CODICE
il vocabolo codice è usato oggi in due sensi affatto diversi: quello paleografico e quello giuridico: dal significato primitivo di caudex (= codex) "tronco, ceppo" si passa a quello di riunione di tavole e quindi di pergamene a uso scrittorio; presso i giuristi il significato poi si restringe a quello di raccolta di leggi. Quando ciò sia avvenuto, è incerto; pare tuttavia che il nuovo significato, già accettato dopo che furono comparsi i codici gregoriano, ermogeniano, teodosiano e giustinianeo (v. giustiniano; teodosio; roma: Diritto), si sia affermato definitivamente nel linguaggio giuridico che cominciò a formarsi nel periodo prebolognese. La parola fu poi presa a prestito dalla Rivoluzione francese per designare il corpo delle leggi civili da essa promanato. Il nome non fu scelto a proposito, perché il nuovo corpo di leggi non era una semplice raccolta di leggi antiche. Tuttavia dopo d'allora si affermò definitivamente il nuovo significato, e il vocabolo codice fu sempre usato nell'accezione attribuitagli al tempo della rivoluzione. In questo senso per "codice" s'intende un corpo organico di norme costruito su un piano sistematico predeterminato con materiali in parte nuovi e in parte preesistenti alla redazione del codice, comprensivo di tutte le norme pertinenti a un ramo del diritto (e destinato a regolare tutti i rapporti giuridici che ricadono sotto il medesimo, promanante immediatamente, in via formale, da quell'organo dello stato cui si compete il potere di legiferare.
Nell'articolo si tratterà prima del codice in senso paleografico e. diplomatico, indi del codice in senso giuridico, esponendo la storia della codificazione moderna e trattando dei codici italiani vigenti anche in rapporto alle codificazioni straniere.
Il codice come libro.
Il codex è il libro manoscritto in opposizione al libro a stampa, specie nell'età anteriore alla diffusione di quest'ultimo. Codex o caudei chiamarono gli antichi una tavoletta di legno, poi la tavoletta cerata e finalmente il complesso di più tavolette lignee spalmate di cera riunite insieme, in uso come materia scrittoria. Per estensione la parola passo ad indicare non più il materiale, ma il formato. Codice val dunque "libro compatto", mentre volumen vale libro ravvolto a "rotolo", per lo più in carta di papiro. Quando sull'uso di quest'ultima come materia scrittoria prevalse l'uso della pergamena, tornò più facile riunire i fogli membranacei in quaderni, e rilegare questi in libri compatti, piuttosto che arrotolarli. Così il codice si venne sostituendo, come forma di libro più adatta e maneggevole, al volumen. In origine fu adottato di preferenza per la trascrizione di libri sacri cristiani (in Egitto furono trovati frammenti di codici risalenti al sec. II d. C.) e per le grandi compilazioni giuridiche. Non sappiamo quando fu cominciato a usare per le opere letterarie, ma Marziale (I sec. d. C.) parla già di codici di Omero, Virgilio ecc.; e dell'età imperiale (secoli III-IV) sono i codici più antichi rimastici. Secondo alcuni il codice fu usato dapprima solo per esemplari da strapazzo destinati alla povera gente; secondo altri fu riservato per esemplari di lusso. Monumenti figurati del sec. IV d. C. mostrano insieme il rotolo e il codice, ma il trionfo della chiesa - che lo aveva usato fin da principio a scopo didattico - segnò anche il trionfo del codice, che finì col sostituire nelle biblioteche il rotolo di papiro. Si fecero altresì, per lo più nei secoli VI-X, cod-ci in carta di papiro; ma la loro maggiore deperibilità suggerì l'abbandono di questa materia. Ce ne sono pervenuti pochi, e nessuno senza guasti. Un nuovo mutamento avvenne dopo l'introduzione in Europa della carta di stracci (sec. XII), il cui uso andò diffondendosi, finché nel sec. XVI si può dire subentrato nei codici a quello della pergamena. L'invenzione della stampa segna la fine del codice.
Rispetto alla materia di cui sono composti, i codici si possono dunque classificare in pergamenacei o membranacei, papiracei e cartacei. Il codice è composto di un numero variabile di quaderni. Il quaderno (quaternio) è formato generalmente da otto pagine (di cui ciascuna ha un retto e un verso), cioè da quattro fogli piegati , in due (diploma); ma vi sono quaderni di sei, dieci e talvolta dodici pagine. Ogni quaderno è segnato con una lettera o un numero progressivo. Nei codici membranacei i fogli sono uniti in modo che pelo corrisponde a pelo. Ogni pagina veniva rigata, generalmente dalla parte del pelo, con una punta dura e in modo che l'impressione fosse visibile anche dalla parte opposta; due margini laterali segnavano le estremità delle righe. A partire dai secoli XI-XII entra nell'uso comune anche la rigatura con il piombo, che, del resto, era già stata adoperata in epoca romana. In alcuni codici di lusso si ha una doppia rigatura per ottenere maggiore regolarità. I codici più antichi sono scritti di seguito, senza punteggiatura, né separazione di parole, talvolta in colonne che variano da 2 a 4; solo i codici più tardi separano una parola dall'altra. Il copista cerca però sempre di economizzare lo spazio. Il lavoro di copista fu fatto in epoca romana da schiavi specializzati; nel Medioevo, col sorgere degli ordini monastici, divenne esclusivo dei monasteri, ma, con l'aumentare della richiesta libraria, fu professione anche dei laici. Alcuni copisti hanno firmato e datato il manoscritto da loro copiato. I codici più antichi hanno forma quasi quadrata, in seguito l'altezza prevale sulla larghezza. Variano le dimensioni del codice e ne varia anche il tipo. Assai spesso i codici sono non soltanto modelli calligrafici, ma vere opere d'arte, splendenti di miniature (v.), legati con tavolette lignee dipinte, o ad intarsî d'avorio e di gemme, o rivestite di seta e di velluto, o con coperte di cuoio impresso, o di avorio lavorato, quando non sono in lamine d'oro o d'argento ornate a oreficeria, a smalto, con pietre preziose. I cosiddetti codici purpurei sono codici di gran lusso, usati soprattutto nei secoli VI-X per evangeliarî, salterî, antifonarî, nei quali il testo era scritto in caratteri d'oro e d'argento su pergamena resa purpurea mediante una tinta, che sarebbe più esatto dire paonazza, ottenuta mescolando in parti uguali il carminio e l'azzurro. Fin dall'Impero il codice è rilegato e, talvolta, fornito di lacci e uncini (codice ansato); la rilegatura è in legno, pergamena, cuoio, avorio, stoffa e metallo.
Codici opistografi (opisthographi "scritti sul tergo") sono quelli in cui il verso delle pergamene, lasciato in bianco, fu utilizzato per scritti estranei al testo primitivo. Inoltre, specie nei secoli VII-IX, la scarsità di pergamena poté indurre a raschiare o lavare il testo primitivo d'un codice, e sullo spazio reso così disponibile fu riscritto un altro testo. Sono questi i codici riscritti (rescripti) o palinsesti (da πάλιν "di nuovo" e ϕάω "raschio"). Con opportuni accorgimenti può riuscire di ravvivare lo scritto più antico, in modo da renderlo ancora intelligibile. Ne derivano talora importantissime scoperte, come fu quella del De republica ciceroniano che Angelo Mai ricavò da un palinsesto vaticano del sec. IV, sul quale, circa quattro secoli dopo, era stato riscritto il commento di S. Agostino ai Salmi. Autografi sono i codici che contengono opere scritte di proprio pugno dagli autori; anonimi o adespoti, quelli che non dànno il nome degli autori; anepigrafi, quelli privi di un titolo; miscellanei, quelli di vario contenuto. Se un codice manca di qualche foglio, dicesi mutilo, e, se i fogli mancanti sono i primi, acefalo. Le copie di un autografo o di manoscritti anteriori si dicono apografi; e archetipo è detto il codice più antico dal quale furono ricavate più copie e in tempi diversi, ma che è andato perduto.
Codice diplomatico. - Nome dato alle raccolte di carte pubbliche e private, tratte da archivî ecclesiastici e laici, e pubblicate per documentare la storia politica e giuridica, sociale ed economica di un determinato popolo, istituto laico o religioso, o di una determinata città, corporazione, o di determinati sovrani, stati, ecc. Tali il Codice diplomatico longobardo edito da Carlo Troya (1852-55) opera coraggiosa, che per quasi un secolo rese utili servizî agli studiosi, ma che verrà ora sostituita dall'omonimo codice in corso di pubblicazione per opera di L. Schiaparelli; il Codex diplomaticus Cavensis (1874-1893); il Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio (1918); il Codice diplomatico barese (1897 segg.); il Codice aragonese del Trinchera (1866-1874), e altri, che sarebbe troppo lungo enumerare.
V. tavv. CXXXIII e CXXXIV.
Bibl.: W. Wattenbach, Das Schriftwesen im Mittelalter, Lipsia 1896; Th. Birt, Das antike Buchwesen, Berlino 1882; V. Gardthausen, Griechische Paläographie, I: Das Buchwesen im Altertum und im byzantinischen Mittelalter, 2ª edizione, Lipsia 1911: K. Diziatzko, Ausgewählte Kapitel aus dem antiken Buchwesen, Lipsia 1900; E.M. Thompson, An Introductio to Greek and Latin Paleography, oxford 1912; V. Gardthausen, Handbuch der wissenschaftlichen Bibliothekskunde, I, Lipsia 1920; W. Schubart, Das Buch bei den Griechen und Römern, 2ª ed., Berlino 1921; Wünsch, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, coll. 159-60; E. Saglio, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiq. grecques et rom., I, p. 1266; G. Lafaye, ibid., III, pp. 1177-88; C. Paoli, Programma scolastico di paleografia latina e di diplomatica, II: Materie scrittorie e librarie, 3ª ed., Firenze 1923, pp. 1-16; M. Prou, Manuel de paléographie latine et française, 4ª ed., Parigi 1924, pp. 2-26; B. Bretholz, Lateinische Paläographie, 3ª ed., Lipsia e Berlino 1926, pp. 6-26. Vedi un copioso elenco di codici diplomatici per il Medioevo italiano in P. Egidi, La storia medievale, Roma 1922. (Guide bibliografiche della Fondazione Leonardo) nn. 120-153.
Storia della codificazione moderna.
Sarà utile avvertire che i codici, così come li intendiamo noi, sono, a cagione delle loro caratteristiche formali e sostanziali, un genuino prodotto, una esclusiva manifestazione, del nuovo viver sociale affermatosi dopo la Rivoluzione francese. Quella rivoluzione anzi donò al mondo il primo esempio di codice; onde in non piccola parte la storia della codificazione si confonde con la storia del codice civile francese. Se però la codificazione fu primamente attuata in Francia, l'opera ebbe dei precedenti anche in altri paesi.
Nei secoli che seguirono lo sfasciarsi della costruzione imperiale carolingica, e dopo che sulle macerie incominciarono a formarsi in Europa i nuovi stati che tengono il campo nel più recente Medioevo e nell'età moderna, si venne determinando in tutto l'Occidente cristiano una quasi uniforme situazione delle fonti del diritto, caratterizzata principalmente dalla molteplicità delle fonti stesse.
Aveva infatti vigore ovunque in primo luogo il diritto romano, a tutti comune, al quale s'aggiungevano quelle leggi degl'imperatori romano-germanici che erano state promanate durante il tempo della dominazione imperiale; accanto a esso aveva vigore il diritto canonico, disciplinante una massa cospicua di rapporti; in alcuni luoghi poi sussistevano gli avanzi, numerosi e tenaci, delle leggi dei barbari. A queste antiche legislazioni s'erano poi venute ad aggiungere le leggi, spesso numerosissime, degli stati nuovi, le leggi locali delle città e terre, le leggi particolari delle classi. S'aggiungeva ovunque infine, come fonte del diritto, la consuetudine, in taluni luoghi assai più importante del diritto scritto.
