COCCIO, Marcantonio, detto Marcantonio Sabellico
Nacque intorno al 1436 a Vicovaro in Sabina, allora sotto il dominio degli Orsini.
Il C. interpreterà il nome del luogo natale come "Varronis vicus" o piuttosto "Valerius vicus" (per il fatto di trovarsi sulla via Valeria), in una lettera all'agostiniano Giacomo Filippo Foresti di Bergamo che gli chiedeva notizie per il suo Supplementum chronicarum (Epistola ad Foresium, in Opera omnia, coll. 356 ss., datata dal Mercati al 1493); a tale lettera risalgono anche le notizie sulla sua famiglia, identificata con la casa Cocceia di antiche origini romane. Al medesimo vezzo classicistico risale il soprannome, che egli si diede, di "Sabellico", forma più nobile, tratta da Georg., III, 355, per "Sabinus", che pur taluni gli attribuirono.
Quantunque molti biografi ritengano il C. di umili origini, figlio di un fabbro, egli dovette piuttosto appartenere a famiglia non nobile, ma agiata: il padre militò al servizio di Roberto Orsini, e il C. fu educato agli studi liberali da famosi maestri. A Roma, dove fu allevato in casa Porcari, ebbe infatti modo di ascoltare per breve tempo Gaspare Veronese e il Porcellio, ma fu allievo di Domizio Calderini fra il 1470 e il '71 e, ancor prima, di Pomponio Leto, al quale si deve il completamento della sua formazione di umanista.
Nel primo periodo della sua permanenza romana il C. compose un gran numero di carmi, che poi distrusse quasi completamente; a essi forse appartengono alcune elegie edite nel corpo delle sue opere poetiche. A contatto con l'Accademia romana il suo interesse si rivolse agli studi specificamente umanistici e filologici, secondo l'indirizzo pomponiano.
Intorno al 1472 il C. si allontanò da Roma, al seguito del vescovo di Feltre Angelo Fasolo, vicario del patriarca di Aquileia, e nell'anno successivo fu invitato ad Udine per tenere un pubblico insegnamento. Fu in questi anni di soggiorno nel Friuli che il C. si aprì all'interesse per gli studi scientifici, la dialettica e la matematica soprattutto, cui si aggiunse lo studio delle lettere greche. In occasione della peste che colpì il Friuli nel 1477 si ritirò a Tarcento, dove assistette alla strage operata dai Turchi una volta sconfitto l'esercito veneziano sul fiume Isonzo, vicende da lui narrate poi nei poemetti De caede Sontiaca e De incendio Carnico. Qualche anno dopo, durante la guerra che nel 1482 la Repubblica veneziana conduceva contro Ercole I d'Este, dedicò al condottiero delle truppe veneziane Giovanni Emo, già governatore di Udine nel '78, una storia delle origini di Aquileia (De vetustate Aquileiae et Foriiulii libri VI).
L'opera si collocava sulla scia del genere latino e greco della Chorographia e doveva la sua occasione all'intento di nobilitare il territorio di Udine, ricompensando la città per l'accoglienza riservata all'autore, ma sin dal libro IV l'esaltazione di Venezia pare divenire l'intento sotteso alla narrazione. Dopo aver descritto nel libro I la provincia, il C. tratta dei suoi primi abitanti (l. II), narra l'invasione di Attila (l. III), il periodo del dominio longobardo (l. IV), le vicende interne sotto i patriarchi (l. V), le ultime vicende, fra le quali la devastazione operata dai Turchi nel 1472 e '77, alle quali lo stesso autore aveva assistito. Concludendo l'opera, il C, esaltava l'allora governatore del Friuli, Benedetto Trevisan, il quale era riuscito nel 1479 a stipulare la pace con i Turchi, e che diverrà in seguito un suo valido protettore. Già in questa prima prova il C. si proponeva di utilizzare le poche e scarse testimonianze antiche, raccogliendole secondo le esigenze del discorso storiografico, e dava inizialmente un notevole spazio alle testimonianze mitiche e poetiche, accettando, ad esempio, di identificare negli Argonauti i primi abitatori della regione. Accolta con favore per la sua veste umanistica, l'opera rivelò subito, però, le sue carenze, non solo per certe peregrine note etimologiche, quali la derivazione di "Utinum" da "Hunni", ma per la scarsa cura dell'ordine cronologico e l'affollamento confuso dei fatti, che l'accostava piuttosto al genere dei breviari.
