analogo tratto della curva isotopica ottenuta dalla carota di ghiaccio GRIP (Groenlandia centrale) e con gli spettri pollinici ottenuti dallo stesso sedimento lacustre. Sono chiari il notevole dettaglio ottenuto evidenziando l'episodio freddo Dryas III, che ha fatto risentire il suo effetto in quella zona per un periodo di poco superiore a 1000 anni, e la significativa correlazione esistente tra curva isotopica e spettri pollinici. Misura della composizione isotopica degli speleotemi - Altro mezzo utilizzato per ricerche paleoclimatologiche sui continenti è la misura isotopica delle concrezioni calcaree delle grotte. Il primo importante studio in questo campo venne realizzato da C.H. Hendy (1971) e fu seguito da numerosi altri. Il principio sul quale si basa questa ricerca è che in una grotta, specialmente se profonda rispetto alla superficie del terreno e con comunicazioni molto limitate con l'esterno, l'eventuale precipitazione di CaCO₃, legata allo stillicidio di acque sature o sovrasature di specie carbonatiche disciolte, avvenga in condizioni di equilibrio isotopico. La temperatura di precipitazione dovrebbe corrispondere quasi perfettamente alla media annua delle temperature superficiali e la composizione isotopica dell'acqua dovrebbe risultare praticamente uguale al valore medio annuo ponderato delle precipitazioni atmosferiche locali. Di conseguenza, il δ¹⁸O del carbonato di calcio di una concrezione calcarea formatasi all'interno di una grotta nelle condizioni ambientali sopra accennate dovrebbe essere rappresentativo delle condizioni climatiche esterne e costituire quindi un archivio di informazioni sull'evoluzione del clima nel periodo di tempo durante il quale ha avuto luogo la precipitazione del CaCO₃ di quella concrezione. È ovvio che non sempre e non necessariamente si sono verificate le condizioni più favorevoli: in una grotta non troppo profonda o con ampie comunicazioni con l'esterno la temperatura non sempre rimane costante e sensibili variazioni inverno-estate possono verificarsi, complicando notevolmente l'interpretazione dei dati isotopici. Inoltre, sempre nel caso di comunicazioni abbastanza efficienti con l'esterno, l'aria della grotta può risultare non satura di umidità, per cui le gocce che percolano dalla volta possono subire processi evaporativi che, di nuovo, compromettono la "leggibilità" dei risultati ottenuti. Esiste tuttavia la possibilità di rendersi conto dell'intervento di questi fattori di disturbo: è stato stabilito sperimentalmente che le concrezioni più adatte a questo tipo di studio sono le stalagmiti e nella struttura di una stalagmite l'accrescimento (deposizione di microstraterelli di carbonato di calcio) avviene ad opera delle gocce che, cadendo sul pavimento della grotta, si rompono, interessando con le microgocce prodotte dall'impatto un'area di almeno qualche centimetro quadrato. Se l'aria della grotta non è satura di vapor d'acqua, l'effetto dell'evaporazione parziale della goccia al momento dell'impatto determina una modesta ma misurabile variazione laterale della composizione isotopica del carbonato deposto. Qualora si riscontrassero variazioni laterali di composizione isotopica rispetto all'asse di accrescimento della stalagmite, ciò starebbe ad indicare una scarsa affidabilità dei campioni in esame. Osservazioni microscopiche di sezioni sottili del calcare deposto possono anche fornire preziose indicazioni sulle condizioni di formazione della concrezione stessa. Nel caso più favorevole, una serie molto fitta di misure isotopiche eseguite su una sezione della concrezione, tagliata parallelamente all'asse di accrescimento, permetterà di costruire un grafico tanto più dettagliatamente rappresentativo dell'andamento climatico nel corso della formazione dello speleotema, quanto più elevato sarà il tasso di deposizione del carbonato di calcio e quanto più fitte saranno le misure isotopiche eseguite. Inoltre, la contemporanea misura della composizione isotopica del carbonio può fornire preziose indicazioni paleoambientali, in quanto spesso l'anidride carbonica (CO₂) disciolta nelle acque circolanti nel sottosuolo proviene in buona parte dai processi biologici che hanno luogo nel terreno sovrastante la grotta e che sono frequentemente caratterizzati da valori specifici del rapporto ¹³C/¹²C. In tal modo è possibile ottenere, almeno nei casi più favorevoli, importanti informazioni sia di tipo paleoclimatologico sia di tipo paleoambientale.
Misura del δ¹⁸O nella silice e nel fosfato di organismi marini - L'equazione isotopica dei carbonati non può essere efficacemente sfruttata per studi paleoclimatologici a causa della presenza di due incognite: temperatura di precipitazione e composizione isotopica della soluzione dalla quale è precipitato il CaCO₃. Si è pensato che la disponibilità di una seconda analoga equazione, nelle stesse incognite, per un composto coesistente e coprecipitato con il carbonato di calcio nel medesimo guscio o scheletro fossile avrebbe consentito di risolvere il sistema per entrambe le incognite, permettendo di utilizzare il sistema di tali equazioni come mezzo di ricerca quantitativa. I composti più comunemente presenti nei fossili insieme al CaCO₃ sono la silice, il fosfato e il solfato. Per quest'ultimo composto è risultata subito evidente l'impossibilità di una sua utilizzazione, in quanto abitualmente è presente nei gusci degli organismi come "inclusione" di solfato marino, senza alcuna variazione isotopica comunque riferibile alle condizioni ambientali (la composizione isotopica del solfato in soluzione nell'acqua oceanica, sia ossigeno che zolfo, è praticamente costante, sia orizzontalmente che verticalmente). Nel caso del fosfato, la determinazione della composizione isotopica dell'ossigeno ha presentato seri problemi, essendo la tecnica di preparazione e misura assai lunga e complessa e presentando, per di più, imprevedibili inconvenienti. Quando finalmente fu possibile costruire un'equazione attendibile relativa ai fosfati (Longinelli - Nuti 1973), il suo coefficiente angolare (‒ 4,3) risultò identico a quello dell'equazione dei carbonati. Di conseguenza, l'errore nel calcolo delle due incognite (temperatura di precipitazione e composizione isotopica dell'acqua della soluzione) superava i limiti di una ragionevole accettabilità. Analoga sorte aveva lo studio intrapreso per giungere a determinare la composizione isotopica della silice. Il problema maggiore era, in questo caso, legato al fatto che nei gusci dei diversi organismi la silice è sempre presente nella forma idrata. Questa forma costringe ad utilizzare tecniche di lavoro assai complesse per giungere ad una corretta determinazione del rapporto ¹⁸O/¹⁶O. L'equazione sperimentale ottenuta (Labeyrie 1974) aveva un coefficiente angolare (‒ 4,1) molto simile a quelli delle equazioni dei fosfati e dei carbonati, rendendo quindi nullo il tentativo di realizzare un mezzo che consentisse ricostruzioni quantitative delle condizioni climatiche dei paleooceani. A causa di ciò, e nonostante la disponibilità di ben tre scale isotopiche, è possibile solamente calcolare l'effetto integrale della variazione della temperatura e della composizione isotopica dell'acqua oceanica. Nel caso del Quaternario recente è stato possibile valutare la composizione isotopica dell'acqua oceanica o, meglio, la sua variazione tra un glaciale ed un interglaciale (Labeyrie - Duplessy - Blanc 1987).
Misura del δ¹⁸O nel fosfato dello scheletro di Mammiferi - All'inizio degli anni Settanta veniva suggerita (Longinelli 1973), sulla base di alcune misure di composizione isotopica dell'ossigeno effettuate sul fosfato di ossa e denti di Mammiferi, la possibilità di utilizzare reperti fossili di questo tipo per realizzare studi paleoclimatologici dettagliati e quantitativi sulle aree continentali. Tale possibilità era ritenuta realizzabile nell'ipotesi che si verificassero le seguenti condizioni: 1) tutti gli individui appartenenti alla stessa specie e che vivono nella stessa zona avrebbero dovuto avere la stessa composizione isotopica dell'ossigeno dell'acqua corporea, con la sola eccezione di casi patologici; 2) il δ¹⁸O dell'acqua corporea dei Mammiferi avrebbe dovuto essere controllato principalmente dalla composizione isotopica dell'acqua ingerita e quindi, almeno nel caso di animali stanziali, dalla composizione isotopica media annua delle precipitazioni atmosferiche nell'area; 3) nel caso di individui diversi della stessa specie, il fosfato di calcio dello scheletro avrebbe dovuto essere precipitato sotto le stesse condizioni chimicofisiche, qualunque fossero queste condizioni, di equilibrio o di non equilibrio; 4) essendo la temperatura corporea assolutamente costante in tutti gli individui della stessa specie (sempre con l'eccezione di casi patologici) il δ¹⁸O (PO₄ ³⁻) del loro scheletro avrebbe dovuto essere controllato esclusivamente dalla composizione isotopica dell'acqua corporea; 5) in considerazione del punto 2), la composizione isotopica del fosfato dello scheletro avrebbe dovuto essere funzione diretta della composizione isotopica dell'acqua meteorica locale, che a sua volta è funzione diretta della temperatura media annua al suolo. Controllata sperimentalmente l'attendibilità dei punti 1) e 2), il passo successivo è stato la costruzione sperimentale delle prime equazioni isotopiche relative a singole specie di Mammiferi. Ogni specie ha infatti caratteristiche proprie, sia per quanto riguarda l'alimentazione sia per quanto riguarda il metabolismo, e quindi la produzione di acqua metabolica di composizione isotopica tuttora sconosciuta (Longinelli 1984; D'Angela - Longinelli 1990). È stata così realizzata una serie di equazioni (Fig. 575) che permettono, una volta effettuata la misura isotopica su un osso o su un dente fossile di un individuo appartenente ad una di queste specie, di tradurre direttamente questo dato in termini di composizione isotopica media annua delle precipitazioni atmosferiche durante la vita di quell'individuo (variabile paleoclimatologica quantitativa) e, volendo, in termini di temperatura media annua al suolo. Dopo la morte dell'animale, tuttavia, il materiale scheletrico (le ossa in particolare) è soggetto a processi diagenetici e tafonomici che tendono a modificare abbastanza rapidamente la composizione isotopica iniziale e quindi a falsare i risultati dal punto di vista paleoclimatologico. Per questo motivo, è preferibile in generale utilizzare, se possibile, lo smalto dei denti che resiste assai meglio a questi processi. Peraltro, anche lo studio dei denti può presentare problemi, in quanto in molti Mammiferi il fosfato di alcuni denti risulta precipitato in condizioni di non equilibrio isotopico: la stessa cosa si verifica nel caso dei denti da latte. Alcune specie, poi, che vivono in zone aride (ad es., canguri e conigli) o alcuni cervi che vivono in zone artiche, e quindi in condizioni ambientali particolarmente secche a causa delle basse temperature, presentano anomalie della composizione isotopica dell'acqua corporea. Tali anomalie potrebbero essere presenti anche in altre specie non ancora prese in considerazione. Sarà quindi necessario ampliare statisticamente questi studi, sia per essere in grado di discriminare tra le diverse specie fossili disponibili quelle che offrono maggiore affidabilità, sia per una migliore utilizzabilità del metodo negli ambienti più diversi.
Carbonio, ossigeno e idrogeno nella cellulosa e nella lignina - Lo studio della composizione isotopica dell'ossigeno, dell'idrogeno e del carbonio nella cellulosa e/o lignina delle piante è iniziato negli anni Settanta e fino dai primi risultati ottenuti (Schiegl - Vogel 1970; Epstein - Thompson - Yapp 1977) ci si è resi conto di avere a disposizione un nuovo ed efficace metodo di lavoro per lo studio quantitativo dei paleoclimi. Nel caso del carbonio, la composizione isotopica della sostanza organica delle piante è fondamentalmente diversa rispetto alla composizione isotopica della CO₂ atmosferica, che pure rappresenta il composto di partenza per l'elaborazione della sostanza organica della pianta stessa. Le maggiori cause di questa differenza si riferiscono al frazionamento o selettività isotopica che si determina nel corso dei processi di incorporazione della CO₂. A parte il fatto che alcuni di tali processi sono caratteristici del tipo di pianta e del suo metabolismo, le variazioni delle condizioni atmosferiche (temperatura, umidità e quantità totale delle precipitazioni) sviluppano un ulteriore controllo sui rapporti isotopici ¹³C/¹²C. Condizioni ambientali calde e secche, ad esempio, favoriscono l'arricchimento isotopico in ¹³C, mentre il contrario avviene in condizioni ambientali fredde e umide. In media, la variazione del δ¹³C nella cellulosa degli alberi è valutabile in poco meno di +0,3 ‰ per ogni °C in aumento, pur verificandosi una notevole variabilità per le diverse specie. Il rapporto isotopico ¹³C/¹²C costituisce quindi, se opportunamente utilizzato, un validissimo indicatore climatico (e paleoclimatico). Un eloquente esempio degli importanti risultati che questa ricerca può fornire si ha nel grafico di Fig. 576. Analoghe possibilità si hanno utilizzando le misure di composizione isotopica dell'ossigeno e dell'idrogeno, le cui curve, anche se non sempre perfettamente coincidenti con quelle del carbonio (le relative variazioni determinate da modificazioni climatiche possono farsi risentire sulle piante, sia con un leggero sfasamento cronologico, sia con una leggera differenza quantitativa), confermano in pieno l'attendibilità di questa ulteriore, preziosa tecnica di ricerca.
Misura del δ¹⁸O in carote di ghiaccio prelevate sulle calotte polari - Nel 1961 una spedizione italo-belga prelevava alla base Re Baldovino in Antartide una carota di ghiaccio, studiata poi in dettaglio per la sua composizione isotopica (Gonfiantini et al. 1963). Le carote di ghiaccio, sia artiche che antartiche, offrono un enorme potenziale per lo studio dei climi del passato, in quanto ogni singolo straterello annuale di ghiaccio, deposto in particolare sui grandi scudi che coprono il continente antartico e la Groenlandia, può conservare i valori di composizione isotopica che caratterizzarono la neve dalla quale il ghiaccio è stato formato (Fig. 577). È stato dimostrato, infatti, che la composizione isotopica del ghiaccio fornisce precise indicazioni sulla temperatura di formazione della neve (Cuffey 1995); che le bolle d'aria contenute nel ghiaccio stesso forniscono informazioni sulla composizione dei gas atmosferici e, in particolare, sulle concentrazioni dei gas che possono determinare il cosiddetto effetto-serra; che l'acidità del ghiaccio dà indicazioni su eventi vulcanici che si siano fatti risentire fino in quelle zone (Clausen 1995) e che gli elementi in tracce sono preziosi indicatori del verificarsi di diversi processi, sia in terra che in mare o nell'atmosfera.
Prima dell'introduzione delle tecniche isotopiche, lo studio dei paleoclimi utilizzava principalmente considerazioni e deduzioni basate su ricerche di paleobotanica, paleontologia, sedimentologia e osservazioni morfologico-strutturali. Queste discipline rivestono ancora un'importanza non trascurabile nell'ambito della paleoclimatologia, specialmente la paleobotanica, che, mediante lo studio della morfologia, della costituzione chimica e della distribuzione geografica dei granuli di polline e delle spore di diverse specie vegetali (palinologia), fornisce una preziosa messe di dati. La preservazione nel tempo dei granuli del polline e delle spore è infatti facilitata dalla loro elevatissima resistenza agli agenti chimici che possono agire successivamente all'inglobamento di questi materiali nei sedimenti. Tale resistenza spesso consente una buona conservazione del materiale fossile anche di età geologicamente piuttosto elevata. L'esame di questi reperti può permettere la ricostruzione della vegetazione, consentendo quindi di valutare le diverse condizioni ambientali. Analoghe considerazioni valgono nel caso degli studi paleontologici e perfino entomologici. Anche la distribuzione degli elementi in traccia è stata utilizzata per ottenere informazioni quantitative sulle condizioni paleoclimatiche. È noto, ad esempio, che i coefficienti di distribuzione del magnesio (Mg) e dello stronzio (Sr) relativi al calcio (Ca) in calciti e aragoniti sono funzione della temperatura di precipitazione. La concentrazione dello Sr decresce al crescere della temperatura, mentre quella del Mg aumenta; questo andamento, che è stato riscontrato ripetutamente in carbonati di precipitazione chimica, è stato verificato anche in carbonati di origine biogenica, come nel caso di alcuni coralli, di Echinodermi e di Lamellibranchi. Tuttavia, non è possibile stabilire correlazioni veramente quantitative tra concentrazioni di un certo elemento e temperature ambientali (t) a causa di problemi diversi. In alcuni casi, infatti, i risultati sono nettamente contrastanti fra gruppi di organismi diversi (correlazione Sr/t positiva nel caso dei Brachiopodi e negativa nel caso di alcuni Echinoidi); in altri casi i dati sono contrastanti all'interno di individui della stessa specie (correlazione Sr/t positiva nella calcite di Mytilus e negativa nell'aragonite degli individui della stessa specie); i rapporti di abbondanza Mg/Ca e Sr/Ca nell'acqua ambientale variano ampiamente e facilmente nel caso di acque continentali, influenzando direttamente le concentrazioni nei carbonati sedimentari, mentre variano molto poco nel caso di acque marine, nelle quali inoltre le variazioni di temperatura sono in genere abbastanza contenute. L'utilizzazione diretta della distribuzione degli elementi in traccia per ricostruzioni paleoclimatiche attendibili è dunque resa quanto meno problematica da inconvenienti di questo genere.
Per una trattazione estesa dei diversi metodi che concorrono alla ricostruzione cronologica degli eventi climatici e geologici che si sono succeduti nella storia della Terra si fa riferimento a quanto esposto nelle sezioni relative all'archeometria e ai metodi di datazione. Non sarà peraltro superfluo ricordare che per le ricostruzioni cronologiche in generale si possono utilizzare metodi di cronologia relativa (criterio paleontologico e/o criterio stratigrafico) e metodi di cronologia radiometrica. Tra i primi è di particolare interesse il metodo delle varve, che consente, sulla base del conteggio di livelli fittamente stratificati e riferibili alla deposizione stagionale di sedimenti di finezza e consistenza diverse, cronologie relative di grandissima definizione. Per quanto riguarda i secondi, esiste un ampio ventaglio di possibilità nel campo della determinazione dell'età di sedimenti e/o di materiali organici. Nel caso della datazione di eventi geologicamente piuttosto antichi, si potrà utilizzare il metodo del potassio/argon, (K/Ar), la sua variante argon-39/argon-40 (³⁹Ar/⁴⁰Ar) o altri metodi. Nel caso di materiali molto recenti (età non superiore a 50.000 anni) il metodo del ¹⁴C rimane quello di elezione, almeno quando si dispone di campioni che contengono carbonio. Sedimenti marini di età relativamente recente possono essere datati con i metodi del disequilibrio radioattivo, come quelli del torio-230 (²³⁰Th), del protoattinio-231 (²³¹Pa), dell'uranio-234 (²³⁴U), o con il metodo del piombo-210 (²¹⁰Pb), che tra l'altro è applicabile anche alla datazione di carote di nevato e di ghiaccio. Tra i metodi di datazione legati alla determinazione dei danni da radiazione prodotti nella struttura reticolare di composti diversi, si devono ricordare il metodo della termoluminescenza e, ben più importante, il metodo delle tracce di fissione. Infine, tra i metodi di datazione estranei alla radioattività, si devono ricordare il metodo che sfrutta il processo di racemizzazione degli aminoacidi, anche se può essere vantaggiosamente utilizzato solo in particolari condizioni, e il paleomagnetismo, la cui utilizzazione non è limitata ai sedimenti marini, anche se in questo caso il metodo risulta particolarmente vantaggioso.
