Clonazione
A cavallo tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec., la clonazione è stata uno degli argomenti più stimolanti per i suoi aspetti tecnici e scientifici, ma anche uno dei più inquietanti per le sue implicazioni etiche e sociali. È stata infatti paragonata alla scoperta dell’evoluzione, o addirittura alla creazione del mondo come descritta nella Genesi. Va detto che il sensazionalismo con cui nel 1997 i mass media hanno trattato la clonazione della pecora Dolly ha complicato le analisi obiettive di molti esperimenti e ha ostacolato una valutazione critica delle promesse (o delle minacce) che spesso hanno seguito tali esperimenti. Nonostante la persistenza delle sue difficoltà tecniche, alla clonazione riproduttiva è stata poi sostituita una versione terapeutica o rigenerativa, che avrebbe assicurato a ciascuno un approvvigionamento di cellule staminali embrionali per trapianti autocompatibili; ma anche qui sono subito emersi seri problemi scientifici ed etici. La scarsa definizione delle variabili più importanti ha infatti contribuito all’insorgere di approssimazioni criticabili, di comportamenti riprovevoli e, infine, di veri e propri imbrogli.
Oggi l’interesse va ad altre tecnologie, eticamente più accettabili, che mirano al miglioramento genetico e alle cellule staminali, ma non usano ovuli. Comunque, la clonazione mediata da trasferimento di nucleo somatico resta un approccio importante nella ricerca biomolecolare e cellulare.
Clonazione come forma di riproduzione
Per clonazione s’intendono quelle forme di riproduzione che non dipendono dal sesso e originano individui geneticamente identici: nel loro insieme questi rappresentano un clone, anche se oggi si tende a chiamare cloni i singoli componenti dell’insieme. Il termine deriva dal greco klon «germoglio» e ricorda la generazione di copie di una pianta a partire da sue parti o, addirittura, da singole cellule: in questo caso tra le copie si nota però una certa variabilità, detta somaclonale. Nel regno animale questo tipo di riproduzione è presente in alcuni invertebrati (idre, planarie, anemoni di mare), alternata però alla riproduzione sessuale. Su 43.000 specie note di vertebrati, solo in pochi tra pesci, rettili e anfibi si presenta in modo occasionale; tra i mammiferi, l’armadillo suddivide l’embrione a 4 cellule in un clone di altrettanti miniembrioni a singola cellula. La clonazione si distingue da altre forme di riproduzione anche perché fa a meno di madre e padre: ma dal momento che ogni clone parte da una cellula di un organismo prodotto da due genitori, è inesatto affermare che i cloni sono figli di un solo genitore. Anche loro ne hanno due: sono quegli individui che avevano contribuito a creare l’organismo che poi fornirà la cellula usata per clonare. Donatore e cloni sono quindi gemelli identici nati in tempi diversi.
I gemelli sono un fenomeno naturale con una ridotta determinazione genetica. Nell’uomo la frequenza delle gravidanze gemellari è vicina all’1%, mentre in altri mammiferi come cani o maiali, è la norma. I due terzi delle nascite gemellari derivano dalla fecondazione di due o più ovuli rilasciati insieme: da ogni ovulo fecondato, o zigote, nasce un fratello o una sorella, dotati di patrimoni genetici (genomi) diversi fra loro e dai genitori. L’altro terzo deriva dalla suddivisione di un embrione sviluppatosi da un unico zigote: sono i gemelli monozigotici (MZ), o ‘identici’, che dovrebbero avere lo stesso genoma e quindi originare un vero e proprio clone. Suddivisioni in tre miniembrioni si verificano all’incirca ogni centinaio di milioni di nascite; l’unica divisione in cinque miniembrioni di cui si ha notizia avvenne in Canada nel 1934 e portò alla nascita delle gemelle Dionne.
I gemelli MZ dimostrano che i miniembrioni di partenza hanno conservato la totipotenza dello zigote, cioè la sua capacità di sviluppo completo. Esperimenti sul topo indicano che nel corso dei primi 6-7 cicli di divisione, cioè sino allo stadio di blastocisti, le singole cellule di un embrione preimpianto (blastomeri) perdono progressivamente la totipotenza, ma conservano la capacità di partecipare alla creazione di qualunque parte dell’organismo: passano perciò dallo stato di totipotenza a quello di multi- o pluripotenza. Le spiegazioni sono di diverso tipo: i blastomeri ripartiscono fra loro il citoplasma dell’ovulo, che nel frattempo non si è accresciuto rispetto alle dimensioni dello zigote, a cui lo spermatozoo ha fornito solo il suo DNA (DeoxyriboNucleic Acid). I blastomeri si ritrovano quindi con dotazioni di citoplasma ridotte e variabili per quantità e qualità, ma questo non riguarda il DNA; infatti, tutti i blastomeri contengono la stessa quantità di DNA dello zigote, grazie al fatto che questo si replica prima di ogni divisione cellulare. Per quel che riguarda la qualità, potrebbero invece esserci delle differenze. Queste sono reversibili (modificazioni postreplicative di basi del DNA e di proteine accessorie dette epigenetiche) o irreversibili (mutazioni di sequenze, trasposizioni, perdite di tratti di DNA ecc.): entrambe si accentuano nel tempo. Pare quindi ragionevole associare il depotenziamento dei blastomeri alla loro dotazione, spesso ineguale, in citoplasma materno; ma anche alle variazioni del loro DNA. Il differenziamento estremo o terminale di una linea cellulare porta a uno stato di nullipotenza riproduttiva, certo non funzionale.
La blastocisti umana si forma entro 4-5 giorni dalla fecondazione: è composta da poco più d’un centinaio di blastomeri, organizzati in una sfera cava, con uno strato esterno (trofoblasto) che dà origine alla placenta, e una cavità (blastocele) piena di liquido e con all’interno una sporgenza, un piccolo ammasso di circa 30 cellule (nodo embrionale, o massa interna), che diventerà il feto (v. figura). A partire dagli anni Settanta è stato possibile produrre embrioni per la fecondazione in vitro (FIV) e coltivarli sino a blastocisti: ma per continuare a crescere l’embrione deve essere trasferito in vivo, in un utero.