Non va confermata la notizia, riferita dal Giovio, secondo cui da Udine il C. si sarebbe trasferito a Vicenza, attirato da un più lauto stipendio, poiché lo stesso C. c'informa di essere passato direttamente da Udine a Venezia nell'epistola dedicatoria ad Antonio Corner premessa al De officio praetoris, da cui si ricava che il trasferimento a Venezia dovette avvenire nel 1484. A Vicenza il C. fu in altra circostanza difficilmente databile, per pronunciarvi un'orazione in occasione della festa di S. Vincenzo martire, pubblicata come undicesima nella raccolta delle orazioni, e dove l'umanista si compiace dell'onore eccezionale riservatogli, per essere stato invitato ancor giovane e inesperto a parlare in una sede famosa. Ricevette allora in dono una coppa d'argento che celebrerà miticamente nel Vicentinus crater.
A Venezia il C. dovette trasferirsi nel 1484 per insegnarvi nella scuola di S. Marco, con lo stipendio, dice il Giovio, di 300 ducati; mentre deve scartarsi senz'altro l'ipotesi che venisse ingaggiato sin d'allora dalla Repubblica come scrittore della storia veneziana. Né la storia del C. deve considerarsi continuazione dell'opera di Bernardo Giustinian, la quale venne in luce soltanto nel 1492; ancora nel 1489, scrivendo il dialogo De Latinae linguae reparatione ed elogiando il Giustinian, egli mostra di non conoscerla, pur avendone notizia e attendendone la pubblicazione. Nello stesso 1484 il C. dovette lasciare Venezia colpita da una pestilenza e recarsi a Verona al seguito di Benedetto Trevisan, nominato rettore della città. È molto probabile che qui egli scrivesse quasi per intero la storia di Venezia, tre decadi intere e parte della quarta.
Nella dedica a Marco Barbarigo, che fu doge dal novembre 1485 all'agosto 1486, il C. dichiarava di aver affrontato un sì grosso impegno per il fascino che gli ispirava l'origine e lo svolgimento storico di Venezia e per il dispiacere di vederne narrate le vicende in stile modesto e non degno dell'argomento: e altrove (in una lettera premessa al libro I delle Enneadi) confessa di aver scritto tutta la storia di Venezia lontano dalla città, come Verona avrebbe potuto testimoniare. Ermolao Barbaro, scrivendo al Merula il 22 apr. 1486, lo informa che il C. in quindici mesi aveva portato a termine in trentadue libri la storia di Venezia (E. Barbaro, Epistolae Orat. Carminae, I, a cura di V. Branca, Firenze 1943, p. 98). Ma poiché l'opera, pubblicata nel 1487, comprende trentatré libri e giunge fino alla nomina a doge di Agostino Barbarigo, lo Zeno suppose che l'ultimo libro fosse composto quando la prima parte era già conosciuta e data alle stampe (come dimostrerebbe la lettera del Barbaro), ossia negli ultimi tempi del dogato di Marco, morto nell'agosto del 1486. L'ultimo libro in effetti, a differenza degli altri, dovette essere composto dopo il ritorno del C. a Venezia. Nelle Historiae rerum Venetiarum si manifesta in pieno quel metodo storiografico col quale il C., aveva affrontato la narrazione delle origini di Aquileia. Mosso principalmente da un'esigenza di nobilitazione umanistica della tradizione storiografica, egli assume perfino nella strutturazione dell'opera, divisa in decadi e risalente "ab Urbe condita", il modello liviano, e utilizza alcune più o meno famose cronache senza un apprezzabile rigore critico nell'operare le scelte e i dovuti confronti. Nei primi tre libri della prima decade utilizzò, oltre al Biondo, la cronaca di Benintendi dei Ravegnani (da lui citato talvolta come "Bonitendius"), che s'interrompeva al 976, data con la quale termina appunto quel terzo libro. Il cronista viene seguito nel racconto mitico delle origini e sostituito con la fonte del Biondo per l'integrazione dei fatti esterni a Venezia.
