Clizia
La seconda e ultima commedia originale di M. a noi pervenuta, C., è in prosa, in cinque atti inframmezzati da canzoni; le circostanze di composizione sono state ricostruite grazie a sicure testimonianze contemporanee.
Dopo la chiusura degli Orti Oricellari (→), M. frequentava la casa di Jacopo di Filippo Falconetti detto il Fornaciaio, un ricco popolano, già membro dei Collegi della Signoria, che era stato bandito per cinque anni con obbligo di risiedere nella sua abitazione di S. Maria in Verzaia fuori Porta S. Frediano. Il soprannome gli veniva da una grande fornace che possedeva e che gli procurava lauti guadagni. La condanna scadeva il 13 gennaio 1525: per il giorno del ribandimento venne organizzata una festa che prevedeva, oltre a un solenne convito, la messa in scena di una commedia. M., che era spesso ospite del Fornaciaio, propose una sua commedia nuova, che venne scritta «a gara col calendario» (Ridolfi 1968, p. 139) per poter essere recitata nella sera prevista. «Non molto tempo innanzi un altro fiorentino, Bernardino di Giordano, aveva fatto recitare la Mandragola con le scene dipinte da Andrea del Sarto e da Aristotele da San Gallo. Il Fornaciaio volle emularlo facendo dipingere dallo stesso San Gallo la prospettiva e le scene» (pp. 138-39), che, come riferisce Giorgio Vasari, furono molto apprezzate.
La canzone che precede il prologo e quelle fra gli atti furono composte per essere cantate dalla Barbera (Barbara) Salutati; delle musiche, scritte da Philippe Verdelot (→; cfr. Pirrotta 1975), restano quelle per “Quanto sia lieto el giorno” (canzone prima del prologo), “Chi non fa prova, Amore” (dopo l’atto III), “Sì suave è lo inganno” (dopo l’atto IV); mentre la musica rimasta per l’altra canzone, “O dolce notte”, fu composta per la progettata e mai realizzata rappresentazione faentina della Mandragola (→), in cui pure avrebbe dovuto cantare la Barbera.
La figura della Barbera, artista giovane e piacente, risulta di particolare importanza nella composizione della commedia: M., che allora aveva quasi 56 anni, se ne era invaghito; egli per primo ironizza sulla naturale e logica difficoltà di questo amore, identificandosi con il protagonista della commedia, un vecchio innamorato; pur consapevole che la donna preferirebbe un amante più giovane («poi ch’i’ veggio e confesso / come tanta beltade / ama più verde eta-de»: “Alla Barbera”, vv. 10-12), Niccolò non rinuncia a questa passione («mi dà molto più da pensare che lo imperadore», M. a Francesco Guicciardini, 15 marzo 1526) e, fra le altre cose, scrive i testi per le sue canzoni. Il rapporto deve essere stato lungo e notorio, se nel 1544 la Barbera poté chiedere aiuto a Lorenzo Ridolfi (su cui si veda oltre a proposito del cod. Colchester) «per lo amore che portò alla buona memoria di Niccolò Machiavelli» (Ridolfi 1954, 19787, pp. 324 e 529-30). L’identificazione, o almeno l’assimilazione, di M. con il protagonista della C. è sottolineata anche dalle lettere del nome di quest’ultimo (Nicomac-o) che coincidono con quelle iniziali del nome e del cognome di M. (Nicolò Machiavelli).
La commedia, recitata dopo il gran convito cui partecipò, fra gli altri, il giovane Ippolito de’ Medici, riscosse subito un notevole successo, attestato da Filippo Nerli nella lettera da Modena del 22 febbraio 1525:
Il Fornaciaio e voi, e voi et il Fornaciaio, avete fatto in modo che non solo per tutta Toscana, ma ancora per la Lombardia è corsa e corre la fama delle vostre magnificenzie […]. Io so dell’orto rappianato per farne il parato della vostra commedia […]. La fama della vostra commedia è volata per tutto; e non crediate che io abbia avuto queste cose per lettere di amici, ma l’ho avuto da viandanti che per tutta la strada vanno predicando «le gloriose pompe e’ fieri ludi» della porta a San Friano. Sono certo, che così come non è stata contenta la grandezza di sì gran magnificenzie di restare drento a’ termini di Toscana, ch’è voluta volare ancora in qua, che passerà anche e monti […]. Insomma, Niccolò, […] io vorrei che voi mi mandassi, quanto prima potrete, questa commedia che u[l]timamente avete fatta recitare. Fate che per niente voi mi manchiate (Lettere, p. 390).
Il Nerli poi, scrivendo a Francesco Del Nero (1° marzo 1525), gli chiederà di ricordare a M. di mandargli la «commedia che si recitò a l’orto del Fornaciaio» (P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 3° vol., 1882, pp. 420-21).