Un siffatto stato di cose rendeva sommamente difficoltosa l'attuazione del diritto, in quanto ai pratici riusciva difficile l'acquistarne conoscenza. Da questo stato di disagio sorse ben presto la tendenza a portare ordine e chiarificazione almeno in quelle fonti del diritto che rimanevano tuttavia disordinate. Non certo tali erano il diritto romano e il canonico, contenuti in quelle organiche compilazioni che sono il Corpus iuris civilis e il Corpus iuris canonici. Difettose, invece, sotto questo rispetto, si manifestavano altre fonti, e principalmente la consuetudine e le leggi degli stati nuovi. Là dove la consuetudine si manteneva allo stato diffuso e si tramandava soltanto oralmente, là dove le nuove leggi principesche s'erano fatte numerose, da un lato i pratici non potevano agevolmente e con sicurezza conoscere le norme consuetudinarie; dall'altro la folla delle leggi nuove, disordinate, spesso incongruenti e per di più normalmente sepolte negli archivî delle cancellerie ovvero dei tribunali, non poteva più essere agevolmente conosciuta e consultata da coloro che ne avevano necessità, principalmente gli avvocati e i giudici, e poi anche il popolo. Di qui la necessità di consolidare le consuetudini e le leggi principesche, ossia di redigere in iscritto le prime e di raccogliere in collezioni alla portata di tutti le seconde. È questo il compito cui si dedicano ben presto principi e privati giureconsulti, e che provoca il fiorire, iniziatosi fin dagli albori di questa età e proseguito ininterrottamente fino alla vigilia della Rivoluzione francese, di tutta una serie di compilazioni di consuetudini e di leggi principesche.
Esempî di consolidazioni di consuetudini non mancano in Italia dove si redigono in iscritto, in corpi più o meno organici, ad esempio, le consuetudini marittime e le consuetudini feudali; nacquero così i Libri feudorum, e le numerose compilazioni di diritto marittimo proprie del nostro paese. Pure in Spagna si attese a redigere in iscritto i fueros locali, in Portogallo le costumbres, in Francia le coutumes.
Nel contempo e successivamente si formano ovunque numerose compilazioni di leggi principesche, a opera di principi ovvero di privati. In Italia, fra quelle formate dalla pubblica autorità, si possono ricordare le Constitutiones Regni Siciliae di Federico II, il Liber constitutionum Sanctae matris Ecclesiae del cardinale Egidio Albornoz, i Decreta seu statuta di Amedeo VIII di Savoia, le Constitutiones Dominii Mediolanensis di Carlo V, le Costituzioni Piemontesi di Vittorio Amedeo II, ch'erano tutte raccolte di leggi antiche ordinate sistematicamente e cronologicamente. Moltissime poi furono le raccolte messe insieme da privati: se ne ebbero nell'Italia Meridionale, nello Stato della Chiesa, in Toscana, a Venezia, ecc. (v. compilationes antiquae). Del pari in Spagna si ebbero anche, assai per tempo, le celebratissime compilazioni di leggi di don Alfonso il Savio dette rispettivamente l'Especulo (1252) e le Partidas. Pure carattere esclusivo di sistemazione delle vecchie leggi principesche ebbe la Nueva recopilación, promulgata in Spagna da don Filippo II nel 1567. In Portogallo poi si fecero le tre successive compilazioni di leggi regie note sotto il nome di Ordenações Alfonsinas (1546), Ordenações Manuelinas (1574), Ordenações Filippinas (1603). Un passo più avanti, nei riguardi della tecnica di redazione delle consolidazioni di leggi principesche, fu fatto in Francia. Fin dalla seconda metà del 1500, nell'Editto di Blois, il re di Francia aveva promesso che "certains personages seroient commis pour recueillir et arrester les... ordonnances et reduire par ordre en un volume celles qui se trouveront utiles et necessaires". Il presidente Brisson ebbe infatti l'incarico di attendere all'opera, ed egli compilò il noto Code Henry III che però non ebbe mai sanzione regia. Agli stati generali del 1614, il terzo stato rinnovò il voto d'una consolidazione generale delle ordinanze e anche allora il voto fu accolto ed ebbe un principio di realizzazione nel Code Marillac del 1629. Sotto Luigi XIV il pensiero della consolidazione generale delle ordinanze fu accarezzato da due grandi spiriti: Colbert e Lamoignon. Il progetto di consolidazione delle ordinanze ideato dal Colbert, e accettato dal re, era vasto e organico, ma fu attuato solo in parte. Il Colbert riuscì soltanto a emettere l'ordinanza civile del 1667, quella sulle evocazioni (agosto 1669), quella dello stesso anno sulle acque e foreste, quella del 1670 sull'istruzione criminale, quella del 23 marzo 1673 sulle spese di giustizia, e infine la celebre ordinanza di commercio del marzo 1763. L'opera del Colbert fu continuata più tardi dal Daguesseau, il quale curò la pubblicazione dell'ordinanza sulle donazioni (febbraio 1731), di quella sui testamenti (agosto 1735), di quella sulle sostituzioni (agosto 1747) e del regolamento per il consiglio di stato pubblicato il 28 giugno 1738.
Queste compilazioni, che, com'è facile inferire dagli esempî sopra richiamati, incominciarono a essere formate assai per tempo, vennero man mano migliorandosi, quanto a struttura e a sostanza, traverso il tempo. Laddove infatti le prime erano soltanto raccolte, cronologiche o sistematiche, delle leggi antiche, le collezioni più recenti, oltre a essere più solidamente e armonicamente costruite, portavano norme nuove non contenute nella precedente legislazione. Tali caratteri si manifestano già palesemente in talune delle grandi ordinanze di Francia, e poi di nuovo in corpi di leggi emanati in altri paesi, come nelle costituzioni modenesi del 1771 e nel Landrecht prussiano del 1794. Sotto questo profilo, in quanto cioè costruite come corpi organici e in quanto recanti novità, codeste compilazioni costituivano in qualche modo un primo avviamento verso la codificazione, così come noi la intendiamo, e preludevano ai codici moderni. Tuttavia esse ne differivano ancora essenzialmente per il comportamento nei confronti delle altre fonti del dirìtto, principalmente del diritto comune, che esse lasciavano in pieno vigore, laddove i codici moderni lo abrogano del tutto.
Nonostante la pubblicazione delle suddette collezioni, sussisteva intatto, infatti, il principio della molteplicità delle fonti del diritto, con tutte le sue perniciose conseguenze, e con i disagi da esso recati alla pratica attuazione del diritto. Nelle molteplici fonti tuttavia in vigore, ognuno poteva quindi trovare argomenti e opinioni favorevoli o contrarî a qualunque tesi sostenesse, della quale perciò non si cercava il punto giuridico, ma le autorità che in un modo o nell'altro si riferivano a essa. Di ciò la conseguenza ultima ricadeva sull'amministrazione della giustizia, in quanto; nell'abbandono del puro criterio giuridico, nell'incertezza e quantità grande delle disposizioni legislative, nella discordia e contraddizione delle opinioni dei giureconsulti, si levava, benefico talvolta, spesso dannoso, pericoloso sempre, l'arbitrio illimitato del giudice.
In sostanza, dunque, il rimedio recato ai difetti della legislazione dalla consolidazione delle leggi principesche si manifestava soltanto parziale. Onde gli spiriti meglio chiaroveggemti si accinsero a ricercare la via che potesse condurre a un'integrale soluzione del problema legislativo. La via venne trovata ben presto e fu indicata nella consolidazione, non soltanto delle singole fonti del diritto, ma addirittura di tutto il diritto quale era stato emanato da varie parti. È agevole discernere per tempo i sintomi di questa tendenza, che si potrebbe dire integralista, così nelle opere dei giuristi e dei filosofi, come attraverso i voti dei parlamenti di varî stati europei. Già F. Hotman, arztore dell'Anti-Tribonian (1567), chiedeva che il re radunasse una commissione "composta di un certo numero di giureconsulti insieme ad alcuni uomini di stato e altrettanti avvocati e pratici, scelti tra i più ragguardevoli del regno; con l'incarico di estrarre sia dai libri di Giustiniano, sia dai libri di filosofia, sia infine dall'esperienza che avessero acquistata nel maneggio degli affari, il buono e il meglio". Simili desiderî manifestava anche in Italia il giureconsulto Nevizzano d'Asti, il quale, a un dipresso negli stessi tempi in cui Hotman scriveva, proponeva a Emanuele Filiberto l'intera riforma del Corpus iuris. La tendenza così manifestata da isolati giuristi doveva ben presto affermarsi anche nelle richieste dei corpi che erano legittimi interpreti dei desiderî delle popolazioni: nei parlamenti. E vi riuscì in primo luogo in quel paese nel quale la tendenza, mentre nasceva dalle necessità della pratica, era poi anche aiutata dal bisogno di unità legislativa, intesa come mezzo di coesione, e perciò di forza, dello stato: in Francia. In Francia, a Orléans, nel 1550, il terzo stato emetteva il seguente voto: "Le tiers voudroit qu'il fût fait recueil de ce qui devroit être dorenavant gardé et observé entre les sujez, retranchant le surplus, et que, par ce moyen, on coupât chemin à toute longueur et affluence des procés et malice des parties et des ministres de la justice". La stessa richiesta venne poi ripetuta dal terzo stato, e insieme dal clero, a Blois nel 1576. Il clero chiedeva che "tous les edits, ordonnances et coutumes soient reçus par certains savans, et experimentés personnages, qui seront à ce choisis et deputés, et, pour eviter la confusion de la multiplicité des lois, compileront un volume et cahier de celles qui se devront garder et qui se trouveront utiles et necessaires en ce royaume, afin d'abroger toutes les autres". Ma i desiderî manifestati dal terzo stato non furono accolti se non in parte: infatti, come si è detto, in Francia si procedette solo alla consolidazione delle ordinanze, non essendosi osato affrontare in pieno il problema legislativo. Né si osò in altri paesi. Onde Leibniz, sul principio del sec. XVIII, tornava a scrivere: "Fateor optandum esse, ut veterum corpus legum apud nos habeat vim non legis sed rationis, et ex illis, aliisque patrii etiam iuris monumentis usuque praesenti, sed in primis ex evidenti aequitate, novus quidam codex brevis clarus sufficiens auctoiitate publica concinnetur".
Ma la predicazione dei filosofi e i desiderî dei popoli sarebbero di certo rimasti ancora lungamente inesauditi, se non fosse nel frattempo intervenuto un movimento filosofico a reclamare l'attuazione d'una riforma ancora più radicale: il movimento derivato dalla scuola del diritto naturale. Essa andò ancora più in là, nei suoi desiderî, di quanto erano andati i giuristi e i pratici e coloro che si erano fatti loro interpreti. Questi chiedevano la consolidazione integrale del diritto, così come era derivato da varie fonti, in testi maneggevoli e alla portata universale. La scuola del diritto naturale invece, partendo dalle sue premesse filosofiche, reclamava lo stabilimento di tutto un nuovo sistema di diritto, divergente dall'antico, e che perciò avrebbe dovuto sostituirsi di sana pianta alla folla delle leggi antiche. Si arrivava, in una parola, alla soluzione del problema legislativo, ma per una via sostanzialmente e radicalmente nuova.