Queste le basi della clonazione artificiale: uno dei protocolli richiama il meccanismo di formazione dei gemelli MZ, e viene abbreviato in ES (Embryo Splitting); un altro, cui va l’interesse maggiore di questo saggio, ricorda la fecondazione e comporta la produzione di uno pseudozigote per trasferimento del nucleo di una cellula somatica in un ovulo privato del suo e viene abbreviato in SCNT (Somatic Cell Nuclear Transfer).
Una breve cronistoria
Al periodo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento risalgono le prime intuizioni teoriche e i primi esperimenti. Nuove possibilità si aprirono con la scoperta della funzione del DNA (1944): tra gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Ottanta vennero condotti diversi esperimenti che però, nonostante inizi promettenti, alla fine sembrarono portare in un vicolo cieco. La clonazione tornò d’attualità nella seconda metà degli anni Novanta, grazie ad alcuni ricercatori attivi presso il Roslin institute di Edimburgo e guidati da Ian Wilmut e Keith Campbell: nel 1996 venne riportata la nascita di due agnelli, Megan e Morag, a partire da cellule fetali di pecora; nello stesso anno venne compiuto un esperimento più avanzato, utilizzando cellule adulte, e in luglio nacque Dolly, unico prodotto sopravvissuto del trasferimento di 434 cellule dell’epitelio mammario di una pecora di 6 anni in altrettanti ovuli enucleati. La notizia produsse grande clamore quando venne pubblicata, nel febbraio 1997, sulla rivista «Nature» (Wilmut, Schnieke, McWhir et al. 1997a). Nel dicembre 1997 la rivista «Science» riportava un altro lavoro del gruppo di Edimburgo (Schnieke, Kind, Ritchie et al. 1997): la clonazione di Polly, pecora transgenica per il gene umano del fattore IX della coagulazione; il gene era stato inserito nel genoma di fibroblasti fetali coltivati in vitro. Da adulte, si assicurò, Polly e le sue compagne avrebbero prodotto latte contenente il prezioso fattore IX: agli emofiliaci sarebbe bastato berne un bicchiere. Le cronache giornalistiche furono inizialmente entusiastiche, ma in seguito divennero avare di notizie sui mancati sviluppi di questa prima sfortunata accoppiata tra cloni e OGM (Organismi Geneticamente Modificati)-cloni.
In quello stesso periodo, con scelta un po’ sorprendente, la stessa «Science» accettò di pubblicare una lettera in cui si chiedevano esplicitamente ‘conferme’ del lavoro su Dolly, sulla quale torneremo più avanti.
D’altra parte, se Dolly aveva risvegliato l’interesse accademico, non si poteva però fare a meno del topo, il mammifero meglio studiato dopo l’uomo: correva infatti voce che dalle Hawaii fosse in arrivo una nidiata di topi clonati da Teru Wakayama e dai collaboratori. Ma si sapeva anche che quel lavoro era stato respinto da «Science» e subito girato a «Nature», che tardò però a pubblicarlo: finalmente nel luglio 1998 il lavoro uscì con il titolo Full-term development of mice from enucleated oocytes injected with cumulus cell nuclei (Wakayama, Perry, Zuccotti et al. 1998); nel mondo della clonazione arrivò così anche Cumulina (topolino femmina). E ci arrivò con il massimo degli onori (copertina e commenti editoriali), un trattamento in forte contrasto con la lunga anticamera peraltro non motivata dalle normali richieste di revisioni. Forse la spiegazione sta nel fatto che, insieme a Cumulina, su quello stesso numero di «Nature» comparve la prima ‘conferma’ di Dolly, fresca di stampa ma debole di contenuti (Signer, Dubrova, Jeffreys et al. 1998), seguita nel maggio 1999 da un’altra nota del gruppo di Edimburgo (Shiels, Kind, Campbell et al. 1999).
Si aprì così la caccia al clone: si susseguirono gli annunci di nuove clonazioni, e quasi tutti i mammiferi (da fattoria, da casa, da competizione, in via di estinzione) finirono nelle provette dei clonatori. Le variazioni sperimentali sono state tante e interessanti, ma le rese sono rimaste basse. Si sono annunciati diversi cloni umani, ma non se ne è mai mostrato uno.
Mentre la lista degli organismi clonabili si allungava, non si riscontrarono sostanziali miglioramenti negli esperimenti. Anche per questo alcuni ricercatori suggerirono un cambio di indirizzo, e dalla clonazione di organismi si passò a quella di organi o tessuti, o almeno di cellule: i prodotti avrebbero avuto il pregio dell’autocompatibilità nei trapianti. Ma presto si prospettò un altro cambio: partì una caccia alle staminali che evitasse ovuli e blastocisti, oggetto di intransigenti obiezioni etiche, e usasse cellule somatiche indotte a recuperare la pluripotenza attraverso manipolazioni genetiche.
La riproduzione tra sesso e clonazione
La riproduzione è una delle funzioni precipue della vita: chiedersi perché, è chiedersi perché esiste la vita. Chi vive è usurabile e ha bisogno di riparazioni e ricambi: può rimandare la morte, ma non eliminarla. Contro la morte l’unico rimedio è la riproduzione, e la più diffusa è mediata dal sesso. Per alcuni è così perché il sesso favorisce la biodiversità. Questa spiegazione è vera, ma indiretta: più verosimile è quella che richiama il modello divulgato da Richard E. Michod in Eros and evolution (1995): il sesso ha avuto successo in quanto ottimizza la riparazione del DNA. La biodiversità ne sarebbe un effetto secondario. Si spiegherebbero così paradossi quali la diffusione del sesso nonostante i suoi costi (soprattutto la ricerca del partner), la maggiore esposizione a patogeni e parassiti, la trasmissione alla progenie solo di una metà del DNA di ciascuno dei due genitori, lo scompaginamento di assetti a volte perfettamente adattati ad ambienti che cambiano con cadenze geologiche (millenni) e non riproduttive (decenni). È stato osservato che, a differenza delle specie asessuate, quelle sessuate presentano discontinuità evolutive.