Questi primi successi non trovarono riscontro editoriale: la princeps della commedia vide la luce solo nel 1537 (dieci anni dopo la morte dell’autore), a Firenze, per Antonio Mazzocchi, Niccolò Gucci e Piero Ricci. Altre stampe la seguirono, le prime due giuntine, Firenze, 1548 e 1556, la terza romana, senza indicazione di stampatore, nel 1588. La collazione delle stampe dichiara la derivazione di quelle successive dalla princeps.
Non essendo a tutt’oggi reperito l’autografo, per la ricostruzione del testo risultano utili, oltre alla princeps (F), tre copie manoscritte: Firenze, Biblioteca Riccardiana, cod. 2824 (R); Roma, BAV, cod. Boncompagni, F 11 (B); e infine Colchester, Colchester and Essex Museum, privo di segnatura (C). Quest’ultimo testimone, scoperto da Beatrice Corrigan che ne diede notizia ne «La bibliofilia» del 1961, suscitò gli entusiasmi di Roberto Ridolfi, che vi identificava un esemplare regalato da M. stesso a Lorenzo Ridolfi in occasione del matrimonio con Maria di Filippo Strozzi. Il matrimonio, celebrato nel 1529, era stato concluso nel 1525 con l’approvazione di papa Clemente VII, parente di Ridolfi, che aveva concesso anche un proprio supplemento dotale. Al 1525 viene quindi fatta risalire anche la realizzazione del codice, riccamente ornato, per mano di Ludovico Arrighi. Le diverse ipotesi di datazione proposte da Frank Allan Thomp son (The significance of the Colchester Clitia ms., in Calligraphy and palaeography. Essays presented to Alfred Fairbank, ed. A.S. Osley, 1965, pp. 121-33) sono state rigettate da Ridolfi (1968, pp. 148-51). Il manoscritto presenta le lettere iniziali di ogni scena e delle canzoni riccamente decorate. La pagina 2r, nella sontuosa bordura che la circonda su tre lati, esibisce le armi delle due famiglie nel margine inferiore. Alla bella apparenza libraria non corrisponde, però, precisione nel dettato: soprattutto le pagine successive alle prime sono vergate con più fretta e minore attenzione (pp. 153 e 159).
I testimoni denunciano la presenza di un errore di archetipo; R e F presuppongono un apografo comune, esemplato su quello da cui deriva C; solo quest’ultimo e B restano nelle zone alte dello stemma. C presenta il vantaggio di essere chiarissimo alla lettura e completo, mentre B pecca per la caduta di un quinterno tra la scena seconda del primo atto e la terza dell’atto secondo, precisamente da «nel più gelato verno» (I ii) a «villa tra buoi» (II iii); inoltre è scritto in fretta da un copista non particolarmente attento e che talvolta dimostra assoluta incomprensione del dettato (non pochi i salti per omoteleuto). La correttezza con cui, soprattutto nella prima parte, fu copiato il codice C (che ha indotto gli editori, ultimo Inglese 1997, a privilegiarlo) fa sottolineare le lacune in cui incorre, che possono essere colmate dalle lezioni di B (che presenta anche fenomeni di alternanza grafica e tratti linguistici senesi).
L’impossibilità di restituire con sicurezza gli aspetti formali dell’autografo si fa sentire in modo particolare nel caso della C., dove ognuno dei quattro testimoni presenta caratteristiche proprie che è d’altra parte impossibile attribuire con sicurezza al singolo copista o tipografo: qualsiasi scelta rischia di privare il testo anche di elementi dell’originale.
L’edizione critica della commedia (Perocco 1979 e 2005, da cui sono tratte le citazioni) ha privilegiato B, manoscritto redatto in fretta e pieno di pecche, ma portatore di lezioni più complete, ovviamente integrato dagli altri testimoni nella parte mancante per caduta meccanica. La fondamentale trascuratezza del copista di B induce a evidenziare, in quanto attribuibili alla fonte, le lezioni sicuramente corrette di cui è portatore unico.
La commedia inizia con un prologo che manifesta la poetica del M. e introduce sulla scena tutti i personaggi per presentarli subito agli spettatori (come accade nella commedia latina); l’antefatto è esposto nel dialogo tra Cleandro, figlio del vecchio Nicomaco, e Palamede, personaggio protatico. Nel 1494, quando le truppe francesi al seguito di Carlo VIII, nel dirigersi alla conquista del Regno di Napoli, entrarono a Firenze, le più importanti famiglie fiorentine furono obbligate a ospitare i francesi nelle loro case; Nicomaco dovette così accogliere Beltramo di Guascogna, con il quale strinse una grande amicizia. Dopo la conquista di Napoli e il costituirsi della lega antifrancese (Venezia, Austria, ducato di Milano, papato, Spagna), il re si vide costretto a tornare verso la Francia con Beltramo al seguito; questi, per mezzo di un servitore, mandò così a Nicomaco una bambina di cinque anni, preda di guerra, pregandolo di tenerla con sé fino a quando non fosse tornato a riprenderla. Clizia viene dunque allevata come una figlia da Nicomaco e da sua moglie Sofronia. Trascorsi dodici anni (Beltramo probabilmente era morto nella battaglia di Fornovo), dell’adolescente Clizia sono innamorati sia Nicomaco sia il figlio Cleandro. Il vecchio stringe un patto con il servo Pirro, che sposerà Clizia, ma la metterà a disposizione del padrone già la prima notte di nozze. Sofronia, accortasi della trama, non trova altro rimedio che mettere in campo un altro pretendente, Eustachio, il fattore di casa. Cleandro, che sarebbe pronto a sposare Clizia, sa però che non gli verrebbe concessa in moglie perché senza dote e di origini incerte (I i).