Egli dové utilizzare largamente, con ogni probabilità, la cronaca di Lorenzo De Monacis, che pur non cita espressamente, ma soprattutto negli ultimi sei libri della I decade, dove risalirebbero al cronista perfino i generici riferimenti ad altre fonti. Non pare tuttavia da accettare la deduzione fatta dal Foscarini, secondo cui il C. non avrebbe letto direttamente la cronaca di Andrea Dandolo, sulla base di un passo in cui il C. riferisce un giudizio altrui sul carattere delle due versioni, una più ampia ed una più breve, della cronaca di Dandolo. La cronaca del Dandolo, già largamente usata dal De Monacis, viene seguita dal C. nelle linee generali del racconto, giacché il De Monacis se ne discostava per raccogliere le notizie intorno ad argomenti comuni, mentre alcuni particolari non possono spiegarsi che con la presenza del De Monacis fra le fonti dirette del Coccio. Altre probabili fonti minori furono indicate dal Bersi.
Alla pubblicazione delle storie veneziane risale l'inimicizia fra il C. e il Merula, dapprima amici. Il Merula, impegnato nella compilazione della storia dei Visconti, rimproverò il C. di essersi servito delle cronache di parte veneta secondo un metodo non adottato né da Livio né da Sallustio, i quali utilizzarono fonti puniche. Scrivendo a Daniele Renier dopo la morte del Merula, il C. attribuiva quell'atteggiamento a un sentimento d'ingratitudine verso Venezia, dove il Merula aveva insegnato, e all'invidia anche verso chi in effetti era riuscito a portare a termine quell'impresa.
L'offerta delle storie veneziane al Senato e al popolo veneziano fruttò al C. uno stipendio annuo di 200 ducati, come riferisce l'Egnazio (De exemplis illustrium virorum, l. V, cap. 5). Egli si apprestava a divenire lo storico ufficiale di Venezia, un compito per il quale la Repubblica cercava da anni una persona adatta fra gli umanisti che vi aspiravano.
Nell'ambito di questa nuova funzione si può dire venisse concepito dal C. il libro De Venetis magistratibus, pubblicato nel 1488 con la dedica al doge Agostino Barbarigo e l'augurio che questi potesse finalmente realizzare l'attesa costruzione della biblioteca ducale. Immaginato come una risposta, messa in bocca a Sebastiano Badoer, praefectus di Verona, all'indirizzo di coloro che eccedevano nell'esaltare la superiorità dell'ordinamento romano, il trattatello espone i compiti e l'origine delle singole magistrature con un costante riferimento al modello romano ed un fondamentale riconoscimento della concordia che si sarebbe realizzata a Venezia fra le classi dei patrizi e dei popolari attraverso la preminenza di quell'ordine aristocratico, la cui funzione moderatrice viene sostenuta sull'autorità del "divino Platone". Si ricollega a questa ricerca sulle istituzioni il libro De praetoris officio, nel quale la trattazione giuridica viene in gran parte risolta nell'illustrazione dei principî del diritto, soprattutto l'aequitas, dei principî morali e delle norme del comportamento cui deve ispirarsi l'azione del magistrato nell'amministrazione della provincia, nella vita pubblica come in quella privata. Il C. dedicò il libro ad Antonio Corner, professore di filosofia alla scuola di Rialto, nominato nel 1490 rettore di Vicenza per l'anno successivo.
L'esaltazione di Venezia da parte del C. sarebbe proceduta intanto con la descrizione della città di Venezia, De Venetae urbis situ et vetustate, tre libri completati nel 1492 e dedicati a Girolamo Donato. In essi il C. si propone di mostrare le magnificenze dell'arte e della natura che costituiscono il vanto della città, la cui posizione viene inizialmente indicata come una delle ragioni prime della sua fortuna, un argomento che giustificava il parallelismo con Roma, rimasto poi tema costante dell'opera di Coccio.