Ma perché riparare il DNA e non le altre macromolecole della cellula? Rispetto alla varietà dei tipi e all’abbondanza di copie di RNA (RiboNucleic Acid) e proteine, la cellula ha un DNA che è unico, e molto sensibile a radiazioni e reagenti. Danni (alterazioni di struttura) e mutazioni (alterazioni di sequenza) si accumulano nella misura di circa un migliaio all’ora per cellula, causano malattie genetiche e accelerano l’invecchiamento. Senza strafare, la cellula somatica ripara le alterazioni, se sono poche. Se sono tante e/o se ripararle può creare scompiglio, la cellula attiva un programma di suicidio (apoptosi), ma l’organismo si salva, grazie all’abbondanza di cellule superstiti. Se però i danni sono troppi, si rischia il cancro. Questo a livello somatico: ma nella linea germinale il DNA è più protetto (i testicoli hanno una temperatura leggermente più bassa del resto del corpo). Per questo la natura ha reso la manutenzione del DNA insolitamente allettante, dotandola di grandissime attrattive. La riparazione del DNA viene sublimata in un ideale (amore), svilita nell’ossessione del sesso, mercificata in una professione (prostituzione); nel suo nome sono creati poemi e dilapidate fortune, avvengono misfatti e sacrifici, guerre e intrighi. Le cellule subordinano alla replicazione del DNA il loro ciclo vitale, che procede solo se il DNA è integro. Con il sesso il DNA gratifica il suo narcisismo: si perpetua, resta specifico, serve individui e generazioni, permette l’evoluzione.
La cura che ogni cellula dedica alla manutenzione del suo DNA è alta in tutto il soma, altissima nelle linee germinali. Le cellule progenitrici, per passare il DNA alla progenie, utilizzano una procedura che comporta un ‘tagliando’ in più rispetto alla normale divisione binaria delle cellule somatiche. Nel corso della produzione dei gameti, si attua una complessa verifica della qualità del DNA. Qui basti ricordare che nella linea germinale ogni cellula progenitrice distribuisce ai gameti una dotazione dimezzata. Le parti ‘sbagliate’ dei due cromosomi omologhi di ogni coppia si concentrano in un cromosoma, quelle ‘corrette’ nell’altro. I cromosomi contengono quindi un mix di DNA materno e paterno (responsabile dell’alternanza di caratteri atavici nelle successive generazioni): da ognuna delle coppie di cromosomi omologhi, uno va a un gamete, uno va a un altro, casualmente. Quei gameti che portano cromosomi con le parti migliori del DNA paterno e materno avranno un maggiore successo riproduttivo. Ciononostante, nell’uomo solo una fecondazione su cinque funziona: le altre si perdono in aborti spontanei e spesso inavvertiti. La scarsa efficienza della riproduzione sessuale è un campanello d’allarme per la clonazione, in particolare quella riproduttiva: generare organismi è complesso, ‘fotocopiarli’ ancora di più. L’attuale investimento nelle staminali è consigliato anche da una supposta minore difficoltà nell’approvvigionamento e nell’uso.
La prassi della clonazione
In termini generali, la clonazione richiede l’isolamento di migliaia di cellule di un organismo e la loro moltiplicazione in vitro: l’embrione che ne potrebbe risultare poi può essere trasferito in vivo per completare il suo sviluppo. Delle due strategie per produrre cloni, quella che recupera la suddivisione naturale di embrioni ha prospettive limitate da esigenze contrastanti: il numero di miniembrioni teoricamente disponibili dipende dal numero di blastomeri, ma al crescere del numero di questi diminuisce la loro potenza, come mostrato dai gemelli MZ. Per quel che riguarda le caratteristiche dei cloni ES in relazione a quelle dei genitori, presi in considerazione se dotati di qualche pregio, ci si può basare solo sulle leggi di Mendel: l’embrione in quanto tale si presta male all’espressione dei caratteri attesi nell’adulto. Per averne un’anticipazione, si può ricorrere alla diagnosi preimpianto: da un embrione di almeno 10 blastomeri se ne rimuovono 1-2 e se ne effettua un’analisi genetica; la procedura è rischiosa ed esige cautela. Se si vuole verificare la manifestazione di caratteri complessi e tardivi e si dispone di più miniembrioni, si può impiantarne uno e congelare gli altri. Validato il pioniere, si può procedere con gli altri.
L’altra strategia, quella basata sul citato protocollo SCNT, prevede l’introduzione di un nucleo somatico in un ovulo, magari anche fecondato, ma enucleato; si viene a creare uno pseudozigote che, attraverso un complesso e misterioso rimodellamento del DNA trapiantato, può arrivare a blastocisti. Se l’obiettivo è la produzione di cellule embrionali, si opera in vitro; se di un organismo, in vivo.
L’impostazione informatico-riduttiva che domina l’attuale biologia ci permette di descrivere la riproduzione, e quindi anche la clonazione, come la risultante di tre componenti: 1) una copia del DNA dell’organismo che si vuole clonare (software); 2) una cellula ricevente, che lo esprima in modo corretto (hardware); 3) un utero che accompagni il prodotto della loro fusione alla nascita (incubatore).
Il genoma di un organismo è il suo DNA. Nell’uomo è costituito da oltre 3 miliardi di coppie di basi A-T e C-G, suddivise in 24 cromosomi (i 22 autosomi più i due sessuali), ed è presente in quasi tutte le nostre cellule: le somatiche lo esprimono o decodificano per il funzionamento del soma, le germinali lo replicano per passarlo ai figli. Ogni cellula somatica è diploide (cioè contiene 23 coppie di cromosomi, uno paterno e uno materno), quelle germinali mature sono aploidi (hanno un solo assetto, misto). Per clonare spesso basta introdurre nella cellula ricevente, previamente enucleata, il nucleo di una qualsiasi cellula somatica (a volte si introduce l’intera cellula).
La cellula ricevente deve replicare il genoma introdotto e decodificarlo: quella ottimale è l’ovulo, naturalmente programmato per questo; può essere fecondato o meno, ma va enucleato. La cellula ricevente è la componente più critica, sia tecnicamente sia eticamente; si stanno perciò esaminando soluzioni alternative alle donazioni da femmine fertili, che devono essere sottoposte a pesanti stimolazioni ormonali per aumentarne la produttività. Si pensa quindi di estrarre ovociti da feti (che vanno però sacrificati). Diversi gruppi (quello di Karin Nayernia all’Institute of human genetics dell’Università di Newcastle in Gran Bretagna, e quello di Alexandre e Irina Kerkis all’Instituto Butantan dell’Università di San Paolo in Brasile) lavorano per indurre cellule di topo maschio, sia adulte sia embrionali, a differenziarsi in gameti anche femminili.