Questa la situazione quando comincia l’azione della commedia, che vede in campo, come principali contendenti, i due anziani coniugi: Nicomaco è deciso a concludere a tutti i costi le nozze quella sera stessa, e ha preso in affitto la casa del vicino (Damone); Sofronia non vuole che la ragazza, da lei allevata come una figlia, faccia una brutta fine, cadendo nelle mani di un adultero settantenne e di un inetto che è disposto a prostituire la moglie per trarne guadagno (I e II). Nicomaco, dopo aver cercato di persuadere la moglie a far risolvere la questione a un estraneo imparziale (il fra Timoteo della Mandragola) – e dopo che ciascuno dei coniugi ha tentato di far desistere dal proposito matrimoniale il pretendente scelto dall’altro –, decide di affidarsi alla fortuna con un’estrazione a sorte, che gli risulta favorevole (III). Mentre il vecchio si sta preparando per le nozze, anche con una cena speciale affinché la sua «vecchiaia non si riconosca al buio» (IV ii 20) quando dovrà dar prova di sé nella camera nuziale, giunge la serva Doria a raccontare che Clizia, in un impeto di pazzia, ha afferrato un coltello e grida di voler uccidere Nicomaco e Pirro. Si tratta di un escamotage per tenere il vecchio fuori di casa mentre si programma e si realizza la beffa che egli subirà nella notte. Al dunque, Nicomaco non viene insospettito dalla inusuale altezza della ragazza che, con un fazzoletto sul viso per asciugare le lacrime, viene accompagnata a letto da Sofronia e da Sostrata, la moglie di Damone, il vicino, coetaneo di Nicomaco, che ha ceduto la casa dove gli sposi passeranno la notte (IV). In realtà, come racconterà lo stesso Nicomaco il mattino seguente, Sofronia ha sostituito a Clizia il servo Siro, travestito; e questi, a letto, maltratta Nicomaco senza lasciarlo avvicinare: quando il vecchio, sfinito per gli inutili tentativi, scivola nel sonno, sente dei colpi sotto il coccige e, protesa la mano, tocca «una cosa soda e acuta» (V ii 16) che pensa sia il pugnale di Clizia. Ma il lume recato da Pirro, chiamato in soccorso da Nicomaco, rivela Siro che, tutto nudo, in piedi sul letto, fa boccacce e gestacci al padrone. A questo punto Nicomaco, su consiglio di Damone, si rimette completamente alle decisioni della moglie. Sofronia perdona lo sciagurato e pretende che per il momento Clizia non sposi né Eustachio né Cleandro. Giunge, nell’ultima scena, deus ex machina, il padre di Clizia, un ricchissimo gentiluomo napoletano che, con il riconoscimento della figlia, ne rende possibili le nozze con Cleandro (V).
La trama della commedia è in parte ripresa dalla Casina di Plauto dove, però, l’accordo per la cessione della ragazza contesa con i rispettivi servi è fatto sia dal padrone vecchio, Lisidamo, sia da quello giovane, Eutinico. Cleandro sottolinea invece più volte di non avere alcun accordo con il pretendente della ragazza messo in campo dalla madre, ed esprime anzi la certezza che, se Sofronia avesse anche solo il sospetto di una simile tresca, non si interesserebbe più della faccenda e lo lascerebbe da solo a combattere con il padre. Nella commedia di Plauto, al contrario, il figlio non compare neppure in scena ed è sostenuto in toto dalla madre. La figura di Sofronia risulta poi del tutto diversa da quella dell’omologo personaggio plautino, Cleustrata, che è donna isterica e gelosa; il perdono finale è concesso solo per chiudere la commedia («Hanc ex longa longiorem ne faciamus fabulam»: Casina V iv, v. 1006), mentre è elemento chiave nella Clizia. Altra notevole differenza è nei personaggi minori che ambiscono alla mano della fanciulla: nel testo latino è il servitore sfavorito dal sorteggio a farsi trovare nel letto nuziale, dove malmena il rivale e il vecchio padrone, mentre nella C. il ruolo è ricoperto da un diverso personaggio, il servo Siro. Pirro, infine è, a suo modo, leale con il padrone e gli lascia lo jus primae noctis, mentre l’Olimpione della Casina chiude il vecchio Lisidamo fuori dalla porta e poi lo denuncia alla padrona. Una ripresa attenta del testo plautino compare solo dalla scena quinta dell’atto secondo, nell’incontro-scontro tra i due pretendenti, scena che nella Casina apre il primo atto; ma in realtà la presenza di Plauto, ben più che nella imitazione della trama, pare riflettersi nelle dichiarazioni proposte da M. nel prologo, nel suo riprendere alcuni topoi della commedia latina e nel tipo di linguaggio comico utilizzato, anche se la battuta in M. spesso resta come sospesa e non raggiunge l’effetto desiderato. Si potrebbe quasi, per la C., ritorcere su M. la critica che, a proposito delle commedie, egli rivolge a Ludovico Ariosto (→) nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua.
