TAMBRONI, Clotilde
– Nacque a Bologna il 29 giugno 1758, da Paolo, cuoco nel monastero di San Procolo, e da Rosa Muzzi.
Tra i pochi grecisti italiani che godettero all’epoca di fama internazionale, insegnò a Bologna tra la fine del XVIII e il principio del XIX secolo, in un periodo caratterizzato da un profondo ribaltamento politico, sociale e culturale. Suo maestro fu Emanuele Aponte, gesuita, insegnante di lettere greche all’Università dal 1790 al 1800, autore di un’opera didattica, i Rudimenti, ma alla sua formazione contribuì anche Juan Bautista Colomés, anch’egli gesuita, scrittore di tragedie e melodrammi.
Secondo un fortunato aneddoto, che rimarcava l’eccezionalità di una donna tanto prestigiosa, l’Aponte, che era a dozzina dalla madre di Clotilde, si sarebbe accorto della straordinaria predisposizione della fanciulla per gli studi da una sua esatta risposta a un quesito rivolto al fratello più giovane Giuseppe (1773-1824). In realtà, verso la fine del Settecento l’Università di Bologna ebbe vari docenti di sesso femminile (oltre a Tambroni, ad esempio Laura Bassi Veratti, Maria Dalle Donne, Anna Morandi Manzolini, Maria Gaetana Agnesi), da una parte riprendendo una tradizione secondo cui donne vi avrebbero insegnato già nel Medioevo, dall’altra seguendo la via tracciata dal cardinale Prospero Lambertini (poi Benedetto XIV), che contrapponeva al femminismo libertino l’ideale di una donna colta e, nel contempo, provvista di specchiate virtù cristiane (Tambroni incarnava perfettamente tale modello).
Tambroni ben presto si segnalò sia per la conoscenza del greco sia per la vena poetica: nel 1790 Niccolò Fava Ghisilieri – figura di spicco nel panorama cittadino – la introdusse nell’Accademia degli Inestricati; dal 1792 fece parte dell’Arcadia con il nome di «Doriclea Sidonia» (o Sicionia), mentre, il 23 novembre 1793, il Senato bolognese, deputato a nominare gli insegnanti dell’università, le affidò le istituzioni di «Particulae Graecae» (cattedra in seguito denominata lingua greca, poi lingua e letteratura greca).
Poco sappiamo del suo insegnamento: usò la tradizionale grammatica di Padova, ma in una lettera scritta l’11 novembre 1801 all’Amministrazione dipartimentale del Reno si lamentò della mancanza di libri validi per lo studio del greco e chiese che fossero stampati a spese pubbliche i Rudimenti di Aponte (la richiesta fu esaudita nel 1802); risulta, inoltre, che si occupò di popolari miti, come quelli di Saffo e Faone e del canto del cigno.
Il suo insegnamento s’interruppe nel 1798, quando fu prescritto che tutti i docenti giurassero «odio eterno al governo dei re e degli aristocratici»: nell’acceso dibattito che ne derivò, in ambito cattolico, tra chi pensava che la democrazia fosse incompatibile con la Chiesa e chi propugnava un compromesso, Tambroni si schierò con i primi, fu tra i dodici docenti bolognesi che non accettarono l’imposizione e il 30 aprile 1798 dovette lasciare la cattedra, avendo assunto del resto una posizione contraria alla politica culturale napoleonica che tendeva a emarginare gli studi umanistici, letterari e religiosi (è pure del 1798 la proposta di legge di Giuseppe Lattanzi presso il Consiglio legislativo cisalpino contro l’insegnamento del latino e della teologia).
Nel periodo successivo, dopo un breve soggiorno a Parma, si recò, insieme ad Aponte, in Spagna, dove fu a Barcellona, a Valencia e a Madrid; entrò inoltre a far parte dell’Accademia reale economica di Madrid, godette del sostegno di Gaspar Melchor de Jovellanos Ramírez, poeta, drammaturgo, giurista, uomo politico dalle idee illuminate ed ebbe modo di conoscere altri intellettuali, come il poeta Juan Meléndez Valdés.