Per quanto riguarda il terzo componente, ossia una struttura che garantisca il corretto sviluppo dell’embrione sino alla nascita quando diventa capace di vita autonoma rispetto alla madre, oggi si dispone di un efficiente incubatore naturale: l’utero. Procedono da tempo ricerche che mirano a sistemi di incubazione extracorporea, in genere finalizzati alla sopravvivenza di nati prematuri. Tale tecnica FIV e un utero artificiale potrebbero portare all’equiparazione riproduttiva dei sessi.
Gli obiettivi della clonazione sono diversi: il più ambizioso è la riproduzione di organismi dotati di qualità geneticamente determinate e apprezzate; importante è anche la moltiplicazione di organismi in via di sviluppo, cioè di embrioni o feti prodotti da incroci tra genitori selezionati, quindi candidati a svilupparsi in animali elitari (campioni per natura o manipolazione, che portino alla sintesi di proteine umane o alla perdita di antigeni che ostacolino xenotrapianti da suini); infine, si può mirare a embrioni precoci da cui recuperare cellule staminali per finalità terapeutiche.
Le piante presentano una clonabilità maggiore rispetto agli animali: ricordiamo che nelle prime le cellule riproduttive derivano da cellule somatiche apicali, mentre nei secondi le due linee si separano durante l’embriogenesi; inoltre i vegetali hanno un minor numero di tessuti rispetto agli oltre 200 dei mammiferi, ma una più forte componente epigenetica, oltre a una diversa ploidia. Oggi comunque si ritiene che tutte le specie siano clonabili, purché le tecniche vengano adeguatamente perfezionate. Si parla anche di clonare specie in estinzione o addirittura estinte: servono però cellule somatiche non danneggiate (frammenti di DNA permettono al più solo studi evoluzionistici, o film di fantascienza), ovuli compatibili e uteri adatti. Ma c’è il problema delle rese, generalmente basse in qualità e quantità. La clonazione seriale le deprime ulteriormente: dopo 5-6 cicli, la clonabilità si estingue, almeno nel topo.
Clonazione molecolare e cellulare
Per completare il quadro ricordiamo che è possibile clonare anche molecole di DNA: legate in vitro a DNA naturali o artificiali, dotati di capacità vettoriali intracellulari, formano plasmidi, episomi, cromosomi, che introdotti nelle cellule ospiti replicheranno tutto il loro DNA, e quindi lo decodificheranno. Questa clonazione molecolare è sinonimo di DNA ricombinante e si è sviluppata in diverse tecniche capaci di amplificare sia specifici tratti di DNA, sia interi genomi, sia infine i loro prodotti di espressione. Analogo discorso vale per le singole cellule: se ce ne sono di interessanti, è possibile propagarle, spesso mantenendone le proprietà strutturali e funzionali, attraverso una coltura in appropriati terreni o brodi; questa è la clonazione cellulare. Entrambe sono pratiche diffuse e dotate di autonome finalità di ricerca e produzione: tra le prime ricordiamo i diversi progetti genoma, tra le seconde la sintesi industriale di proteine umane di uso farmacologico (insulina, interferone, eritropoietina ecc.).
Dalla riproduzione alla rigenerazione
La facilità con cui la procedura SCNT porta a blastocisti e la difficoltà di sviluppare queste in organismi completi suggeriscono un obiettivo di ripiego (che peraltro sembra essersi ridimensionato): la clonazione terapeutica, con la quale si mira alla rigenerazione di organi, tessuti e cellule attraverso l’uso di cellule staminali che, se destinate al donatore, dovrebbero permettere trapianti compatibili. Vent’anni dopo il passaggio di consegne dai genetisti, che avevano sperato di sfruttarla per capire l’embriogenesi, ai veterinari, i quali speravano di piegarla al miglioramento genetico degli allevamenti, la clonazione torna appannaggio della biomedicina.
Le staminali embrionali umane sono ritenute il Santo Graal della ricerca biomedica: si recuperano dalla massa interna delle blastocisti umane, che devono quindi essere soppresse. Di qui la polemica etica e legale esplode: uno dei problemi è che, mentre scienza e imprese seguono criteri che non conoscono frontiere, etica e diritto non possono ignorarle e divergono anche entro i confini nazionali.
Operativamente, il minor grado di sviluppo delle cellule rispetto all’organismo allevia i controlli necessari alla clonazione terapeutica rispetto a quella riproduttiva: infatti, mentre l’organismo c’è o non c’è, è sano o no, è funzionale o no, con le cellule la situazione è più sfumata. Le rese si misurano in linee stabili di embrionali staminali, e sono circa l’1%, quindi simili alle nascite via SCNT: è possibile che riflettano la frequenza di cellule dotate di una totipotenza residuale. Il problema è che la loro funzionalità può manifestarsi (o meno) solo in vivo, di norma dopo trasfusioni di milioni di staminali.
La produzione su larga scala di staminali pluripotenti umane è diventata una possibilità concreta grazie alle scoperte di James A. Thomson e dei suoi collaboratori, che nel 1998 hanno esteso alle cellule umane i risultati acquisiti vent’anni prima sul topo (Thomson, Itskovitz-Eldor, Shapiro et al. 1998). Pseudoembrioni SCNT si affiancano a embrioni FIV soprannumerari come possibili fonti. Non è questa la sede per confrontare staminali adulte o embrionali, derivate da FIV o da SCNT, con staminali indotte per manipolazioni genetiche di cellule somatiche adulte: queste ultime eviterebbero l’uso di ovuli e di embrioni e assicurerebbero l’autocompatibilità, secondo una procedura scoperta dal giapponese Shinya Yamanaka e dai suoi collaboratori (Okita, Ichisaka, Yamanaka 2007). La tecnica supera molte delle tradizionali obiezioni logistiche e soprattutto etiche, ma comporta manipolazioni di cellule somatiche adulte e fetali basate su vettori retrovirali caricati di geni, come c-Myc, che codificano per fattori di trascrizione coinvolti in neoplasie. Le elevate dosi di staminali richieste per eventuali terapie, la supposta semplicità delle procedure e i legami con i tumori aumentano la cautela. I risvolti etici dovrebbero essere marginali: a meno che la pluripotenza indotta geneticamente non arrivi a totipotenza. Oggi però si obietta anche a questa induzione di pluripotenza in quanto si teme che aumenterebbe la probabilità che le staminali così prodotte favoriscano la comparsa di tumori (e di imbrogli).