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di Mauro Cremaschi
Il Quaternario è il periodo più recente della storia della Terra e si suddivide nelle epoche Olocene e Pleistocene. Il termine Pleistocene venne introdotto nel 1839 da Ch. Lyell per indicare, su base paleontologica, gli strati al tetto delle successioni terziarie denominate Pliocene. Quest'ultimo termine, derivato dal greco (πλείων "più" e ϰαινόϚ "recente"), significa appunto "più recente", mentre Pleistocene, anch'esso dal greco (πλεῖστοϚ "il più"), viene a significare "il più recente". Poiché le glaciazioni ne sono il fenomeno principale, il Quaternario è stato denominato per lungo tempo Età Glaciale e, dato che la nascita e lo sviluppo dell'umanità ne costituiscono l'altro aspetto rilevante, è stato proposto dai geologi russi di denominarlo Antropogene. Il Pleistocene è convenzionalmente suddiviso in inferiore, medio e superiore (Bowen 1978); l'inizio dell'inferiore è generalmente posto a circa 1,8 milioni di anni dal presente, durante l'episodio paleomagnetico Olduvai; il limite con il Pleistocene medio cade a circa 0,75 milioni di anni dal presente, in corrispondenza del passaggio fra le epoche paleomagnetiche Matuyama e Brunhes, mentre quello con il Pleistocene superiore cade a 120.000 anni dal presente, al passaggio fra gli "stadi isotopici" 6 e 5 (concetto di cui sarà data definizione più avanti). L'inizio dell'Olocene è posto a 10.000 anni dal presente.
Il Quaternario è un periodo breve, se rapportato alla scala dei tempi geologici, poiché dura poco più di un milione di anni. La documentazione ad esso relativa è tuttavia incomparabilmente meglio conservata e più abbondante di quella dei periodi più antichi e la conoscenza degli eventi, dei loro meccanismi e delle loro cause vi può essere sviluppata con un alto grado di precisione. La principale caratteristica del Quaternario è l'instabilità climatica che si è manifestata attraverso l'alternarsi di periodi caldi analoghi all'attuale, gli interglaciali, e di periodi freddi con caratteri glaciali. Questo fenomeno coinvolge l'intero pianeta nei suoi aspetti geomorfologici e biologici, poiché l'avvento della glaciazione implica l'accumulo di grandi masse di ghiaccio sulle calotte polari e sulle catene montuose e l'abbassamento sensibile del livello marino; i periodi interglaciali, invece, vedono il ribaltamento di questi fenomeni. Le classificazioni stratigrafiche del Quaternario, fin dalle più antiche, sono basate sui cambiamenti climatici, in particolar modo sull'alternanza dei periodi glaciali e interglaciali. Questo genere di classificazione implica molteplici problemi: le formazioni rocciose quaternarie non sono studiate semplicemente sulla base dei loro caratteri intrinseci, ma per l'interpretazione paleoclimatica che questi possono rappresentare. Inoltre, la classificazione climatostratigrafica può legittimamente essere applicata alle aree interessate dalle glaciazioni e a quelle ad esse direttamente collegate, ma pone problemi di correlazione ed estrapolazione con le aree che glacializzate non furono. Per ovviare a questi problemi si ricorre sempre di più a metodi di datazione assoluta, al fine di collocare gli eventi quaternari nel tempo; inoltre, i classici criteri di classificazione litostratigrafica e biostratigrafica, in uso per i periodi più antichi, vengono integrati da nuovi tipi di unità stratigrafiche, elaborati con l'ausilio di altre discipline che completano lo studio del Quaternario, come ad esempio la morfostratigrafia, la pedostratigrafia, la magnetostratigrafia, ecc.
Anche se la percezione degli effetti dell'espansione dei ghiacciai affonda nel pensiero pratico delle comunità rurali alpine da tempo immemorabile, la questione del Glaciale fu posta per la prima volta da J. Hutton (1795) e proseguì con un lungo e acceso dibattito sulla natura e il numero delle glaciazioni per tutto il XIX secolo (Flint 1971; Bowen 1978). In questa tradizione si inserirono le ricerche di A. Penck ed E. Brückner (1909), geomorfologi viennesi, che partirono dall'analisi geomorfologica delle Prealpi bavaresi, estendendola poi alle altre regioni. In quest'area vennero riconosciuti due ordini di terrazzi ben conservati (Niedterrassen e Hochterrassen), che verso monte si congiungevano ad altrettante distinte cerchie moreniche. I due terrazzi ben conservati avvolgevano inoltre i residui di più antichi terrazzi (Jünger Deckenschotter e Älter Deckenschotter), anch'essi da correlarsi con più antiche cerchie moreniche. Secondo lo schema morfostratigrafico proposto, ciascuna glaciazione si era tradotta nella costruzione di una morena terminale, sospinta dal ghiacciaio nella sua avanzata, e da un terrazzo fluvioglaciale ad essa esterno, determinato dalle acque di fusione che erano fuoriuscite dal ghiacciaio cariche di sedimenti. Nei periodi interglaciali cessarono i fenomeni di aggradazione e i depositi precedentemente accumulati furono incisi da corsi d'acqua a più debole energia che permisero la formazione di terrazzi. Ai quattro sistemi di terrazzi-morene identificati corrisposero quattro distinte glaciazioni, alle quali vennero dati i nomi di piccoli corsi d'acqua del pedemonte bavarese, affluenti di destra del Danubio: Würm, Riss, Mindel e Günz, dalla più recente alla più antica, separate rispettivamente dai periodi interglaciali detti Riss-Würm, Mindel-Riss e Günz-Mindel. A. Penck ed E. Brückner diedero una stima cronologica della durata relativa delle quattro glaciazioni, sulla base della diversa consistenza ed estensione delle morene e dei depositi fluvioglaciali. La stima della durata degli interglaciali si basò sullo spessore dei depositi lacustri e dei paleosuoli ad essi riferibili. L'Interglaciale Mindel-Riss, ritenuto di durata più lunga, venne generalmente indicato come il Grande Interglaciale. La classificazione penckiana divenne il paradigma al quale vennero riferite le cronologie dei depositi quaternari di tutto il mondo, fino alla fine degli anni Settanta. Inoltre, nei decenni successivi alla pubblicazione dell'opera fondamentale di Penck e Brückner, si assistette in ambito alpino ad un raffinamento della cronostratigrafia, con l'aggiunta di nuovi periodi glaciali, anteriori al Günz, cioè Donau e Biber. In quegli stessi anni analoghi sistemi di classificazione dei periodi glaciali furono elaborati sia nell'Europa settentrionale sia nel Canada e negli Stati Uniti, dove imponenti erano le tracce lasciate dai ghiacciai dello scudo svedese, della regione laurenziana e delle Montagne Rocciose. La principale novità di questi sistemi (Flint 1971; Bowen 1978) consisteva nel fatto che erano basati principalmente su unità litostratigrafiche e pedostratigrafiche e non solo morfostratigrafiche. Tuttavia, a causa di questo diverso approccio, vi sono state difficoltà di correlazione fra la glaciazione alpina e quelle dell'Europa settentrionale e dell'America, già per le glaciazioni precedenti l'ultima.
Già alla metà del secolo XIX il matematico francese J. Adhemar e il geologo scozzese J. Croll supposero che la causa delle glaciazioni potesse imputarsi alle variazioni dell'intensità della radiazione solare che raggiunge il nostro pianeta. Fu tuttavia grazie agli studi dell'astronomo serbo M. Milanković negli anni Trenta che la teoria astronomica delle glaciazioni prese piena e consapevole forma. Milanković discusse i risultati dei suoi calcoli con il geografo W. Koppen e il geologo A. Wegener, che diedero alla teoria il necessario supporto geologico per la correlazione con i periodi glaciali effettivamente documentati da evidenze geologiche. Gli effetti gravitazionali dei corpi celesti causano perturbazioni nei moti terrestri, che periodicamente provocano variazioni nella distribuzione geografica della radiazione solare. Sono tre le principali perturbazioni che danno luogo a cinque periodi primari (Trevisan - Tongiorgi 1976; Crowley - North 1991): l'eccentricità dell'orbita terrestre attorno al Sole varia tra quasi circolarità (condizione nella quale la radiazione solare è distribuita più omogeneamente sulla Terra) e leggera ellitticità, con periodo complessivo di circa 400.000 anni e massimi relativi che si ripetono a intervalli di 100.000 anni circa; l'obliquità dell'asse terrestre varia all'incirca tra 22° e 25° con un periodo di circa 41.000 anni (queste variazioni tendono a modificare il ciclo stagionale alle alte latitudini di entrambi gli emisferi, con effetto minimo nella zona compresa tra i due tropici); la precessione degli equinozi, originata dall'attrazione della Luna, del Sole e dei pianeti sul rigonfiamento equatoriale terrestre, risulta nel cambiamento della distanza fra Terra e Sole in una stagione data. Il moto di precessione, costituito principalmente dal movimento doppio-conico dell'asse di rotazione terrestre con fulcro nel centro di massa della Terra, determina l'alternarsi di epoche caratterizzate da escursione termica stagionale minima nell'emisfero boreale e massima nell'emisfero australe con altre nelle quali si presenta l'opposto di questa situazione. L'intensità dell'effetto, contrariamente a quanto avviene per le variazioni dell'obliquità dell'asse, è massima alle basse latitudini. Il ciclo del moto di precessione si compie in un periodo complessivo medio di circa 22.000 anni, essendosi manifestati nell'ultimo milione di anni sia cicli con periodo minore, di circa 19.000 anni, sia cicli con periodo maggiore, di circa 23.000 anni. Sulla base di queste diverse perturbazioni, Milanković stabilì una serie di curve dell'insolazione per diverse latitudini, in particolare per quella a 65° N, poiché, nell'opinione dell'autore, erano stati i minimi di insolazione estiva alle alte altitudini a provocare l'inizio delle glaciazioni. Vennero riconosciuti una decina di minimi di insolazione abbastanza accentuati da innescare altrettante età glaciali, in palese contrasto con la classificazione di Penck e Brückner che ne prevedeva solo quattro. Koppen e Wegener cercarono di superare questa contraddizione, affermando che non erano i singoli picchi della curva di Milanković a corrispondere alle diverse glaciazioni alpine, quanto piuttosto i loro raggruppamenti, che erano dunque suddivisi in stadi. Questa teoria incontrò un'iniziale fortuna, ma andò progressivamente declinando e le variazioni orbitali vennero ritenute ininfluenti nel determinare il clima terrestre nel passato, fino alla scoperta della stratigrafia isotopica.
Gli studi sulla fisica delle particelle negli anni Quaranta e nel dopoguerra hanno offerto alla ricerca geologica gli strumenti per datare le sequenze stratigrafiche e i corpi rocciosi, non soltanto in termini relativi, sulla base delle relazioni stratigrafiche, ma in termini assoluti, attribuendo loro date espresse in anni-calendario. Si scoprì infatti che alcuni radioisotopi, specialmente del carbonio e della serie dell'uranio, avevano la proprietà di decadere con ritmi costanti e misurabili. Le tecniche messe a punto a partire da allora sono oggi applicabili a molti materiali che si trovano abitualmente nei depositi quaternari e coprono in modo più o meno soddisfacente l'intero intervallo cronologico del Quaternario.
Lo studio paleoecologico dei Foraminiferi delle successioni stratigrafiche incluse nelle carote estratte dai fondali oceanici ha dimostrato, nelle diverse regioni dell'oceano, l'alternarsi di associazioni di Foraminiferi caldi e di Foraminiferi freddi, alle quali era parallelo un diverso frazionamento degli isotopi dell'ossigeno: le associazioni più calde risultavano arricchite dell'isotopo leggero (¹⁶O), mentre quelle più fredde risultavano arricchite dall'isotopo più pesante (¹⁸O), minoritario rispetto al precedente ma pur presente in quantità sensibile nell'acqua marina. Il frazionamento dell'ossigeno appariva senz'altro legato alla temperatura dell'acqua alla superficie dei mari (Emiliani 1955), ma poiché le variazioni isotopiche erano state osservate non solo sulla fauna planctonica ma anche su quella bentonica, l'effetto parve più legato alla composizione isotopica dell'intera colonna d'acqua piuttosto che alla sua temperatura. È la consistenza delle masse di ghiaccio presenti sui continenti che regola la composizione isotopica dell'acqua di mare. Infatti, considerando il turnover (tempo di ricambio) dell'acqua, l'evaporazione favorisce la rimozione di ¹⁶O, più leggero, verso l'atmosfera e conseguentemente l' arricchimento dell'acqua marina in ¹⁸O, più pesante. Nelle condizioni interglaciali, analoghe al presente, l'equilibrio tra i due isotopi viene ristabilito dalle precipitazioni. In condizioni glaciali, l'acqua meteorica non ritorna al mare, ma rimane sui continenti in forma solida (neve e ghiaccio); le acque marine di conseguenza si arricchiranno di ¹⁸O. Pertanto, le curve isotopiche dell'ossigeno costituiscono curve di paleoglaciazione piuttosto che curve di paleotemperatura (Bowen 1978). Le curve isotopiche sono suddivise in stadi, i cui limiti cadono nei punti intermedi fra i picchi caldi, corrispondenti ad un calo della concentrazione di ¹⁸O, e quelli freddi, corrispondenti ad un aumento di questo stesso isotopo. Gli stadi sono numerati progressivamente a partire dall'Interglaciale attuale, al quale è attribuito il numero 1: gli stadi designati con un numero dispari indicano fasi calde, mentre quelli designati da un numero pari le fasi fredde. L'andamento delle curve non è sinusoidale, ma asimmetrico "a dente di sega" ed indica che l'accumulo di ghiaccio sui continenti è stato progressivo, mentre la deglaciazione assai brusca. La carota V28-238, perforata nell'Oceano Pacifico, è particolarmente significativa e fu proposta come standard per le variazioni climatiche del Pleistocene medio e superiore (Shackleton - Opdyke 1973; Hays - Imbrie - Shackleton 1976). In essa si rinvenne, a 12 m di profondità, il passaggio fra le epoche paleomagnetiche Matuyama e Brunhes, datato a circa 750.000 anni dal presente. Il calcolo della velocità di sedimentazione consentì di attribuire la base del substadio 5e a 123.000 anni dal presente, in accordo con molte datazioni uranio/torio (U/Th) su barriere coralline e spiagge sollevate risalenti all'ultimo Interglaciale. Tale carota dimostra che il clima durante il Quaternario fu caratterizzato da fasi glaciali e interglaciali alternate, che vi furono ben otto principali glaciazioni nell'epoca Brunhes e che i periodi glaciali di intensità comparabile a quelli del Pleistocene superiore cominciarono già circa 900.000 anni fa, in epoca Matuyama, con lo stadio isotopico 22. I molti carotaggi marini studiati da allora dimostrano che questa stratigrafia ha una validità globale e si riscontra in tutti gli oceani. Alcuni carotaggi ottenuti in tempi più recenti (Tiedemann - Sarnthein - Shackleton 1994) scendono ampiamente nel Pliocene, dimostrando che l'ampiezza delle oscillazioni fra periodi glaciali ed interglaciali si riduce sensibilmente nel Pleistocene inferiore ed alcuni picchi glaciali accentuati si trovano soltanto alla transizione Matuyama/Gauss a 2,5 milioni di anni fa. La stratigrafia isotopica ha segnato la definitiva confutazione della classificazione quadripartita del sistema alpino e la conferma invece della teoria astronomica. Mentre la stratigrafia isotopica dimostra che vi furono almeno undici periodi glaciali nell'ultimo milione di anni, la classificazione alpina ma anche quella relativa all'Europa e quella americana ne indicano quattro o sei nello stesso intervallo di tempo (Kukla 1977). Solo alcune delle glaciazioni che si sono effettivamente verificate hanno lasciato tracce conservate in ambiente continentale. Il loro numero è stato determinato da fattori locali e le successioni di morene sono intervallate da ampie lacune stratigrafiche. Come è generalmente sostenuto, la nomenclatura alpina non dovrebbe essere più usata per la classificazione degli eventi quaternari, se non su base strettamente locale. Accurate elaborazioni matematiche delle curve isotopiche hanno inoltre dimostrato che vi è una corrispondenza statisticamente significativa fra le variazioni di volume dei ghiacci e le fluttuazioni di tutti i parametri orbitali (Hays - Imbrie - Shackleton 1976; Berger et al. 1985). In particolare, fino a 600.000 anni fa dominano i cicli legati all'obliquità dell'asse terrestre con periodi di 41.000 anni, mentre per fasi più antiche dominano i cicli indotti dall'eccentricità dell'orbita e dalla precessione degli equinozi con periodi di 100.000 anni. La stratigrafia isotopica ha così confermato in pieno gli assunti della teoria astronomica, poiché è dimostrato che le variazioni dei parametri orbitali sono le principali cause dell'aumento del volume dei ghiacci. Se i carotaggi oceanici hanno offerto una solida maglia per le suddivisioni stratigrafiche del Quaternario, rimane aperto il problema della correlazione della stratigrafia isotopica oceanica con gli eventi continentali. Purtroppo le successioni stratigrafiche che vi si trovano sono in generale discontinue e ricoprono intervalli di tempo relativamente brevi. I löss dell'Europa centrale, dell'Eurasia e della Cina rappresentano una delle rare eccezioni a questa regola. Due sono i motivi che fanno di questi depositi oggetto privilegiato dello studio del Quaternario continentale: i meccanismi di sedimentazione e il loro significato paleoclimatico. Il löss è una polvere sollevata dal vento dalle superfici non protette da vegetazione, trasportata su medie distanze e depositata poi per decantazione quando il vento perde energia. Questo processo fa sì che il löss si accumuli in coltri omogenee e successive e giunga nelle aree più tipiche (sopra ricordate) a formare spessori molto consistenti. Il löss si depone in ambienti steppici, necessita di un clima arido, talora anche freddo, ed è in genere considerato sedimento tipico dei periodi glaciali, al di fuori delle aree direttamente interessate dall'espansione dei ghiacciai stessi. I löss sono sistematicamente intercalati da suoli che per formarsi hanno richiesto momenti di stabilità morfologica, coperture vegetali, talora a carattere forestale, e dunque hanno significato paleoclimatico di interstadiali o interglaciali. I löss in Cina si trovano soprattutto nelle regioni centro-settentrionali, nell'alto bacino del Fiume Giallo, noto come altipiano del löss. La sedimentazione del löss vi inizia forse già nel Pliocene, nel momento in cui la formazione del sistema montuoso himalayano isolò queste regioni dai monsoni, determinandovi condizioni climatiche moderatamente aride. Il löss raggiunge spessori di circa 200 m (Liu 1985) e ha una stratigrafia assai omogenea in tutta l'area. Si distingue un'alternanza sistematica di löss (L) e suoli (S) che vengono numerati in progressione, dal suolo attuale (S0) e dalla più recente coltre di löss (L1). Il limite paleomagnetico Brunhes/Matuyama (750.000 anni) cade nel löss L8, fra i suoli S7 e S8, mentre la base della successione stratigrafica di Luochan precede l'evento paleomagnetico di Olduvai (1,87 milioni di anni). I suoli che generalmente si intercalano tra i löss cinesi hanno caratteristiche di suoli forestali e indicano interruzioni nella sedimentazione lössica del rango di interglaciali. Molti autori hanno sottolineato la corrispondenza fra i cicli della sedimentazione lössica e quelli isotopici dei carotaggi oceanici, circostanza che è stata ulteriormente avvalorata dalle variazioni di suscettibilità magnetica misurata in alcune sezioni chiave (Kukla et al. 1988). La suscettibilità magnetica e la concentrazione di magnetite che la origina sono inversamente proporzionali alla velocità di sedimentazione del löss: ciò ha un chiaro significato paleoclimatico, poiché ciascun picco, indicando lo sviluppo di un suolo, segna un periodo interglaciale. Le curve che le variazioni della suscettibilità tracciano con la profondità nelle sezioni lössiche, datate radiometricamente, hanno un andamento del tutto compatibile con la stratigrafia isotopica, armonizzata con le variazioni dei parametri orbitali. Ciò significa che la sedimentazione del löss è avvenuta in parallelo alle variazioni globali delle masse glaciali; anzi, i depositi di löss ne costituiscono la testimonianza più completa nelle aree continentali per gran parte del Pleistocene.