Il rientro di Tambroni a Bologna nel 1799 fu dovuto in parte alle precarie condizioni della madre, ma soprattutto al reintegro nell’insegnamento, nell’ambito della ristrutturazione affidata al commissario Pelosi. Negli anni seguenti ebbe problemi fisici ed economici: nel 1803 rivolse un’istanza a Francesco Melzi d’Eril, vicepresidente della Repubblica Italiana, per ottenere i mezzi per recarsi «al luogo delle pubbliche scuole» non a piedi e per potersi vestire decorosamente. In risposta, ebbe nel 1804 un congruo aumento e la collaborazione di un ‘ripetitore’, nella persona di Antonio Silvani, futuro ministro di Grazia e giustizia. Rimanevano tuttavia altre spinose questioni: le discipline letterarie continuavano a trovarsi a mal partito, sia per la preferenza accordata alle scienze esatte, sia perché erano unite a quelle giuridiche nella facoltà di giurisprudenza e belle lettere, la quale, secondo molti, doveva essere ristrutturata in un senso più propriamente tecnico-giuridico.
Un interessante documento è l’Orazione inaugurale, pronunciata nell’Università di Bologna l’11 gennaio 1806: in essa Tambroni sosteneva che lo sviluppo delle scienze non era mai stato disgiunto da quello delle lettere, faceva perno sulla funzione eternatrice della poesia (topos allora quanto mai popolare), ed esaltava la cultura bolognese, proponendone come modello ideale l’Atene classica. La battaglia per la sopravvivenza degli studi letterari era più importante delle convinzioni politiche e ciò giustifica gli strani toni adulatori per chi era al potere. L’orazione non sortì alcun effetto: con un decreto del 15 novembre 1808 l’insegnamento del greco venne soppresso e Tambroni fu collocata in pensione; la cattedra fu ristabilita da Gioacchino Murat nel 1814, ma ella – soprattutto a causa della salute precaria – non riprese l’insegnamento.
Per quanto riguarda vita e attività negli ultimi anni, significativa è una lettera del 21 ottobre 1815 al bresciano Pietro Gaggia in cui affermava di essere totalmente impegnata nella cura di Aponte, ormai pressoché immobilizzato. In realtà ella mantenne stretti rapporti con il mondo culturale cittadino e, quando papa Pio VII, nel 1815, riprese possesso di Bologna, partecipò attivamente alle feste pubbliche, improvvisando versi greci e italiani. Morì a Bologna il 4 giugno 1817.
Grande fu il cordoglio: l’elogio funebre fu tenuto presso l’Archiginnasio dal canonico Filippo Schiassi, cui si devono anche due iscrizioni commemorative, una posta sulla tomba, l’altra nell’Aula Magna dell’Università; il monumento funebre è di Adamo Tadolini, allievo di Antonio Canova.
La sua notorietà fu notevole. Frequentò il salotto della contessa Teresa Carniani Malvezzi (poi amica di Giacomo Leopardi) e fu in contatto con numerose personalità del suo tempo: in particolare, ebbe scambi epistolari con grandi filologi, quali Jean-Baptiste d’Ansse de Villoison, Richard Porson e Friedrich August Wolf; fu membro di numerose accademie: oltre a quelle già menzionate, a Bologna di quella di Poesia del Casino, dei Curiosi e degli Unanimi e della Clementina; e inoltre del R. Istituto di Milano, dell’Accademia delle scienze, lettere ed arti di Torino e di Livorno, della Società dei coltivatori ed amatori delle scienze utili e belle arti di Milano, dell’Accademia degli Etruschi di Cortona, della Colonia dei Pastori della Dora (con il nome di Aglaia), dei Fervidi-filodrammaturgici. Fu socio corrispondente dell’Accademia delle scienze di Parigi. In realtà Tambroni incarnò pienamente la mentalità italiana di fine Settecento per la quale lo studio dei classici era intimamente connesso alla produzione poetico-letteraria e l’attività filologica era solo secondaria. Non è quindi un caso che di quest’ultima siano rimaste solo sporadiche notizie: dall’epistolario emerge che approntò una traduzione di Pausania, rimasta inedita, e che lavorò a un lessico omerico; in una lettera a Ireneo Affò del 30 ottobre 1794 tentò di decifrare alcune epigrafi in greco del convento di San Paolo in Parma; nella già citata lettera a Pietro Gaggia fece osservazioni su Esopo 54,1, Anacreontea 31,7 s. e sull’Epitafio di Adone pseudo-teocriteo 45s., e in particolare propose un’interessante congettura nell’ultimo di questi luoghi; in un autografo conservato nella Biblioteca bolognese dell’Archiginnasio si conserva la traduzione di due passi di Eliano (Varia Historia, 2,2 e 2,3).