Zoom sui problemi
La clonazione, sin dai suoi esordi, ha incontrato diversi problemi: rese in generale discontinue e basse in quantità e qualità, continui fallimenti con i primati e così via. A oggi non sono noti ‘cloni’ costituiti da più di 10 individui: raramente la resa supera l’1% di SNCT. Nei primati la situazione è fallimentare: dopo ben 107 ES e l’impianto di oltre 300 miniembrioni in madri surrogate, nel 1999, presso l’Oregon regional primate research center, è nata la scimmia Tetra (Chan, Dominko, Luetjens et al. 2000), il cui nome descrive l’origine da un embrione diviso in quattro. Né ha aiutato il ricorso al SCNT, per es., da parte di uno dei laboratori più agguerriti, il cinese Kunning primate research center, che, dopo dieci anni di sperimentazione e oltre 15.000 ovuli fino al 2006, non ha ottenuto un solo clone (Zhou, Yang, Ding et al. 2006): di qui la decisione di abbandonare. Vi è anche chi propone usi terapeutici per le staminali che se ne potrebbero eventualmente ricavare. Nei pochi nati, le patologie includono sovrappeso alla nascita (frequente nei bovini), difficoltà respiratorie, carenze immunitarie, disturbi epatici. Si sta cercando di superare questo stallo rivedendo parametri quali la scelta delle cellule donatrici, il tipo di tessuto, il grado di sviluppo, i volumi delle cellule e le fasi del ciclo, le procedure di enucleazione (estrusione o estrazione), il trasferimento (fusione, iniezione, elettroporazione), il rimodellamento, unitamente al tipo e alla forma delle micropipette, e all’invasività di osservazioni, micromanipolazioni e attivazioni.
Intanto emergono domande più generali, una in particolare: il genoma somatico usato è adeguato come software per riprogrammare l’ovulo? E per recuperarne la totipotenza basta ‘rimodellarlo’ con i diversi fattori di cui si sta approntando la lista e si stanno caratterizzando le funzioni?
Uno dei dogmi della genetica moderna afferma che tutte le cellule di un organismo multicellulare contengono genomi uguali a quello dello zigote di partenza. Queste cellule, tuttavia, specie se derivate da tessuti e stadi di sviluppo diversi, differiscono fra loro: è probabile che anche i loro genomi siano diversi. Questa diversità presenterebbe frequenza, natura ed entità ancora poco note: ma la sua esistenza oggi è ben documentata, per es. nei linfociti responsabili dell’immunità. A renderla quasi inevitabile è la stessa struttura del genoma, con diversi tratti ripetitivi, instabili e trasponibili: nell’uomo sono il 45% del DNA. È noto che queste sequenze si riarrangiano in risposta a stimoli interni ed esterni, programmati o accidentali; è improbabile che gli eventuali riarrangiamenti avvengano negli stessi modi e tempi in tutti i milioni di miliardi di cellule del soma. Questi riarrangiamenti potrebbero anche avere un effetto positivo e, per es., diversificare il contenuto informativo del genoma delle cellule dei vari tessuti e organi, di fatto aumentando il numero di geni disponibili, ufficialmente di poco superiore a quello del verme nematode Caenorhabditis elegans. Certo creano un’eterogeneità che potrebbe spiegare le diverse efficienze del SCNT con i vari tipi di cellule. Per chiarirlo, basterebbe un’analisi comparativa dei genomi di donatore e cloni. Questi ultimi portano il genoma del primo amplificato in vivo: dall’analisi dei loro genomi, compresi quelli degli aborti ai vari stadi della gestazione o deceduti alla nascita, potrebbero derivare indicazioni sulla natura dei riarrangiamenti dei genomi delle cellule donatrici.
Lo studio di questi fenomeni, importanti nell’evoluzione delle specie, potrebbe essere proficuamente esteso allo sviluppo dell’organismo, nell’ambito dell’ipotesi della biologia evolutiva dello sviluppo, nota come EVO-DEVO (Evolutionary Developmental), conosciuta anche per l’enunciato di Ernest H. Haeckel «l’ontogenesi è una ricapitolazione della filogenesi» (Natürliche Schöpfungsgeschichte, 1868; trad. it. 1892, p. 178): differenziamento e sviluppo potrebbero essere similmente punteggiati da riarrangiamenti del DNA, il cui accumulo fa di ciascuno di noi un mosaico genomico, oltre che epigenetico e fenotipico, con un’eterogeneità che aumenta con l’età, come dimostrano i gemelli MZ. Così, nei neuroni sia del topo sia dell’uomo, si è scoperto che i genomi risultano diversi persino come numero di cromosomi (ploidia): il nostro cervello potrebbe essere uno dei tanti derivabili dal genoma dello zigote a seguito di eventi che l’hanno plasmato durante lo sviluppo infantile. Un aspetto positivo delle difficoltà della clonazione di adulti potrebbe quindi riguardare annosi problemi: particolarmente utile potrebbe essere il riesame di ipotesi, suggerite nel 1809 (in Philosophie zoologique) da Jean-Baptiste de Lamarck e fatte proprie da Charles Darwin mezzo secolo dopo. Il supporto sperimentale è stato fornito dal lungo lavoro sui geni mobili svolto da Barbara McClintock tra gli anni Venti e gli anni Ottanta del 20° sec.; una prova potrebbe derivare dall’esame dei genomi dei cloni.
Quanto alle applicazioni pratiche, è comprensibile la perplessità del mondo farmaceutico, di quello zootecnico e di quello sportivo. Animali campioni (come prestazioni e/o produzione) potrebbero venire moltiplicati per clonazione, fornendo copie assoggettabili a diversi stimoli ambientali (diete, allenamenti, condizionamenti). Almeno sorprendente è il disinteresse dell’industria degli animali da laboratorio, dove cloni di cavie potrebbero aiutare la sperimentazione e razionalizzare gli effetti delle variazioni ambientali e sperimentali; ne conseguirebbe anche la tanto auspicata riduzione del numero di animali da sacrificare.