La cronologia interna della C. è molto precisa: l’azione si svolge nel 1506, dodici anni dopo il passaggio di Carlo VIII per Firenze; va ricordato che anche nella Mandragola la discesa di re Carlo VIII in Italia forniva la data di riferimento per situare gli eventi nel 1504. La C. contiene poi un chiarissimo riferimento alla ‘felice conclusione’ delle avventure dei personaggi della Mandragola, con una precisa allusione alla gravidanza di Lucrezia («Non sai tu che, per le sue [di fra Timoteo] orazioni, monna Lucretia di messer Nicia Cialfuccio, che era sterile, ingravidò?», II iii 56). Uguale nelle commedie è anche l’ambientazione geografica, cioè Firenze, anche se ambedue avrebbero potuto, per esplicita dichiarazione di M., svolgersi in altro luogo: «questa è Firenze vostra, un’altra volta sarà Roma o Pisa» (Mandragola prologo); e «già in Atene [...] fu un gentile uomo ecc. [...] questo medesimo caso [...] seguì ancora in Firenze»
(C. prologo). In questo modo, secondo Carlo Dionisotti, l’autore intendeva far risaltare le profonde differenze nella propria condotta nei diversi momenti in cui aveva scritto i due testi teatrali; in opposizione alla «spregiudicatezza, che era anche temerarietà» della Mandragola, quando scrive la C. M. è «preoccupato [...] di dare contraria prova di prudenza e di classico decoro»; e per questo, «perché il paragone fosse evidente, lo spazio è rimasto tal quale, Firenze, e il tempo immediatamente successivo» (Dionisotti 1984, p. 639). Si aggiunga inoltre che in entrambe le commedie le azioni si svolgono in inverno: Nicomaco, sia quando parla con la moglie (C. II iii 20) sia quando parla con il figlio (III i 3), dice chiaramente che si è nel periodo di carnevale, mentre sul puntuale calcolo delle ore invernali in cui si susseguono gli avvenimenti della Mandragola si è soffermato Ridolfi (1968, pp. 17-18).
Il titolo C., giustificato da M. «perché così ha nome la fanciulla, che si combatte» (C. prologo 4), oltre a un richiamo classico alle Metamorfosi di Ovidio, suggerisce a Dionisotti il rilievo che Clizia era il nome della donna amata e celebrata da Francesco Cei (fiorentino, contemporaneo di M., morto trentenne nel 1505, autore di una raccolta di rime che ebbero numerose ristampe); la biografia di questa Clizia presenta analogie con quella immaginata da M. per la Lucrezia mandragolesca (Dionisotti 1984, p. 639).
La critica, nella quasi assoluta totalità, non ha mai disgiunto la C. dalla Mandragola, nel senso che non si trova discorso sulla prima che non faccia riferimento o non stabilisca un paragone, raffronto o parallelo con la seconda. Oltre agli elementi comuni alle due opere già accennati, si può osservare che in ambedue la notte, cronologicamente al centro delle rispettive avventure, non interrompe l’azione; anche nella C. M. sottolinea che «gli atti non sono interrotti dal tempo». Al celebre monologo di fra Timoteo (Mandragola IV x) fa riscontro, nella C., quello di Doria (V 1), nel cui racconto Sofronia, Sostrata, Cleandro ed Eustachio, svegli per tutta la notte, ridono immaginando le azioni che Nicomaco sta compiendo in camera da letto. Precisamente, Doria dice: «si è consumata la notte in misurare el tempo» (V i 1); anche qui nessuno dorme, pur se per una causa esattamente opposta a quella che nella Mandragola teneva svegli Callimaco e Lucrezia; per di più, quando Nicomaco, stanco, interrompe i suoi tentativi e comincia «un poco a sonniferare», gli arrivano «sotto el codione, cinque o sei colpi de’ maladetti» (V ii 16). Insomma, nessuno dei personaggi interrompe l’azione dormendo, quali che fossero, anche nel 1525, le conoscenze di M. circa la ‘norma’ dell’unità di tempo nella commedia.
I titoli Mandragola e C., inoltre, possono essere accostati perché ambedue parlano di una assenza-mancanza: la fanciulla Clizia non comparirà mai sulla scena e al suo posto vedremo un ridicolo imitatore che ne indossa le vesti; così, anche la temibile pozione di mandragola, capace di uccidere un uomo, non apparirà mai nella commedia, sostituita da un surrogato che «è a proposito a racconciare lo stomaco, rallegra el cervello» (Mandragola IV ii). E ancora, come accade nella Mandragola, anche nella C. sembra comparire la minaccia che chi si giace con la donna desiderata debba morire: nella prima a causa della pozione, nella seconda per il misterioso, minaccioso pugnale; l’una e l’altro si riveleranno subito di natura ben diversa e soprattutto completamente innocui.