Nonostante queste scarne tracce evidenzino capacità, competenza e sensibilità filologica, Tambroni fu soprattutto celebre come poetessa, capace di utilizzare sia la lingua greca sia quella italiana. Scrisse in greco varie poesie d’occasione: l’epitalamio per le nozze tra il conte Niccolò Fava Ghisilieri e la nobildonna Gaetana Marescotti Berselli del 1792, l’ode saffica per il parto della contessa Susanna Jennison Walworth Spencer del 1792, l’ode pindarica per la felice conclusione di una malattia del vescovo di Bologna Andrea Gioannetti del 1793; l’ode saffica per il conte Ferdinando Marescalchi Fava in occasione dell’ingresso solenne al Gonfalonierato di giustizia del 1794, l’elegia in onore di Giambattista Bodoni del 1795, l’ode saffica In morte di Carlotta Melania Duchi Alfieri del 1807, una canzonetta di data ignota, un epigramma di ringraziamento per Ramiro Tonani, che risale probabilmente al 1798, e tre opere conservate manoscritte presso la Bibliothèque nationale di Parigi: un idillio, la versione greca dell’Ode in lode del Feld-maresciallo Conte di Clairfait, e una lettera in greco, datata 6 febbraio 1804, indirizzata a Villoison. In italiano abbiamo la traduzione di una perduta ode saffica dedicata alla contessa Paola Secco Suardi Grismondi, l’ode in onore di Clairfait, del 1796; Il cieco della montagna su la causa primiera (ispirato alle opere di Corneille François de Nelis) del 1794, diciassette sonetti, una canzone intitolata La Toletta inserita in una raccolta per nozze, una lirica contenuta in una lettera ad Anna Alpi; l’elegia Egeria e Licida (pubbl. in Mercurio d’Italia, X (1796), pp. 250 s.).
Tambroni per tutto l’Ottocento mantenne inalterata la propria fama e nella seconda metà del secolo la sua figura assunse un colorito romanzesco divenendo più un astratto simbolo di virtù che una concreta personalità di studiosa e di intellettuale: nella sua biografia scritta da Giulia Cavallari Cantalamessa (1899) si esamina l’epistolario per trovare tracce di virtù umane e femminili; interessante è altresì un manuale pedagogico intitolato Clotilde Tambroni o la più nobile missione della donna pubblicato dall’abate Luigi Taccani (Milano 1872), dove la nostra impartisce lezioni di virtù. Nel Novecento, invece, non più spendibile come simbolo di valori, rappresentante di una concezione dell’antico non più attuale e autrice di incomprensibili carmi in greco classico, finì fatalmente per scivolare nell’oblio.
Fonti e Bibl.: I. Affò - A. Pezzana, Memorie degli scrittori e dei letterati parmigiani, I-VII, Parma 1825-1833, s.v.; Poesie postume di Diodata Saluzzo contessa Roero di Revello. Aggiunte alcune lettere d’illustri scrittori a lei dirette, Torino 1843, ad ind.; C. Bonafede, Cenni biografici e ritratti d’insigni donne bolognesi raccolte dagli storici più accreditati, Bologna 1845, ad ind.; F. Raffaelli, Alcune Lettere della celebre grecista C. T., Sanseverino Marche 1870; C. Malagola, Lettere inedite di uomini illustri bolognesi, I-II, Bologna 1875, ad ind.; Lettere di quattro gentildonne bolognesi, Bologna 1833, ad ind.; G. Cavallari Cantalamessa, C. T., Bologna 1899, ad ind.; Lettere inedite di C. T., a cura di M.F. Sacchi, Milano 1900; M.S. Buti, in Enciclopedia biografica e bibliografica italiana. Poetesse e scrittrici, a cura di M. Bandini Buti, Roma 1942, s.v.; G. Natali, L’Università degli Studi di Bologna durante il periodo napoleonico (1796-1815), in Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna, I (1956), pp. 505-545; R. Cremante, L’Università di Bologna dalle riforme napoleoniche al primo decennio del Novecento, in I laboratori storici e i musei dell’Università di Bologna. La città del sapere, Bologna 1987, pp. 78-122; S. Nannini, Su alcuni componimenti poetici di C. T., in Alma Mater studiorum. La presenza femminile dal XVIII al XX sec., Bologna 1988, pp. 135-139; R. Tosi, C. T. e il classicismo fra Parma e Bologna alla fine del XVIII sec., in Rose di Pieria, a cura di F. De Martino, Bari 1991, pp. 395-432; Id., C. T., grecista e poetessa (1758-1817), in Il Carrobbio, XXXI (2005), pp. 197-218; Id., I Carmi greci di C. T., Bologna 2011.