Sono note le premesse da cui partiva la scuola del diritto naturale. In rapida sintesi si possono riassumere così: l'uomo, originariamente, nello stato di natura, era soggetto di un numero determinato di diritti; a un certo punto però, per superare gli inconvenienti e i danni proprî dello stato di natura, si era fatto uomo civile e politico, aveva creato cioè lo stato, e per ottener ciò aveva dovuto abdicare ad alcuni dei suoi diritti in favore dello stato stesso. Ma in seguito lo stato aveva invaso la sfera dei diritti individuali, violando il patto originario di costituzione della società, in virtù del quale gli uomini avevano consentito a sacrificare soltanto quei diritti che erano incompatibili con la sussistenza dello stato. Era tuttavia desiderabile che la sfera dei diritti dello stato fosse ricondotta alla primitiva estensione. A ottenere ciò era necessaria, secondo gl'insegnamenti della scuola, una duplice opera, e cioè la proclamazione di nuovi statuti e la codificazione civile: nei primi si sarebbero precisati i diritti dello stato, nella seconda i diritti degl'individui.
La scuola di diritto naturale chiedeva dunque lo stabilimento d'un sistema di diritto del tutto nuovo, il che avrebbe importato la promulgazione di tavole della legge necessariamente diverse da quelle fin'allora in vigore. È evidente che con ciò si sarebbe praticata una riforma legislativa addirittura radicale; si sarebbe infatti modificata dalle fondamenta la sostanza delle leggi e, a un tempo, raggiunta l'unificazione legislativa. La scuola filosofica sopravanzava dunque alquanto le aspirazioni dei pratici, i quali si contentavano di chiedere l'unificazione, o consolidazione, del diritto vecchio: essa ne chiedeva senz'altro la sostituzione.
I due movimenti, pratico e filosofico, portarono in definitiva alla formazione dei codici moderni, che pertanto devono a entrambi i movimenti, in parti, si può dire, uguali, il loro sorgere: come è denunciato dalle loro caratteristiche sostanziali e formali. Tuttavia nello stadio d'incubazione dei codici, al tempo della rivoluzione, s'ebbe in un primo tempo una decisa prevalenza della tendenza affermata dalla scuola del diritto naturale; e fu solo in un secondo tempo, che, pur ritenendosi in parte i principî e le direttive della scuola giusnaturalistica, si ripiegò alquanto sulle aspirazioni dei pratici, più modeste, ma più aderenti alla realtà e alle necessità sociali.
È interessante e importante, ai nostri fini, lo studio delle vicende dei lavori preparatorî dei codici francesi, appunto perché fu attraverso quelle vicende che si fissarono le caratteristiche formali e sostanziali dei codici in genere. I primi progetti di codice sono perfettamente aderenti alle teorie del diritto naturale. Si desidera riformare dalle fondamenta tutta la legislazione, si desidera creare tutto un sistema di leggi che riaffermi i diritti primigenî dell'uomo. Si deve dunque dare agli uomini un corpo di leggi sostanzialmente nuovo. È il compito al quale la rivoluzione si accinge per tempo. Già nell'aprile 1790 Sieyès inseriva nel suo progetto di legge sull'istituzione del giurì questa disposizione: "Les législateurs s'occuperont de donner aux Français un nouveau code uniforme de législation et une nouvelle procédure, réduits, l'un et l'autre, à leur plus parfaite simplicité". Il 2 settembre 1791 l'assemblea costituente decretava all'unanimità questa risoluzione, che prese posto negli articoli costituzionali: "Il sera fait un code de lois civiles commun à tout le royaume".
Già qui e più ancora successivamente, si viene affermando una delle caratteristiche del codice moderno: il quale, come si è già rilevato, contempla in linea normale esclusivamente un ramo del diritto. La caratteristica si fissa per la prima volta al tempo della rivoluzione. Ed era logico e quasi necessario che avvenisse così. La rivoluzione si accingeva a dare al mondo tutto un sistema di leggi nuove, e dunque un corpo vastissimo di legislazione; ma questo corpo, per necessità logiche e pratiche di redazione, e in vista della ulteriore facilità di consultazione, doveva esser diviso in parti; all'uopo si adottano le partizioni che la scienza giuridica era venuta stabilendo già nei secoli andati. Perciò si redigerà un codice civile, uno di procedura civile, uno di leggi penali, uno di procedura penale, e uno di commercio. Naturalmente la partizione del sistema non sorge d'un tratto, né viene enunciata in via programmatica: ma ci si arriva per gradi, e forse, in parte, inconsciamente.
Si comincia a redigere il codice civile. Il primo progetto è opera del Cambacérès. Naturalmente esso è l'espressione più genuina di quel diritto naturale le cui teorie avevano permeato tutti gli spiriti colti. A dimostrazione basta leggere la relazione presentata dal Cambacérès alla Convenzione il 9 agosto 1793 sul suo primo progetto. Ne traspare che si tratta di un'opera assolutamente nuova, destinata a instaurare, nell'ordine civile, ciò che la costituzione del 24 giugno 1793 aveva compiuto nell'ordine politico. Sono la voce della natura e quella della ragione che si fanno intendere; si è compiuta l'impresa "de tout changer à la fois dans les écoles, dans les mœurs, dans les coutumes, dans les esprits, dans les lois d'un grand peuple". Tuttavia la Convenzione trovn̄ questo primo progetto troppo complicato, lungo e "giuridico". Il Comitato di legislazione si rimise al lavoro e il 23 fruttidoro anno II, Cambacḫręs, in suo nome, presentn̄ un secondo progetto in 297 articoli. Questo era ancora "le Code de la nature, sanctionnḫ par la raison et garanti par la libertḫ". Come dirމ pił tardi il suo principale autore davanti al Consiglio dei cinquecento "le comitḫ de Constitution s'ḫtait attachḫ singulięrement" sḫparer les principes des dḫveloppements, les ręgles des corollaires, et މ reduire l'ouvrage މ un recueil de prḫceptes oł chacun pût trouver les règles de sa conduite dans la vie civile". Difatti il progetto era piuttosto un manuale di morale che un codice di diritto civile. L'opera non giunse in porto, ma fu il tentativo più netto della rivoluzione per realizzare i suoi primi propositi.
A un dipresso negli stessi tempi si redigevano i primi progetti di codice penale e di procedura penale. Nei primi anni della rivoluzione si erano avute parecchie leggi criminali, informate ai principî d'uguaglianza e di libertà, che abbattevano l'antico sistema penale; altre che avevano introdotto il metodo accusatorio, il sistema del giurì, la libertà di difesa e la pubblicità dei dibattimenti, avevano innovato profondamente l'antico procedimento, che si atteneva al sistema inquisitorio. Applicando codesti principî si addivenne alla codificazione della materia penale. E si formò un progetto, intitolato Code des dálits et des peines, del 3 brumaio anno IV (24 ottobre 1795), che presentava tutte le caratteristiche concettuali dei primi progetti di codice civile, in quanto era un corpo di norme sostanzialmente nuove, informate ai principî rivoluzionarî.
Pure nel campo del processo civile la rivoluzione tentò una riforma radicale. La riforma fu decretata il 24 agosto 1790 dall'assemblea costituente e fu iniziata con l'abbreviare i termini d'appello e con l'introdurre l'obbligo della motivazione delle sentenze (decreto 26 ottobre 1790). La convenzione spinse la riforma agli estremi riducendo al minimo le formalità giudiziali ed escludendo dalle liti gli avvocati (3 brumaio anno II; 24 ottobre 1793).
La redazione dei progetti ricordati e la pubblicazione delle leggi mentovate costituì il tentativo più netto della rivoluzione per realizzare il suo primo pensiero. Tuttavia codesti progetti, che attuavano in modo veramente integrale le aspirazioni della rivoluzione, non furono approvati. Le ragioni non sono difficili a stabilirsi: quei progetti erano troppo astratti dalla vita pratica e rompevano troppo nettamente con la vecchia tradizione giuridica, perché potessero diventare leggi del popolo francese. Gli uomini della rivoluzione ebbero il merito di comprendere ciò e rifiutarono la loro approvazione; onde si addivenne alla redazione di una nuova serie di progetti, nei quali, a mano a mano, si abbandonò la pretesa di fare delle leggi del tutto nuove, e si ripiegò sulla tradizione giuridica nazionale, facendo tesoro dei suoi insegnamenti.
Al massimo dimostrativa, sotto questo profilo, riesce la storia degli ulteriori lavori preparatorî del codice civile. Quando la convenzione ebbe compiuti i suoi destini, e davanti al potere legislativo, che le era successo, l'elaborazione del codice ebbe ripreso il suo corso, fu ancora Cambacérès che portò il nuovo progetto avanti al Consiglio dei cinquecento, in messidoro anno IV. Ma ne era mutato lo spirito. Senza dubbio era ancora la natura e il diritto naturale che figuravano al primo piano (nella relazione di Cambacérès abbondano i richiami alla natura, come questo: "les lois civiles sont toujours fidèles aux préceptes de la nature"), ma si riconosce ora che "la meilleure législation est celle qui favorise l'interêt général de la société et le progrès de la morale publique". Ciò che segna soprattutto il mutamento d'indirizzo, la ripresa della tradizione momentaneamente interrotta, sono i numerosi richiami al diritto romano e alla giurisprudenza francese. Non è più soltanto l'autorità di Montesquieu che è invocata per giustificare le leggi successorie della Convenzione, è anche quella di Pothier. Si riprende espressamente la tradizione interrotta; ci si ricongiunge formalmente al diritto antico per migliorarlo e perfezionarlo. Al progetto Cambacérès segue il progetto incompleto di Jacqueminot che è un nuovo passo su questa via. Si arriva infine all'ultimo progetto, quello presentato dalla commissione nominata dai consoli il 24 termidoro anno VIII, quello che doveva essere discusso dal consiglio di stato e dal tribunale e votato dal corpo legislativo. Il Discours préliminaire di quel progetto, firmato da Portalis, Tronchet, Bigot-Préameneau e Malleville, mostra come questi veterani della rivoluzione avessero abbandonato le idee chimeriche dei primi giorni. In esso si riabilitano la scienza del diritto, i lavori della dottrina, le collezioni di giurisprudenza, le raccolte di sentenze e i giuristi di professione. In effetto la loro opera risultò in definitiva un abile compromesso fra l'antico patrimonio legislativo francese e le nuove idee bandite dalla rivoluzione. Il codice civile, in una parola, era la concretazione dei principî rivoluzionarî sulla base del diritto francese antico.
Vicende non diverse da quelle della redazione del codice civile ebbe la redazione del codice penale Il primo progetto di esso, quello formato nel '95, non fu approvato. In seguito l'opera fu ripresa, ma nei nuovi progetti non si trascurò di far tesoro degl'insegnamenti dell'antica legislazione. Dopo varie vicende l'ultima mano alla codificazione della materia penale fu data dal governo consolare. Una commissione di cinque giureconsulti fu incaricata di riordinare la legislazione penale compilando il codice penale e quello di procedura penale. Essa compì il lavoro nell'anno 1804, formando un progetto di codice penale e un progetto di codice di procedura o Code d'instruction criminelle.
Vicende analoghe a quelle degli altri codici soprannominati si ripeterono per il codice di procedura civile. Abbiamo veduto quanto radicali fossero le riforme processuali introdotte dalla Costituente e dalla Convenzione, che avevano quasi soppresso ogni formalità processuale e finanche esclusi dalle liti gli avvocati. Ma in seguito s'ebbe un ritorno sulle vecchie posizioni giuridiche. Già in un progetto del 1797, redatto a opera della Commissione di classificazione delle leggi, ma non mai discusso per l'incalzare degli avvenimenti politici, si erano abbandonate alcune delle disposizioni rivoluzionarie. La legge del 27 ventoso VIII (18 marzo 1800) ristabilì poi gli avvocati, e un'ordinanza consolare del 18 fruttidoro dello stesso anno rese alla legislazione prerivoluzionaria l'omaggio più palese richiamando in vigore l'ordinanza processuale del 1667. Più tardi, nel 1803, per ordine del governo consolare, fu formato un nuovo progetto di codice di procedura civile, che non era in sostanza che una riproduzione dell'ordinanza del 1667 (e di altre anteriori e posteriori) migliorata però e messa in armonia con i principî rivoluzionarî quanto era necessario.