Il prologo è stato studiato dalla critica moderna e contemporanea più di ogni altra parte della commedia. Contiene affermazioni che senza difficoltà si possono definire di poetica e altre che rinviano il lettore (meglio che lo spettatore) ad alcune pagine del M. maggiore, in particolare dei Discorsi (Vanossi 1970). Il prologo
è così impressionante e importante […] che gli interpreti sono stati indotti a considerarlo per sé, nella sua singolarità, per il contenuto piuttosto che per la forma, senza curarsi di eventuali riscontri (Dionisotti 1984, pp. 640-41).
Certo è che le prime parole del prologo (quindi della commedia vera e propria, in prosa), come pure l’inizio della canzone che lo precede, insistono su un’idea del ‘passato’ che in M. risulta importante se non centrale. Il significato dei versi, «Quanto sia lieto el giorno / che le memorie antiche / fa che or per voi sien mostre e celebrate», viene ripreso e reso esplicito dal prologo: «Se nel mondo tornassino i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbeno mai cento anni, che noi non ci trovassimo un’altra volta insieme a fare le medesime cose che ora».
A queste parole M. fa seguire la trama della commedia plautina, ambientata ad Atene, i cui casi si erano ripetuti proprio a Firenze. Le prime parole del prologo e i primi tre versi della canzone che lo precede sono stati letti, da gran parte di coloro che hanno scritto sulla C., come una giustificazione per aver usato un soggetto già portato sulla scena da Plauto: felice è il giorno in cui si possono rievocare le antiche memorie, perché nel mondo tornano sempre le stesse vicende. L’idea del ritorno degli eventi verrà confermata dalla frase di M. in una lettera a Guicciardini (16-20 ott. 1525), cronologicamente poco distante dalla C.: «mi pare che tutti i tempi tornino e che noi siamo sempre quelli medesimi»; ed era stato lo stesso Guicciardini, in una lettera a M., ad affermare: «Vedi che, mutati solum e visi delli uomini et e colori estrinseci, le cose medesime tutte ritornano; né vediamo accidente alcuno che a altri tempi non sia stato veduto» (F. Guicciardini a M., 18 maggio 1521). Va però sottolineato che, mentre le affermazioni presenti nell’epistolario compaiono in contesti farseschi o umoristici, è necessario chiedersi quali siano il significato e la valenza del «se» ipotetico con cui comincia il prologo, della «sfumatura ambigua» (Inglese 2006, p. 493) con cui M. apre la commedia, e quale sia l’importanza della precisa dinamica del tempo ciclico evocato. Se tornassero gli stessi uomini non passerebbero cento anni che ci troveremmo a fare le medesime cose: «nella misura dei cento anni si annida però e si rivela l’assurdità della conclusione […] parlando di cento anni, di tre generazioni, M. ha consapevolmente colorito di assurdo la sua tesi» (Inglese 2006).
L’inizio del prologo della C. è dunque una parodia delle tesi del M. teorico della politica, quasi a voler sottolineare che l’autore è ben consapevole di essere sulla scena, in un testo teatrale che gli serve da sfogo perché non ha «dove voltare il viso» (ed. Vivanti, p. 142); e rivolge un sorriso ammiccante agli amici che lo stanno ascoltando, con i quali si ritroverà («che noi non ci trovassimo un’altra volta insieme») a cenare con il Fornaciaio e ad ascoltare la Barbera; forse in quell’«insieme» c’è un ammiccamento al presente, all’oggi, che fa da pendant alla dichiarazione ironica che troviamo poco dopo: «l’autore di questa commedia è uomo molto costumato».
Nella seconda parte del prologo viene illustrato il fine dello scrivere commedie, cioè giovare e dilettare gli spettatori, far conoscere la realtà del mondo per poterne trarre ammaestramento: ma subito, nel fare queste affermazioni, lo stesso autore ‘serio’ prende in giro se stesso dichiarando che tratterà di persone «innamorate» (gli spettatori della prima rappresentazione lo conoscevano bene e altrettanto bene sapevano del suo innamoramento), ma non «sciocche» (nessuna possibilità di trovare in questa commedia un Messer Nicia, che pure riproduceva anche lui, nelle prime lettere del suo nome, quelle del nome di Niccolò). E infine, con un sorriso amaro, aggiunge di aver deciso di tralasciare «di dir male», che era la sua prima arte, teorizzata nel prologo della Mandragola. La delineazione di un ‘tempo ciclico’ è la prima sorgente dell’ironia che M. fa su se stesso, prima ancora che gli spettatori scoprano la somiglianza del suo nome con quello del vecchio innamorato.