Le carote di ghiaccio artiche e antartiche e in alcuni casi le lunghe sequenze polliniche che coprono l'intero periodo concorrono ad integrare e a dettagliare le informazioni che provengono dalla stratigrafia isotopica dei carotaggi oceanici. La possibilità di fare sistematico ricorso ai metodi di datazione assoluta consente di estrapolare queste informazioni a quasi tutte le situazioni regionali e ai dati stratigrafici più frammentari. Per questo periodo giocano un ruolo molto significativo le successioni stratigrafiche in grotta, diffuse in ogni regione, in cui sono associate testimonianze geologiche e archeologiche particolarmente significative per un'epoca che vide il declino dell'uomo di Neandertal e l'affermarsi dell'uomo moderno. Nella stratigrafia delle glaciazioni alpine l'ultimo Interglaciale è definito dalle due glaciazioni contigue (Riss-Würm), mentre nella classificazione nordeuropea il medesimo Interglaciale è definito in modo assai più preciso su base biostratigrafica e denominato Eemiano (Mangerud 1991). Lo stratotipo si trova lungo il fiume Eem (Paesi Bassi) ed è noto da più di un secolo (Zagwijn 1961). L'Eemiano è definito su base palinologica: iniziò nel momento in cui il deserto artico venne rimpiazzato dalla foresta densa e terminò con la scomparsa della vegetazione determinata dal ristabilirsi delle condizioni glaciali. Numerosi bacini lacustri al margine delle morene hanno permesso di riscontrare simili situazioni stratigrafiche weichseliane nei Paesi Bassi e in Germania. Gli interstadi del Weichseliano (corrispondenti al Würm del sistema alpino) inferiore e medio sono definiti sulla base degli studi palinologici e delle datazioni radiocarboniche di livelli torbosi, interstratificati a depositi periglaciali nello Jütland e nella Germania nord-occidentale (Nilsson 1983). Pur prendendo talora denominazioni regionali, gli interstadi generalmente riconosciuti sono Brørup, Odderade, Glinde, Hengelo (correlato, in ambito francese, con l'interstadio di Arcy) e Denekamp, che qui vengono proposti con l'attribuzione cronostratigrafica di J. Mangerud (1991). Dal punto di vista della stratigrafia isotopica, il Pleistocene superiore si compone degli stadi dal 5 al 2. Lo stadio 5 è caratterizzato da numerose oscillazioni (cinque substadi dal 5e al 5a). Segue lo stadio 4, che denota il primo vero picco glaciale, quindi lo stadio 3, che al contrario indica una diminuzione del volume dei ghiacci, e infine lo stadio 2, relativamente breve ma marcatamente accentuato, che segna l'ultimo e più intenso periodo glaciale del Pleistocene superiore. La successione stratigrafica isotopica non è tuttavia immediatamente correlabile con le documentazioni continentali in base alla sola stratigrafia oceanica ed è incerto se l'Interglaciale Eemiano debba correlarsi con l'intero stadio 5 o soltanto con una sua parte (Kukla 1977). Le carote di ghiaccio artiche e antartiche, insieme alle serie polliniche di La Grande Pile (Woillard - Mook 1982) e a quella più recente di Les Echets (Beaulieu - Reille 1984), consentono una ricostruzione dettagliata di questi avvenimenti. L'Eemiano, nella successione pollinica di La Grande Pile, è identificato nella zona pollinica alla base della serie ed è correlato con il substadio 5e, mentre i successivi periodi caldi St.- Germain I e II corrispondono rispettivamente ai substadi 5c e 5a. I substadi 5d e 5b, che si correlano nella serie di La Grande Pile con i periodi Mellisey I e II, corrispondono a due effettivi picchi glaciali e il primo segna l'innesco della glaciazione, in quanto corrisponde, dal punto di vista cronologico, al minimo di radiazione solare prevista dai calcoli astronomici a 118.000 anni (Martinson et al. 1987). L'aumento di volume dei ghiacci dello stadio 4, concordemente indicato nelle carote oceaniche e in quelle di ghiaccio, corrisponde a una sensibile dominanza delle Graminacee nei diagrammi pollinici, che indicano un ambiente steppico freddo. Lo stadio isotopico 3, a parere di molti autori, è uno dei momenti più enigmatici dell'ultimo periodo glaciale. A giudicare dalla stratigrafia delle carote oceaniche, esso corrisponde ad una lieve riduzione delle masse glaciali. Qualora si osservi lo stesso intervallo cronologico nella carota di ghiaccio di GRIP Summit (Dansgaard et al. 1993), la principale caratteristica di questo periodo sembra essere una forte instabilità climatica, con numerose e frequenti fluttuazioni di breve durata, ma di forte intensità: vi è ancora discordanza di pareri circa la loro natura. Questo periodo dovrebbe corrispondere, almeno in ambiente mediterraneo e al margine meridionale delle Alpi, a un marcato riscaldamento. Il ritrovamento di materiali aurignaziani (Broglio 1994) negli altipiani prealpini (Monte Avena) e nelle grotte dei Caravanche (Grotta Potocka), in aree che furono circondate dai ghiacciai durante l'ultimo apice glaciale, indica una loro posizione assai arretrata durante l'Interpleniglaciale. Lo stadio isotopico 2 è evidenziato in tutte le fonti geologiche come la più intensa fase glaciale; ad esso sono da attribuire con tutta probabilità gli apparati più esterni dei sistemi morenici del margine meridionale delle Alpi. Tra le numerose successioni stratigrafiche in grotta che documentano questo periodo, il riempimento della Grotta di Fumane contiene una documentazione geologica, paleontologica e archeologica di eccezionale interesse. La successione stratigrafica, dello spessore di oltre 10 m, consente di ricostruire le vicende climatiche che vanno dalla fine dello stadio 5 fino all'inizio dello stadio 2. Numerose datazioni radiocarboniche e col metodo della termoluminescenza forniscono un inquadramento cronologico preciso. La presenza in tutti i livelli di testimonianze archeologiche, prima musteriane poi aurignaziane e anche, pur in minore misura, gravettiane, consente un preciso raccordo con le vicende culturali.
Nel Tardiglaciale, malgrado una durata di pochi millenni, avviene il più drammatico e repentino cambiamento ambientale del Quaternario recente: in un tempo brevissimo, per la scala geologica, si passa da condizioni pienamente glaciali a condizioni interglaciali. Sul piano della storia dell'umanità i mutamenti sono ancora più importanti, poiché il Tardiglaciale vede l'apogeo delle culture ad economia paleolitica di caccia e raccolta, prima del rapido passaggio alle economie produttive e alle società complesse, mediante la "domesticazione della natura" dell'Olocene. In questo periodo, ad una sostanziale stabilità termica fanno riscontro importanti cambiamenti ambientali, ai quali l'attività dell'uomo non è estranea. Strumenti di datazione come il radiocarbonio, la dendrocronologia e la lichenometria consentono di datare gli eventi con un'approssimazione al di sotto del secolo; tuttavia, specie per l'Olocene, non esistono a tutt'oggi una nomenclatura stratigrafica e suddivisioni cronologiche generalmente accettate (Orombelli - Ravazzi 1996). Il Tardiglaciale comprende i periodi Dryas antico, Bølling, Allerød e Dryas recente, la cui brusca conclusione segna il passaggio all'Olocene. Negli ultimi anni la datazione dei loro limiti è stata precisata grazie al conteggio degli strati annuali nelle carote di ghiaccio, alla dendrocronologia e alle datazioni U/Th, e sono per essi disponibili date espresse in anni-calendario. L'Olocene è convenzionalmente diviso in inferiore, medio e superiore, con inizi fissati, rispettivamente, a 10.000, 7000 e 3000 anni radiocarbonio convenzionali. La suddivisione dell'Olocene in Ipsitermico (optimum climatico) e Neoglaciale tiene maggiormente conto delle variazioni delle temperature indicate dai carotaggi in ghiaccio. Infatti, il primo racchiude la parte più calda dell'Olocene, il secondo segna la ripresa dell'avanzata dei ghiacciai montani. Pur non essendovi fra i due periodi un limite universalmente accettato, la Neoglaciazione includerebbe gli ultimi 5300 anni radiocarbonio (Denton - Porter 1967). L'Olocene fu tradizionalmente suddiviso in cinque periodi di natura biostratigrafica (Preboreale, Boreale, Atlantico, Subboreale e Subatlantico), che furono introdotti da Blytt (1876) e Sernader (1910) sulla base dei resti macroscopici vegetali rinvenuti nelle torbiere della Scandinavia. Questa classificazione venne applicata alle successioni polliniche dell'Europa centrale e settentrionale e i periodi in essa inclusi presero sostanzialmente il significato di zone polliniche. Una più recente versione di questa classificazione si basa sulle datazioni ¹⁴C e considera i diversi periodi come cronozone, fissandone i limiti arbitrariamente arrotondati a multipli di 500 anni in cronologia radiocarbonica convenzionale. Pur essendo questa classificazione oggi in disuso ed essendo difficilmente esportabile in aree lontane dall'Europa settentrionale, essa è stata utilizzata con successo anche in tempi recenti per l'Italia settentrionale. Una più dettagliata descrizione delle variazioni delle paleotemperature tardiglaciali e oloceniche è desumibile dalle curve isotopiche derivate dai carotaggi oceanici e in ghiaccio, ai quali si è anche aggiunta la curva del metano determinato nelle bolle d'aria incluse nel ghiaccio. Il metano è una misura dell'attività biologica delle zone umide e sembra in relazione alla diffusione di laghi e paludi. La transizione fra condizioni glaciali e interglaciali è avvenuta in due fasi. Un primo, rapido aumento della temperatura fino a livelli comparabili con gli odierni (7÷8 °C, ma forse anche 15 °C) avvenne circa 14.700 anni fa. Tale fase è contraddistinta da un aumento della concentrazione di metano e delle precipitazioni ed è identificata con la cronozona Bølling. Al passaggio nella cronozona Allerød la temperatura ebbe una flessione di circa 5 °C. Le temperature dell'Allerød sono di poco inferiori alle attuali, ma le fluttuazioni negative appaiono frequenti e vi sono due picchi freddi, il più antico dei quali è correlato con il Dryas antico, mentre il secondo, più marcato, è indicato nella letteratura di lingua inglese come Intra Allerød Cold Period. L'inizio del Dryas recente, datato a 12.890 anni dal presente, corrisponde ad un episodio di improvvisa degradazione climatica, percepibile specialmente alle alte latitudini. Esso è probabilmente da attribuire allo scioglimento del ghiacciaio della regione laurenziana, che immise nell'Oceano Atlantico ingenti quantità d'acqua fredda modificando per un breve periodo la circolazione oceanica. La transizione fra Dryas recente e Olocene è datata (Stuiver - Grootes - Braziunas 1995) a 11.650 anni calibrati (corrispondenti a 10.000 anni convenzionali) e vede un aumento della temperatura di circa 7 °C ed un aumento del 100% delle precipitazioni. Nell'Olocene le curve isotopiche indicano un massimo termico fra 9000 e 4000 anni dal presente. Anche la curva del metano ha un aumento tra 11.500 e 8500, a causa dell'estesa formazione di specchi d'acqua sia alle alte latitudini sia nella fascia tropicale sahariana. L'aumento si esaurisce successivamente forse a causa dell'interramento degli specchi lacustri delle alte latitudini. Il marcato picco negativo del metano, insieme a quello positivo della concentrazione di ¹⁸O, datato a 8200 anni dal presente, segna un breve degrado climatico che interrompe il periodo ipsitermico. Pur permanendo ignote le cause di questo episodio (Alley et al. 1997), esso ha riflessi globali poiché coincide, ad esempio, con una marcata crisi di aridità in area sahariana, denominata "periodo arido medio-olocenico". Il VI millennio a.C. segna una fase cruciale per l'Olocene: vi è infatti un netto peggioramento climatico segnalato nelle carote di ghiaccio, specie in quella di Camp Century, da un aumento della concentrazione di ¹⁶O: ad esso sono collegati un generale avanzamento dei ghiacciai montani in America Settentrionale, nel Nord dell'Europa e sulle Alpi (Denton - Porter 1967; Baroni - Orombelli 1996), la generale ripresa delle condizioni desertiche in Sahara e l'abbassamento dei laghi centrafricani (Street - Grove 1979). La recente scoperta del cosiddetto "uomo di Similaun" nelle Alpi Tirolesi ha portato nuovi elementi per la datazione del Neoglaciale. Il corpo ha un'età radiocarbonica che va da 4500±30 a 4580±30 anni convenzionali dal presente, corrispondenti a 5300-5050 anni in cronologia calibrata. Il perfetto stato di conservazione del corpo e del suo equipaggiamento indica un immediato seppellimento da parte della coltre nevosa che non si è più sciolta fino ai nostri giorni (Baroni - Orombelli 1996). A partire da 5300-5050 anni calibrati dal presente si è dunque verificato un rapido cambiamento climatico, che segna l'inizio del progressivo deterioramento climatico dell'Olocene superiore. Quest'ultimo periodo è scandito da alcune minori fluttuazioni climatiche: un periodo freddo e umido, compreso tra 4500 e 2500 anni dal presente, anche chiamato nell'Europa settentrionale "periodo freddo dell'età del Ferro" (Crowley - North 1991), seguito da un effimero miglioramento climatico al tempo dell'Impero romano, da un nuovo peggioramento coincidente con l'Alto Medioevo (500-1000 d.C.) e quindi dall'optimum medievale (circa 1000-1300). Fra il 1450 e il 1890 si ebbe infine una marcata recrudescenza climatica denominata "piccola età glaciale" (LIA, Little Ice Age). Questo periodo ha assunto un interesse particolare, poiché per esso si dispone non soltanto dei dati geologici, ma anche di fonti storiche, documentarie, nonché delle prime serie meteorologiche. Si verificarono un abbassamento della temperatura di 1÷1,5 °C e una consistente avanzata dei ghiacciai alpini di tutte le catene montuose; vi sono inoltre notizie dell'aumento del ghiaccio marino in Irlanda, della marcata riduzione delle temperature estive nell'Europa settentrionale, di un aumento dell'aridità e delle tempeste di sabbia e infine di inverni più freddi documentati in Cina (Crowley - North 1991).
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di Lanfredo Castelletti
Il progresso delle ricerche paleobiologiche, in particolare di quelle relative alla flora e alla vegetazione antica, e parallelamente l'avanzamento degli studi sulla climatologia, sulla geomorfologia e sulla pedologia del Quaternario, hanno consentito di sviluppare nuove proposte e modelli più convincenti per conoscere e "ricostruire" i paesaggi antichi. Tuttavia il paesaggio antico non può essere considerato come una serie di spazi unidimensionali, ma piuttosto come una serie di spazi viventi, di ecosistemi. Sul versante antropico, un paesaggio viene non solo vissuto ma percepito, sperimentato e modificato dall'uomo in misura più o meno intenzionale. Compito concreto di chi ricostruisce i paesaggi legati all'evoluzione umana è dunque quello di cercare di ricreare i vari ambienti fisici e biotici che si sono succeduti nella storia del Quaternario, in particolare del Quaternario recente, in relazione all'evoluzione dell'uomo. Mediante analisi e interpretazioni si possono evidenziare alcuni aspetti che caratterizzano i diversi ecosistemi, a scale spaziali diverse e in differenti fasi cronologiche. La scala spaziale e quella temporale sono infatti elementi fondamentali di riferimento per queste operazioni. I cambiamenti dell'ambiente fisico, come i mutamenti geomorfologici, sia d'origine tettonica sia legati a vicende climatiche, possono rappresentare un primo elemento distintivo di evoluzione del paesaggio, come ad esempio l'abbassamento del livello marino durante i pleniglaciali, che ha determinato variazioni talora spettacolari delle linee di costa. Circostanze come l'innalzamento dei rilievi, i cambiamenti nei collegamenti oceanici, nel ciclo del carbonio e nelle variazioni orbitali sono meccanismi che innescano a loro volta trasformazioni climatiche. L'effetto del clima si manifesta sui processi geomorfologici e in modo forse ancora più spiccato sui cambiamenti biotici di flora e fauna, mediante variazioni dimensionali delle popolazioni, estensioni e contrazioni degli areali. All'interno dei vari fattori che compongono l'idea di paesaggio, un posto importante spetta infatti negli ambienti continentali alla copertura vegetale nella sua stretta dipendenza dai fattori climatici. La sua assenza totale o la sua riduzione rappresentano altrettanti elementi caratterizzanti del paesaggio, come la sua composizione, densità e variazione nel tempo. Tuttavia, nei periodi più antichi la tettonica e nei periodi più recenti l'uomo possono modificare il paesaggio, sovrapponendosi agli effetti del clima nell'influenzare la copertura vegetale. Le variazioni climatiche dedotte da una serie di parametri indipendenti dalla flora e dalla vegetazione, quali gli indicatori geochimici, come ad esempio gli isotopi stabili dell'ossigeno, forniscono una solida base di partenza. Non sempre, infatti, gli indicatori geomorfologici-sedimentari possono da soli suggerire informazioni attendibili sulla copertura vegetale. Un paesaggio di dune non necessariamente segnala assenza di vegetazione, in quanto la mobilità delle dune sotto l'azione di forti venti si può verificare anche con una copertura vegetale relativamente elevata. In ambiente a copertura forestale l'aumento cospicuo del tasso di sedimentazione può indicare deforestamento per effetto di aridità, mentre in ambiente arido lo stesso risultato può essere l'effetto di un aumento di umidità. I migliori indicatori della composizione e della struttura dell'antica vegetazione continentale sono pollini e macrofossili vegetali, la presenza e abbondanza dei quali, elaborate con l'aiuto di tecniche numeriche e filtrate attraverso il criticismo di numerose osservazioni di tipo attualistico e sperimentale, contribuiscono al tentativo di ricostruzione della vegetazione. Numerosi effetti possono tuttavia distorcere l'approccio basato solo sui fossili vegetali o magari su una sola categoria di essi: ad esempio i trasporti a distanza del polline o l'effetto "oasi", cioè i dati relativi a luoghi umidi che, specialmente in ambito arido, enfatizzano la flora e la vegetazione immediatamente circostante, dando un'impressione distorta del restante paesaggio vegetale. Il problema è quello della disponibilità non solo di materiali in quantità sufficienti, ma anche di una varietà di sorgenti di informazione, dato che proprio partendo dal conflitto apparente fra dati di diversa provenienza si possono sottoporre le ipotesi ricostruttive a una revisione e a un controllo critico. Ad esempio, utilizzando il criterio di considerare solo resti datati con il radiocarbonio si riduce notevolmente la quantità delle informazioni, ma facendo uso di materiali non datati carbonio-14 occorre procedere a interpolazioni non sempre attendibili. Una fonte ovvia ma non trascurabile è rappresentata dagli stessi paesaggi terrestri attuali, che possono palesare varie morfologie relitte in grado di dare indicazioni su forme scomparse di topografia e circolazione idrica, così come la copertura della vegetazione attuale può conservare relitti di flora o vegetazione che rivelano precedenti forme di copertura, ma anche strutture o specie che rivelano l'intervento dell'uomo.