Carattere più integrale di riproduzione dell'antica legislazione ebbe invece il progetto del codice di commercio, formato quando già le nuove direttive più benevole nei riguardi dell'antica legislazione si erano affermate; esso attingeva alle ordinanze di Colbert del 1673 sul commercio terrestre e del 1681 sul commercio marittimo, nonché alle nuove leggi e decreti del periodo rivoluzionario. Questa, per sommi capi, la storia dei codici nati dalla Rivoluzione francese che in essi attuò il suo programma legislativo, e che con essi creò un sistema di diritto che ha pregi di novità sostanziali e formali.
Compiuta la rivoluzione sociale con la distruzione del privilegio, si trattava di applicare l'uguaglianza civile a tutti i fatti della vita sociale, di realizzare cioè tutte le conseguenze dei nuovi principî che la rivoluzione aveva fatto trionfare. Ciò fu attuato con la formazione dei nuovi codici, i quali pertanto presentarono un sistema di diritto nuovo. Sistema che, appunto perciò, voleva essere considerato come divergente e quasi antitetico al precedente sistema del diritto comune; onde, nel momento stesso in cui trionfò, gli si venne compiutamente a sostituire. Già l'art. 7 della legge 30 ventoso anno XII di promulgazione del codice civile dei Francesi dichiarava: "A compter du jour ou ceslois seront exécutoires, les lois romaines, les ordonnances, les coutumes générales ou locales, les règlements cessent d'avoir force de loi générale ou particulière dans les matières qui sont l'objet des dites lois composant le présent Code". Un tale atteggiamento nei confronti del diritto comune, conservato sempre in seguito da tutti i codici, è caratteristico dei codici stessi, e diversifica essenzialmente dall'atteggiamento tenuto dalle consolidazioni formatesi prima della rivoluzione, le quali col diritto comune cercavano ancora una conciliazione.
È vero che i codici nuovi avevano attinto largamente ai vecchi testi della legge francese. Pur tuttavia le norme antiche accolte nel codice erano state regolarmente animate da uno spirito nuovo, e, all'occorrenza, piegate a un significato diverso dall'antico, meglio consono ai principî rivoluzionarî; e, d'altra parte, quelle norme, pur rannodandosi a fonti diverse, avevano perduto nel codice la loro individualità ed erano divenute semplici elementi di una legge unica e nuova. onde si può affermare che i codici costituiscono opera originale. In sostanza il passato, per i codici, era soltanto la piattaforma dalla quale il legislatore si lanciava in nuovi, e spesso magnifici, voli. Si affermò così fin dal principio una delle caratteristiche fondamentali dei codici moderni, i quali non sono, come erano state le consolidazioni, pure raccolte di leggi antiche, ma pretendono di essere elaborazioni nuove, le cui norme, lungi dall'essere tratte esclusivamente dall'antica tradizione giuridica, sono ispirate a criterî varî, presenti alla mente del legislatore, come l'equità, la ragione, la considerazione dei bisogni sociali, la previsione delle future necessità dei popoli, l'illuminata visione dei fini e delle mete verso cui si vuole indirizzare la nazione.
Formalmente la nuova legislazione aveva pregi indiscutibili e nuovi. Essa era anzitutto contenuta in cinque maneggevoli corpi di leggi, corrispondenti alle grandi partizioni del diritto che la scienza era venuta indicando nelle età andate, e suddivisi in una gerarchia di libri, titoli, paragrafi, contenenti una serie di disposizioni elementari e dotate ognuna di una propria individualità. La destinazione esclusiva di ogni codice al regolamento di un ramo determinato del diritto era anch'essa una novità; nelle consolidazioni di cui si è discorso prima si trovavano infatti accolte norme pertinenti ai più diversi rami del diritto. E questa novità è altra caratteristica saliente dei codici moderni, che di norma disciplinano soltanto una branca del giure. Pur dal punto di vista formale così l'architettura dei codici, come la concisione e chiarezza del loro linguaggio, costituivano un miglioramento essenziale dal precedente stato di cose. Ciò si dovette in gran parte al fatto che la codificazione francese era una codificazione da lungo tempo preparata e fatta per opera di un popolo che aveva l'abitudine e il senso della legge scritta e aveva appreso per pratica l'arte della codificazione attraverso le numerose consolidazioni di consuetudini e di ordinanze.
Il codice civile francese fu pubblicato il 21 marzo 1804; il codice di procedura civile, approvato dal corpo legislativo del 1806, andò in vigore col 1° gennaio 1807; il codice penale, promulgato nel 1810, e il codice di procedura penale, promulgato nel 1809, andarono entrambi in vigore il 1° gennaio 1811; il codice di commercio, approvato nel 1807, andò in vigore il 1° gennaio 1808. I codici furono anche estesi a tutti i paesi in cui, direttamente o indirettamente, dominava la Francia; Belgio, Olanda, paesi alla sinistra del Reno, ecc. Furono intiodotti quindi anche in Italia (v. appresso) dove pure, dopo la venuta dei Francesi, s'erano avuti dei tentativi di codici nazionali. Così nel regno italico ebbero vigore, in traduzione italiana: il codice civile, dal 5 giugno 1805, il codice di procedura civile, dal 1° ottobre 1806, il codice di commercio, dal 1° settembre 1808, il codice penale, dal 1° gennaio 1811. S'ebbe qui pertanto un originale codice di procedura penale, promulgato l'8 settembre 1807, il quale però, pur non essendo una semplice traduzione dell'analogo codice francese, era in gran parte informato ai suoi principî. Del pari tutti i codici francesi vennero introdotti nel principato di Lucca. Il codice civile fu in vigore dal 1° maggio 1806; con decreti del 30 giugno 1808 e del 14 luglio dello stesso anno furono promulgati il codice di procedura civile e di commercio; il codice penale entrò in vigore nel gennaio 1811 e il codice d'istruzione criminale il 28 luglio 1813. Similmente infine nel regno di Napoli fu promulgato il 22 ottobre 1808 il codice civile; col 1° gennaio 1809 entrò in vigore il codice di commercio, e il 1° aprile dello stesso anno il codice di procedura civile; più tardi, nell'ottobre del 1812, si ricevette il codice penale francese. Solo rimase da parte anche qui il codice di procedura penale, essendo rimaste in vigore le leggi processuali criminali del 20 e 22 maggio 1808, formate per ordine di Giuseppe Bonaparte.
Abbiamo detto che con i cinque codici francesi si iniziò il sistema del diritto codificato, che nel corso del secolo passato doveva trionfare in gran parte del mondo. Ciò però non poté avvenire senza che, sul principio stesso del secolo scorso, si manifestasse una corrente d'opposizione alla codificazione, che intendeva in particolar modo combattere la codificazione delle leggi civili. Fu una corrente dottrinaria, inspirata alle idee della cosiddetta scuola storica del diritto, sorta in Germania in opposizione alla scuola del diritto naturale. In Germania, subito dopo la caduta dell'impero napoleonico, il sentimento unitario nazionale, fattosi più vivo per reazione alla pressione sofferta, aveva cercato di affermarsi anche nel campo del diritto, col reclamare un codice generale per tutta la nazione. Di tale idea si fece caloroso sostenitore Antonio Federico Thibaud, che nel 1814 pubblicò a Heidelberg il noto opuscolo: Sulla necessità di un diritto civile comune in Germania. Alle richieste del Thibaud si oppose la scuola storica, che rispose per bocca del suo fondatore, Federico di Savigny. Questi, pure nel 1814, pubblicò un opuscolo, intitolato La vocazione del nostro secolo per la legislazione e la giurisprudenza, nel quale con l'appoggio dei principî sostenuti dalla scuola storica relativamente alla evoluzione del diritto, combatteva a oltranza gli argomenti dei fautori della codificazione, e cercava di dimostrare che questa non era utile, né, in quel tempo, possibile. Egli affermava che lo svolgimento del diritto è determinato da ragioni storiche, e cioè che esso si evolve in correlazione dello svolgersi del viver sociale. Perciò il racchiuderlo in un codice produce il pernicioso effetto di arrestare, o almeno di rallentare, questo naturale svolgimento progressivo, impedendo ch'esso possa variamente atteggiarsi secondo l'impulso delle condizioni di fatto. D'altra parte, siccome, secondo affermava il Savigny, non si può del tutto impedire questo movimento, ne consegue che, dopo che si è proceduto alla codificazione il diritto codificato a un certo momento cessa di corrispondere alla realtà del diritto stesso, perché questo, nonostante il codice, ha continuato a progredire, e il primo non è che la rappresentazione di esso quale compariva in un momento storico determinato. Nemmeno, aggiungeva il Savigny, il diritto codificato giova all'interesse della giustizia, poiché esso pone dinnanzi al magistrato un sistema di diritto rigido, ma nel tempo stesso necessariamente incompleto, onde ricadono sotto l'arbitrio del giudice tutti i casi imprevisti.
La polemica continuò in Germania dopo la pubblicazione dell'opuscolo del Savigny, ed ebbe anche un'eco in Italia, dove lo Sclopis riprese la discussione in uno scritto intitolato come quello del Savigny. Lo scopo dell'italiano era però diverso, perché l'autore ribatteva le obiezioni mosse dal Savigny alla codificazione.
Evidentemente, se le affermazioni del Savigny erano in parte vere, in quanto è certo che la formazione del codice corrisponde a un momento d'arresto dello svolgimento del diritto, d'altra parte il Savigny tralasciava di considerare quelle che erano le più profonde cagioni prime della formazione dei codici: i quali, nell'intento dei loro redattori, erano principalmente destinati a bandire un verbo nuovo, onde erano quasi necessarî al loro nascere. Di più il Savigny perdeva di vista i vantaggi indiscutibili della codificazione, consistenti soprattutto nella semplificazione del diritto, che riesce sommamente benefica per la pratica attuazione del diritto stesso. E ancora è certo che la codificazione, lungi dall'arrestare l'evoluzione del diritto, offre al contrario la possibilità di uno svolgimento nuovo, in grazia del movimento d'idee che essa necessariamente suscita; la giurisprudenza, lungi dall'essere arrestata nelle sue conquiste dalla formazione del codice, non tralascia di volgersi verso vie nuove. di affermare nuovi principî di diritto, di contribuire potentemente, in una parola, all'ulteriore evoluzione giuridica. D'altra parte, quale che fosse la fondatezza delle ragioni addotte dalla scuola storica contro la codificazione, il sistema del diritto codificato finì con l'affermarsi ovunque. Onde la storia della codificazione nel secolo passato si riassume in una serie di vittorie del principio codificativo, che conquista successivamente i paesi più diversi e più lontani.