Nicomaco è il vero protagonista: non appena compare in scena (II i) egli esprime il dramma della vecchiaia, del corpo che cede improvvisamente («e’ mi pare avere e bagliori che non mi lasciono vedere lume e iersera io arei veduto il pelo nell’uovo») mentre il desiderio giovanile permane; e lui stesso guarda al suo mutamento, sul piano erotico e psicologico, quasi con stupore. Senza dubbio la descrizione che Sofronia fa, quando puntualmente elenca ogni azione della vita regolata e diligente che il marito conduceva prima dell’innamoramento, corrisponde perfettamente al vero: è Nicomaco stesso, col domandarsi come abbia potuto lasciarsi andare alla passione amorosa, a darcene conferma. La descrizione della vita quotidiana del vecchio cittadino perbene è stata variamente interpretata dalla maggior parte dei critici: come esemplare di una vita regolata, positiva e in fondo felice (un esempio tra i tanti: «Tutto il soliloquio di Sofronia nel secondo atto getta sul personaggio una luce retrospettiva di saviezza domestica che sottrae la figura di Nicomaco alla rigidità farsesca di una maschera di beffato, e fosse pure quella geniale di Messer Nicia, per situarlo in una dimensione più patetica», L. Blasucci, introduzione a Opere di Niccolò Machiavelli, 4° vol., Scritti letterari, 1989, p. 20); come la rappresentazione del savio machiavelliano che nella ricerca della «mutazione» ha perso la propria sicurezza (Ferroni 1972, p. 118); o, all’opposto, come elenco di «taluni inconfondibili tratti della più monotona e miseramente conformistica vita municipale» (Inglese 1997, p. 23), per cui vi sarebbe nel Nicomaco ‘prima maniera’ una serie di elementi contrapposti ai ‘valori vitali’ che M. esprime nel suo epistolario, e nel senile innamoramento «una troppo tarda e perciò vana ribellione all’asfissiante ripetizione di una vita poverissima di significato» (p. 27).
Nicomaco non è uno sciocco: per dichiarazione di M. non ci sono persone sciocche nella commedia («Non inducendo in questa sua commedia persone sciocche», prologo 6), e il comportamento di Nicomaco è razionale e consequenziale; egli agisce sempre come padrone di casa che pretende i suoi diritti, come qualcuno cui è dovuto quello che ordina e chiede, e paradossalmente, nella bassezza della volontà di possedere Clizia, mantiene una certa forma di decenza («tentare d’averla prima che maritata gli de’ parere cosa iniqua e brutta» I i 38). Egli sembra aver del tutto dimenticato (se mai in gioventù le ha conosciute) le regole del gioco amoroso; è innamorato, è vecchio, ma non rinuncia a passare all’azione. A differenza di Nicia – che non sa prendere decisioni, non agisce, ma lascia che gli altri agiscano per lui e lo persuadano che quell’azione è giusta –, Nicomaco vuole operare direttamente, governare il corso degli eventi; commette degli errori, ma nel suo sbagliare ha la dignità di colui che fa («gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi» M. a Francesco Vettori, 25 febbr. 1514). Nel caso il destino gli fosse avverso ha comunque «pensato al remedio» (C. III vi 108). Quando il sorteggio gli è favorevole, nella sua felicità, prorompe in una serie di battute comiche e divertenti equivoci («La messa della fava», «lo straordinario degli uomini», «La fia da calzoni»). L’uomo serio che «si riduceva con qualche cittadino tra ragionamenti onorevoli» (II iv 61) non esiste più, neppure a livello verbale: di fronte alla fatalità del desiderio, la razionalità di una vita piena di buoni esempi per gli altri si dissolve; è la stessa forza che, per «carestia di matrimonio» e «disperata foia», aveva portato M. all’avventura con l’orrida prostituta veronese (M. a Luigi Guicciardini, 8 dic. 1509).
Anche per la figura di Sofronia, se pur in misura minore, la critica ha proposto interpretazioni dissimili: è colei che vuole ricondurre il marito alla realtà, magari triste, della vecchiaia e dei piaceri tranquilli che essa può ancora dare; è una donna che conosce le cose del mondo e sa che ora il suo ruolo le impone di essere la coscienza della famiglia e che l’amore-passione, che ancora travolge Nicomaco, è sentimento definitivamente tramontato. Non c’è dubbio che, da quando il marito non bada più agli affari di casa, lei ne abbia preso le redini, divenendo il perno sul quale si appoggiano le vicende di un marito forse irresponsabile, ma ancora guardato con un residuo di tenerezza («è tutto scorbacchiato, el povero uomo», V iv 45), e di un figlio inetto, incapace non solo di cogliere la fortuna quando si presenta, ma addirittura di un agire qualsiasi. E doppiamente imbelle Cleandro appare con il suo linguaggio tutto intessuto di termini militareschi e invocazioni alla fortuna: il contrasto tra parole e azioni non potrebbe essere più netto. Se è pur vero che il lessico militare era presente già in Plauto (E. Fraenkel, Plautinisches im Plautus, 1922, trad. it. Elementi plautini in Plauto, 1972, pp. 223 e segg.), il paragone tra innamorato e soldato in M. viene acutamente sottolineato da quel Cleandro che corrisponde sempre più, nel corso della commedia, al personaggio noioso descritto da Palamede nella prima scena del primo atto, la cui compagnia è da evitare perché è capace solo di lamentarsi. Le battute di Sofronia, pur giudicate «stridule» da Giorgio Inglese (1997) e «da buona compagna» o «allegra comare» da Ezio Raimondi (1969, poi 1972, pp. 221 e 230), dimostrano che ci troviamo davanti a una donna che ha conosciuto e conosce il mondo (ne è testimonianza la battuta sui miracoli dei frati) e che nel mondo ama, per quanto può, divertirsi. Ha scelto un’amica della sua stessa tempra, Sostrata, che come lei ama le frasi argute: è sua la battuta, in fondo gratuita perché non necessaria all’intreccio comico, «statevi sani voi che avete l’arme, noi siamo disarmate»; quelle arme che alla loro età possono solo rimpiangere, con mariti che ormai devono ricorrere al «satirione» di Mesuè per poter pensare di «rompere una lancia» con una fanciulla.