Alla lode di Venezia sono destinati due panegirici di Venezia in esametri, l'uno intitolato Genethliacon, l'altro Oraculum (De Venetae urbis apparatu), inclusi poi nei Poemata, d'argomento prevalentemente storico, dedicati a Giorgio Corner. Costituiscono probabilmente due dei quattro libri sulla storia di Venezia, di cui il C. dà notizia nella citata lettera autobiografica "ad Foresium" e nell'altra al Cantalicio (anch'essa del 1493), e che in quella data non erano stati editi. Di particolare interesse il primo, che tenta un recupero della tradizione mitica classica per nobilitare l'origine di Venezia, ricordando l'approdo di Antenore sulla costa veneta, e la fondazione di Padova, quindi la distruzione del territorio ad opera degli Unni e la nascita di Venezia, spiegata attraverso la parallela vicenda di Roma, che sorgeva a seguito della distruzione di Troia. Il ricordo di Roma era anche nell'esaltazione della primitiva semplicità del mondo lagunare destinato ad un impero vasto e glorioso; ma insistente si faceva nei versi del C. il tema del merito dovuto alla nobilitas per aver guidato la città sin dagli inizi con l'alacrità del lavoro e la moderazione del governo, garantendo la saldezza delle istituzioni politiche e religiose, un processo simboleggiato dal segno astrologico della congiunzione di Giove, Mercurio e Marte.Nel frattempo il C., al quale era stata affidata anche la custodia dei volumi donati dal Bessarione e costituenti il primo nucleo della Biblioteca ducale, svolgeva la sua attività di insegnante nella scuola di S. Marco. Quantunque non sia venuto alla luce il documento che comprovi il suo ingaggio, altre testimonianze indicano che il suo lavoro consisteva nella preparazione dei candidati alla Cancelleria, in lezioni pomeridiane, e in pubbliche lezioni di "umanità" impartite ai giovani dell'aristocrazia in casa propria.
In seguito alla morte di Giorgio Valla, avvenuta nel 1500, il C., riconosciuto a quel tempo come la personalità più notevole della scuola, avrebbe preso il suo posto nell'insegnamento della letteratura latina nelle ore antimeridiane, lasciando il proprio posto a G. B. Scytha.
La lettura degli autori che il C. condusse in questi anni risulta dalle annotazioni al testo di Plinio, dedicate a Domenico Grimani nel 1487. Esse incontrarono la critica non favorevole di Ermolao Barbaro, allora a Milano, nonostante le lodi formali che questi ne fece in una sua lettera al C. del 5 novembre del 1488 (in Epistolae..., cit., II, p. 35); nelle Castigationes (1492-93) varie puntate riguardano il lavoro del C., pur non nominato, e lo stesso C. venne indotto a rivedere notevolmente la sua opera quando ne curò una nuova edizione. Curò successivamente anche i testi di Valerio Massimo (1488), di Svetonio (1490), di Livio (1498) e di Orazio.
Dell'opera didattica del C., ma anche dell'orientamento retorico-ciceroniano della sua complessiva concezione delle lettere, sono cospicuo documento le dodici orazioni, che furono raccolte in un unico libro e dedicate ad Antonio Loredan nello stesso torno di tempo in cui venivano stampati i dodici libri di Epistolae (1502). Alcune hanno contenuto funebre o cerimoniale (come quella pronunciata nel 1492 ai funerali di Zaccaria Barbaro, davanti al doge, al Senato e a circa cinquemila cittadini), altre costituiscono vere e proprie prolusioni a corsi accademici. Figurando come elogi di Orazio, di Livio, di Cicerone, di Plauto, le prime quattro svolgono in realtà organicamente la trattazione propedeutica dell'arte letteraria, rispettivamente la poetica, la storiografia, l'oratoria, la lingua, poiché il commediografo latino diviene pretesto per una discussione sulla superiorità dell'Italia, della sua tradizione culturale e linguistica. Nella trattazione della poetica spicca, accanto ai luoghi comuni del carattere teologico dell'antica poesia e dell'identificazione fra la nascita della poesia e quella della civiltà, l'affermazione della popolarità dei poeti e l'esaltazione del tipo di cultura che essi rappresentano di fronte alla elementarità e osticità delle "arti"; mentre l'esposizione dell'arte storiografica, con l'emblematica indicazione del modello liviano, quale necessaria espressione del momento felice dell'Impero romano, rispecchia l'idea che il C. andava elaborando della propria funzione nei confronti della Repubblica; e la scelta ciceroniana, quale modello di eloquenza messa al servizio dell'educazione della nobiltà, rivela il contenuto politico della preferenza stilistica, con cui il C. si allineava all'indirizzo letterario che avrebbe di lì a poco conquistato la cultura umanistica.