In Italia, dopo la Restaurazione, tutti i principi, dopo avere in un primo tempo richiamato in vigore quasi ovunque la legislazione prerivoluzionaria, diedero opera alla formazione di codici. L'opera procedette sempre, o quasi sempre, secondo le direttive additate dalla Francia; e non di rado anche la sostanza dei nuovi codici fu desunta dai codici francesi. Nel regno di Napoli Ferdinando I, con suo decreto del 2 agosto 1815, ordinò la formazione di nuovi codici; all'uopo nominò una commissione di magistrati e funzionarî, che condusse rapidamente in porto i lavori. Onde con legge del 26 marzo 1819 fu promulgato il Codice per lo Regno delle due Sicilie, diviso in cinque parti (relative alle leggi civili, penali, processuali civili, processuali penali e commerciali) da entrare in vigore col 30 settembre dello stesso anno. Alla codificazione napoletana seguì quella parmense. Una commissione nominata fin dal 1815 attese a un tale compito, e lo condusse a termine con rapidità. Dopo alcune revisioni il codice civile fu promulgato il 10 aprile 1820 per entrare in vigore il 1° luglio successivo. Nell'anno stesso tennero dietro il codice di procedura civile sanzionato il 6 giugno con osservanza pure dal 1° luglio, e i codici criminale militare, penale comune e di procedura penale, sanzionati rispettivamente il 12 giugno 5 novembre e 13 dicembre con osservanza il primo dal 1° settembre '20, e i due ultimi dal 1° gennaio '21. Non si ebbe invece un codice di commercio, perché alla commissione legislativa non parve necessario, avuto riguardo alle condizioni proprie del ducato.
In Piemonte la codificazione tardò ad attuarsi fino all'assunzione al trono di Carlo Alberto, e l'attuazione fu merito di questo principe, che, coadiuvato da sagge commissioni, riuscì a condurre in porto l'opera da lungo tempo reclamata dal popolo piemontese Il codice civile fu promulgato il 20 giugno 1837, con osservanza dal 1° gennaio '38. Nei 10 anni successivi la codificazione albertina proseguì col codice penale, promulgato il 26 ottobre 1839, in vigore dal 15 gennaio '40, col codice di leggi penali militari del 28 giugno '40 in osservanza dal 10 gennaio '41, col codice di commercio del 30 dicembre '42, in osservanza dal 1° luglio '43, e si chiuse col codice di procedura criminale del 30 ottobre '47, in vigore dal 1° maggio '48. Mancava a compimento del disegno di Carlo Alberto il solo codice di procedura civile che per altro venne promulgato con legge 16 luglio '54, in esecuzione dal 1° aprile anno successivo, dal suo successore Vittorio Emanuele II. Con questo codice si chiuse il primo periodo della codificazione piemontese. Un secondo periodo si aprì subito dopo, determinato dagli avvenimenti politici che incalzavano. L'annessione della regione lombarda agli Stati Sardi non fu l'unico risultato della guerra liberatrice del '59: altre annessioni si preparavano per volontà di popoli. Codesta prospettiva indusse il legislatore a una revisione quasi generale dei codici sardi, eccetto quelli di diritto privato, al fine di migliorarli per facilitarne l'accoglimento da parte delle popolazioni delle provincie di nuova annessione. Così, in forza dei pieni poteri conferiti al capo dello stato, si ebbe prima il nuovo codice penale militare del 1° ottobre 1859, con osservanza dal 1° gennaio '60, e poi vennero a un tempo il codice penale comune, e quelli di procedura penale e di procedura civile, tutti promulgati il 20 novembre '59, con osservanza dal 1° maggio '60. Questo secondo periodo della codificazione piemontese ha carattere di codificazione preparatoria di quella futura dell'Italia riunita, e quindi in certa guisa provvisoria.
Nel ducato di Modena, attese all'opera di codificazione Francesco V, che regnò verso la metà del secolo. Egli il 25 ottobre '51 promulgò il codice civile per gli Stati Estensi, con osservanza dal 1° gennaio '52; il codice di procedura civile, promulgato il 14 giugno '52 entrò in vigore il 1° novembre, e quelli criminale e di procedura criminale, promulgati il 14 dicembre '55, divennero esecutivi il 1° maggio dell'anno successivo. Il codice di commercio fu promulgato il 3 marzo '59, con osservanza dal 1° agosto; ma la promulgazione fu puramente formale, perché prima di un tal giorno la rivoluzione aveva abbattuto il trono estense. Anche in Toscana, appena avvenuta la restaurazione di Ferdinando III, si volse l'animo a dotare il paese di codici. Fu all'uopo nominata una commissione con decreto del 9 luglio 1814. Essa deliberò che della legislazione francese si dovessero ritenere il codice di commercio, il sistema ipotecario, le disposizioni intorno alle prove testimoniali; confermò l'abolizione della feudalità e degli statuti municipali e lo svincolo dei fedecommessi, mentre per il resto fu stabilito dalla legge del 13 novembre 1814 che dovessero tornare in vigore le leggi anteriori al dominio francese, promettendogli però che la compilazione dei codici avrebbe in breve provveduto a unificare e semplificare la legislazione. Presentandosi però questo lavoro di non rapida esecuzione, seguirono frattanto alcuni provvedimenti speciali; indi un decreto del 31 maggio 1847 tornò a riconoscere la necessità della compilazione dei codici, e nominò due commissioni, l'una per il codice civile, l'altra per il penale. Quello civile non fu portato a compimento, e la Toscana non ne ha avuto mai uno che fosse completo; il codice penale invece fu pubblicato nel 1853 e riuscì uno dei migliori che l'Italia abbia avuto allora.
Nello Stato pontificio s'ebbe, subito dopo la restaurazione, un periodo di violenta reazione contro le leggi francesi, che furono in massima parte tolte di seggio. Ma la reazione durò poco; già col famoso motu proprio del 6 luglio 1816 Pio VII riprendeva il cammino delle riforme, e anzi enunciava un vero programma di generale codificazione, deputando all'uopo tre commissioni, la prima per la formazione del codice civile e di procedura civile, la seconda per i due codici criminali, la terza per il codice di commercio. Sennonché questo vasto disegno non fu potuto attuare che in piccola parte durante il regno di Pio VII. Il solo codice di procedura civile venne da lui promulgato il 22 novembre 1817. Qualche anno dopo, con l'editto del 1° giugno '21, fu promulgato un codice di commercio che era quasi una traduzione del francese, sotto il titolo di Regolamento provvisorio di commercio. Gregorio XIV dette il maggiore impulso all'opera di codificazione nello Stato pontificio. Infatti egli promanò i regolamenti di procedura nei giudizî civili (31 ottobre '31) e di procedura criminale (5 novembre '31), il codice o regolamento sui delitti e sulle pene (20 settembre '32), e il regolamento legislativo giudiziario per gli affari civili del 10 novembre '34. Parecchi anni dopo emise il Regolamento di giustizia criminale e disciplinare militare, approvato con editto del cardinale Lambruschini, che è un codice penale militare con la relativa procedura.
Nel nuovo regno Lombardo-Veneto fu pubblicato nel 1815, con osservanza dal 1° gennaio 1816, il codice civile austriaco del 1811. Anche il codice penale austriaco, che al di là delle Alpi era in vigore fin dal 1804, fu introdotto nel Lombardo-Veneto dal 1° novembre 1815; esso durò fino al 1852, nel quale anno fu pubblicato con patente del 27 maggio un nuovo codice penale; il 29 luglio '53, fu pubblicato poi il Regolamento di procedura penale.
In questo modo, quando i varî stati d'Italia vennero a incorporarsi nell'unità nazionale, avevano tutti, più o meno compiutamente, ottenuto la riforma della legislazione mediante i codici. Ma come la divisione politica, così doveva scomparire anche quella del diritto. E a ciò gl'Italiani si accinsero per tempo. Precede al movimento legislativo unitario una breve fase preparatoria, che è rappresentata dall'autonomia di quegli stati, che, cacciati gli antichi principi, si ressero per qualche tempo con governi provvisorî, sotto l'alta vigilanza o protettorato di Vittorio Emanuele II. In questo periodo essi vennero stringendo il legame legislativo con lo stato subalpino mediante l'introduzione nella più parte di essi dei codici piemontesi. Indi, dalla data della proclamazione del nuovo regno d'Italia - 17 marzo 1861 - prende le mosse un movimento legislativo essenzialmente unitario. Già prima di quella data si erano formati in Piemonte i primi progetti d'un nuovo codice civile, da sostituirsi al codice albertino; attraverso cinque anni di assidui studî preparatorî si poté venire all'approvazione d'un progetto definitivo. Nel contempo si era data opera alla formazione e revisione di un progetto di codice di procedura civile, di un progetto di codice di commercio e di marina mercantile, e di un progetto di codice di procedura penale. Finalmente, con l'anno 1865, si poté cogliere il passo decisivo verso l'unificazione legislativa sotto forma di codificazione italiana. Infatti, con la legge del 2 aprile di quell'anno, il governo venne autorizzato a promulgare in tutte le provincie costituenti allora il regno d'Italia il codice civile, di procedura civile, di commercio e di marina mercantile, ai quali seguì poco dopo quello di procedura penale. Per il codice penale si era già provveduto anteriormente. In tal modo, col 1° gennaio 1866, l'unificazione dei codici nella materia civile, commerciale e penale era effettuata in tutto il regno, con la sola eccezione che alla Toscana non venne esteso il codice penale piemontese. I nuovi codici, se risentivano un poco della fretta con cui a cagione delle necessità politiche erano stati compilati, costituivano un indubbio progresso sul precedente stato di cose. Anche a prescindere dai benefici da essi arrecati col cementare l'unità d'Italia mediante l'unificazione legislativa, essi erano sostanzialmente leggi buone, in quanto, invece di essere ricalcati sui codici francesi, come i più dei precedenti codici piemontesi, non trascuravano di accogliere norme tratte dalle patrie tradizioni legislative, e soprattutto dai migliori fra i codici che erano stati formati in Italia dopo la restaurazione.
A rendere però ancora non del tutto completa l'unificazione legislativa rimanevano la vigenza in Toscana dell'antico codice penale toscano, che si era mantenuto perché migliore di quello sardo, e la vigenza nelle provincie venete dell'antica legislazione mercantile austriaca, pure manifestazione superiore, in complesso, alla nostra. Onde ben presto si sentì il bisogno di unificare anche quei rami del giure. A ciò si provvide con la formazione di nuovi codici commerciale e penale, che, ripetutamente esaminati e discussi, furono poi promanati come leggi: per tutto il regno, il primo con vigore dal 1° gennaio '83, il secondo dal 1° gennaio del '90. Ultimo lavoro di codificazione, fattosi ancora in seguito, fu il nuovo codice di procedura penale, codice non nuovo in senso proprio, ma piuttosto rifacimento di quello del '65. Esso divenne esecutivo col 1° gennaio 1914.
Mentre in Italia si redigevano i codici sopra ricordati, un gran numero di altri stati, europei e americani principalmente, adottavano il sistema del diritto codificato e provvedevano alla formazione di codici nazionali. Il sistema nel suo complesso fu sempre aderente al sistema francese, onde ogni paese ebbe un codice civile, un codice di procedura civile, un codice di commercio, un codice penale e un codice di procedura penale. E spesso anche il contenuto dei nuovi codici fu desunto dai codici francesi. Vi fu però qualche paese che volle atteggiarsi a indipendenza, e cercò di formare dei codici originali: così l'Austria, che del resto vantava tradizioni codificative anteriori alla Rivoluzione francese, così la Germania paese nel quale la codificazione trionfò completamente soltanto in tempi relativamente recenti. Tuttavia anche su codeste codificazioni indipendenti, influì, in misura più o meno larga, la codificazione francese: perciò anche questi codici si ricongiungono, non soltanto concettualmente ma anche sostanzialmente, ai codici francesi.
Ebbero un codice civile proprio l'Austria dal 1812 (gli anni che si segnaleranno indicano la data della vigenza del codice), Haiti dal 1826, l'Olanda dal 1838, le Isole Ionie dal 1841, la Serbia dal 1844, la Bolivia dal 1845, il Perù dal 1852, il Chile dal 1857, la Romania dal 1865, la Sassonia dal 1865, il Basso Canada dal 1866, il Portogallo dal 1867, la Turchia dal 1869, il Messico dal 1871, l'Uruguay dal 1869, l'Argentina dal 1871, la California dal 1872, il Venezuela dal 1873, la Colombia dal 1873, l'Egitto dal 1875, il Dakota dal 1877, il Guatemala dal 1877, il Salvador dal 1880, l'Honduras dal 1880, Monaco dal 1885, la Costarica dal 1888, il Montenegro dal 1888, la Spagna dal 1889, il Giappone dal 1896, la Germania dal 1900. I varî cantoni svizzeri ebbero del pari ognuno il proprio codice civile.