Ciò che, però, fondamentalmente unisce i due vecchi coniugi, al di là di un affetto che traspare ben più in Sofronia che in Nicomaco, è la paura del giudizio altrui. Alle proposte matrimoniali per Clizia fattele dal marito, Sofronia ribatte: «Dove prima ogni uomo ci lodava, ogni uomo ora ci biasimerà» (II iii 23). I due coniugi si trovano pienamente d’accordo sulla necessità di nascondere ciò che non deve apparire fuori dall’ambito strettamente familiare; dinanzi alla ultimativa proposta di Sofronia («se tu vorrai tornare al segno […] la cosa non si saprà»), Nicomaco è prontissimo ad assicurarle obbedienza assoluta: «io son parato a non uscir fuora de’ tuoi ordini, purché la cosa non si risappi» (V iii 34-35); è una morale (o meglio moralismo) del tutto comune nell’ambiente e fra le amicizie dei due protagonisti: sarà Damone, il vicino di casa complice di Nicomaco, il primo a comprovare la necessità di tale norma, nel momento in cui attesta lo stretto legame che unisce i due coniugi nei rapporti con gli altri: «Ella doverrebbe anche ella pensare all’onor tuo perché, essendo suo marito, tu non puoi avere vergogna che quella non ne partecipi» (V ii 24). E lo stesso Damone infatti, verrà subito coinvolto nella congiura del silenzio e della simulazione, voluta da Sofronia, affinché nulla trapeli di quel che è successo e tutto ritorni ai ritmi di vita precedenti («vedi se tu trovi Damone, perché gli è bene parlargli, per rimanere come s’abia a ricoprire il caso seguito», V iv 51), salvando, innanzi tutto, le apparenze. La dinamica familiare si richiude: questo atteggiamento, il «tornare al segno» comporterà anche la fine delle scene carnevalesche in cui i servi avevano potuto beffarsi del padrone e, forse, prendersene vendetta (il servo Siro che fa «bocchi e manichetto drieto», V ii 16) o anche soltanto ridere apertamente di lui come ha fatto tutta la casa alle sue spalle: «Sofronia, Sostrata, Cleandro, Eustachio, ognuno ride» (V i 1), dice Doria.
All’attivismo di Sofronia fa riscontro l’assoluta inattività di Cleandro, incapace di qualunque azione autonoma e indipendente dalle decisioni della madre, pronto solo a lamentarsi della fortuna che lo respinge «nel mezzo del mare e tra più turbide e tempestose onde» e della mala sorte: i «nuovi accidenti» che egli si augurava (I ii 45) sono in effetti avvenuti, le nozze volute da suo padre non si sono realizzate, ma da questi avvenimenti il giovane è stato incapace di ricavare «nuovi consigli e nuova fortuna»; ciò nonostante alla fine egli sarà favorito dal destino che farà arrivare il padre di Clizia, dimostrando quanto anche la «qualità de’ tempi» sia cambiata dal periodo in cui era stato scritto il Principe a quello della commedia.
Come dice M. per bocca di Palamede, «tre sorte di uomini si debono fuggire: cantori, vecchi ed innamorati» (I i); nella commedia appaiono chiaramente i vecchi, prima e dopo il rinsavimento, e gli innamorati: rimane forse da chiedersi se nell’esortazione a fuggire i cantori il M. non ironizzasse su se stesso, che in quel preciso momento proprio per una cantatrice aveva perso la testa.
Particolare importanza rivestono le «Canzoni da cantarsi prima della commedia e fra gli atti» che ricoprono la funzione di «mediazione tra la finzione scenica e il pubblico» (Pirrotta 1975, p. 144). Il verso della canzone iniziale, «con sì dolce armonia, / qual mai sentita più non fu da voi», dichiara una verità effettiva da un punto di vista musicologico e teatrale: le musiche di Philippe Verdelot che accompagnano le canzoni comparvero a stampa ne Il primo libro de madrigali di Verdelotto (Andrea Antico, Venezia 1533) e rappresentarono un’autentica novità;
a maggior ragione lo furono, certo, nel 1525 i cinque ‘madrigali’ della Clizia, quello innanzi il prologo e i quattro in fine di ciascun atto tranne l’ultimo. E alla novità del genere madrigalesco si aggiungeva probabilmente quello del suo uso in commedia, del quale, che io sappia, non si conosce nessun esempio anteriore alla Clizia (Pirrotta 1975, p. 145).