La via crucis del clone
Il panorama della ricerca scientifica offre grandi scoperte come picchi sparsi su un bassopiano costituito da tanti mezzi successi e moltissimi insuccessi: è giusto apprezzare i primi, ma è utile guardare anche i secondi e i terzi. Ed è utile guardare anche agli scandali per capire le distorsioni del sistema ricerca nei diversi contesti sociali, culturali e politici. Il caso di Trofim D. Lysenko è fondamentale per capire la crisi della genetica e dell’agricoltura nell’Unione Sovietica del periodo staliniano; così come il recente scandalo del giovane fisico della materia Jan Hendrik Schön, con una ventina di lavori con dati falsificati comparsi tra il 1998 e il 2001 su riviste autorevolissime (con la firma anche di stimati autori), svela quanto, anche nel mondo occidentale, siano vulnerabili discipline pur solide come la fisica dei semiconduttori. La clonazione offre opportunità uniche per capire i lati oscuri dell’attuale ricerca biomedica.
Si è detto come la clonazione avesse recuperato visibilità grazie alla pecora Dolly. La sua nascita era stata descritta come uno dei momenti più gloriosi nella storia della scienza: sull’argomento si contano diversi film, dozzine di libri, migliaia di articoli. Ma fu vera gloria? Mediatica di sicuro. Scientificamente il lavoro del gruppo di Edimburgo è stato concepito, condotto e concluso male. Basti ricordare che la donatrice della fatidica cellula dell’epitelio mammario è sparita, e con lei il feto di cui era gravida nonché l’ariete che ne era il padre; e che il citato articolo di «Nature» che descrive la nascita di Dolly ha richiesto una correzione, pubblicata appena due numeri dopo, nel marzo 1997 (Wilmut, Schnieke, McWhir et al. 1997b). Per capire meglio lo spirito dei ‘clonatori’ si legga una nota significativamente intitolata Seven days that shook the world, pubblicata appena dieci giorni dopo da due dei ‘padri’ di Dolly, Wilmut, e il direttore scientifico del Roslin institute, Harry Griffin (Griffin, Wilmut 1997). La nota sfruttò il clamore sollevato dalla rottura dell’embargo che era stato in precedenza chiesto da «Nature» ai mass media perché non pubblicassero nulla anteriormente all’uscita dell’articolo su Dolly, e che venne violato da diversi giornali, anche italiani, e con maggior risonanza dal settimanale inglese «The observer». Ma al lancio mediatico di Dolly diede la spinta più robusta una giornalista statunitense, Gina Kolata, che seguì (o meglio creò, secondo un consolidato modello hollywoodiano) il caso per il «The New York times»: già nel 1997 pubblicò a Londra (e l’anno successivo a New York) un tempestivo e dettagliato libro, Clone. The road to Dolly, and the path ahead. Per questo motivo Kolata merita appieno il titolo di ‘madre’ di Dolly.
L’attenzione del pubblico e di molti addetti ai lavori è rivolta alle applicazioni sull’uomo, piuttosto che alla validità scientifica. Ancora una volta, ma più di quanto fosse avvenuto con l’ingegneria genetica negli anni Settanta, la bioetica confonde la biologia. Anche per rimediare a questa situazione era partita una richiesta di conferme su Dolly formulata da Zinder e da chi scrive. La sorpresa viene accresciuta dalla lettura della risposta dei clonatori (anch’essa citata), contrita e accattivante; ma diventa stupore se si guardano le firme. Non ci sono tutti gli autori del lavoro su Dolly (ossia Wilmut, Schnieke, McWhir, Kind, Campbell), ma solo il primo e l’ultimo: è prassi che il primo autore abbia fatto la maggior parte del lavoro, l’ultimo ne sia l’ideatore e il garante, ma che anche gli altri ne rispondano. Compare invece la firma di Alan Colman, un ‘padrino’ della clonazione, qui nella veste di fiancheggiatore esterno, in quanto non autore del lavoro in questione. In ambito scientifico, gli autori contestati che non firmano le risposte, di fatto accettano le contestazioni. A giustificazione delle assenze qualcuno ha indicato il ruolo minore avuto dagli autori mancanti, ma la presenza delle loro firme nella correzione editoriale uscita due settimane dopo parla diversamente, così come fanno alcuni eventi successivi. Alle nostre rimostranze «Science» non diede seguito.
Si diceva dello spirito dei clonatori: ciò che lo documenta meglio è il libro sulla clonazione di Dolly. Lo pubblicarono nel 2000 a Londra Wilmut e Campbell: stile e sintassi vennero affidati a un bravo giornalista inglese, Colin Tudge. La biografia di Dolly ha come immodesto e significativo titolo The second creation. Dolly and the age of biological control. Il giapponese Wakayama, già ricordato come il padre di Cumulina, enfant prodige et terrible della clonazione, nel recensire il libro con ironico garbo chiese se Dolly non fosse un UFO (Unidentified Fertilization Object), non identificato oggetto di fecondazione e quindi non un prodotto di clonazione (Perry, Wakayama 2000).
Comunque, sul carrozzone di Dolly saltarono presto i personaggi più diversi: capi di sette pseudoreligiose (i raeliani) e ginecologi, anche italiani, che annunciarono clonazioni umane tanto perentorie quanto elusive. Insorsero associazioni professionali che chiesero subito la radiazione dei medici coinvolti. Esperti qualificati si lanciarono in spericolate previsioni su un rinnovato Mondo nuovo. Spicca tra tutti il professor Lee M. Silver, biologo molecolare della prestigiosa Università di Princeton: il suo libro, Remaking eden. Cloning and beyond in a brave new world (1997), fu subito tradotto in italiano con il titolo Il paradiso clonato (1998). L’effetto esercitato sull’immaginario collettivo globale fu immediato, pesante e negativo, visti il rango dell’autore e il supporto corale dell’establishment.
Un’altra stazione della via crucis della clonazione ricorda il sacrificio dell’agnello: l’annuncio della morte di Dolly (14 febbraio 2003) ha versioni diverse, non si sa se per confusione o per promozione. È stata eutanasia? O è stata una morte prematura, colpa del suo ‘peccato originale’, vale a dire dei cromosomi già in partenza usurati, con estremità telomeriche accorciate rispetto ai coetanei anagrafici? O la morte è stata causata da una normale polmonite virale, frequente nella sua razza? Oggi Dolly, in vita ‘vera regina dell’ovile’, consapevole della sua origine, almeno agli occhi di Kolata, la ‘madre’ biografa, fa malinconica mostra di sé nel Royal museum a Edimburgo.