Al 1489, e non al 1491, come vuole lo Zeno, risale la composizione del dialogo De Latinae linguae reparatione, che si collega al passaggio da Venezia, avvenuto nel 1487, di Battista Guarino, al seguito di Alfonso d'Este, e che introduce l'umanista ferrarese a discutere con Benedetto Brugnoli sullo stato attuale delle lettere latine. L'opera adattava probabilmente alla nuova occasione due libri De viris illustribus composti precedentemente e (secondo il Mercati) da eliminare dall'elenco delle opere perdute del Coccio. Tracciando le tappe della rinascita del latino, ch'egli intendeva appunto come una reparatio, il C. secondo un metodo usato anche nel De hominibus docti dal Cortese, suo condiscepolo alla scuola del Leto, giudica gli scrittori in riferimento al grado di acquisizione dello stile ciceroniano. Ma risalta nella trattazione la preferenza accordata agli umanisti fioriti in territorio veneziano: a Gasparino Barzizza veniva attribuito addirittura il primo avvio della restaurazione latina, e a Ermolao Barbaro toccava una lode senza confronto, mentre l'ovvio riconoscimento degli umanisti fiorentini veniva temperato da alcune riserve sui limiti stilistici del Bruni o sull'operazione "volgare" del Landino commentatore.
Il duplice interesse per la lettura filologica e per la narrazione storica risaliva all'insegnamento di Pomponio Leto, quantunque nel C. si fossero allentate l'acutezza filologica e la finezza della ricerca antiquaria proprie del maestro, dal quale lo distaccavano la scarsa conoscenza del greco e un gusto più retorico, in senso ciceroniano, della forma. Del legame che serbò col maestro e dell'opinione che quest'ultimo aveva del C. come emulo degli antichi è segno il fatto che Pomponio gli inviò poco prima di morire (1497) il manoscritto del compendio di storia romana, che il C. pubblicò nel 1499 premettendovi una biografia di Pomponio, dopo aver meditato a lungo se intervenire sul testo, a suo parere non rifinito, e decidendo infine di rispettarne totalmente la forma. Tutto questo secondo un criterio conservativo che egli dichiarò anche altrove, a proposito delle sue letture filologiche, polemizzando con i moderni editori.
Negli stessi anni il C. aveva continuato a dedicarsi al lavoro storiografico, raccogliendo notizie da chiunque potesse offrirgliene. Al 1492-93 risale la corrispondenza con Antonio Bonfini, il quale attendeva da tempo ad una storia dell'Ungheria e insegnò per qualche tempo a Ferrara prima di ripartire per la corte di Ladislao. A lui il C. affidò il figlio Mario, nato da una unione illegittima contratta all'epoca del soggiorno friulano, perché lo avviasse agli studi, e da lui cercò di ottenere informazioni riguardanti la storia dell'Oriente europeo. Forse intorno al '91 il C. aveva dato inizio ad una storia universale che dalle origini del mondo giungesse fino ai suoi tempi. Nel 1498 erano compiuti i sessantatré libri (ossia sette "enneadi", che sostituivano le più consuete "decadi"), che giungevano fino al saccheggio di Roma da parte dei Visigoti (410) e furono pubblicati a Venezia presso Bernardino e Matteo Veneti. La seconda parte, comprendente la storia successiva fino al 1503 incluso, fu pubblicata nel 1504 con la dedica al doge Leonardo Loredan e il titolo grecizzante di Rapsodiae historiarum enneadum ab orbe condito ad annum salutis humanae 1504. Oggetto di lodi ma anche di dure critiche a causa della affrettata e poco documentata narrazione, l'opera ottenne in seguito una notevole fortuna editoriale, proprio per il genere enciclopedico e il carattere succinto della trattazione; ma l'importanza dell'ultima parte, dove si trattano argomenti contemporanei, risulta anche da alcune digressioni, come quella che può dirsi una descrizione dell'Italia dialettale, premessa all'undicesima enneade; segno interessante dell'attenzione prestata dal C., scrittore esclusivamente latino, al problema del volgare, nella prospettiva tipica che condurrà alla teorizzazione della lingua cortigiana, contro la pretesa superiorità toscana, così come nel De Latinae linguae reparatione aveva denunciato i cedimenti volgari dell'umanesimo fiorentino.