Non meno numerosi furono i codici di commercio. A titolo esemplificativo si possono elencare quelli dell'Olanda del 1826 (data di vigenza), della Spagna del 1892, del Messico del 1829, del Portogallo del 1833, della Russia del 1835, della Grecia del 1835, della Turchia del 1850, dell'Argentina del 1858, della Serbia del 1860, del Chile del 1865, dell'Ungheria del 1865, della Romania del 1887, del Giappone del 1893. La Germania, dopo la formazione dell'unione doganale, diede opera a formare un codice di commercio, che, terminato nel 1861, fu successivamente introdotto in tutti i varî stati. L'Impero germanico si diede un nuovo codice commerciale che andò in vigore il 1° gennaio 1900. La legislazione commerciale tedesca, notevolmente difforme dalla francese, esercitò un notevole influsso su molte delle legislazioni straniere venute dopo di essa.
Codici penali andarono in vigore in Grecia nel 1834, in Austria nel 1852, in Norvegia nel 1842, in Turchia nel 1858, in Serbia nel 1860, in Romania nel 1864, in Svezia nel 1864, in Danimarca nel 1866, nel Belgio nel 1867, in Islanda nel 1869, in Germania nel 1870, in Spagna nel 1871, in Ungheria nel 1880, in Olanda nel 1881, in Russia nel 1885, in Portogallo nel 1886, nel Montenegro nel 1888, in Finlandia nel 1889, in Bulgaria nel 1896. Hanno inoltre codici penali proprî i varî cantoni svizzeri e in America la California, la Costarica, il Brasile, l'Argentina, il Perù, il Chile, il Canada ecc.
Non meno cospicua fu la fioritura di codici processuali. Tutti gli stati civili, si può dire, nel secolo scorso si diedero un codice processuale civile e uno penale, variamente imitati dal tipo francese o da quello tedesco. In conclusione, come si è dimostrato, il sistema del diritto codificato s'impose quasi ovunque nei paesi civili. Restano estranei a esso soltanto i paesi di civiltà anglo-sassone.
Non è difficile, a questo punto e a mo' di sintesi, individuare le ragioni di siffatta fortuna, che sono di duplice ordine, e si ricollegano da un lato alla forma del diritto codificato, dall'altro alla sostanza. Formalmente il sistema si presenta di facile accesso alla pratica, diviso com'è in corpi organici di norme dettate con linguaggio chiaro e preciso: onde esso doveva essere accolto con entusiasmo dai pratici. Sostanzialmente esso è la consacrazione legislativa di quei principî che gli uomini civili, dopo la Rivoluzione francese, hanno accettato come cardini del vivere sociale: onde questo sistema doveva, quasi necessariamente, essere accolto con favore ovunque si affermasse la civiltà sociale della rivoluzione.
Questa è la ragione per la quale abbiamo affermato che i codici sono l'espressione più genuina della civiltà uscita dalla rivoluzione francese. Essi tuttavia, come espressione d'una civiltà che si è affermata in un momento storico, sono destinati a essere superati, e anzi in parte lo sono già stati, ma il solco profondo da essi segnato nella storia del diritto non sarà così presto cancellato.
Bibl.: Sulla storia della codificazione in genere e della codificazione francese in specie cfr.: Locré, La législation civile, commerciale et criminelle de la France, Parigi 1826-31, I, p. 32 seg.; P. A. Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil, Parigi 1836, I e II; C. de Portalis, Discours, rapports et travaux inédits sur le code civil, Parigi 1844; C. Séruzier, Précis historique sur les codes français, Parigi 1845; G. Bressolles, Études sur les rédacteurs du code civil, in Revue de législation, XLIII (1852), pp. 357-376; A. Valette, De la durée persistente de l'ensemble du droit civil français pendant et depuis la révolution de 1789, in Ac. des sciences mor. et polit., Séances, XCV (1871), pp. 185 seg.; 647 seg.; XCVI (1871), p. 527 seg.; D. De Folleville, Intr. hist. à l'étude du code civil, Parigi 1876; F. Sévin, Études sur les origines révolutionnaires du Code Napoléon, Parigi 1879; O. Stobbe, in Geschichte der deutschen Rechtsquellen, Brunswick 1864, II, p. 446 segg.; L. Tripier, Les codes français, Parigi 1893; C. Calisse, Codice, in Digesto ital., Torino 1897; id., Storia del dir. it., Firenze 1930, I, p. 44 seg.; E. Jac, Bonaparte et le code civil, Parigi 1898; Pertile, Stor. del dir. italiano, Torino 1896-902, II, p. 478 segg.; Le code civil (1804-1904). Livre du centenaire, Parigi 1905; P. Viollet, Histoire du droit civil français, 3ª ed., Parigi 1905, p. 237 segg.; A. Solmi, Stor. del diritto ital., Milano 1930, p. 1070 seg.; G. Salvioli, Stor. del dir. it., Torino 1930, p. 161 seg.; M. Viora, Le costituwioni piemontesi, Torino 1928, p. 312 seg. Per la storia della legislazione francese in Italia cfr.: C. Botta, Storia d'Italia dal 1689 al 1814, Pisa 1824; C. Tivaroni, L'Italia durante il dominio francese, Torino 1889; S. Pivano, Albori costituzionali d'Italia, Torino 1913; P. Del Giudice, Il centenario del cod. nap. in Italia, in Nuovi studi di storia e diritto, Milano 1913. Si riferiscono alla questione agitata dal Savigny e dal Thibaud: Thibaud, Über die Notwendigkeit eines algemeinen bürgerlichen Rechtes für Gesetzgebugn und Rechtseissenschaft, Heidelberg 1814; F. Sclopis, Della vocaz. del nostro secolo alla legislaz. ed alla giurisprund., Torino 1835 (nell'opera Della legislazione civile). Sulla storia della codificazione in Italia dopo la Restaurazione cfr.: F. Sclopis, Storia della lefislaz. it., Torino 1863, III, p. 58 seg., G: Pisanelli Progressi del dir. civ. in Italia nel sec. XIX, Milano 1872; A. Franchetti, Storia d'Italia dopo il 1789, Milano 1878; P. Del Giudice, Fonti legisl. e scienza giur. dal sec. XVI ai giorni nostri, Milano 1923, p. 157 seg. (in Storia del dir. it., parte 1ª, III).
Il codice civile.
In seguito all'occupazione delle armi francesi, il codice civile napoleonico era stato esteso a tutta l'Italia, escluse solo le isole di Sicilia e di Sardegna, accolto con soddisfazione, come quello che ovviava ai pericoli d'incertezze legislative tanto maggiori quanto maggiore era, nelle diverse regioni, la molteplicità delle norme, create da fonti nuove accanto alle fonti romane costituenti pur sempre la base del diritto comune. La rispondenza della legislazione civile napoleonica alla mentalità italiana e le accoglienze ch'ebbe dai pratici non potranno poi meravigliare, quando si pensi come l'elemento romano vi aveva avuto parte preponderante e come quindi l'opera legislativa dovesse trovarsi corrispondente alla coscienza giuridica italiana non meno che alla francese. Ciò spiega anche come, pur dopo la restaurazione e il desiderio di far sparire ogni traccia della dominazione francese, nell'esigenza ormai imprescindibile di perpetuare gli effetti benefici di una codificazione che si sostituisse all'inorganica mole delle legislazioni territoriali e alle incertezze del diritto comune, il codice napoleonico abbia costituito il modello più o meno - e talvolta anche molto liberamente - seguito dalle codificazioni degli stati ripristinati dalla restaurazione. Così in Piemonte l'influsso del codice francese, escluso per poco nel regno di Sardegna dalle Leggi civili e criminali promulgate da Carlo Felice (1827), ritorna a dominare nel codice civile albertino (entrato in vigore il 1° gennaio 1838 per il Piemonte e la Liguria e il 1° novembre 1848 per la Sardegna), che del codice civile napoleonico è, salvo qualche parte dei rapporti patrimoniali fra coniugi, del diritto ipotecario, delle servitù e delle ipoteche, copia quasi sempre fedelissima. Nel granducato di Parma, Piacenza e Guastalla le leggi civili francesi furono mantenute quasi completamente in vigore (esclusa la materia del matrimonio) con regolamento 15 giugno 1814 di Maria Luisa, e, attraverso ai diversi lavori preparatorî, l'influenza del codice francese venne a sostituirsi a quella che pareva dapprima dover essere esercitata dal modello austriaco; e così si ebbe il codice civile per i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla entrato in vigore il 1° luglio 1820, che, pur con notevole indipendenza (Ercole, in Rivista di diritto civile, 1912, pp. 581, 721 e in Archivio storico per le provincie parmensi, 1914, p. 135) segue senza dubbio il modello napoleonico. A Modena, abrogato quasi totalmente (decr. 28 agosto 1814) il codice napoleonico e ripristinati con successive modifiche gli antichi ordinamenti legislativi, l'influsso del codice napoleonico si fece sentire di nuovo nel codice reclamato dalle esigenze della pratica ed entrato in vigore il 1° gennaio 1852, pur con la bella caratteristica della riunione delle leggi commerciali alle civili. Nel regno delle Due Sicilie il codice napoleonico restò senz'altro in vigore - esclusa la disciplina del matrimonio - anche dopo la restaurazione borbonica, e anche il codice per il regno delle Due Sicilie pubblicato il 26 marzo 1819 non si discosta molto dal modello. Nel ducato di Lucca poi il codice francese stesso, salvo lievi modifiche, restò in vigore fino al 1° gennaio 1866. All'influenza di codici più o meno derivati dal napoleonico non si sottraevano che il Lombardo-veneto, dove così sovrana patente 28 settembre 1815 s'era esteso il codice civile austriaco del 1811, il granducato di Toscana, dove, abrogato nella quasi totalità il codice napoleonico, ripresero vigore dal 1814 il diritto romano e il diritto canonico completati da molteplici leggi successivamente pubblicate, e lo Stato pontificio in cui, come in Toscana, restò in vigore il sistema ipotecario francese, ma per il resto vennero ripristinati i vecchi ordinamenti (1814), mentre riforme legislative parziali s'introducevano poi col motu proprio 16 luglio 1816 (Pio VII) e col regolamento legislativo e giudiziario degli affari civili di Gregorio XVI, entrato in vigore il 1° gennaio 1835. Tale era lo stato della legislazione civile nella penisola al momento in cui si compiva l'opera dell'unificazione nazionale.