L'interesse diffuso riguardo ai cambiamenti globali avvenuti negli ultimi due e più milioni di anni è legato al tentativo di conoscere meglio le modificazioni del clima, non solo per la curiosità di comprendere come l'ambiente planetario sia cambiato nel passato recente e come le popolazioni umane abbiano interagito con questi cambiamenti, ma anche nella speranza di poter predire ciò che avverrà in futuro. I rapidi cambiamenti climatici degli ultimi milioni di anni, su scale anche di secoli, decenni o anche meno, sono caratterizzati da improvvisi eventi freddi (eventi di Heinrich o stadiali), eventi caldi (interstadiali) e lunghe fasi calde (interglaciali). Ciò corrisponde a cicli di vegetazione e quindi a particolari raggruppamenti vegetali, con mutamenti degli ecosistemi e variazioni di struttura e di composizione della copertura vegetale, ma anche della sua fisionomia generale. Nell'ultimo milione di anni i cicli interglaciali e glaciali hanno avuto una durata ritmica di circa 100.000 anni. In Europa la trasformazione della copertura vegetale è avvenuta a grandi linee secondo il principio della decimazione della vegetazione terziaria ad opera del clima rigido, che ha portato al progressivo depauperamento della flora originale. I limiti della vegetazione, in particolare del bosco, sono determinati dalla temperatura e dall'umidità. I limiti del bosco sono la tundra polare, le steppe dell'Europa sarmatica, il piano alpino e una barriera alla migrazione a sud di specie esigenti durante i raffreddamenti climatici. Si modificano così non solo la consistenza ma la stessa composizione del bosco e delle altre formazioni vegetali, per progressivo contrasto con il paesaggio vegetale del Terziario. A sud delle Alpi le fasi più antiche del Pleistocene inferiore e medio che conservano tracce di frequentazione umana sono caratterizzate da svariate coperture vegetali, messe in luce da analisi polliniche di profili di suoli, speleotemi, brecce e altri depositi subaerei, dove le sequenze suggeriscono frammenti di paesaggi con boschi freschi a dominanza di conifere come nel sito di Monte Poggiolo (Forlì); o viceversa con boschi di ambiente caldo-umido sul Carso triestino, condizionati dal substrato calcareo-carsico e quindi simulanti un ambiente temperato- caldo submediterraneo. Ma su tutto ciò risalta il già accennato e progressivo impoverimento della vegetazione termofila terziaria, con la scomparsa in particolare di conifere come Tsuga e Cedrus e di latifoglie quali Carya e Pterocarya (quest'ultima sopravvissuta nel Levante o in Africa settentrionale o in Oriente), fino ad arrivare all'Ultimo Interglaciale, l'Eemiano, quando la flora forestale europea, a parte i generi Zelkova (un'arborea simile all'olmo), Keteleeria e Abies nordmanniana, destinati tutti (o quasi) a sparire con l'ultima glaciazione, comprende oramai solo i taxa attuali. Non così avviene in altre aree continentali, come l'Eurasia, dove la maggiore estensione delle terre in direzione dei tropici permette il manifestarsi di rifugi nei quali le piante più esigenti possono sopravvivere alle oscillazioni climatiche fredde e aride.
Clima e copertura vegetale dell'Ultimo Interglaciale, l'Eemiano (noto nella nostra letteratura come Interglaciale Riss-Würm), con inizio fra 130.000 e 140.000 anni fa e una durata di 20.000 o 10.000 anni, presentano caratteristiche molto simili a quelle del Postglaciale attuale od Olocene. Una differenza certa è invece la maggiore variabilità climatica dell'Eemiano rispetto all'Olocene: lo testimoniano ad esempio le alternanze di löss e paleosuoli della Cina settentrionale, che rievocano episodi di espansione e contrazione del deserto, legati probabilmente a variazioni della circolazione monsonica nell'Asia orientale. Il vero Interglaciale caldo, corrispondente al substadio 5e delle sequenze stratigrafiche oceaniche, dura 10.000 anni circa e compare prima di 120.000 anni fa. Le condizioni climatiche sono più calde e umide di quelle presenti e danno luogo a un alto tasso di afforestazione, che rivela le caratteristiche successioni delle foreste temperate. La graduale transizione fra i diversi tipi di foresta sembra dovuta più a competizione intrinseca fra le specie che a drastici cambiamenti climatici. Questo substadio, controllato da numerose analisi polliniche in Europa, manifesta una prima fase di circa 3000 anni con elevata temperatura invernale e vegetazione in prevalenza a quercia (Quercus) e nocciolo (Corylus). In seguito si verifica un abbassamento termico che modifica lievemente la fisionomia del paesaggio vegetale con il predominio del carpino (Carpinus). Gli ultimi 5000 anni del periodo mantengono condizioni semistabili di temperatura e piovosità. Ricerche in Europa occidentale su resti macro- e microscopici hanno evidenziato diverse componenti del paesaggio eemiano, riconoscendo comunità vegetali riferibili a una notevole varietà di habitat: vegetazione acquatica delle rive umide e delle paludi, specie pioniere di substrati scoperti, brughiere, diversi tipi di foreste, decidue, miste, a conifere o con prevalenze di specie cespugliose. Si conoscono profili a sud delle Alpi che confermano la sopravvivenza di alcuni relitti terziari già citati, come Zelkova, e testimoniano un rapido ed elevato afforestamento, con particolare sviluppo di faggio, abete, quercia caducifoglia, olmo e naturalmente carpino, ma anche di quercia sempreverde. La conclusione dell'Eemiano in Europa, come nell'Estremo Oriente, è marcata dalla presenza di specie arboree di clima freddo e dalla diminuzione dei boschi. A Giava la transizione verso l'Ultimo Glaciale, quello di Würm, è contrassegnata dalla sostituzione delle foreste umide tropicali con una vegetazione aperta dominata da Graminacee e Ciperacee, indicanti una diminuzione dell'umidità, come conseguenza di cambiamenti della circolazione monsonica, anche per effetto delle variazioni in negativo del livello marino.
Sempre a Giava, dopo la fase arida si verifica un aumento di umidità fra 74.000 e 47.000 anni fa, ma senza riportare le condizioni della copertura vegetale a quelle dell'Eemiano. Questo tratto distintivo di alternanze di eventi freddi e caldi sempre di breve durata, all'interno di un generale abbassamento di temperatura e di precipitazioni, diventa una caratteristica costante dell'Ultimo Glaciale in tutte le parti del pianeta, che produce diverse variazioni di flora e di vegetazione che andrebbero analizzate zona per zona, anche se i dati a disposizione non sono uniformemente ripartiti. In Europa nelle fasce a latitudine intermedia i resti vegetali sembrano indicare alternanze frequenti e prossimità di areale fra specie temperate e specie molto meno esigenti in fatto di temperatura. In aree collinari prealpine si incontrano Pinus, Larix, Betula, Carpinus, Corylus intorno a 60.000 anni fa. Il contesto generale è quello di forte regressione delle specie arboree e di incremento delle specie steppiche, come Graminacee, Artemisia e Chenopodiacee. Il fattore limitante per il bosco è la scarsità di precipitazioni. In Europa meridionale con l'aumento della quota si possono trovare lembi di formazioni forestali mesofile con abete e faggio, come in Calabria intorno a 35.000 anni fa. A quote più elevate il bosco non si diffonde a causa dei valori ridotti della temperatura, più in basso è fermato dall'aridità (600 mm all'anno durante il Pleniglaciale), che favorisce una steppa punteggiata da rari pini e querce. Durante l'acme del Glaciale, ossia verso 20.000-18.000 anni fa, in tutta l'Europa meridionale si verificano condizioni ancora più fredde e aride, con un considerevole ritiro delle foreste ed espansione dei deserti. Il massimo di aridità sembra venga raggiunto fra 17.000 e 15.000 anni fa, quando i livelli dei laghi dell'Europa meridionale tendono ad abbassarsi e alcuni addirittura si prosciugano, anche se ci sono inversioni di tendenza in aree con condizioni più umide e minore evaporazione. Nel Pleniglaciale l'Europa settentrionale è un deserto polare o una steppa-tundra semidesertica e anche nell'Asia settentrionale regnano condizioni di freddo e di aridità, con vegetazione sparsa, probabilmente senza tracce della tundra umida e della foresta boreale odierne. Le steppe ad Artemisia della Siberia presentano solo nella parte più orientale tracce di arbusti o alberelli legnosi, come pino, betulla e ontano. Alla zona siberiana meridionale è stata assegnata una fascia di foresta boreale: ma i pochi dati a disposizione, in particolare quelli faunistici, testimoniano condizioni aride prive di alberi, con fauna tipica di tundra-steppa a saiga, mammut e cavallo. Nella Cina settentrionale si verifica contemporaneamente l'espansione dei deserti, marcata dall'estensione di dune e dalla diffusione di löss e confermata dalla paleoecologia dei molluschi terrestri. Le stime termoigrometriche puntano a una riduzione dagli attuali 350 mm a 100 mm di pioggia annuale e ad una contrazione della temperatura media annua di circa 6÷7 °C. La scarsa vegetazione che sopravvive influisce sulla distribuzione della fauna, tanto che nel bacino del Fiume Giallo e nelle aree circostanti i mammut mancano completamente, ma solo durante l'acme del Glaciale. Alla fine del Pleistocene la fisiografia dell'intera Asia sudorientale aveva profili molto diversi dagli attuali: le fluttuazioni climatiche dell'ultima glaciazione avevano provocato (18.000 anni fa ca.) il massimo abbassamento del livello del mare (100-150 m sotto il livello attuale). Una parte del Sud- Est asiatico insulare era unita al continente asiatico: Sumatra, Bali, il Borneo e Palawan erano parte della piattaforma continentale di Sunda, mentre a oriente la Nuova Guinea era unita al continente australiano dalla piattaforma continentale di Sahul. Tra le due, la porzione insulare definita Wallacea rappresentava il confine tra l'ecosistema australiano-oceanico delle terre di Sahul e quello asiatico delle terre di Sunda: in quell'area, dove le profondità marine scendono fino a 4000 m e oltre, un gruppo di isole costituiva il collegamento tra i due ecosistemi. Ripetuti fenomeni di trasgressione e regressione marina (iniziatisi tra 15.000 e 8000 anni fa) portarono alla lenta separazione della Nuova Guinea dall'Australia e della porzione insulare dal Sud-Est asiatico continentale. Con la fine del Pleistocene, quando il mare iniziò ad aumentare dal suo minimo glaciale, la bassa superficie delle due piattaforme fu progressivamente sommersa, ma solo intorno al 2500 a.C. la linea di costa delle entità geografiche risultanti da tali fluttuazioni avrebbe lentamente acquisito l'aspetto attuale. In Asia meridionale, durante il Pleniglaciale, la circolazione monsonica, apportatrice di forti precipitazioni estive, si riduce e in alcuni casi si esaurisce; pertanto nella Cina meridionale, al posto dell'attuale foresta umida a latifoglie, si sviluppa un paesaggio a steppa con valori del polline delle erbacee prossimi al 90% e le poche arboree sono rappresentate dal genere Pinus e da altre Pinacee. A Formosa, divenuta penisola, macchie rade di bosco coprono solo un terzo della regione, in luogo dell'attuale foresta umida e compatta; solo nella Cina sud-occidentale sembrano sopravvivere zone di rifugio della foresta temperato-calda. Questo quadro presenta anche forti contrasti: un paesaggio di rada foresta temperata è presente nel Giappone meridionale, nonostante la contrazione della temperatura e una piovosità ridotta a un terzo, mentre a nord, nell'isola di Hokkaido, la tundra domina con una foresta boreale rada a larice e peccio. Anche in Thailandia, Sumatra, Giava e Borneo persistono condizioni più secche e più fredde a basse quote e più umide in altitudine. Nel Borneo l'evidenza paleontologica lasciata da cacciatori-raccoglitori in ripari al nord dell'isola conferma la sopravvivenza della foresta pluviale in questo settore e quindi l'esistenza qua e là di rifugi per la foresta tropicale compatta. L'aridità rimane il motivo dominante: analisi polliniche fra Palestina e Libano suggeriscono l'esistenza di una fascia di bosco o di foresta-steppa lungo i rilievi costieri per una profondità di 50 km. Il resto del Levante durante l'ultima acme del Glaciale era occupato dall'espansione del deserto saharo-arabico che invadeva Siria, Giordania, il Negev e il Sinai settentrionale. Anche per la Penisola Arabica, attualmente priva di referenze dirette, si può ipotizzare una maggiore aridità in gran parte imputabile alla ridotta circolazione monsonica. In Africa l'abbassamento di 150 m del livello batimetrico non ha provocato apprezzabili fenomeni di esposizione di terre, eccetto che nella parte meridionale, e la fisionomia del continente a grande scala appare immutata. Proprio in questo continente si può verificare come la definizione di ultima acme del Glaciale sia piuttosto ambigua se applicata agli ambienti dei tropici. I ghiacciai del Ruvenzori raggiungono il massimo sviluppo intorno a 15.000 anni fa, cioè nel periodo corrispondente alle fasi di ritiro delle calotte glaciali in Eurasia e in America Settentrionale. L'Africa nord-occidentale mantiene condizioni di discreta umidità, con sviluppo di una vegetazione tipo steppa mediterranea in presenza di pino; lungo la costa mediterranea e sulle pendici dell'Atlante la vegetazione arborea sembra addirittura intensificarsi nel Glaciale, con quercia sempreverde, pino e cedro. Più a est e a sud il Sahara si espande, comprimendo la fascia di semideserto del Sahel, mentre il Nilo raggiunge valori minimi di portata. La foresta pluviale dell'Africa centrale e occidentale si riduce per l'aridità del clima, limitandosi a fasce di rifugio nelle valli, lungo i fiumi e in ristrette strisce costiere sul Golfo di Guinea, in concomitanza con la contrazione delle formazioni rivierasche a mangrovie. Segnali di diffusione della prateria-savana al posto della foresta pluviale sono i carboni e i fitoliti presenti nei sedimenti del fiume Congo. Essi rinforzano la tendenza indicata dalle basse percentuali di polline arboreo e dall'elevato tasso di sedimentazione: quest'ultimo è un segnale inconfondibile di erosione progressiva per la riduzione della copertura forestale. Anche il paesaggio vegetale dei rilievi è documentato dalla depressione di elementi montani, come Podocarpus e Olea, che scendono in basso per il raffreddamento del clima. Per contro, scompare a causa dell'aridità la fascia di foreste montane attualmente sviluppata fra 1500 e 3000 m di quota, che viene sostituita al di sopra di 2000 m e su suolo roccioso da una vegetazione tipo tundra arida. L'Altopiano Etiopico, pur conservando una parziale copertura forestale, risulta più arido che nell'Olocene, con disseccamento di alcuni laghi e forte depressione di livello per altri, come nel caso del Lago Turkana. Nella parte meridionale del continente, pur mancando indicazioni puntuali, si riconfermano una maggiore aridità e una dilatazione dei deserti, manifestate dall'edificazione di dune lineari nel Kalahari fra 115.000 e 10.000 anni fa con tre picchi di aridità, forse correlabili agli eventi termici indicati dalle carote profonde dell'Atlantico. In questo periodo anche in America Settentrionale i paesaggi sono profondamente diversi rispetto a quelli attuali. A sud della grande calotta glaciale laurenziana si sviluppa una fascia di tundra arida, seguita da una tundra-parco con pochi alberi che si caratterizza nelle zone alte dei Monti Appalachi come foresta-parco a Picea (peccio) e più a sud come foresta boreale aperta, sempre a peccio, una sorta di taiga arida che si spinge fin quasi alla Florida settentrionale. La regione pianeggiante centrale degli Stati Uniti, dove ora sono le praterie, è coperta nell'acme del Glaciale da una steppa-tundra, con rada vegetazione arborea a peccio, larice e pino, che forma sui rilievi vere e proprie foreste di conifere. Nella zona più a occidente cresce invece una vegetazione a prateria con erbe basse. In alcuni punti la precipitazione annua inferiore a 50 mm, in contrasto con gli attuali 600 mm, mobilita le dune e assicura una modesta copertura vegetale a basse erbe e Artemisia. Questa situazione severa trova conferma nella fauna di molluschi terrestri, ma anche in quella a mammiferi, costituita da erbivori gregari che suggeriscono una vegetazione aperta di prateria. Nella cordigliera occidentale i valori dell'umidità risultano stranamente superiori a quelli attuali, a dispetto del raffreddamento e del conseguente abbassamento di circa 1000 m delle fasce di vegetazione. Dal basso in alto si succedono prima un paesaggio di bassi boschi con pini nani, ginepri, piante serofitiche e succulente fino a 1500 m; poi una foresta-parco a conifere sino a 2500 m e infine una tundra alpina. Le regioni del Sud-Ovest degli Stati Uniti, con i loro caratteristici attuali semideserti, pare godano all'epoca di un'umidità superiore all'attuale, che consente lo sviluppo di un mosaico di boschi radi di pino, ginepro e quercia, inframezzati da steppe ad Artemisia. Per quanto riguarda il Messico centrale, pino e ginepro costituiscono una foresta intorno a 18.000 anni fa, in assenza di latifoglie e con alte percentuali di Artemisia e Ambrosia, a indicare una vegetazione più arida e più aperta dell'attuale. A Panama la foresta pluviale è sostituita da una foresta di caducifoglie, con presenza di specie montane che scendono a livello del mare. In Venezuela depongono a favore di un clima più freddo e più arido le savane e le dune che accompagnano la riduzione della foresta sui rilievi, insieme alla trasformazione dei laghi in paludi. Nei llanos della Colombia cambia in senso arido il rapporto foresta-savana e la composizione della foresta; curiosamente si verifica intorno a 21.000 anni fa la formazione di ambienti forestali aperti, interpretati come conseguenza dell'arrivo di uomini nella regione. Come già la foresta pluviale africana, anche le grandi foreste dell'Amazzonia subiscono una forte riduzione di copertura, con un minimo intorno a 15.000 anni fa. Sempre al limite dell'aridità, anche la portata dei fiumi è ridotta e sottoposta a un regime irregolare testimoniato da deposizione di ghiaie, probabilmente per la presenza di una maggiore alternanza stagionale rispetto alla relativa uniformità odierna. Nella foresta tropicale dei bassopiani sudamericani, come in altre zone tropicali, mancano le tracce dell'ultima acme del Glaciale, nel senso che l'analisi pollinica svela uno hiatus di alcune migliaia di anni, corrispondente alla fase a clima più arido. Anche qui si ripete sui rilievi, in particolare nella zona equatoriale delle Ande, un abbassamento delle fasce di vegetazione. Nel resto dell'America Meridionale si verificano condizioni uniformi di disseccamento e di ritiro della foresta pluviale, come nel Brasile sud-orientale, dove condizioni severe di freddo e di aridità si sarebbero instaurate fra 48.000 e 17.000 anni fa con la formazione di savane e residue foreste a galleria, e ancora praterie sui rilievi al posto di boschi di Araucaria, divenuta molto rara e confinata nelle vallate. Verso le basse latitudini del Cile e dell'Argentina, all'ulteriore diminuzione di temperatura si sovrappone la presenza della calotta glaciale andina con le sue propaggini verso la pianura e la zona costiera; l'area attualmente a prateria secca delle pampas viene allora coperta da una coltre di sabbia portata dal vento. In Australia, come in altre zone subtropicali, la ridotta circolazione monsonica fa aumentare l'aridità nell'acme del Glaciale e i deserti, specialmente a sud, si estendono notevolmente, mentre il tasso di afforestazione si riduce ben dell'85%. Altre informazioni in questo senso provengono dallo sviluppo delle dune, che si mettono in moto anche in aree che al presente possiedono un clima fortemente umido, come la Tasmania nord-orientale. Durante il Pleniglaciale, per l'abbassamento del livello del mare, quest'isola rimane unita all'Australia; l'attuale foresta sempreverde temperata è allora ridotta a una steppa semiarida ricca di Chenopodiacee. Vi sono in Australia, curiosamente, probabili tracce di una forte influenza antropica sulla vegetazione molto prima del Pleniglaciale.