Sotto questo punto di vista assumono una certa importanza i suoi rapporti con Giovan Francesco Fortunio, cui dovette essere maestro negli anni dell'insegnamento friulano e col quale s'intese durante la missione del Fortunio a Venezia (1499-1502), anni nei quali il C. toccava il culmine del suo prestigio, ma cominciava ad incontrare quelle opposizioni che amareggeranno gli ultimi suoi anni. Si colloca infatti in questo periodo la polemica con l'Egnazio, amico e collaboratore di Aldo Manuzio, il quale si andava affermando con un lavoro filologico improntato ad un metodo più rigorosamente critico, che superasse il genere del commentario umanistico. Le dure critiche mosse dall'Egnazio all'inabilità filologica del C. furono accolte col titolo di Racemationes in una silloge di scritti filologici, fra cui quelli di Poliziano, Beroaldo, Calderini, edita da Giovanni Bembo e stampata da Iacopo Pentius a Venezia nel 1502 (ma apparsa nell'anno successivo, perché del 22 gennaio del 1503 è l'epistola dedicatoria del Bembo: cfr. Dionisotti, Gli umanisti…, p. 21): essa si apriva con una ristampa delle Annotationes ex Plinio del C. dedicate al Fortunio ed una lettera di quest'ultimo all'accademia veneta contenente una strenua difesa del maestro. In realtà l'Egnazio andava offuscando a Venezia il primato culturale del C., il quale nel 1505, a causa della vecchiaia e delle condizioni di salute, dovette chiedere alla Repubblica di essere sostituito nel suo impiego presso la scuola di S. Marco, ottenendo una pensione di 200 ducati. Risulta che la riconciliazione con l'Egnazio avvenne in punto di morte, l'anno seguente, quando il C. chiese al suo più giovane avversario di curare l'ultima sua opera, i dieci libri Exemplorum, un compendio dell'etica, diviso secondo una particolare classificazione delle virtù, fondata sulla considerazione dell'ambito nel quale si esplicano (la vita familiare, la religione, la politica, la società, la corte), con un corredo di ricordi personali che ne costituisce il particolare interesse. L'Egnazio portò a termine il compito, dimenticando l'antica inimicizia, a tal punto che nella ristampa del 1508 della silloge filologica scomparve ogni traccia della violenta polemica.
Il C. morì a Venezia il 19 apr. 1506, secondo la testimonianza del Bembo (lett. a Filippo Beroaldo il Giovane del 29 aprile del 1506: in Epistolarum familiarium libri IV, Venetiis 1552, p. 138), poco dopo aver pianto la morte del figlio, che, passato da Ferrara a Padova, non era riuscito a rispondere in alcun modo alle sue attese. L'orazione funebre del C. fu pronunciata dallo stesso Egnazio e il suo corpo fu probabilmente sepolto nella chiesa di S. Maria delle Grazie.
Le opere storiche del C., gli opuscoli d'argomento giuridico e politico, le epistole, i carmi, le orazioni e il dialogo sulla lingua latina sono raccolti in tre volumi in folio, Opera omnia, Basileae 1560, ad essi vanno aggiunti gli Exemplorum libri decem, Venetiis 1508, ristampati nel 1511 a Strasburgo e quindi a Basilea nel 1555. La Pomponii vita precede il Romanae historiae compendium di Pomponio Leto, Venetiis 1499.