Non realizzata ancora, nel luglio 1859, se non in parte, l'unità nazionale, il governo piemontese, per merito specialmente del ministro Miglietti, sottopose all'esame di una commissione di giuristi il codice civile albertino al fine di introdurvi le opportune riforme prima di estenderlo alle provincie annesse. Caduto il Miglietti si sostituiva alla commissione da lui nominata una nuova commissione a capo della quale il Miglietti stesso figurava come presidente, e nella quale figuravano, con altri, i nomi del Cassinis, del Mancini, e del Precerutti; commissione trasformata poi dal Cassinis (25 febbraio 1860), divenuto ministro, con l'aggiunta di altri nomi rappresentanti le altre regioni italiane. La commissione presentò, frutto di alacre lavoro di circa tre mesi, il progetto di revisione del codice albertino, progetto pubblicato a Torino e presentato dal Cassinis alla camera (19 giugno 1860) e al senato (21 gennaio 1860) che nominarono per l'esame del progetto due commissioni rispettivamente presiedute dal Rattazzi e dallo Sclopis. Ma la fine della legislatura (VII) interruppe i lavori della commissione e il Cassinis, trovate difficoltà parlamentari alla nomina di una nuova commissione della camera dei deputati per l'esame del progetto, abbandonato il progetto stesso, ideò una riforma del vigente codice che più da vicino riproducesse il codice napoleonico facendovi parte solo per le innovazioni già introdotte dagli altri codici italiani. Questo nuovo progetto fu presto elaborato sotto la presidenza del De Blasio da una nuova commissione, ma, per rapidi che fossero stati i lavori di questa, la fine trovò già il Cassinis sostituito dal Miglietti al Ministero della giustizia. A ciò si deve se il progetto, che probabilmnnte avrebbe indirizzato la riforma sulla via di una pedissequa riproduzione del codice napoleonico, non ebbe neppure la possibilità della discussione parlamentare, mentre il Miglietti stesso, ritornato ministro, riprendeva il suo antico progetto, che, riveduto anche col sussidio delle osservazioni della magistratura, poteva essere ripresentato al senato il 9 gennaio 1862 (v. Discussioni Senato, legislatura VIII, 1°, p. 864-865, all. 117). Il Conforti, succeduto al Miglietti, e il Pisanelli, succeduto a sua volta al Conforti, moltiplicarono le commissioni senza decisivi progressi nell'opera di riforma, finché il Pisanelli stesso non la riprese personalmente presentando al senato il 1° libro (15 luglio 1863) e poco dopo altri due (26 novembre 1863). Il senato nominò apposita commissione cui delegò l'esame del progetto: ne fu presidente il Vigliani, che curò personalmente la relazione sulle disposizioni preliminari e sul libro 1°, mentre quella sul 2° libro fu opera del De Foresta e quella sul 3° del Vacca. Ma le discussioni sembravano oramai dover di troppo ritardare l'opera legislativa, ond'è che il vacca, succeduto al Pisanelli, presentò un progetto di legge che dava al governo facoltà di pubblicare senz'altro sette leggi, tra cui lo stesso codice civile secondo il progetto Pisanelli del 1863, introducendovi solo quelle modifiche rese necessarie dal coordinamento con altre leggi e aggiungendovi le opportune norme transitorie.
La commissione nominata dalla camera sotto la presidenza del Pisanelli presentava la sua relazione il 12 gennaio 1865; seguì tra il 9 e il 22 febbraio la discussione, da cui derivò l'approvazione nella sua sostanza del disegno di legge che conferì ampî poteri al governo per l'attuazione e per la stessa parziale modifica del progetto. L'approvazione del senato tenne dietro, dopo un'ampia discussione durata dal 14 al 29 marzo, e divenne con la sanzione regia la legge 2 aprile 1865. Una commissione fu tosto nominata per le modifiche e il coordinamento, presieduta dal Cassinis e inaugurata con un discorso del Vacca.
Le proposte della commissione furono quasi totalmente accolte, e il ministro presentò il testo alla firma reale. Il codice fu pertanto approvato con r. decr. 25 giugno 1865 che ne segnò al 1° gennaio successivo l'entrata in vigore. Con decreto successivo 30 novembre 1865 vennero approvate le disposizioni transitorie preparate dal Pisanelli. Senza accennare qui alle ulteriori riforme legislative - prima quella dell'ordinamento dello stato civile - che s'accompagnarono a breve distanza, accenneremo solo che il codice civile venne esteso a Roma con r. decr. 27 novembre 1870, n. 6030, e alle provincie venete, nelle quali entrò in vigore il 1° settembre 1871, per effetto del r. decr. 26 marzo 1871, n. 129, e che con r. decr. 25 giugno 1871 il governo, cui era stato dato mandato in proposito, pubblicò le disposizioni relative alla sua entrata in vigore.
Il codice civile consta di tre libri: 1° delle persone; 2° dei beni, della proprietà e delle sue modificazioni; 3° dei modi di acquistare la proprietà e gli altri diritti sulle cose. Ogni libro è diviso in titoli (rispettivamente 12, 5 e 28): i titoli in un numero vario di capi, come questi, se ampî, si suddividono in sezioni e queste in paragrafi. Il codice abbraccia complessivamente, cosl come fu pubblicato, 2147 articoli di varia mole, di cui la parte iniziale fino al primo capoverso si suole indicare come "principio"; capoverso o comma 1°, 2°, 3°, ecc., i capoversi successivi.
Esaminando il codice civile del 1865 nel suo contenuto, può essere interessante accennare alle sue fonti. Giova peraltro chiarire una premessa, e cioè che quelle che qui si accennano come fonti si devono intendere come fonti immediate da cui il legislatore italiano trasse i principî codificati, perché se in realtà si volesse risalire alle fonti di quelle stesse fonti cui ora accenniamo, si potrebbe in sostanza ridurre il quadro delle fonti qui elencate al diritto romano e al canonico, e alle consuetudini (queste spesso non solo di origine latina) che furono fonti del codice napoleonico e quindi indirettamente del nostro. Ciò premesso dobbiamo ricordare come fonti immediate del codice: il codice civile napoleonico da cui il nostro codice civile prese gran parte del suo contenuto sì da potersi configurare come una sua filiazione diretta; i codici civili vigenti nei cessati stati - pur essi in tanta parte di derivazione francese, come si è visto - primo il codice civile albertino, quindi, specialmente il napoletano, il parmense e l'austriaco vigente nel Lombardo-Veneto; il diritto romano cui si riaccosta per certe parti, massime in materia di obbligazioni, il nostro codice più che il francese; il diritto canonico la cui influenza, radicata ormai nel costume, era così penetrata nello stesso codice nato dalla Rivoluzione francese, e al quale il nostro codice civile anche più veniva a ispirarsi, massime nella parte del matrimonio.
Anche considerandolo ora, a non poca distanza di tempo e dopo tanto mutamento nella condizione delle cose e nell'atteggiamento degli spiriti, il giudizio su questa prima opera legislativa dell'Italia unificata non può essere, se sereno, che lusinghiero. Si è più volte lamentato nel nostro codice troppo larga influenza del codice francese (v. Roberti, Gli elementi del diritto italiano e la scuola storica nazionalistica, in Rivista di diritto civile, 1914), ma il rimprovero è forse eccessivo se si pensa che nel codice francese si trovava in gran parte codificato il frutto di una tradizione e d'uu pensiero giuridico schiettamente nostro. Né mancano nel nostro codice lodevoli innovazioni: ai principî della libertà e dell'uguaglianza dei cittadini, dell'indipendenza da opinioni e confessioni religiose, della rigida salvaguardia della proprietà privata, si aggiungono, indice d'ispirata tendenza progressiva, il liberale pareggiamento degli stranieri ai cittadini nel godimento dei diritti civili indipendentemente - nel che fu primo il nostro legislatore (art. 3) - da condizione stessa di reciprocità; l'affermazione dell'assolutezza del diritto degl'inventori ai risultati dell'invenzione artistica o industriale (art. 437); una parziale attenuazione nelle sue esplicazioni ultime, del principio dell'autonomia della volontà e della libertà di disposizione nelle convenzioni private.
Dal punto di vista sistematico certo l'esempio del codice francese, o direttamente o indirettamente, attraverso ai codici parmense e delle Due Sicilie, fu quasi sempre seguito con fedeltà, e per questo il nostro codice si scosta abbastanza radicalmente dai criterî sistematici delle codificazioni più recenti largamente ispirate a principî teorici. Ma forse non sarebbero gravi le conseguenze pratiche, se il sistema seguito non avesse in parte sacrificato la trattazione del diritto delle persone e della capacità entro l'esposizione delle norme del diritto di famiglia, ed esteso di tanto la disciplina dei diritti sulle cose, tra i quali il concetto di proprietà domina sì che solo come limitazioni a essa si configurano tutti gli altri diritti reali di godimento o di garanzia. Inoltre la proprietà immobiliare, con regolamentazione anche troppo minuta, è disciplinata in modo quasi esclusivo dal legislatore, benché già all'epoca della pubblicazione del codice, di gran lunga più che all'epoca della codificazione francese, l'importanza della ricchezza mobiliare fosse aumentata. La dottrina generale del negozio giuridico è ignorata e quindi sono sporadiche e spesso inorganiche le disposizioni relative alla colpa, all'errore, al dolo, alla condizione, alla dichiarazione di volontà, alla rappresentanza. Nella parte dedicata ai contratti l'ispirazione troppo fedele alle fonti romane lascia in disparte la disciplina di rapporti contrattuali di eccezionale importanza individuale non solo, ma sociale, quali il contratto di lavoro, ché, se si pensa come scarsa si manifesti la tutela del lavoro anche fuori della materia contrattuale, p. es. in rapporto all'accessione, apparirà non ingiustificato l'appunto che da più parti si fece al codice, di aver di troppo trascurato questo fra i fattori della produzione, proprio quando già accennava a delinearsi con tanta violenza il dissidio fra capitale e lavoro.
Nel diritto ereditario larga l'affermazione dell'unità famigliare, pur con la riduzione della successione ab intestato dal 12° (cod. napol.) al 10° grado (art. 742), ridotto poi al 6° con decr. luog. 16 novembre 1916, n. 1686. Rafforzata la famiglia civile intorno al principio dell'indissolubilità del matrimonio, rispondente alla coscienza della grande maggioranza dei cittadini, è affermata fra gli effetti patrimoniali del matrimonio come regola, la separazione, come eccezione, la comunione dei beni, al contrario di quanto il codice napoleonico aveva sancito.
Il codice civile italiano di fronte alle nuove esigenze della vita e alle più moderne opere legislative maturatesi di poi, quando soprattutto la rinascita degli studî giuridici e specialmente degli studî del diritto romano avevano preparato il terreno, apparve sempre più bisognoso di modifiche e di riforme. Riforme parziali furono introdotte con leggi speciali: riforme d'istituti singoli formarono via via oggetto di discussioni e di proposte notevoli: in tema di diritto di famiglia, quelle concernenti la ricerca della paternità e il divorzio. Alterne vicende della vita politica non mancarono d'influire sui ritorni di queste questioni all'onore della discussione. Una riforma della legislazione privata formò oggetto di studî da parte della Commissione reale per il dopoguerra, mentre i lavori per un'intesa legislativa italo-francese per la comune opera di riforma dei due codici civili, iniziati per merito di Vittorio Scialoja, assunsero carattere ufficioso prima e ufficiale poi, fondendosi, per la parte del diritto obbligatorio con l'opera della Commissione reale per la riforma dei codici istituita in seguito alla legge 30 dicembre 1923, n. 2814. Questa delegava al governo la facoltà di rivedere e modificare le disposizioni del codice civile sull'assenza, la filiazione naturale, le nullità del matrimonio, l'adozione, la patria potestà, la tutela, la trascrizione, la prescrizione e in genere le disposizioni che dànno luogo a questioni tradizionali o sono comunemente riconosciute come imperfettamente formulate. L'opera della commissione iniziata da tempo non è peraltro stata resa sinora (1930) di pubblica ragione, a eccezione di quanto riguarda la parte generale delle obbligazioni elaborata d'accordo coi rappresentanti francesi.