La grande variabilità del clima alla fine dell'ultima glaciazione è causata anche dalle rapide variazioni di clima da freddo e secco a fresco-umido della deglaciazione, con una caratteristica successione delle oscillazioni del Tardiglaciale che formano le sequenze di ricoprimento vegetale, dalle specie pioniere a quelle più stabili, in concomitanza con l'aumento di temperatura. Fasi di peggioramento climatico, con ritorno parziale alle condizioni glaciali, sono esemplificate dal Dryas recente che sembra essere un vero e proprio episodio di Heinrich, con abbassamento a meridione del limite polare dei boschi e del limite alpino degli alberi e l'accentuarsi dell'aridità. Betulla e pino silvestre, con le loro caratteristiche di specie pioniere, sono gli alberi che ricostruiscono per primi i boschi medioeuropei. Le successioni delle fasi climatico-vegetazionali nel Tardiglaciale sono note e caratteristiche, specie per l'Europa centro-settentrionale. L'optimum climatico di Allerød marca una forte riduzione della tundra, che rimane limitata al margine della calotta glaciale scandinava, mentre il resto dell'Europa orientale è interessato da una vegetazione di foresta-tundra che raggiunge le rive del Mar Glaciale Artico. La foresta di Picea a sud è bordata da foreste miste di pino e betulla, mentre la foresta mista raggiunge almeno la Bulgaria. In Asia intorno a 9000 anni fa la foresta arriva fino alla costa del Mar Glaciale Artico e simmetricamente si ha un'espansione di vegetazione temperata verso la zona dei deserti dell'Asia Centrale, dove il monsone estivo si spinge per 300 km verso l'interno della Mongolia rispetto ai limiti attuali. Anche i livelli dei laghi confermano l'instaurarsi di condizioni più umide delle attuali perdurate fino a 5000 anni fa. Condizioni simili di maggiore umidità si verificano nella foresta tropicale del Sud-Est asiatico e del Subcontinente indiano, anche se punte di aridità compaiono intorno a 7000 anni fa. In Africa settentrionale il Sahara subisce una forte riduzione: la cintura subsahariana, secondo le ricerche basate sui carboni e sui pollini, si sviluppa 400-500 km a nord dell'attuale confine. Diverse specie saheliane si spingono verso il plenideserto ed è nota la presenza di diversi indicatori antropici che rivelano, insieme alla fauna, una maggiore umidità e anche l'esistenza di specchi d'acqua in aree dove oggi sono assenti. Persino il Deserto Occidentale egiziano, che è ora la parte più secca di questa regione iperarida, aveva una flora diversificata e una fauna a mammiferi che permetteva un'abbondante agricoltura primitiva. Dal Nord la vegetazione steppica si spinge a sua volta verso il Sahara; il risultato è un mosaico di formazioni vegetali di cui attualmente non esiste più il corrispondente. Il massimo dell'umidità si verifica fra 8500 e 7500 anni fa; intervalli di aridità sono noti intorno a 8200 anni fa. Vertebre di pesce persico del Nilo in età predinastica confermano la drammatica tendenza verso 5800 anni fa ad una netta riduzione di portata del fiume, come conseguenza di un forte inaridimento. Nell'Africa centrale, l'incremento di apporto idrico portò ad un enorme ampliamento del Lago Ciad che era probabilmente circondato da estesissime paludi di papiro; questo ampliamento iniziò a decrescere un po' prima di 6000 anni fa. A queste condizioni climatiche ottimali corrisponde un grande sviluppo della foresta pluviale, che supera i limiti attuali, rimanendo in tali condizioni sino a 5000 anni fa, espandendosi in particolare a nord, nell'intervallo ora libero fra gli attuali Benin e Togo. Le condizioni dell'Africa orientale, centrale e meridionale ripetono in sostanza questi schemi. Intorno a 5000 anni fa l'agricoltura è presente in Africa, ma non sembra influenzare profondamente la vegetazione a sud del Sahara. In Africa orientale vi sono diverse prove di disturbo antropico a partire da 8000 anni fa, ma i primi segnali di agricoltura subsahariana compaiono 3500-3000 anni fa. In America Settentrionale intorno a 8000 anni fa sono ancora presenti larghe porzioni del ghiacciaio laurenziano. Nel Canada le condizioni della vegetazione sono ormai simili a quelle odierne. La forestazione degli Stati Uniti orientali procede con rapida intensità e dà origine a diverse comunità forestali dove la quercia, specialmente a sud, assume un ruolo molto più importante di quello odierno. Le praterie invece si allargano per aumento di aridità, confermato anche dall'abbassamento dei laghi che denunciano un massimo di siccità fra 7700 e 4400 anni fa. L'aridità è segnalata anche nelle praterie occidentali e nelle zone desertiche del Sud-Ovest, dove inizia la formazione di dune. Sulla cordigliera delle Montagne Rocciose le migliori condizioni di temperatura innalzano la quota della copertura arborea. Verso 5000 anni fa si ha un intensificarsi dell'aridità, con estensione delle praterie nella zona centrale, mentre nel Texas la siccità determina il formarsi di praterie ad erbe basse e l'innalzamento della copertura arborea. In Colombia la transizione tardiglaciale fra 14.500 e 8500 anni fa è un periodo di instabilità climatica e l'assestamento della vegetazione in forme moderne inizia intorno a 8500 anni fa con lo sviluppo della foresta umida. Nel Panama, le analisi di fitoliti e carboni hanno rivelato che la foresta a caducifoglie si è riposizionata durante l'Olocene antico, ma ha cambiato fisionomia anche per inaridimenti fra 7000 e 5000 anni fa e per la conseguente sostituzione con savane; la sua esistenza ininterrotta nella forma odierna ha inizio almeno a partire da 4600 anni fa. Livelli pollinici e strati di carbone testimoniano incendi forestali nel medio e tardo Olocene; un analogo fenomeno è documentato per l'Amazzonia centrale. Sostanziali incrementi demografici si verificano in Mesoamerica fra 7000 e 2500 anni fa in corrispondenza con la domesticazione del mais. Nel Brasile centro-meridionale si verifica una fase a savana che potrebbe essere riferita al cambiamento globale avvenuto circa 4800 anni fa, corrispondente al rapido raffreddamento all'inizio della Neoglaciazione in Europa meridionale dopo l'optimum climatico olocenico. Segue una fase a foresta fra 4000 e 3000 anni fa, che lascia l'attuale associazione nota come cerrado. In Oceania la vegetazione è essenzialmente simile a quella pre-europea; anche la consistenza delle foreste di eucalipto differisce poco da quella odierna. Come si è visto anche in altri continenti, le condizioni climatiche rimangono più umide rispetto a quelle attuali, il che è provato anche dalla presenza di foreste a mangrovia più vigorose lungo le coste e negli estuari. In Tasmania si hanno tracce di incendio delle praterie ad opera dell'uomo intorno a 8500 anni fa e nell'Olocene medio si notano espansioni della foresta ad eucalipti, probabilmente per cambiamenti nel regime degli incendi praticato dagli Aborigeni. L'Australia presenta una piovosità annuale superiore del 50% rispetto a quella attuale, con una temperatura estiva più elevata di 2÷3 °C e con una fascia di foresta aperta e di savana alberata che si estende per alcune centinaia di chilometri verso l'interno.
Volendo fare una sintesi dei dati paleovegetazionali, integrati con quelli derivati dalle altre discipline per gli ultimi 10.000 anni, occorre fare riferimento alla vegetazione attuale potenziale, alle variazioni indotte in epoche e luoghi diversi desunte da dati ecologici, ma anche alle conoscenze "storiche" sulle modificazioni indotte dall'uomo sulla vegetazione. Molte di queste trasformazioni sono leggibili in maniera diretta nelle aree stesse: in alcune la vegetazione sembrerebbe intatta, in altre l'agricoltura l'ha interamente eliminata. È tuttavia un compito molto arduo quello di chiarire quali sarebbero stati gli esiti di un paesaggio vegetale non alterato dalla mano dell'uomo. Si è visto, d'altro canto, come molti profondi cambiamenti si siano verificati in modo drammatico, senza altro che la partecipazione passiva dell'uomo; anzi, sono essi stessi la causa prima di trasformazioni intense nelle società umane. In Europa l'ultima acme del Glaciale è seguita da cambiamenti climatici, deglaciazione, sparizione della megafauna; con gli eventi caldi di Bølling e Allerød iniziano le migrazioni verso nord. L'interesse si polarizza allora su nuove risorse, come quelle acquatiche, e le nuove culture mesolitiche provvedono all'occupazione temporanea o stabile di siti fluviali e lacustri. Il fenomeno dell'irradiazione verso nord si complica con il popolamento di zone di più alta quota da parte delle faune e delle flore nelle aree montuose. In Perù la transizione verso l'Olocene è caratterizzata dall'estinzione della fauna e della flora pleistoceniche e dalla loro sostituzione con specie moderne che si irradiano verso aree più alte. Nell'Europa mediterranea l'occupazione delle terre alte può essere seguita attraverso i dati archeologici e quelli geomorfologici e botanici. Larghe analogie sembrano esistere fra Mediterraneo settentrionale e aree nordeuropee, come la Gran Bretagna, anche se non coeve, ad esempio nel modello di utilizzo del fuoco come mezzo di controllo delle mandrie di grossi ungulati selvatici, soprattutto cervi. Questi elementi trovano corrispondenza anche in altri continenti a livello etnoarcheologico, sia pure con le cautele che debbono porsi in queste connessioni. Il modello di vegetazione rilevato dai carboni sui rilievi dell'Appennino settentrionale indica una frequentazione delle zone di più alta quota verso 8000 anni fa e una copertura vegetale in contrasto con i dati archeopalinologici, con situazioni locali di boscaglia-parco aperta, assicurata dal pascolamento di grossi ungulati erbivori e probabilmente anche dal fuoco utilizzato per il controllo degli animali selvatici. Lo studio dei microcarboni in carote di laghi subalpini e di carboni in profili del suolo conferma la presenza di incendi boschivi nel periodo corrispondente alle frequentazioni mesolitiche in altura. Interessanti quanto saltuarie rappresentazioni di coperture arboree in posto sono i ritrovamenti di tronchi eretti, sepolti da sedimenti rapidamente accumulati alle falde di catene montuose. Tali esempi sono frequenti in diverse epoche, anche durante il Tardiglaciale, come i tronchi di Revine (Veneto), ma compaiono spesso nelle alte pianure alluvionali e corrispondono a periodi di instabilità climatica, in genere nel Subboreale. In alcuni casi questi boschi sepolti conservano porzioni di suoli d'occupazione antropica. Un altro aspetto caratteristico del paesaggio delle aree montane è la variazione della linea che marca il limite superiore di sviluppo del bosco e quella relativa alla presenza degli alberi. Questa linea subisce forti oscillazioni per effetto delle variazioni climatiche oloceniche. Tuttavia, con il deforestamento attivo per favorire il pascolo si creano discontinuità che progressivamente confluiscono e determinano un abbassamento cospicuo della linea degli alberi, come stato di equilibrio instabile mantenuto dal fuoco e dall'abbattimento del bosco, nonché dallo stesso pascolo. Nelle zone semiaride le attività umane preagricolturali influenzano sicuramente anche in modo importante la vegetazione prima dell'ultima acme del Glaciale, ad esempio con incendi in zone semiaride da parte di cacciatori-raccoglitori, anche se la deforestazione a scopi agricoli rappresenta il primo sistematico impatto ambientale sul versante antropico. All'inizio dell'Olocene si profilano condizioni più umide anche nel Mediterraneo, in risposta a una locale circolazione di tipo monsonico, e le condizioni attuali si stabiliscono intorno a 5000 anni fa. Il paesaggio nell'Olocene medio, che si data appunto a quel periodo, è quindi dal punto di vista del potenziale della vegetazione molto più simile all'odierno che non a quello, ad esempio, di 8000 anni fa; il clima è molto più vicino all'attuale e la vegetazione è analoga a quella che sopravvive in regioni non soggette all'agricoltura o in sacche residuali all'interno di aree antropizzate. L'impatto antropico diviene particolarmente importante a partire da 6000 anni fa in Eurasia: la diffusione dell'irrigazione in Mesopotamia sembra iniziare 5000 anni fa, come pure il dissodamento di grandi aree della Grecia meridionale. Creta, unica eccezione in Europa, mostra una forte deforestazione e la sostituzione dell'originaria foresta di caducifoglie con la macchia mediterranea già 5000 anni fa; anche alcune parti dei chalklands inglesi risultavano parzialmente deforestate a scopi agricoli già in quella stessa epoca. Tuttavia l'impatto generalizzato dell'agricoltura sembra avvenire intorno a 4000 anni fa. Diverse strutture di suolo, come solchi di aratro, canali per coltura e altri deposti colluviali derivanti da erosione susseguente all'aratura, sono state interpretate come prove di antica agricoltura. Tutte le informazioni biotiche, come lo studio di molluschi, semi, pollini, sono state usate per lo stesso scopo, insieme alle metodologie geoarcheologiche, in particolare alla micromorfologia del suolo: si cercano cioè le tracce del disboscamento, anche se questa pratica non è sempre indispensabile per la coltivazione. Comunque il solo dato della deforestazione non è sufficiente a testimoniare con certezza la diffusione delle pratiche agricole e pastorali. Un falso indizio della presenza dell'agricoltura può essere considerato il declino dell'olmo, segnalato come tracciante di zoocoltura, che in realtà è probabilmente legato a fitopatologie o a cambiamenti di clima. La presenza in alcuni siti di Coleotteri del genere Scotylus in periodi corrispondenti approssimativamente al declino dell'olmo ha rafforzato l'ipotesi di un'infezione fungina veicolata da tali insetti. L'ipotesi climatica si basa invece su fluttuazioni successive all'evento climatico di 8200 anni fa, con forti influenze sul declino dell'olmo in Europa e contemporaneamente sul declino di Tsuga in America Settentrionale. Alcune linee di pensiero mettono in discussione la forestazione totale dell'area temperata europea dell'inizio dell'Olocene e quindi il termine di foresta primigenia come quella che sarebbe durata compatta e immutabile sino all'Olocene medio. Una più approfondita interpretazione dei dati palinologici propone l'esistenza, prima dell'arrivo degli agricoltori, di aree a bosco rado, bosco-parco, o di non bosco, in relazione a numerosi fattori edafici, biotici e climatici. Anzi queste aree avrebbero permesso, secondo alcune ipotesi, il rifugio di piante erbacee eliofile destinate a diventare, con l'antropizzazione e la diffusione delle colture, erbe infestanti e ruderali. Questa incertezza nella ricostruzione del paesaggio olocenico regna tuttora in molti settori: secondo un'interpretazione, nell'Olocene antico le pianure dell'Europa orientale, dell'Ucraina e della Russia meridionale, attualmente steppiche, erano forestate in parte con betulla e pino, in parte con foresta mista di conifere e caducifoglie; un altro punto di vista propone l'esistenza di queste steppe in forma più estesa dell'attuale, con poche tasche residuali di specie legnose. Nelle regioni mediterranee la diffusione della foresta sempreverde mediterranea comincia ad aumentare a partire da 8000 anni fa, ma nella Francia meridionale il processo sembra più rallentato; anche in Corsica un predominio delle sclerofille, e in particolare del leccio, sulle querce caducifoglie si verifica solo in epoca storica e nelle fasce proprie. Allo stesso modo sembra che la Turchia abbia posseduto una vegetazione simile a quella attuale. La crescita della foresta sempreverde viene considerata l'esito di pressioni antropiche in senso generico agro-silvo-pastorale. Naturalmente si verificano eccezioni o particolari esiti di natura locale: ad esempio, cambiamenti sensibili della vegetazione dell'isola di Minorca si verificano intorno a 5000-4000 anni fa, sia nella composizione che nella struttura del paesaggio vegetale, con comparsa di vegetazione adattata alle condizioni mediterranee. Questi cambiamenti coincidono con la prima colonizzazione umana dell'isola, ma vengono interpretati anche con un generale cambiamento climatico della regione mediterranea occidentale nel senso di una maggiore aridità, marcata anche da forte incremento di ulivo selvatico. Lo studio di carboni rinvenuti in Sardegna sembra indicare che l'incremento di Olea si sia verificato anche in quest'isola. Una progressiva trasformazione e riduzione delle foreste circummediterranee è stata sostenuta con vigore dalla teoria degradazionista, che vede nella distruzione delle coperture originali l'opera dell'uomo, con esiti variamente stabili, dalla gariga, alla macchia, alla foresta mista di caducifoglie, latifoglie sempreverdi o conifere mediterranee. In linea generale, la degradazione della vegetazione arborea nelle zone aride ad intenso sfruttamento, come nel Vicino Oriente, trova conferma nella rapida successione di diverse essenze che compaiono nei carboni a partire dal Neolitico. Questi cambiamenti indicano l'espansione della steppa e più tardi il disboscamento vero e proprio, segnato dalla scomparsa di specie forestali al cui posto vengono bruciate specie spinose o coltivate. In Asia trasformazioni agricole precoci si hanno intorno a 9000 anni fa, nel Neolitico aceramico, ad esempio nella zona pakistana di Mehrghar. L'agricoltura è già presente, nella sua espansione verso sud-est, anche nella Cina settentrionale, ma una deforestazione vera e propria nella Cina meridionale e nella zona monsonica dell'Indocina non raggiunge livelli significativi prima di 4000 anni fa. Dopo i precoci inizi di forme di raccolta e impiego di cereali spontanei nel Sahara, l'agricoltura è presente in Africa centro-meridionale intorno a 5000 anni fa, ma non sembra in apparenza influenzare profondamente la vegetazione a sud del Sahara. In Africa orientale vi sono diverse prove di disturbo antropico a partire da 8000 anni fa, ma i primi segnali di agricoltura subsahariana compaiono circa 3500-3000 anni fa. In Mesoamerica profondi cambiamenti demografici si verificano fra 7000 e 2500 anni fa in concomitanza con innovazioni agricole, come la domesticazione di alcuni tuberi spontanei e la prima introduzione del mais. Infine, nel Pacifico occidentale la diversità ecologica naturale è stata fortemente incrementata dall'intervento dell'uomo negli ultimi 3000 anni. Alcune piccole isole hanno visto infatti la loro vegetazione naturale sostituita interamente da alberi e tuberi coltivati di importazione; in particolare, alcune differenze nei sistemi di arboricoltura hanno portato a grandi variabilità da un'isola all'altra nella flora dominante.
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di Lucia Caloi - Maria Rita Palombo - Antonio Tagliacozzo
Ogni continente e ciascuna regione presentano un insieme faunistico proprio, a volte profondamente diverso da luogo a luogo. Tali diversità sono da attribuire solo in parte alle attuali caratteristiche ambientali e sono dovute, soprattutto, alla diversa origine del popolamento di ciascuna area, a sua volta influenzata dalla storia evolutiva dei vari gruppi e da quella paleoclimatica, paleogeografica e geologica del territorio esaminato. Ogni regione biogeografica ha quindi una sua storia, a volte difficilmente correlabile con quella degli altri territori anche per la difformità di notizie e di dati. Si comprende, quindi, come sia arduo fornire una sintesi dei dati faunistici del Plio-Pleistocene nell'intero mondo. Per il Pleistocene, che copre un lasso di tempo assai breve nella storia del nostro pianeta, è disponibile una quantità di dati enorme se comparata con quella di intervalli di tempo via via più antichi. Questo "eccesso" di informazioni, specie quando si opera in ambiente continentale, rende assai difficile suddividere questo periodo in unità minori, soprattutto se si desidera una correlazione a larga scala (interregionale o mondiale). La velocità di evoluzione, di dispersione o di diffusione della maggior parte dei gruppi mammaliani non è tale da poter considerare fra loro contemporanee le variazioni faunistiche. Inoltre, le forti oscillazioni climatiche che caratterizzano il Pleistocene hanno determinato, sia nella flora che nella fauna, con eccezione delle regioni tropicali e subtropicali, ampie fluttuazioni latitudinali e longitudinali dell'areale di distribuzione delle specie. Ne deriva che singoli bioeventi (comparsa e scomparsa di un determinato taxon) che costituiscono la base della biocronologia sono spesso diacronici e i dati debbono essere integrati, là dove possibile, con quelli paleomagnetici, delle curve isotopiche e polliniche e con le datazioni assolute. È tuttavia indubbia la possibilità di riconoscere, all'interno di delimitate province biogeografiche, intervalli temporali caratterizzati da un ben definito insieme di organismi che si differenzia, per composizione globale, presenza/assenza di alcune forme o grado evolutivo raggiunto, dai complessi faunistici più antichi o più recenti. È questa la cosiddetta "età a Mammiferi", che può a sua volta essere suddivisa in entità minori, le Unità Faunistiche (UF), di valore geografico più ristretto e caratterizzate da bioeventi di portata locale. Il limite fra UF, come del resto quello tra le diverse età a Mammiferi, non è cronologicamente netto e nuovi ritrovamenti possono rendere necessario l'inserimento di ulteriori unità biocronologiche. L'intervallo di tempo tra 3,2 milioni di anni (m.a.) e 10.000 anni (Pliocene medio-Olocene della geocronologia marina) comprende tre età a Mammiferi: Villafranchiano, Galeriano (queste prime due utilizzate in genere per le faune europee) e Aureliano, recentemente introdotta per le faune italiane correlabili con il Pleistocene medio superiore e con il Pleistocene superiore. Il Pleistocene è stato definito sulla base del raffreddamento climatico rilevabile dalla penetrazione nel Mediterraneo dei cosiddetti "ospiti nordici". Come stratotipo del limite Pliocene-Pleistocene, databile a 1,8 m.a., è stato scelto lo strato e della sezione della Vrica (Calabria), magnetocronozona di Olduvai (stadio 64 della scala isotopica oceanica). In questo momento nel Mediterraneo si registra un deterioramento climatico significativo per quest'area, ma di rilevanza e di portata geografica limitate. Oscillazioni climatiche negative, con tendenza ad un progressivo raffreddamento del clima e a un aumento dell'aridità, erano già state registrate intorno a 3,2 m.a. Ancora più importante è il raffreddamento verificatosi intorno a 2,6-2,5 m.a., i cui effetti furono rilevabili su scala mondiale; molti autori hanno perciò proposto di spostare l'inizio del Pleistocene in corrispondenza di questo evento. Per meglio comprendere l'origine e la diffusione delle faune quaternarie è utile esaminare brevemente i principali bioeventi che si sono verificati nel corso del Pliocene medio. Nel tentativo di fornire un quadro sintetico dell'evoluzione del popolamento mammaliano negli ultimi 3-2,5 m.a., vengono presi come riferimento i dati relativi alla biocronologia di alcuni gruppi di mammiferi dell'Italia e dell'Europa, ai quali verranno di volta in volta correlati dati relativi ai mammiferi del resto del mondo. La scelta dei taxa di riferimento (pachidermi, Equidi, Cervidi, Bovidi, nonché Carnivori di grande e media taglia) è dovuta al fatto che, oltre ad essere quelli meglio noti in quanto affini alle forme attuali, essi hanno maggiormente interagito con l'uomo e i loro resti si rinvengono frequentemente nei giacimenti archeologici.