Bibl.: La vita del C., dopo la biografia umanistica del Giovio (Elogia doctorum virorum, Antverpiae 1557, pp. 106-07), fu ricostruita da A. Zeno, Degli istorici delle cose venez. i quali hanno scritto per pubblico decreto, I, Venezia 1718, pp. XXI-XLXXI. G. Degli Agostini, che illustrò la polemica con l'Egnazio (Notizie istor. spettanti alla vita e agli scritti di Battista Egnazio sacerdote viniziano, Venezia 1745, pp. 38-48), discusse ed evidenziò alcuni dati biografici del C. in Notizieistorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, II, Venezia 1752, pp. 201 ss. Sulla datazione del De Latinae linguae reparatione e sulla imprecisione di alcuni dati dello Zeno: G. Mercati, Ultimi contrib. alla storia degli umanisti, II, Città del Vaticano 1939, pp. 1-23. Sui rapporti con l'Egnazio e col Fortunio: C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, pp. 15-26. Una bibliografia è in A. Bakotich, Un carme consolatorio di Marcantonio Sabellico a Coriolano Cippico da Traù (1492), in Arch. stor. per la Dalmazia, XII (1931), pp. 419 ss., ma sul preteso inedito, vedi Mercati, cit., pp. 15-17. Sugli anni precedenti al soggiorno veneziano: M. Della Venezia, Sabellici carmen inmunitionem Sontiacam: Brevi notizie sulla permanenza di A. C. in Udine, in Studi goriziani, III (1925), pp. 171-184. Sui rapporti con l'Accad. romana: V. Zabughin, Giulio Pomponio Leto. Saggiocritico, Roma 1909-10, I, pp. 38-58. Sull'opera storica, oltre alle indicaz. di E. A. Cicogna (Saggiodi bibliogr. veneziana, Venezia 1847, nn. 567 ss., 750, 1064, 1893, 2549, 4083, 4458 ss.), M. Foscarini, Della letter. venez., Venezia 1854, pp. 249-255 e passim; R. Bersi, Le fonti della prima decade delle "Historiae rerum Venetarum" di Marcantonio Sabellico, in Nuovo Arch. veneto, n. s., XIX (1910), pp. 421-460; XX (1910), I, pp. 115-162. F. Gabotto, Il trionfo dell'Umanesimo nella Venezia del Quattrocento, in Ateneo veneto, s. 14, I (1890), pp. 1534-35; G. Zippel, L. Valla ele orig. della storiografia umanistica a Venezia, cultura e politica nel XV sec. Note e docum., in Rinascimento, VII (1956), pp. 93-133; G. Cozzi, Cultura polit. e religione nella "Pubblica storiografia" veneziana del '500, in Boll. dell'Ist. di storia dellasocietà e dello Stato veneziano, V-VI (1963-1964), pp. 215-294 (sul C., in particolare, pp. 218-23); F. Gilbert, Biondo, Sabellico and the beginnings of Venetian official historiography, in Florilegium Historiale, Essays presented to Wallace K. Ferguson, a cura di J. G. Rowe-W. H. Stockdale, Toronto 1971, pp. 275-293; e inoltre A. Pertusi, Gliinizidella storiografia umanistica nel Quattrocento, in La storiografia veneziana fino al sec. XVI, aspetti e problemi, Firenze 1970, pp. 319-332; B. Nardi, Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, Padova 1971, pp. 32-33. Intorno alla fortuna del C.: G. Cozzi, Intorno all'ediz. dell'opera di Marcantonio Sabellico, curata da Celio Secondo Curione, e dedicata a Sigismondo Augustore di Polonia, in Venezia e la Polonia nei secc. dal XVII al XIX, a cura di L. Cini, Venezia-Roma 1965, pp. 165-77. Sul complesso dell'opera letteraria e in partic. sul suo ciceronianismo: l'intervento di F. Tateo, Marcantonio Sabellico e lasvolta del classicismo quattrocentesco, in Florenceand Venice: Comparisons and Relations. Acts... at Villa I Tatti in 1976-77, I, Quattrocento, Florence 1979, pp. 41-63.