Le canzoni vennero a costituire un nuovo modo di concepire gli intermezzi: a interpretarle era lo stesso gruppo che cantava la presentazione, e il cantore unico era sostituito da una polifonia madrigalesca, quasi a formare una specie di cornice dove i madrigali «acquistano una compostezza classica dall’essere equiparati a cori tragici» (Pirrotta 1975, p. 17).
Il teatro contemporaneo ha rivalutato la C. che, pur non avendo mai goduto di una fortuna paragonabile a quella della Mandragola, ha visto un numero di messe in scena apprezzabile, nella generale sfortuna teatrale delle commedie del Cinquecento (P. Bosisio, Letture sceniche novecentesche del teatro di Machiavelli, in Il teatro di Machiavelli, 2005, pp. 569-90).
Bibliografia: Per il testo della commedia: D. Perocco, Per una edizione critica della Clizia di Niccolò Machiavelli, in Medioevo e Rinascimento veneto con altri studi in onore di Lino Lazzarini, 2° vol., Padova 1979, pp. 15-37; D. Perocco, Il testo della Clizia, in Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Atti del Convegno, Gargnano del Garda 30 sett.-2 ott. 2004, Milano 2005, pp. 433-87, con ed. della commedia secondo il ms. B alle pp. 438-87.
Per gli studi critici si vedano: L. Russo, Machiavelli uomo di teatro e narratore, 1937-1938, poi in Machiavelli, Bari 19573, pp. 89-165, in partic. pp. 118-43; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787, pp. 325-28 e 563-66 note 7-16; B. Corrigan, An unrecorded manuscript of Machiavelli’s La Clizia, «La bibliofilia», 1961, 63, pp. 73-87; R. Ridolfi, Studi sulle commedie del Machiavelli, Pisa 1968, in partic. pp. 135-62; E. Raimondi, Il teatro del Machiavelli, «Studi storici», 1969, 10, pp. 749-98 (poi con il titolo Il Segretario a teatro, in Id., Politica e commedia, Bologna 1972, pp. 173-233, in partic. pp. 215-33); N. Borsellino, Per una storia delle commedie di Machiavelli, «Cultura e scuola», 1970, 33-34, pp. 229-41, in partic. pp. 238-41; L. Vanossi, Situazione e sviluppo del teatro machiavelliano, in Lingua e strutture del teatro italiano del Rinascimento, Padova 1970, pp. 1-108, in partic. pp. 57-108; G. Ferroni, «Mutazione» e «riscontro» nel teatro di Machiavelli, in Id., «Mutazione» e «riscontro» nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma 1972, pp. 17-137, in partic. pp. 101-37; N. Pirrotta, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino 1975, pp. 143-99; C. Dionisotti, Machiavelli letterato, in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 227-66; C. Dionisotti, Appunti sulla Mandragola, «Belfagor», 1984, 6, pp. 621-44; R.L. Martinez, Benefit of absence: Machiavellian valediction in Clizia, in Machiavelli and the discourse of literature, ed. A.R. Ascoli, V. Kahn, Ithaca-London 1993, pp. 117-44; G. Inglese, Sei note preliminari alla Clizia, in N. Machiavelli, Clizia, Andria, Dialogo intorno alla nostra lingua, a cura di G. Inglese, Milano 1997, pp. 5-31; R. Faulkner, Clizia and the enlightenment of private life, in The comedy and tragedy of Machiavelli, ed. V.B. Sullivan, New Haven-London 2000, pp. 30-56; A. Marzo, La Clizia di Niccolò Machiavelli, in Teatro, scena rappresentazione dal Quattrocento al Settecento, a cura di P. Andrioli, G.A. Camerino, G. Rizzo, P. Viti, Galatina 2000, pp. 125-38; La lingua e le lingue di Machiavelli, Atti del Convegno internazionale di studi, Torino 2-4 dicembre 1999, a cura di A. Pontremoli, Firenze 2001 (in partic.: P. Trivero, Dalla Casina alla Clizia, pp. 197-211; F. Malara, Appunti sulla Clizia, pp. 213-40); G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 18191; F. Fido, Niccolò Machiavelli, in Storia letteraria d’Italia. Il Cinquecento, t. 1, La dinamica del rinnovamento (1494-1533), Padova 2007, pp. 33-34; D. Perocco, Boccaccio (comico) nel teatro (comico) di Machiavelli, «Quaderns d’Italià», 2009, 14, pp. 23-36; D. Fachard, introduzione a N. Machiavelli, Teatro, Roma 2013, pp. 9-34.