La successiva stazione della via crucis della clonazione ci porta nella Repubblica di Corea: un gruppo guidato da un veterinario dell’Università di Seoul, Woo-Suk Hwang, noto nel campo per una non limpida clonazione di bovini, nel 2004 pubblicò su «Science» (Hwang, Ryu, Park et al. 2004) un lavoro in cui veniva annunciata la derivazione di una linea di staminali embrionali da cellule umane adulte clonate via SCNT; un anno dopo, ancora su «Science», descrisse la produzione di un’altra dozzina di linee (Hwang, Roh, Lee et al. 2005). Entrambi i lavori facevano credere che la clonazione rigenerativa umana fosse diventata una realtà. A garanzia di serietà, dopo diversi nomi coreani, comparivano le firme di due rinomati ricercatori americani (Jose B. Cibelli nel primo articolo e Gerald Schatten nel secondo). Ma verso la fine del 2005, indiscrezioni sulla correttezza dell’acquisizione delle diverse migliaia di ovuli impiegate (si mormorava di numeri dieci volte più alti di quelli indicati nei lavori, ma la manipolazione delle rese è una costante della clonazione) insinuarono dubbi e stimolarono indagini amministrative, poi scientifiche e infine giudiziarie. La nuova era per la medicina rigenerativa degenerava così in uno degli episodi più inquietanti nella storia della scienza: a dicembre l’Università di Seoul dichiarò che il lavoro di Hwang era completamente falso. Arrivò infine la confessione del reo, che i suoi compatrioti avevano esaltato come futuro premio Nobel. Ma forse l’aspetto più grave dello scandalo è la constatazione che l’intero sistema (scienziati, riviste, esaminatori, colleghi, amministratori, mass media) non solo è stato inadeguato a prevenire questi imbrogli, ma è parso addirittura corrivo se non complice. L’accusa è grave, ma non infondata: entrambi i lavori dei coreani furono accettati da «Science» con insolita rapidità (meno di due mesi); per settimane il secondo articolo, il più clamoroso, venne osannato dai media, specialistici e non; sola voce fuori dal coro, «la Repubblica» il 5 giugno 2005 pubblicò un ampio servizio a firma di chi qui scrive. Dopo aver scrutinato con cura entrambi gli articoli e il dettagliato materiale accessorio in rete, era inevitabile chiedersi se si trattasse effettivamente di embrioni umani, dal momento che non veniva mostrata una sola immagine delle undici blastocisti ottenute e delle quali si parlava molto poco. In effetti non lo erano.
Scoppiato lo scandalo, il coautore-garante Schatten, comprensibilmente imbarazzato, dichiarò che il suo contributo si era limitato alla scelta di alcune foto, ammettendo così che ciò era bastato per fargli avere l’ultima firma. Ma il quadro si complicava: a metà dicembre «Science» pubblicò una breve lettera di soccorso ai clonatori coreani in difficoltà (Wilmut, West, Lanza et al. 2005). Era firmata da un gruppo di colleghi occidentali, tra cui gli immancabili Colman e Campbell, che offrivano conforto, collaborazione nello studio delle loro tanto discusse staminali e totale solidarietà contro le accuse ricevute (di cui i ‘padri’ di Dolly riconoscevano di essere già stati vittime nel 1998); e non si astennero dalla raccomandazione di limitare queste discussioni ai soli addetti. In calce una secca nota: l’editore di «Science» annunciava che nel frattempo anche il secondo degli articoli incriminati era stato appena ritrattato. Una volta conclusa l’inchiesta le autorità accademiche coreane licenziarono Hwang con infamia. Alla fine del 2009 erano ancora in corso azioni civili e penali.
L’ultima stazione della via crucis è costituita dalla clonazione di un cane, mai ottenuta in precedenza. Proprio in quel periodo il gruppo Stati Uniti-Corea annunciò la clonazione di Snuppy, un levriero afgano. Al danno si aggiunse la beffa: Snuppy è un vero clone e, tra i vari cloni sinora ottenuti, è di gran lunga quello meglio caratterizzato, e questo non solo grazie ai suoi creatori, ma anche a ricercatori indipendenti che, con procedura insolitamente zelante, hanno analizzato il materiale sperimentale dei clonatori coreani e pubblicato rapidamente i loro risultati, naturalmente su «Nature» (Lee, Kim, Jang et al. 2005).
A fronte di tutto questo, non risultano reazioni esplicite da parte del pubblico e dei colleghi; neppure delle tante istituzioni che avevano onorato Wilmut come creatore di Dolly. Ma la situazione è fluida: il decimo anniversario dell’evento è stato celebrato in sordina da una rivista non di primo piano, che ha raccolto una manciata di frettolosi articoli; notevole la sobrietà di «Nature» e «Science». Dopodiché, nel corso di una causa per discriminazione razziale sul lavoro, intentatagli nel 2006 da un ex collaboratore del Roslin institute (Prim Singh), Wilmut a sorpresa ha dichiarato che il ‘merito’ di Dolly è nella misura del 66% di Campbell e per un’altra parte, anch’essa cospicua, di un altro collaboratore, William Ritchie, che non aveva neppure firmato il lavoro su Dolly. Non sono note le reazioni dei colleghi ‘creditori’, neppure dopo che, alla domanda del legale della controparte se fosse esatta l’affermazione «non creai Dolly», Wilmut avrebbe risposto «sì» (Vogel, Marshall 2006). È insorto invece Colman, l’eminenza grigia del gruppo, che ha accusato «Nature» di rimestare nel fango e di fornire armi ai soliti denigratori di Dolly; l’accusa è stata fermamente rigettata dall’editore (Colman 2006).