Nel periodo anteriore a 3 m.a. fa il clima in gran parte dell'Europa era caldo umido, senza forti oscillazioni stagionali, e fitte foreste di tipo tropicale/subtropicale coprivano il suolo. Durante le prime fasi di raffreddamento climatico del Pliocene (3,2-2,8 m.a.), l'emisfero settentrionale era coperto in gran parte da foreste sempreverdi a conifere e nelle aree attualmente occupate dalla tundra si estendevano in prevalenza foreste boreali. Le aree desertiche delle medie latitudini dell'Asia e dell'Africa erano più localizzate e le aree di savana erano più estese. In Europa occidentale questa fase climatica corrisponde alla transizione tra faune plioceniche rusciniane e villafranchiane. Il rinnovamento faunistico vide l'arrivo e la diffusione di nuove specie di Leporidi e di Carnivori, fra cui la iena cacciatrice (Chasmaportetes lunensis), il grande ghepardo (Acinonyx pardinensis), le tigri dai denti a sciabola (Homotherium e Megantereon); Cervidi di media e grande mole sostituirono quasi tutti i piccoli Cervidi rusciniani; caprini (Pliotragus) e Bovidi brachiodonti (Leptobos) presero il posto delle antilopi; il tapiro era ancora presente, ma si ridusse l'areale degli Equidi tridattili (ipparioni) e rinoceronti più gracili sostituirono le forme massicce precedenti. I mammiferi che vivevano in ambiente forestale, fra cui l'orso arboricolo (Ursus minimus), costituivano comunque, almeno in Italia, ancora il 70% delle specie. Anche fra i Proboscidati erano persistenti le forme di ambiente forestale (mammut e Anancus), ma in Europa orientale è segnalato, intorno a 3,01-3,05 m.a., un mammut a caratteri primitivi (Mammuthus rumanus), affine alla specie africana M. africanavus. Nella regione eurosiberiana erano presenti, insieme a Hipparion, anche il genere Paracamelus, che nella sua diffusione a occidente raggiunse solo l'Europa orientale, e il genere Equus che, presente in Asia Centrale già intorno a 3,4 m.a., si sarebbe poi diffuso in tutto il Vecchio Mondo. Nel Subcontinente indiano, caratteristico di questo periodo è il complesso faunistico di Tatrot (3,4-3,2 m.a.), in cui sono presenti, fra gli altri, Elephas planifrons, Hippohyus e Suidi quali Sivachoerus e Sus, ma dove manca Equus. In Africa, a seguito della crisi tettonica che fu all'origine della Rift Valley, si determinò la suddivisione dell'originaria provincia biogeografica in una regione occidentale, umida e coperta di foreste, e in una orientale-meridionale che andò evolvendosi verso una savana aperta, come dimostrato dalle sequenze sedimentarie delle valli etiopiche dell'Omo e dell'Awash. In questa regione comparve la "fauna etiopica" alla quale appartengono le australopitecine, che sono all'origine dell'evoluzione umana. Tra 5 e 3,2 m.a. sono testimoniati almeno due generi di Ominidi, Ardiphithecus ramidus e Australopithecus, con le specie A. anamensis, A. afarensis e A. africanus. La fauna degli strati inferiori della valle dell'Omo, tra 4 e 3 m.a., comprende molte antilopi che indicano una savana boscosa in prossimità di corsi d'acqua, varie specie di foresta e savana densa (piccole scimmie del genere Galago e un gran numero di Roditori); si nota la sopravvivenza di Equidi tridattili del genere Hipparion (H. afarense), Ippopotamidi con sei incisivi (Hexaprotodon), Giraffidi di grandi dimensioni con protuberanze frontali a forma di pala (Sivatherium maurusium), vari Suidi e i Proboscidati con zanne nella mandibola (Dinotherium bozasi). Nello stesso tempo si differenziarono tra gli elefanti i generi Loxodonta, Elephas e Mammuthus e si diffusero i grossi felini (Megantereon, Dinofelis e Panthera), iene, rinoceronti, giraffe e cammelli. Successivamente, nelle serie dell'Omo fra 3,3 e 2,4 m.a., flora e fauna indicano una netta modificazione verso condizioni di clima secco. Un marcato rinnovamento faunistico si verificò in corrispondenza del raffreddamento climatico tra 2,7 e 2,5 m.a., che interessò l'intera superficie terrestre in ambiente sia marino sia continentale. In Italia, nelle associazioni a grandi mammiferi rappresentate dalla fauna di Montopoli (2,6 m.a.), si registra una brusca diminuzione delle forme di foresta, mentre raddoppiarono le forme che vivevano in territori aperti. Scomparvero così Proboscidati zigolofodonti, tapiri, orsi arboricoli, Suidi di piccola taglia; comparvero i primi Mammuthus, grandi Cervidi, gazzelle ed Equidi stenoniani di grande taglia, ma di corporatura snella, originari dell'America Settentrionale. In questo periodo, grosso modo coincidente con l'inversione paleomagnetica Gauss/Matuyama, si realizzò un più ampio scambio di faune fra i continenti. In America Settentrionale giunsero alcuni Marsupiali sudamericani; nel Subcontinente indiano (fauna di Pinjor, datata a 2,5 m.a.) fecero la loro comparsa Equidi monodattili, vari Cervidi, nonché Elephas hysudricus, Rhinoceros e Stegodon insignis; in Eurasia giunsero dall'Africa i Bovidi alcelafini e ippotragini, mentre alcune antilopi passarono dall'Eurasia all'Africa. In Europa il rinnovamento faunistico continuò con la differenziazione in loco di elefanti, Perissodattili, Cervidi, Bovidi e l'arrivo di nuovi immigrati, quali Panthera schaubi, altri Bovidi di media taglia e, quasi alla fine del Pliocene, Canidi del gruppo di Canis etruscus (già apparsi in Cina verso 3 m.a.) e Suidi come Sus strozzii, il grande cinghiale comune nelle faune del Villafranchiano superiore. In Africa orientale, tra 2,5 e 2 m.a., nelle faune delle formazioni delle valli dell'Awash e dell'Omo sono ancora presenti Dinotherium, Hipparion, i grandi felini, Hexaprotodon e Sivatherium; comparvero peraltro nuovi Suidi, un ippopotamo tetraprotodonte (Hippopotamus) e Giraffa pygmaea. Tra i Primati il dato certamente più importante è la comparsa dei più antichi rappresentanti del genere Homo. Nelle aride savane si svilupparono forme robuste di Australopithecus (A. aethiopicus, A. robustus, A. boisei), dalla dieta essenzialmente vegetariana e con robusti muscoli masticatori inseriti su forti creste ossee.
Il passaggio dalle faune del Villafranchiano medio a quelle del Villafranchiano superiore si realizzò alla fine dell'evento paleomagnetico di Olduvai. Il cambiamento della fauna, meno marcato e più graduale che nella fase precedente, è esemplificato in Italia dalle associazioni dei mammiferi delle UF di Olivola e del Tasso (Toscana). Nell'UF di Olivola la fauna risulta costituita da un nucleo di specie plioceniche a cui si aggiungono sia specie più o meno legate ad ambienti boscosi (ad es., l'orso onnivoro Ursus etruscus), sia forme adattate a spazi aperti. Tra le prime si ricordano una iena di grande taglia con "attitudini alla caccia" (Pachycrocuta brevirostris), che si diffuse ampiamente in Eurasia dal suo centro africano di origine, un felino giaguaroide (Panthera gombaszoegensis) e Cervidi brucatori di foresta, tra cui una specie di grandi dimensioni, dalle corna così ramificate da ricordare un cespuglio (Eucladoceros dicranios). Le aree di prateria o steppa erano abitate da Bovidi di taglia media (Procamptoceras brivatense, Gallogoral meneghinii) e medio-grande (Leptobos etruscus, di origine asiatica e comune soprattutto in Europa meridionale), nonché da Equidi, come Equus stenonis, di grande taglia. L'ampia diffusione raggiunta in Europa da Canis etruscus e Mammuthus meridionalis, unico rappresentante dei Proboscidati, e la comparsa di Roditori con denti a crescita continua privi di radice (microtini del sottogenere Allophaiomys) indicano un deterioramento climatico con riduzione della copertura forestale. Nei giacimenti eurasiatici sono segnalati inoltre ovibovini, rupicaprini e caprini. In Italia il prevalere di forme adattate a spazi aperti si accentuò nell'UF del Tasso con l'arrivo di nuovi immigrati. Dall'Asia si diffusero due Canidi, uno legato filogeneticamente al licaone (Canis falconeri), l'altro affine agli sciacalli (Canis arnensis), un ovibovino (Praeovibos) e un leptobovino dalla struttura simile a quella di un bisonte (Leptobos vallisarni); comparvero inoltre un equide di media taglia adattato a suoli duri (Equus stehlini) e un ippopotamo (Hippopotamus antiquus). A partire da questo momento, anche se le oscillazioni climatiche registrarono solo una lieve diminuzione delle temperature medie, la composizione delle associazioni continuò a modificarsi. Il rinnovamento della fauna europea si realizzò sia con la progressiva scomparsa di forme villafranchiane, sia con l'arrivo, scaglionato nel tempo, di nuove specie destinate a persistere nelle faune galeriane. In Italia nell'UF di Farneta (Toscana), scomparse le ultime gazzelle e Gallogoral, ai Cervidi e ai Bovidi villafranchiani di grandi dimensioni (Eucladoceros e Leptobos) si affianca un rappresentante primitivo dei megacerini (Megaceroides obscurus) e, tra i Perissodattili, è presente un rinoceronte di piccola taglia affine alla specie galeriana Stephanorhinus hundsheimensis. Mammuthus meridionalis è presente in Europa con forme di grande mole che evolvono localmente da popolazioni preesistenti (ad es., Mammuthus meridionalis tamanensis nei paesi dell'Est, Mammuthus meridionalis cromerensis in Inghilterra, Mammuthus meridionalis vestinus in Italia). È da sottolineare inoltre l'arrivo in Italia di microtini del sottogenere Allophaiomys e di Leporidi del gruppo di Oryctolagus cuniculus. Nell'UF di Pirro (Puglia) compaiono un bisonte primitivo, Bison (Eobison), due specie di Equidi, l'uno a taglia media con corporatura snella (Equus altidens), l'altro di taglia molto grande e robusta (gruppo di Equus bressanus-süssenbornensis), e un megacerino ad arti snelli, forse affine a Megaceroides solilhacus del Galeriano. Nei depositi di Venta Micena (1,2 m.a.) in Spagna e di Akalkalaki in Georgia si rinvengono sia Equidi sia megacerini simili a quelli italiani, a dimostrare l'ampia distribuzione di queste specie. Un megacerino è segnalato anche a Ubeidiya (1,5 m.a.) in Israele. Faune riferibili al Villafranchiano superiore sono frequenti in Eurasia e la loro composizione rivela una sostanziale omogeneità delle associazioni dei Grandi Mammiferi, interrotta per la presenza di specie caratteristiche del dominio più orientale. Particolarmente significativi sono i due siti di Dmanisi in Georgia e Venta Micena in Spagna. Nel primo, dove è stata rinvenuta una mandibola di Homo sp., la fauna comprende anche resti di uno struzzo gigante e di un giraffide. A Venta Micena l'accumulo dei resti dei grandi mammiferi sembra dovuto all'attività dei Carnivori, in particolare di una grande iena (Pachycrocuta brevirostris) e di altri predatori, quali due felini dai denti a sciabola (Homotherium latidens e Megantereon whitei) e un licaonide (Canis falconeri). Il complesso faunistico di Olyor (Beringia), interessante anche per la presenza di elementi endemici, comprende Insettivori, Lagomorfi, Roditori, tra cui i lemming, vari Canidi, grandi felini, alci, renne e vari Bovidi massicci e di ambiente aperto, nonché forme peculiari di mammut (Arctelephas) e di Equidi stenoniani. Questa fauna è diffusa dalla Siberia nord-orientale all'Alaska, nel territorio della Beringia, che rappresenta nelle fasi fredde un bacino di diffusione sia per l'Asia che per l'America. Nell'America Settentrionale, tra la fine del Pliocene e gli inizi del Pleistocene (tra 2 e 1,8 m.a.) si realizzò il passaggio tra le faune blancane e quelle irvingtoniane, con la scomparsa di oltre il 70% delle specie preesistenti. Una nuova migrazione portò dall'America Meridionale gli opossum e i bradipi terricoli, mentre dall'Asia giunsero Mammuthus, un Bovide (Euceratherium) e forme giaguaroidi da cui sarebbe discesa Panthera onca; si diffusero, inoltre, le tigri dai denti a sciabola (Smilodon gracilis e Homotherium serum) e varie specie del genere Lepus. Nell'Africa orientale questo periodo fu caratterizzato dal progressivo affermarsi di una tipica savana asciutta e, intorno a 1,5 m.a., si instaurarono condizioni climatiche molto vicine alle attuali. Erano presenti Roditori tipici della savana, fece la sua comparsa il genere Equus (zebre e forme affini), assieme a facoceri ipsodonti (Phacochoerus e Stylochoerus), e si diffusero le antilopi specializzate nella corsa, quali Megalotragus, Beatragus e Parmularius. I resti animali sono spesso associati a strumenti litici pertinenti a diverse specie di Homo (H. habilis, H. rudolfensis, H. ergaster, H. erectus). Le fasi più antiche sono ben testimoniate in vari siti in Etiopia (valli dell'Awash e dell'Omo), Kenya (livello KBS di Koobi Fora) e Tanzania (Bed I e Bed II inferiore di Olduvai). La fauna del Pleistocene inferiore dell'Africa, nonostante la comparsa nei distretti settentrionali di forme immigrate dall'Asia (bufali, leptobovini, Equus), mostra complessivamente caratteri peculiari e molti dei grandi Mammiferi africani evolvono da forme già presenti nel Miocene. Nell'Africa orientale, infatti, perdurarono Dinotherium, accanto a forme evolute di Elephas recki e a Loxodonta, gli Equidi tridattili (Hipparion sitifense e H. ethiopicum) e, tra i rinoceronti, il calicoterio (Ancylotherium) venne affiancato da forme simili agli attuali rinoceronte nero (Diceros bicornis) e bianco (Ceratotherium simum). Tra gli ippopotami, sopravvissero gli esaprotodonti, mentre i tetraprotodonti erano presenti con una forma fortemente specializzata per la vita acquatica (Hippopotamus gorgops) e con altre affini all'ippopotamo moderno. Tra i Suidi sono segnalate forme simili ai potamoceri attuali e il moderno facocero (Phacochoerus aethiopicus). La fauna era inoltre caratterizzata da numerose specie di Giraffidi, antilopi, gazzelle, un bufalo gigante (Pelorovis), Camelus, e, accanto ai grossi felini Megantereon e Dinofelis, erano presenti leoni, leopardi e iene simili alle specie attuali.
Nel tardo Pleistocene inferiore, già poco prima della sottocronozona di Jaramillo (1,07-0,99 m.a.), le fluttuazioni climatiche divennero più accentuate e la periodicità dei cicli passò dai precedenti 41.000 a circa 100.000 anni. La progressiva diminuzione delle temperature medie culminò, intorno a 900.000 anni fa, nel Grande Glaciale. Le variazioni climatiche e paleoambientali favorirono il progressivo e significativo rinnovamento faunistico che portò, nel Pleistocene medio, alle tipiche faune galeriane. Nell'Asia gli eventi tettonici legati alla definizione della catena himalayana determinarono, a nord della stessa, condizioni di clima più arido e continentale che influirono sullo spostamento di alcuni gruppi mammaliani verso l'Europa. Le modalità di diffusione variarono da gruppo a gruppo e a causa di vari fattori (microclimi locali, sovrappopolamento, capacità migratorie, rapidità di conquista di nuovi territori, differenziazioni evolutive nel corso della migrazione, ecc.); le cosiddette "specie galeriane" giunsero in tempi differenziati nei diversi distretti e, per un certo intervallo, si affiancarono in numero variabile alle preesistenti forme villafranchiane. In Italia l'età galeriana inizia convenzionalmente con la comparsa di Megaceroides verticornis; si tratta di un cervide alto circa 2 m al garrese, con grandi corna palmate o ramificate, segnalato per la prima volta nella fauna locale di Colle Curti (Marche), correlabile con la base di Jaramillo. L'associazione non è molto ricca di specie, ma presenta elementi innovativi tra i Roditori, quali Pliomys lenki e una forma evoluta di Microtus (Allophaiomys). Perdurarono forme ad affinità villafranchiana, tra le quali Carnivori, rinoceronti e cervi. In Europa sono noti vari giacimenti caratterizzati da faune con elementi sia villafranchiani sia galeriani, in genere riferibili alla sottocronozona di Jaramillo o di poco posteriori. Fra i siti interessanti per la ricchezza della fauna e per la frequentazione da parte dell'uomo si possono ricordare in Francia Le Vallonet e Soleilhac e in Spagna Atapuerca. In quest'ultimo giacimento, caratterizzato dal rinvenimento di numerosi resti umani nel livello TD6, l'accumulo dei resti dei grandi mammiferi sembra dovuto essenzialmente ad intervento umano. L'associazione dei micromammiferi è invece legata all'attività predatoria di rapaci come Strix aluco. A Untermassfeld (Turingia) è stata recentemente scoperta una fauna di accumulo naturale molto ricca e diversificata, che comprende Molluschi, Pesci d'acqua dolce, Anfibi, Rettili e, tra i Mammiferi, orsi, iene, linci, rinoceronti, ippopotami, Cervidi, nonché un bisonte e un grande Cervide finora assenti in altre faune europee. Nell'America Settentrionale, all'incirca in corrispondenza della fine dell'evento di Jaramillo e in concomitanza con il Grande Glaciale, si registra un discreto rinnovamento faunistico, che segna il passaggio tra le faune del primo e del secondo Irvingtoniano. Scomparvero varie specie, tra cui le ultime iene, e dall'Asia giunsero in più fasi varie forme, quali Microtus paroperarius, lemming e marmotte primitive, Canidi affini al lupo e al coyote, la renna e bovini (Soergelia).