Conclusioni
La clonazione si è rivelata un flop scientifico, mentre la modificazione genetica degli animali avrebbe fallito soprattutto per ragioni sociali e culturali, ma potrebbe essere nuovamente presa in considerazione. Dal punto di vista delle rese, i tanti cloni a oggi pubblicati continuano a rappresentare circa l’1% dei SCNT e mostrano salute cagionevole. Quanto all’uomo, molti annunci, enorme clamore mediatico, intransigenti condanne, ma nessun risultato documentato. La clonazione dei primati non è a priori impossibile, così come non lo è la loro partenogenesi. Il problema è la qualità dei cloni prodotti, non la quantità, che dipende dalla limitata disponibilità di ovuli e uteri e, forse in maggior misura, dalla bassa frequenza di genomi somatici totipotenti tra le cellule donatrici di nucleo. Comunque il SCNT può ancora aprire nuove prospettive nella medicina rigenerativa ma soprattutto contribuire allo studio della variazione somatica dei genomi: così può affiancarsi ai vari progetti genoma (diretti all’analisi della struttura o sequenza) e potenziare lo studio delle funzioni genomiche. Oggi conosciamo ancora troppo poco della chimica e fisica della vita, ma per saperne di più utili spunti possono venire anche da questi studi. Purtroppo uno scarso rigore operativo tollerato nel settore, un’arbitrarietà delle indicazioni di resa e un’approssimazione dei controlli richiesti dalle riviste hanno prodotto carenze scientifiche e deontologiche sempre più serie, culminate con lo scandalo dei ricercatori coreani. Inquietanti indizi della vulnerabilità del settore sono gli annunci, particolarmente vistosi in Italia, di clonazioni di uomini e topi mai effettuate o effettuate da altri, e pubblicati da rotocalchi nostrani di norma impegnati nel mondano.
Al contrario, ideologicamente intransigenti e puntigliose sono le obiezioni etiche al trasferimento di geni e genomi umani in cellule di altre specie e viceversa. Giornalisti e bioeticisti si irrigidiscono sulle loro posizioni, impermeabili alla nozione che geni, genomi e cellule provenienti da organismi umani non hanno dignità umana, e continuano a presentare la clonazione dell’uomo come ineluttabile e al tempo stesso esecrabile. La matrice antiscientifica è la stessa che trent’anni fa animava la ‘tolleranza zero’ verso il DNA ricombinante. Luddismo, creazionismo e sensazionalismo possono combinarsi e creare una dannosa deriva oscurantistica. Vi contribuiscono anche le frequenti e irresponsabili promesse di terapie, applicazioni e produzioni nuove, troppo spesso date per certe o imminenti, destinate per lo più a sfumare nel nulla. Proiettati invece in un futuro auspicabile, anche se non vicinissimo, sono forse i tentativi di accoppiare manipolazioni genetiche e induzione di pluripotenza nelle cellule del midollo, da utilizzare nel trattamento di alcune emopatie (Hanna, Wernig, Markoulaki et al. 2007).
È giusto però che a chiudere il discorso sulla clonazione siano i suoi protagonisti. Su «Il Sole 24 ore» del 25 marzo 2001 Wilmut ha scritto: «I benefici della clonazione terapeutica sono per ora potenziali, ma col tempo diventeranno reali». In un’intervista a «la Repubblica» del 25 giugno 2006, alla domanda se la clonazione merita un Nobel, ha risposto: «Sono ovviamente la persona sbagliata per dirlo. Certo, penso che sia stata una delle scoperte più importanti degli ultimi dieci anni, ma la sua importanza non è ancora stata completamente compresa». Intanto ha riprovato con i libri e, assistito da un altro mentore, il giornalista Roger Highfield, nel 2006 a Londra ha dato a The second creation un seguito un po’ meno ambizioso: i clonatori vengono paragonati ai fisici nucleari degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, in quanto grazie agli uni e agli altri la scienza sarebbe progresso e non può né deve essere fermata. Il titolo After Dolly. The uses and misuses of human cloning non è particolarmente stimolante: dopo Dolly, gli usi sarebbero quelli che dovrebbero assicurarci cellule staminali embrionali personalizzate, gli abusi quelli che vorrebbero invece portare alla clonazione dell’uomo. Ma verso la metà del 2007, Wilmut ha cambiato opinione e ha scritto che, realisticamente, un attento esame delle risorse e dei tempi richiesti per produrre cellule differenziate da usare in terapia suggerisce l’impraticabilità di un impiego su larga scala delle staminali; nella fretta di usare in terapia cellule paziente-specifiche, si tenderebbe a trascurare la loro grande utilità per la ricerca di base e per la scoperta di nuovi farmaci (Wilmut, Taylor 2007). Il 16 novembre 2007 lo stesso Highfield, sul «Telegraph», riportava che Wilmut aveva deciso di abbandonare la clonazione di embrioni umani da usare contro la cosiddetta malattia del motoneurone: per tale clonazione aveva chiesto la licenza un paio di anni prima e questa gli era stata appena negata. L’autore commentava che questo annuncio potrebbe indicare l’inizio della fine della clonazione terapeutica, nella quale sono state investite decine di milioni di sterline in tutto il mondo, e aggiungeva che Wilmut preferirebbe l’approccio giapponese alla pluripotenza indotta, visto che questo evita ovociti ed embrioni, ed è quindi socialmente più accettabile (Cyranoski 2008).
Dal canto suo Schatten, dopo la storia coreana, ha dichiarato che, con gli approcci correnti, la produzione di cellule embrionali staminali in primati non umani potrebbe risultare difficile e la clonazione riproduttiva irraggiungibile (Cyranoski 2007). Un’altra pietra tombale sulla clonazione, anche su quella rigenerativa?
Il turbamento che caratterizza il settore trova una sintesi adeguata nell’editoriale che Donald Kennedy, già direttore di «Science», ha scritto a commento dell’inchiesta condotta sulla truffa dei coreani anche dalla sua rivista, in quanto parte lesa ma forse anche correa, almeno di leggerezza: «La buona notizia [...] è che non solo abbiamo seguito le regole [...], ma abbiamo fatto uno sforzo sostanzialmente maggiore [...] per assicurarci che i dati scientifici fossero validi; la cattiva è che [...] l’ambiente scientifico oggi presenta maggiori incentivi per lavori intenzionalmente fuorvianti o distorti da interessi personali» (Kennedy 2006). La buona notizia è almeno ambigua, la cattiva è almeno inquietante, non solo per la sua credibilità, ma anche per la sua provenienza. Tra i maggiori responsabili del dissesto ‘ambientale’ denunciato e in particolare della deriva spettacolare e consumistica della ricerca ai ricercatori si affiancano le grandi riviste scientifiche, che dovrebbero esserne i più rigorosi guardiani e talvolta ne sono i meno encomiabili fruitori.
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