Con le punte fredde del Grande Glaciale, che fra l'altro portarono alla diffusione perfino in Italia di Roditori artici, quali Prolagurus pannonicus e una forma affine a Predicrostonix, si determinò un significativo rinnovamento nelle faune dell'Europa occidentale, in conseguenza di una serie di eventi di dispersione dall'Asia e dall'Europa centrale. Nella penisola, sulla base della percentuale di forme villafranchiane sopravvissute, di forme di nuovo ingresso o di differenziazione locale, possono essere distinti due successivi complessi faunistici, quelli dell'UF di Slivia (Friuli-Venezia Giulia) e dell'UF di Isernia (Molise), caratterizzati dalla comparsa di una sottospecie arcaica del cervo nobile (Cervus elaphus acoronatus), con palchi a struttura leggera e senza corona. Erano inoltre presenti l'orso di Deninger e Carnivori legati a spazi aperti, quali la iena macchiata e il leone. I pachidermi erano numerosi: un mammut (Mammuthus trogontherii), pascolatore di spazi aperti, e un elefante dalle lunghe zanne quasi diritte (Elephas antiquus), diffuso in zone più arborate; un piccolo rinoceronte (Stephanorhinus hundsheimensis), brucatore di ambiente aperto, e due rinoceronti massicci, uno di prateria (Stephanorhinus hemitoechus) e uno di foresta (Stephanorhinus kirchbergensis). Comparvero inoltre Equus caballus, primo rappresentante nell'Europa occidentale dei cavalli in senso stretto, due nuovi megacerini (Megaloceros savini e Megaceroides solilhacus), e il genere Bos si affiancò a Bison schoetensacki. Sono segnalati per la prima volta anche Sus scrofa, un caprino (Hemitragus) e Cervidi di media mole, tra cui il capriolo e Dama clactoniana, antenato dell'attuale Dama mesopotamica. Fra i micromammiferi comparvero varie specie, fra cui un'arvicola con caratteri primitivi. Forme villafranchiane persistettero tra gli Equidi e tra i Cervidi, mentre tra i Carnivori la specie che permase più a lungo fu la tigre dai denti a sciabola. Nell'insieme, la percentuale di pachidermi e di erbivori di taglia grande e media era molto elevata. Nel corso del Galeriano superiore italiano (460.000-350.000 anni ca., UF di Fontana Ranuccio nel Lazio) scomparvero le ultime specie villafranchiane, con l'eccezione di Homotherium e dei due Equidi tardovillafranchiani. Il cervo era rappresentato da una forma nel cui palco era presente un accenno di vera corona; comparve l'orso bruno (Ursus arctos) e i pachidermi (elefanti, rinoceronti, ippopotami) raggiunsero il numero più elevato di specie. Le faune galeriane dei giacimenti europei presentano una sostanziale uniformità tassonomica. Tra i più noti, anche per la presenza di resti umani o di industria litica, sono da ricordare Stránská Skála, Süssenborn, Mauer, i giacimenti del Cromer Forest-Bed particolarmente ricchi di megacerini, Petralona, Arago, Vertesszőllős e, in Italia, Isernia La Pineta, Notarchirico, Loreto, Visogliano e Fontana Ranuccio. Elementi di un ambiente di steppa si rinvengono a Süssenborn, dove, insieme ai due Equidi (Equus altidens dalle zampe esili ed E. süssenbornensis di taglia molto grande e robusto), sono stati trovati i resti di renna forse più antichi dell'Europa occidentale, un alce, due megacerini, varie specie di bovini (ovibovini, bisonti, Soergelia) e ben 900 molari di Mammuthus trogontherii. A Isernia sono particolarmente numerosi resti di crani e ossa lunghe di bisonte, che hanno evidenziato ricorrenti tecniche di macellazione. A Notarchirico, la cui fauna è ricca di resti di daino di Clacton, è stata messa in luce, tra le altre, una porzione di paleosuperficie interpretabile come una probabile area di macellazione di elefante. Quest'ultimo giacimento, insieme a quello di Visogliano, in cui compare una forma massiccia e grande di bisonte (Bison priscus), può rappresentare in Italia una fase di transizione tra le faune del Galeriano medio e quelle del Galeriano superiore. In Africa, con la scomparsa delle forme arcaiche, la fauna del Pleistocene medio assunse un aspetto decisamente moderno. Si diffuse l'ippopotamo (Hippopotamus amphibius), mentre, tra gli elefanti, Elephas recki è rappresentato dalla sua forma più evoluta ed è presente Loxodonta atlantica. Nelle regioni settentrionali sono testimoniati sia bovini (Bos primigenius e Bubalus antiquus), sia Suidi (Sus) di origine asiatica, e tra gli Equidi, in maggioranza forme zebroidi, persisteva Hipparion, estinto intorno a 400.000 anni fa. In America Settentrionale, in un periodo grosso modo coincidente con il Galeriano europeo, si realizzò il passaggio tra faune irvingtoniane e rancholabreane con l'estinzione di oltre il 40% delle specie preesistenti. Arrivarono dall'Asia, oltre a Bison, evento considerato caratterizzante dell'inizio della nuova età, i veri lemming, il topo muschiato (Ondatra zibethicus), un alce dalle corna smisurate, la saiga, il bue muschiato e lo yak.
Nel corso del Pleistocene medio superiore il clima era caratterizzato da oscillazioni ampie, con tendenza all'aumento della temperatura durante gli interglaciali. Il rinnovamento nelle faune fu determinato sia dall'estinzione di forme galeriane, sia dalla comparsa di taxa di origine asiatica o di evoluzione locale, che costituirono il nucleo delle attuali faune a Mammiferi europee. Il mitigarsi del clima degli interglaciali è confermato dalla riduzione dei taxa caratteristici dei territori aperti e dall'aumento delle forme forestali. Le associazioni a Mammiferi divennero sempre più simili a quelle delle nostre faune boreali, con diminuzione delle specie di grande taglia e aumento di quelle con taglia media o piccola. In Italia, nell'UF di Torre in Pietra (Aureliano inferiore, stadi isotopici 10-8) compaiono per la prima volta il lupo attuale (Canis lupus), all'epoca robusto e di media mole, l'orso speleo, il cervo gigante (Megaloceros giganteus), caratterizzato da palchi con un'enorme pala digitata, e il cervo nobile attuale con una vera corona a chiudere il palco. Le ricche associazioni dei giacimenti laziali (Riano, La Polledrara, Castel di Guido, Malagrotta, ecc.) comprendono l'elefante antico e il bue primigenio, a cui si accompagnano con diversa frequenza rinoceronti, cavalli di grande taglia più evoluti di quelli del Galeriano, Cervidi, ippopotami e pochi Carnivori. Nei giacimenti della valle del Sacco-Liri sono segnalati Cuon alpinus e avifauna fredda. Nell'UF di Vitinia nel Lazio (Aureliano medio, stadi isotopici 7-6) compaiono il daino moderno (Dama dama tiberina) e un equide di media mole ad arti snelli, Equus hydruntinus, adattato a spazi aperti più o meno aridi e suoli duri, già segnalato con una forma di piccola taglia a Lunel-Viel in Francia. Le condizioni climatiche miti del versante tirrenico permisero il diffondersi della bertuccia (Macaca sylvana sylvana), mentre le condizioni più aride del versante adriatico favorirono la diffusione fino in Puglia di camoscio (Rupicapra) e stambecco (Capra ibex). Con l'irrigidirsi del clima giunse Mammuthus chosaricus, morfologicamente affine a Mammuthus primigenius. In Italia i giacimenti più ricchi, in cui alla fauna è spesso associata industria litica, sono situati nel Lazio (Torre in Pietra livello superiore, Sedia del Diavolo, Monte delle Gioie, ecc.). In Europa faune correlabili con l'Aureliano inferiore e medio sono ampiamente diffuse in numerosi giacimenti anche antropici, tra i quali Torralba e Ambrona in Spagna, Lunel- Viel, Terra Amata, Lazaret e Biache-Saint-Vaast in Francia, Bilzingsleben e Steinheim in Germania, Swanscombe in Inghilterra. Nell'Europa continentale la mammalofauna era molto simile a quella italiana, anche se alcune specie (volpe artica, gatto selvatico, rinoceronte lanoso, renna, alce, saiga) nella loro diffusione a sud non superarono le Alpi. Nel Pleistocene medio superiore asiatico, in particolare in Cina, inizialmente dominavano le specie forestali e di clima caldo-umido; tra 200.000 e 150.000 anni fa il clima si fece più rigido e arido, l'ambiente si modificò, le specie meglio adattate a condizioni calde e umide si ridussero drasticamente, mentre aumentarono le specie di ambienti aperti.
Il Pleistocene superiore iniziò con un intervallo climatico molto caldo (Eemiano, substadio 5e), seguito da un periodo temperato caldo, in cui si alternarono due fasi fredde. A questo seguì l'Ultimo Glaciale (Würm), comprendente due acmi negative (stadio 4 e stadio 2), intercalate da una fase in cui il clima era un poco più dolce e umido (stadio 3). Nelle fasi più fredde in Italia le lingue glaciali scendevano dalle Alpi fino alla Pianura Padana ed estesi ghiacciai erano presenti anche sugli Appennini e sulle Alpi Apuane. La fase finale della glaciazione iniziò circa 13.000 anni fa, con una successione di periodi temperati e di periodi freddi che segnarono la fine del Pleistocene e l'inizio dell'Olocene. Questo periodo è dunque caratterizzato da una serie di importanti eventi climatici, spesso di forte intensità, che hanno influenzato la composizione faunistica nelle diverse regioni geografiche della Terra. La fauna, nella quale persistevano inizialmente elementi di tradizione mediopleistocenica, comprendeva anche forme del tutto simili a quelle attuali e associazioni cronologicamente distinte possono aver avuto composizione pressoché analoga in condizioni climatiche similari. Alle medie latitudini le faune che caratterizzavano i periodi più freddi erano quelle che oggi vivono alle alte latitudini o in ambiente montano, mentre quelle caratteristiche dei momenti temperato-caldi erano in parte simili alle attuali faune temperate, spesso con presenza di elementi faunistici di ambienti subtropicali. D'altra parte, associazioni coeve di uno stesso distretto biogeografico possono differire più o meno sensibilmente in funzione di fattori fisiografici, ambientali e microclimatici locali; non è inoltre trascurabile l'attività selettiva operata negli accumuli dai Carnivori o dall'uomo. Questo rende difficile una precisa definizione della biocronologia dei singoli giacimenti, in molti casi in grotta, e la correlazione di faune di diversi distretti, soprattutto in mancanza di adeguati dati stratigrafici o palinologici di supporto. In Italia, ad esempio, la particolare configurazione geografica della penisola fa sì che le faune siano fortemente influenzate dalla localizzazione dei giacimenti (area alpina, tirrenica o adriatica). Pertanto, anche se la storia geologica recente ha favorito la conservazione di uno straordinario numero di giacimenti, è pressoché impossibile, anche nel ristretto contesto della penisola italiana, assumere qualsivoglia giacimento come rappresentativo di una o più UF in cui suddividere i due complessi riconoscibili nell'Aureliano superiore (il più antico, riferibile allo stadio isotopico 5, l'altro alle varie oscillazioni dell'Ultimo Glaciale). Le associazioni faunistiche italiane riferibili all'ultimo Interglaciale sono localizzate prevalentemente in zone centrali e meridionali della penisola (ad es., Saccopastore e grotte del Circeo nel Lazio, San Sidero e Melpignano in Puglia) e sono caratterizzate dalla costante presenza di pachidermi, ai quali possono associarsi la iena, il leone e il leopardo. Queste associazioni sono inoltre caratterizzate dal daino moderno (Dama dama), spesso dominante, associato a bovini (Bos primigenius e Bison priscus) ed Equidi (Equus caballus e Equus hydruntinus) e, là dove la copertura boschiva era più abbondante, a cervi, megaceri, caprioli, cinghiali e orsi bruni; erano anche frequenti i Carnivori di media e piccola mole. Nel Vicino Oriente questa fase fu caratterizzata da condizioni climatiche simili alle attuali; prevalsero infatti ambienti di savana in cui si diffusero specie provenienti dalle regioni orientali africane e dalla zona arabica: dromedari, Equidi, rinoceronti, antilopi, alcuni micromammiferi e lo struzzo. Agli inizi dell'Ultimo Glaciale, i daini erano ancora abbondanti, soprattutto nella fascia mediterranea; erano ancora presenti i pachidermi e divennero sempre più numerosi Bovidi ed Equidi. In Italia settentrionale nella fauna erano più frequenti gli elementi forestali, quali cervo, capriolo, uro e cinghiale. Tra i Carnivori era molto diffuso l'orso speleo; lupi e iene erano numerosi ed erano presenti lince, gatto selvatico e vari Mustelidi (martora, donnola, puzzola, ermellino, tasso e lontra). Quando le condizioni climatiche si fecero più fredde e aride, diventarono frequenti stambecco, camoscio e cavallo; la componente faunistica temperato-calda subì una drastica riduzione, con la progressiva scomparsa dell'ippopotamo, dell'elefante antico e del rinoceronte (Stephanorhinus hemitoechus), mentre il daino e il cinghiale sopravvissero soprattutto nell'Italia meridionale. Nell'Italia settentrionale si diffusero forme tipiche della steppa, come l'arvicola nordica (Microtus oeconomus), la lepre fischiante (Ochotona pusilla), il criceto (Cricetus cricetus) che arrivò fino al Lazio, la sicista (Sicista cfr. S. betulina), segnalata anche nelle Marche, nonché forme di ambiente montano, come il campagnolo delle nevi (Microtus nivalis) e la lepre alpina (Lepus timidus). Tra i grandi mammiferi erano presenti l'alce, il ghiottone e forse la volpe artica; la renna è segnalata solo al confine con la Francia. Si ampliarono gli areali di Cuon, Capra ibex, Rupicapra rupicapra, Marmota marmota, sia a basse quote sia verso sud. L'instaurarsi di ambienti a steppa-prateria anche nell'Italia centro-meridionale è inoltre documentato dalla presenza del mammut (Mammuthus primigenius) e del rinoceronte lanoso (Coelodonta antiquitatis), che raggiunsero anche la Puglia. Tra i Carnivori erano comuni il lupo, la volpe e l'orso bruno, mentre diventarono più rare le forme di grande mole e progressivamente scomparvero dapprima il leopardo e la iena, poi l'orso speleo ed infine il leone delle caverne. Nelle fasi aride temperate era ampiamente diffuso l'idruntino, mentre in quelle più fredde e umide prevaleva il cavallo. In Eurasia, nel corso dell'Ultimo Glaciale, le frequenti fluttuazioni climatiche determinarono variazioni più sensibili nelle composizioni faunistiche nella parte sud-occidentale rispetto ai settori orientali. L'assenza di grandi catene montuose nelle pianure della Russia favorì ampie migrazioni di Mammiferi da nord a sud e viceversa e da est a ovest. Accanto a forme ad amplissima distribuzione, diffuse dalla Penisola Iberica alle estreme regioni orientali, quali mammut, rinoceronte lanoso, bisonte, lupo, leone delle caverne e lince, altre specie mostrano una distribuzione più o meno ristretta. Gli Equidi erano distribuiti nell'intera area con varie specie che presentano diversi adattamenti: l'idruntino nell'area sud-occidentale, gli emioni in quella sud-orientale fino al Giappone e varie forme equine di piccola taglia dalle steppe della Mongolia fino ai distretti centro- settentrionali e alla Spagna. Alcune specie, come il bue muschiato, il ghiottone, la volpe artica, la renna e l'alce, erano assenti o raggiunsero solo limitate regioni dell'area peninsulare mediterranea. Per l'antilope delle steppe, il cui areale massimo si estendeva dall'Inghilterra meridionale alla Grecia meridionale e alla Spagna settentrionale, le catene montuose dei Balcani e delle Alpi costituirono una barriera insormontabile, così come per Ovibos che non raggiunse neppure la Grecia. Altre specie, sebbene ampiamente diffuse, erano limitate latitudinalmente: la iena macchiata mancava nelle regioni settentrionali e nelle steppe sinosiberiane e le varie specie di megacerini erano assenti sia nelle steppe siberiane sia a sud della catena himalayana. Altre specie ancora avevano distribuzioni più localizzate, come la tigre nell'Estremo Oriente, lo yak nella regione perihimalayana, l'orso speleo nell'Europa occidentale e, con forme di piccola taglia, anche nel Caucaso settentrionale e negli Urali. Nel Vicino Oriente con il deterioramento climatico arrivarono dalla regione paleartica il capriolo e alcuni micromammiferi (tra cui criceti e Myomimus roachi che vive attualmente nella Siberia meridionale). Fra le forme sopravvissute, un rinoceronte stefanorino persistette nel Levante fino a 16.000 anni fa. In Africa la caratterizzazione della fauna sembra raggiungere il massimo alla fine del Pleistocene e nel primo Olocene, in quanto l'estendersi del Sahara agì come barriera alle dispersioni nord-sud. Scambi faunistici con l'Eurasia hanno invece interessato l'Africa settentrionale fino a tempi recenti. In Italia le oscillazioni climatiche tardiglaciali sono più evidenti nella fascia pedemontana alpina. Scomparsi progressivamente già nelle fasi precedenti il mammut, il rinoceronte lanoso e i micromammiferi asiatici, associazioni a stambecco, alce e marmotta si alternano a quelle a cervo, capriolo e cinghiale. Nell'Italia peninsulare è più difficile cogliere queste oscillazioni: ambienti aperti erano prevalenti sul versante adriatico, dove predominavano animali di steppa, prateria e montagna arida (idruntino, cavallo, camoscio, stambecco), mentre su quello tirrenico si ebbero anche ambienti boschivi e forestali dominati da cervo, capriolo e cinghiale. L'inizio dell'Olocene vide l'estendersi della foresta e dei boschi e l'affermarsi di una fauna con prevalenza di cervo e cinghiale, accompagnati da capriolo e numerosi Carnivori, che dominò per i primi millenni dell'Olocene durante il Boreale e l'Atlantico. L'areale di numerose specie si ridusse (stambecco, camoscio, marmotta e lepre alpina si concentrarono in zone montane), scomparvero gli Equidi selvatici, il daino e l'istrice, mentre l'adozione dell'economia produttiva portò all'introduzione degli ovicaprini e degli altri animali domestici. La ricerca di spazi per l'agricoltura e la pastorizia, il progressivo disboscamento, le bonifiche e la caccia ai predatori confinarono numerose specie selvatiche in spazi sempre più ristretti e portarono all'estinzione, tra le altre, dell'alce, della lince e dell'uro. In Europa le specie eurasiatiche di clima freddo, che si erano diffuse nei settori meridionali, videro progressivamente ridotto il loro areale e in alcuni casi si mantennero come specie relitte nelle più alte zone montuose (marmotta, lepre alpina, camoscio); altre, con il ritorno a condizioni di clima più caldo, si spostarono verso l'Europa settentrionale o in Asia, seguendo il ritiro del grande ghiacciaio scandinavo. Nelle fasi temperate del Tardiglaciale, il ritiro dei ghiacci consentì ad alcune specie di colonizzare la Scandinavia meridionale, dove giunsero in fasi successive prima il lupo e la renna, quindi il megacero, l'alce, l'orso bruno e il castoro. All'inizio dell'Olocene si ebbe l'immigrazione di specie temperate di ambiente forestale, tra cui vari Mustelidi, gatto selvatico, lince, capriolo e cinghiale, nonché cervo, uro, bisonte e cavallo. Durante l'Olocene nella fauna europea comparvero alcune nuove forme asiatiche, quali la faina, il topolino delle risaie, quello delle case e, più tardi, i ratti, ma il passaggio tra Pleistocene e Olocene fu comunque un periodo di grandi estinzioni nella megafauna. In Eurasia e ancor più in Africa le estinzioni furono modeste e graduali (rispettivamente 29% e 14% delle specie), soprattutto se comparate con quelle del Nuovo Mondo (73% in America Settentrionale e 80% in America Meridionale) e dell'Australia (94%). Il cervo gigante risalì a nord per estinguersi nell'Olocene antico in Irlanda; Bison priscus, frammentato in piccole popolazioni, fu sostituito dall'attuale specie europea Bison bonasus; il daino, scomparso dall'Italia e forse dall'Europa meridionale, sopravvisse nell'Asia Minore; Bos primigenius sopravvisse in Polonia in epoca storica fino al XVII secolo, il leone in Siberia con forme di mole ridotta fino all'Olocene; le popolazioni di cavallo si estinsero nel corso dell'Olocene lasciando piccoli gruppi relitti. Gli ultimi mammut primigeni sono noti in Europa fino a circa 13.000 anni fa e nel continente asiatico fino a circa 10.000 anni fa, ma popolazioni relitte degli elefanti lanosi di piccola mole sopravvissero fino a circa 3700 anni fa nell'isola di Wrangel. In America Settentrionale un quadro del popolamento animale durante l'Ultimo Glaciale è offerto dalla fauna dei livelli bituminosi del giacimento californiano di Rancho La Brea (40.000-10.000 anni fa), eccezionale per quantità di resti, varietà di forme (565 specie) e stato di conservazione. Sono stati recuperati invertebrati, Pesci, Anfibi, Rettili, oltre 100.000 resti di uccelli di 135 specie e oltre un milione di resti di Mammiferi, appartenenti a 59 specie. Tra le specie di uccelli oggi estinte è da segnalare la presenza di più di 100 individui di Teratornis merriami, il più grande uccello dell'America Settentrionale, affine agli avvoltoi, con oltre 3 m di apertura alare. Fra i Mammiferi il 90% è rappresentato da Carnivori (tigre dai denti a sciabola, leone americano, coyote, lupo, volpe, puma, giaguaro, lince, Procionidi e Mustelidi). Il restante 10% è costituito da Artiodattili (pecari, Camelidi, Cervidi, antilocaprini, bovini), Perissodattili (tapiri e cavalli), Sdentati (bradipi) e Proboscidati (mastodonte americano e Mammuthus). Alla fine dell'Ultimo Glaciale, fra i discendenti dei colonizzatori sudamericani sopravvissero l'opossum e l'armadillo dalle nove fasce, mentre si estinsero i bradipi. Scomparvero numerosi generi di micromammiferi, orsi dei generi Tremarctos e Arctodus, le tigri dai denti a sciabola, il leone americano, il cuon, i Proboscidati, tutti gli Equidi e i tapiri, i pecari, i Camelidi, la saiga e lo yak.
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di Maria Rita Palombo - Antonio Tagliacozzo
L'America Meridionale costituì per gran parte del Cenozoico un distretto isolato, nel quale si diversificò una fauna con caratteri peculiari: grandi uccelli corridori e predatori, marsupiali in alcuni casi estremamente specializzati (Tilacosmilidi), Sdentati (formichieri, armadilli, bradipi, Glyptodon), ungulati esclusivi di questa regione come Condilartri, Notoungulati, Litopterni, e, fra i Roditori, Cricetidi e Caviomorfi (capibara, porcospini endemici, cincillà, Ocotonidi, ecc.). Gli scarsi e sporadici scambi faunistici con l'America Settentrionale interessarono un numero assai ridotto di forme. Durante il Plio-Pleistocene inferiore, per contro, in America Meridionale (in particolare nelle pampas), si attuò la profonda fase di rinnovamento iniziatasi intorno a 3,2-3 m.a. Variazioni climatiche di portata globale e scambi faunistici connessi con l'emersione dell'istmo di Panama avevano innescato il rapido declino della fauna indigena e determinato significative modificazioni nella struttura delle associazioni, specie di quelle mammaliane. Una seconda importante fase di rinnovamento si registrò intorno a 2,6-2,4 m.a., con il passaggio tra le età a Mammiferi Chapadmalalano e Uquisiano. Le condizioni climatiche più aride e fresche favorirono, da un lato, l'estendersi delle praterie nella zona della cordigliera, il diffondersi e il differenziarsi degli immigranti nordamericani (Taiassuidi: Argyrohus; Camelidi: Hemiauchenia), mentre determinarono, dall'altro, una riduzione della ricchezza e della diversità della fauna indigena. Al passaggio tra il Pliocene e il Pleistocene sembrerebbe invece che le variazioni faunistiche non siano state particolarmente rilevanti. Nelle associazioni del Vorohueano (Uquisiano medio), forse correlabili con le UF di Olivola e del Tasso, e in quelle successive del Sanandresiano (Uquisiano superiore) si registra, tuttavia, un forte incremento di famiglie e generi di nuova immigrazione (Canidi: Pseudoalopex, Canis; Equidi: Hippidion; Mustelidi: Galictis), mentre tra le forme indigene prevalgono le estinzioni, soprattutto di micromammiferi. L'insieme della fauna, in particolare gli Xenartri e un marsupiale di nuova comparsa, indica un decremento della temperatura e il prevalere di ambienti aridi e semiaridi. Il declino delle forme indigene è stato in genere considerato diretta conseguenza dell'impatto sulla fauna locale della massiccia e subitanea migrazione di forme più competitive provenienti dalla regione oloartica; minore rilievo è stato dato all'influenza delle variazioni climatiche. La scomparsa dei Tilacosmilidi e di alcuni uccelli corridori veniva imputata alla competizione con i Carnivori placentati, ma, in realtà, i potenziali competitori giunsero e si differenziarono in America Meridionale quando il processo di estinzione era già ampiamente in atto. Nell'Uquisiano, ad esempio, la diversificazione e la biomassa dei nuovi colonizzatori non sembrano avere interferito in maniera determinante con l'evolversi delle popolazioni locali e ben più rilevante sembra essere stato l'effetto del deteriorarsi del clima. Il passaggio Uquisiano-Ensenadiano (tra 1 e 0,8 m.a., correlabile con il passaggio Villafranchiano-Galeriano) è caratterizzato sia da nuove comparse sia da un'ulteriore fase di estinzione. In questo caso l'impatto faunistico prodotto dall'ingresso di nuovi immigranti fu rilevante. Giunsero Cervidi (Epieurycerus), Perissodattili (Tapirus), Camelidi pascolatori (Lama) e Proboscidati; fra i Carnivori, si differenziarono Felidi (Smilodon, Felis, Panthera), Ursidi (Arctodus) e Canidi (Theriodictis, Protocyon). Le associazioni sono caratterizzate da un'alta frequenza, specie fra le forme indigene, di Mammiferi di grande mole. La megafauna sudamericana raggiunse infatti il suo apice proprio durante l'Ensenadiano, quando le condizioni ambientali tornarono, almeno per alcuni periodi, ad essere simili a quelle del Chapadmalalano. La maggiore estensione delle aree arborate è indicata ad esempio dalla presenza della specie foglivora Megalonychops carlesi (Xenartri), del brucatore frugivoro Catagonus (Taiassuidi) e, verso la fine del periodo, del caviomorfo Clyomys laticeps, che abitava le foreste subtropicali del Brasile e indica condizioni di clima caldo-umido. La persistenza di spazi aperti aridi, in condizioni climatiche relativamente fredde, è tuttavia documentata dalla frequenza e dalla diversità di gliptodonti, bradipi e armadilli giganti, dall'abbondanza di Microcavia, dalla presenza di Ursidi di grande taglia e di Canidi. Nell'Ensenadiano alcune forme sudamericane (opossum e bradipi terricoli) passarono nell'America Settentrionale, mentre le forme oloartiche diventarono una componente importante nell'ecosistema delle pampas e il loro ruolo si accrebbe ulteriormente nell'età successiva (Lujaniano). Nel Lujaniano (Pleistocene medio superiore e Pleistocene superiore) fecero dapprima la loro comparsa, provenienti dall'America Settentrionale, Stegomastodon, specie tipica di spazi erbosi aperti e clima temperato-caldo, nuovi Cervidi (Ortoceros), Equidi (Equus), con specie che presentano peculiari adattamenti alle diverse condizioni ambientali, e Camelidi (Hippocamelus), ai quali si aggiunsero, nel tardo Lujaniano, Leporidi, Sciuromorfi, Soricidi. Nella fauna indigena si estinsero quasi tutti gli Xenartri di grande mole, i marsupiali annoveravano specie di clima temperato-caldo, che frequentavano pascoli aridi o semiaridi, fra i Cricetidi aumentarono le specie di ambiente arido e semiarido, la diversità tassonomica di Litopterni e Notoungulati era molto bassa e solo due forme, Macrauchenia patagonica e Taxodon, persistettero nell'Olocene. Alcuni taxodonti si spostarono a settentrione, seguiti, nel Pleistocene superiore, da bradipi arboricoli, scimmie platirrine, formichieri e paca. L'impoverimento della fauna sudamericana fu progressivo e irreversibile e culminò con l'estinzione della megafauna, alla quale concorsero numerosi fattori interagenti fra di loro, non ultimi le variazioni climatiche e l'aumento della zonazione della flora. Determinante fu anche l'azione filtrante esercitata dall'istmo di Panama, che con la sua configurazione montuosa e aspra, la notevole estensione latitudinale, il variare delle condizioni ecologiche nei territori confinanti condizionò il diffondersi e il differenziarsi delle specie, costituendo in tal modo la premessa per l'instaurarsi della fauna attuale. L'emersione dell'istmo di Panama creò, inoltre, una barriera insormontabile per la fauna marina, determinando una divergenza evolutiva fra le forme bentoniche della regione atlantica e quelle della regione pacifica dello stretto. La fauna pleistocenica dell'Australia, unico continente con la contemporanea presenza di tre sottoclassi di Mammiferi (Monotremata, Marsupialia e Placentalia), presenta sensibili affinità con quella attuale. Anche qui circa 35.000-30.000 anni fa si verificò una rilevante estinzione che interessò circa il 33% delle specie di Marsupiali. Molti gruppi, quali "leoni" marsupiali (Tilacoleonidi), canguri carnivori (Propleopini) e diprotodonti giganti, tra cui Diprotodon australis della taglia di un rinoceronte, scomparvero. Il lupo di Tasmania (Thylacinus cynocephalus) si estinse probabilmente nel 1930, mentre il diavolo di Tasmania (Sarcophilus harrisii), che occupa una nicchia ecologica simile a quella delle iene, è tuttora vivente nella regione. Tra i canguri (Macropodidae), molti dei generi attuali sono caratterizzati da mole ridotta rispetto a quella dei progenitori pleistocenici. In seguito a questa estinzione di massa, i canguri pascolatori divennero i Mammiferi terrestri dominanti sostituendo i brucatori e i vombatiformi. Modificazioni climatiche e ambientali hanno contribuito a questa estinzione, ma l'arrivo dell'uomo, tra 120.000 e 60.000 anni fa, ha senz'altro giocato un ruolo importante.
Oltre alla bibl. citata nel contributo precedente cfr. S.D. Webb, Mammalian Faunal Dynamics of the Great American Interchange, in Paleobiology, 2 (1976), pp. 220-34; M.T. Alberdi - G. Leone - P. Tonni (edd.), Evolución biológica y climática de la región pampeana durante los últimos cinco millones de años, Madrid 1995.
di Maria Rita Palombo - Antonio Tagliacozzo
Nel Pleistocene, così come in tempi più lontani, forme estremamente specializzate popolarono isole grandi o piccole, vicine o lontanissime dai continenti, distribuite in differenti aree geografiche (Mediterraneo, Mare della Sonda, Mar Cinese Meridionale, Pacifico orientale, Mar Glaciale Artico). I loro progenitori continentali avevano raggiunto queste isole in volo, a nuoto o portati dalle correnti, attraversando bracci di mare più o meno estesi, passando su ponti discontinui o lembi di piattaforma temporaneamente emersi. Elefanti e ippopotami in miniatura, lucertole, tartarughe e varani giganti, cervi piccoli come cani o alti come giraffe, civette grandi quanto un gufo o uccelli che avevano perso l'attitudine al volo, Bovini dalle corte zampe e dalla vista stereoscopica, micromammiferi che cambiavano mole e modo di vita, forme strane e affascinanti in cui è difficile a volte riconoscere le pur note sembianze delle specie progenitrici. Nei distretti isolati (siano essi zone di terraferma circondate dal mare o qualsivoglia area di dimensioni limitate, ma tali da consentire la sopravvivenza di flora e di fauna) barriere geografiche o ecologiche impedirono lo scambio genetico continuo fra le popolazioni dell'isola e le aree limitrofe, favorendo l'evolversi di forme endemiche. Le modalità di colonizzazione e di evoluzione delle specie pioniere variarono da isola a isola o in una stessa isola in tempi diversi. Ne risulta che ogni fauna insulare ha una sua particolare fisionomia alla cui definizione concorrono vari fattori, quali natura, estensione e stabilità della barriera, dimensioni, caratteri fisiografici e microclimatici dell'isola, presenza di isole vicine, caratteri ecologici, etologici e consistenza numerica, sia delle specie colonizzatrici sia di quelle eventualmente preesistenti. Le faune insulari, tuttavia, condividono caratteri peculiari, tali da consentire ad esempio il riconoscimento di isole "fossili": sono poco diversificate, non bilanciate (in genere mancano fra i Mammiferi forme con scarsa attitudine al nuoto, quali Perissodattili e Carnivori di grande mole), costituite da un numero ridotto di taxa più o meno sensibilmente modificati rispetto ai progenitori per taglia o per caratteri morfofunzionali. La riduzione di mole dei Mammiferi di grande taglia e l'aumento di mole dei micromammiferi, dei Rettili, degli uccelli rapaci, nonché di alcuni Cervidi dell'isola di Creta, sono tra i più strani e stupefacenti fenomeni evolutivi. Per spiegare il "nanismo" e il "gigantismo" delle specie insulari sono state avanzate varie ipotesi, prima fra queste la mancanza della pressione selettiva dei Carnivori, che avrebbe favorito inoltre l'alta variabilità interspecifica delle specie endemiche. La variazione di taglia è in realtà il frutto dell'interazione di molteplici fattori (riduzione del pool genetico, endogamia, neotenia, eterocronia pedomorfica, progenesi e ipermorfosi, risorse alimentari ridotte, nicchie disponibili, variata pressione selettiva, sovrappopolazione, competizione, ecc.), la cui dinamica varia nelle diverse isole o anche in una stessa isola in tempi diversi. Nelle associazioni tipicamente "insulari" i grandi Mammiferi, colonizzatori attivi, sono rappresentati da pochi taxa dotati di notevoli capacità natatorie (elefanti, ippopotami, Cervidi ed eccezionalmente Bovidi), mentre i micromammiferi, in genere colonizzatori passivi, sono più diversificati (Soricidae, Talpidae, Gerbellidae, Arvicolidae, Muridae, Myoxidae, Ctenodactylidae e Ochotonidae). Sia gli uni che gli altri si trovano a vivere in condizioni ambientali diverse da quelle dei progenitori continentali e l'acquisizione di nuovi modi di vita comporta modificazioni morfofunzionali, in parte legate anche alla variazione di taglia. Nel Pleistocene, fra i grandi Mammiferi, i Proboscidati furono i colonizzatori più diffusi, presenti con forme derivate dai generi Elephas (Sicilia, Malta, Creta, Cicladi, Dodecaneso, Cipro), Mammuthus (Sardegna, forse Sicilia, Malta e Creta, isole della California) e Stegodon (Indonesia, Filippine). Caratteri comuni a tutti gli elefanti endemici sono la riduzione più o meno accentuata della mole corporea (con altezza al garrese che varia da 0,9 m di Elephas falconeri di Malta e della Sicilia a 1,05 m dei più piccoli esemplari di Mammuthus exilis della California, a 2 m circa delle forme di taglia media delle isole del Mediterraneo, fino a valori prossimi a quelli delle specie continentali), la diminuzione dell'assetto graviportale degli arti e l'acquisizione di un'andatura più agile (legate in parte alla diminuzione di peso, in parte all'attitudine a muoversi anche su suoli accidentati), la riduzione della pneumatizzazione del cranio, con proporzionale aumento della massa encefalica, e l'aumento del dimorfismo sessuale. Ippopotami endemici erano presenti in Sicilia (Hippopotamus pentlandi di taglia poco ridotta), a Malta (H. pentlandi e H. melitensis, più piccolo), Creta (H. creutzburgi) e Cipro (Phanourios minor, piccolissimo, estremamente specializzato, con dentatura lofodonte). Le singole popolazioni mostrano grande variabilità morfologica e dimensionale, ma anche nelle forme di maggiore mole si nota la tendenza a una modificazione della struttura degli arti che comportò una loro maggiore mobilità e stabilità. I Cervidi endemici, di derivazione dai generi Megaceroides, Cervus o di incerta origine, erano presenti con un elevato numero di specie nelle isole del Mediterraneo, dove diedero luogo anche a processi di speciazione radiativa occupando diverse nicchie ecologiche. Megaceroides cazioti (alto 0,75-1 m ca.) di Corsica e Sardegna era un agile pascolatore, Megaceroides carburangelensis della Sicilia, più piccolo, era un brucatore che preferiva zone boscose, mentre Cervus elaphus siciliae, presente anche a Malta, aveva attitudini simili al megacero sardo. I due piccoli megaceri e i tre cervi di maggiore mole di Creta, con statura variante da 0,5 m al garrese di Megaceroides ropalophorus a 1,65 m di Cervus (sensu lato) major, a dieta mista o prevalentemente brucatori, dovevano avere capacità di muoversi su suoli scoscesi e accidentati nel caso delle specie più piccole, mentre nelle forme di grande taglia l'andatura doveva essere rigida e lenta. I Bovidi insulari endemici non erano frequenti e annoveravano, oltre alla specie attuale Bubalus depressicornis di Sulawesi, il particolarissimo Myotragus, unico grande mammifero del Pleistocene delle Isole Baleari. L'antenato, forse un'antilope, giunse nelle Baleari durante il Pliocene, evolvendosi in forme dai caratteri del tutto peculiari: muso raccorciato con dentatura ridotta ma incisivi a crescita continua, vista stereoscopica, zampe con metapodiali estremamente raccorciati e modificati in modo da consentire un'andatura lenta e potente da arrampicatore anche su terreni scoscesi. I Carnivori, presenti con forme di grande taglia nelle faune abbastanza diversificate del complesso ad Elephas mnaidriensis della Sicilia, non erano del tutto assenti nelle faune tipicamente insulari. Nel Mediterraneo, lontre endemiche sono segnalate a Creta, in Sicilia e a Malta, nonché in Corsica e Sardegna, dove erano presenti con ben tre specie, di cui una, Megalenhydris barbaricina, di grande mole. In queste due isole era diffuso anche il piccolo Canide Cynotherium sardous, dalle corte zampe e dal muso allungato, predatore di piccoli Mammiferi e uccelli; in Sardegna erano presenti uno Ienide (Chasmaportetes sp.) e l'unico Primate endemico (Macaca majori), dalla dentatura robusta, ma di taglia ridotta. Attualmente, anche se qualche specie con caratteri "insulari" è presente in distretti isolati, le faune insulari non esistono più. Per giustificare la loro scomparsa si è fatto riferimento all'impatto di queste specie "vulnerabili" con l'uomo del Paleolitico superiore e con le specie che accompagnavano questo nuovo colonizzatore. Non sono tuttavia da sottovalutare le variazioni climatiche, ambientali e anche paleogeografiche del tardo Pleistocene, che in alcuni casi favorirono l'ingresso nelle isole di un elevato numero di specie. Nelle isole più facilmente raggiungibili la sopravvivenza fu più limitata: in Sicilia ad esempio, già nel corso del Pleistocene superiore, le faune annoveravano, accanto a forme continentali, un ridotto numero di specie endemiche, mentre nelle Baleari Myotragus balearicus sopravvisse fino a circa 2000 anni fa, convivendo per un periodo relativamente lungo con l'uomo.
P.Y. Sondaar, Insularity and its Effect on Mammal Evolution, in M.K. Hecht - C. Goody - B.M. Hecht (edd.), Major Patterns in Vertebrate Evolution, New York 1977; J.A. Alcover - S. Moya Sola - J. Pons-Moya, Les quimeres del passat. Els vertebras fòssils del Plio-Quaternari de les Balears i Pitiüses, Palma 1981; A. Azzaroli, Insularity and its Effects on Terrestrial Vertebrates: Evolutionary and Biogeographic Aspects, in E. Montanaro Galitelli (ed.), Palaeontology Essential of Historical Geology, Modena 1982; W.H. Waldren, Survival and Extinction: Myotragus balearicus, in Damarc, 27 (1994), pp.1-68; D. Reese (ed.), Pleistocene and Holocene Fauna of Crete and First Settlers, Madison 1996. -