Bibl.: Edizioni svariatissime si sono fatte del codice civile dopo quella ufficiale originaria (Torino 1865): tra queste, ricordiamo quella di L. Franchi, aggiornata con le posteriori modifiche (7ª ed., Milano 1921). I lavori preparatorî del codice civile sono contenuti nella raccolta pubblicata dal Ministero di grazia e giustizia: Lavori preparatorî del codice civile del Regno d'Italia, Roma 1886 segg., ma incompleta: d'iniziativa privata sono la Raccolta dei lavori preparatorî del codice civile del Regno d'Italia (Palermo 1868) in sei volumi, e, più facile a ritrovarsi e consultarsi, benché non integra nella riproduzione delle relazioni e discussioni che sono spesso sunteggiate, quella di S. Gianzana, F. Bo e P. Tappari in 9 volumi e dal titolo: Codice civile, preceduto dalle relazioni ministeriale e senatoria, dalle discussioni parlamentari e dai verbali della Commissione coordinatrice, colle riferenze sotto ogni articolo agli altri codici italiani, al francese, alle leggi romane, nonché a tutti i precedenti legislativi, coll'aggiunta delle leggi complementari che si riferiscono al codice civile, Torino 1887. Meno diffuse le compilazioni di M. Galdi (Codice civile del Regno d'Italia, col confronto coi codici francese, austriaco, napoletano, parmense, estense, col regolamento pontificio, leggi per la Toscana e col diritto romano, corredato delle relazioni fatte alla Camera elettiva ed al Senato e di un sunto completo e preciso di tutte le discussioni parlamentari e delle diverse Commissioni legislative, arricchito di osservazioni, note e supplementi, Napoli 1865) e di G. Foschini, (I motivi del codice civile italiano ordinati sotto ciascun articolo, 2ª ed., Torino 1868-71).
Codice di commercio.
I primi tentativi d'una organica sistemazione legislativa dei principî e delle norme sparse nelle più antiche fonti del diritto commerciale si ebbero in Francia sotto il regno di Luigi XIV: l'Ordinanza del commercio, del 1673, e quella della marina del 1681, entrambe dovute al Colbert. Ma il primo saggio di una vera codificazione è costituito dal codice di commercio francese, approvato dal parlamento con cinque deliberazioni dal 10 al 15 settembre 1807, ed entrato in vigore il 1° gennaio 1808. Tradotto in italiano con lievi modificazioni, fu pubblicato nel regno italico il 17 luglio 1808 e vi restò in vigore fino alla Restaurazione.
Questo codice ebbe un'influenza straordinaria sulla legislazione di quasi tutti i paesi d' Europa. In Italia specialmente, sopravvisse in gran parte, come avvenne del resto anche per la legislazione civile napoleonica, alla caduta dell'Impero francese. Fu infatti conservato in vigore nelle provincie pontificie, coi due editti 5 luglio 1815 e giugno 1821, sotto il titolo di Regolamento provvisorio di commercio; nel regno di Napoli, dove nel 1819 fu sostituito dalle Leggi di eccezione per gli affari di commercio, 5a parte del codice per lo regno delle Due Sicilie, calcato pure sul codice francese; e infine a Parma e in Toscana. Anche nel Lombardo-Veneto l'Austria lasciò in vigore il primo libro del codice francese, fino a che nel 1850 fu promulgata l'ordinanza di cambio germanica, e nel 1863 i primi quattro libri del codice di commercio germanico.
Nel ducato di Modena venne, dopo la Restaurazione, richiamato in vigore il codice estense del 1711; nel 1851 vi fu però promulgato un codice di commercio, che durò in vigore fino al 1865. In Piemonte pure vennero richiamate in vigore le antiche leggi e consuetudini; ma anche qui fu poi promulgato da Carlo Alberto nel 1842 un codice di commercio detto albertino, il quale fu fedele riproduzione del codice francese, modificato dalle leggi posteriori.
Il codice albertino modificato in alcuni punti, specie per ciò che concerne i mediatori, le cambiali e le società, divenne poi il codice di commercio del regno d'Italia, pubblicato con legge 25 giugno 1865 ed entrato in vigore dal 1° gennaio 1866.
Ma appena promulgato il nuovo codice, si sentì il bisogno di preparare una riforma più ampia e più meditata. Tre anni dopo, cioè nel 1869, venne istituita una commissione, con l'incarico di preparare un progetto di codice di commercio. Nel 1872, questa commissione compilò un progetto preliminare, che fu comunicato alle camere di commercio, alle corti d'appello e di cassazione, ai collegi degli avvocati e alle facoltà di giurisprudenza. Quindi fu nominata una seconda commissione, perché, tenendo conto delle osservazioni raccolte, preparasse un progetto definitivo. Questo fu presentato al senato dal ministro Mancini nel 1877. Il senato non discusse per intero il progetto, ma approvò un disegno di legge che dava facoltà al governo di pubblicare il codice di commercio, secondo il progetto, tenendo conto delle osservazioni fatte al senato stesso (30 giugno 1880). La camera dei deputati approvò anch'essa, su relazione dei deputati Mancini e Pasquali, il progetto, con alcune modificazioni, che ne resero necessario il ritorno al senato. Approvato di nuovo dal senato, il progetto divenne legge, per decreto del 2 aprile 1882. Una commissione, detta di coordinamento, ebbe l'incarico di emendare il testo del codice, secondo i voti della camera e del senato, di coordinarlo con le altre leggi dello stato. Su proposta della commissione il testo definitivo del codice venne approvato con r. decr. 31 ottobre 1882. Con r. decr. 14 dicembre 1882, n. 1113, furono approvate le disposizioni transitorie per l'attuazione e con r. decr. 27 dicembre 1882, n. 1139, il regolamento per l'esecuzione del codice.
Questo codice entrò in attuazione il 1° gennaio 1883 ed è tuttora vigente. Consta di 926 articoli raggruppati in quattro libri: I, del commercio in generale; II, del commercio marittimo e della navigazione; III, del fallimento; IV, dell'esercizio delle azioni commerciali e della loro durata.
Le disposizioni del codice sono state poi modificate e integrate da parecchie leggi successive, delle quali ricorderemo, tra le più importanti, la legge 25 gennaio 1888, n. 5174, sull'abolizione dei tribunali di commercio; la legge 22 giugno 1905, n. 268, sulla riduzione dell'interesse civile e commerciale; la legge 24 maggio 1903, n. 197, sul concordato preventivo e i piccoli fallimenti; la legge 17 giugno 1919, n. 1176, sulla capacità giuridica della donna maritata; il r. decr.-legge 7 ottobre 1923 sugli assegni circolari; quelle inoltre sui magazzini generali, sull'ordinamento delle camere di commercio, le funzioni delle quali sono state assunte poi dai consigli provinciali dell'economia, sull'ordinamento delle borse, sui trasporti ferroviarî, ecc.
Il codice di commercio del 1882, con tutte le leggi complementari e modificatrici, è stato esteso alle Venezie Giulia e Tridentina con regio decr. 4 novembre 1928, n. 2325.
Anche il codice di commercio del 1882, in definitiva, fu modellato su quello francese, ma raccolse pure il meglio delle riforme attuate dalle altre legislazioni straniere. La parte generale del codice fu principalmente ispirata dal codice di commercio tedesco del 1861, le norme sulla cambiale furono tratte dall'ordinanza tedesca del 1847, quelle sulle società furono ispirate dalla legge belga del 1873, il diritto marittimo dal codice francese e l'istituto del fallimento dalla legge francese del 1838. Nel complesso si stacca notevolmente dal modello francese, su cui si avvantaggia assai per la completezza, l'ordine e il sistema, ma non può certo dirsi un codice originale, per quanto sia da lodare per parecchie importanti innovazioni su tutti i codici allora vigenti. La sua elaborazione avvenne in un tempo in cui gli studî del diritto commerciale in Italia, malgrado lo sforzo di pochi, non erano ancora entrati nella fase fiorente che raggiunsero posteriormente. Mancò quindi la base per una sufficiente elaborazione scientifica e tecnica degl'istituti e delle norme che in esso vennero raccolte.
In questo stato di cose, non è da sorprendersi se nell'applicazione pratica si andarono palesando alcune manchevolezze. E a misura che, da un canto, rifiorivano da noi gli studî di diritto commerciale e dall'altro la vita economica nazionale progrediva, le disposizioni del codice apparvero sempre meno soddisfacenti. Da ciò ebbe inizio, prima ancora che passasse un decennio dalla sua promulgazione, un movimento diretto alla riforma del codice, che è diventato imponente in questi ultimi anni.
Dapprima, con circolare del 1° settembre 1891, il guardasigilli Ferraris invitò i magistrati, le camere di commercio e gli ordini forensi a esprimere il loro parere su alcuni quesiti proposti in relazione a un riesame del codice; nel 1894 fu nominata poi una commissione con incarico di studiare e proporre le modificazioni da introdurvi. La commissione divisa in sottocommissioni si occupò specialmente della riforma delle società commerciali, del concordato preventivo e del fallimento.
Gli studî, proseguiti poi saltuariamente, entrarono nella fase conclusiva con la nomina, avvenuta nel 1919, di una commissione ministeriale la quale preparò un progetto preliminare di nuovo codice, che peraltro non contiene né la parte relativa al fallimento, per la quale un separato progetto molto pregevole fu pure approntato, per incarico di una delle sottocommissioni, dal compianto Gustavo Bonelli, né la parte nlativa al diritto marittimo, che ha formato oggetto di studî da parte di altra commissione in relazione anche alla riforma del codice della marina mercantile. Intanto, al fine di affrettare la riforma generale della nostra legislazione fu approvata la legge 30 dicembre 1923, n. 2814. Questa legge non riguarda soltanto la riforma del codice di commercio, ma altresì quella degli altri codici che egualmente devono essere rifatti del tutto o opportunamente riveduti e modificati per essere adeguati alle nuove condizioni della società nazionale. Per la preparazione della riforma fu nominata, con r. decr. 3 giugno 1924, una commissione reale, divisa in sottocommissioni, che ha esaurito i proprî lavori con la presentazione di un progetto completo, il quale ha tenuto conto di tutto il materiale preparatorio accumulato nei precedenti studî e specialmente del progetto preliminare della commissione ministeriale del 1919.
Anche il progetto della sottocommissione reale non contiene il diritto marittimo, che è regolato dal titolo II del vigente codice di commercio, perché il commercio marittimo formerà oggetto del nuovo codice della marina mercantile, che lo regolerà dal punto di vista del diritto pubblico e del diritto privato. Gli studî per l'attuazione della riforma proseguono.
Cenni di diritto comparato. - La maggior parte dei paesi civili possiede attualmente un proprio codice di commercio. Le odierne legislazioni commerciali possono essere raggruppate secondo i tipi seguenti:
1. Legislazioni di tipo francese: a) in Francia, il testo primitivo del codice di commercio è stato modificato e completato quasi per intero da numerose leggi successive, tra le quali sono più importanti la legge 28 maggio 1838 sul fallimento e la legge 4 aprile 1889 sulla liquidazione giudiziale; le leggi 24 luglio 1867 e 1° agosto 1893 sulle società; la legge 18 marzo 1919, completata dal regolamento 15 marzo 1920 e dalla legge 1° giugno 1923 sul registro di commercio; la legge 17 marzo 1909 sulla vendita e il pegno delle aziende commerciali; le leggi 18 marzo 1915, 7 maggio 1917, 5 agosto 1920 e 12 luglio 1923 sulle società cooperative; la legge 24 giugno 1921 sulle associazioni in partecipazione; la legge 7 marzo 1925 sulle società a garanzia limitata; le leggi 14 giugno 1865, 26 gennaio 1917 e 12 agosto 1926 sullo chèque; b) in Belgio, dove era stato accolto integralmente, il codice francese fu poi sottoposto a completa revisione e il Code de commerce belge revisé fu pubblicato con una serie di leggi dal 1867 al 1879. Successivamente furono emanate nuove leggi sul registro di commercio (30 maggio 1924-11 maggio 1927), sulle società (testo unico 22 luglio 1913), sullo chèque (20 giugno 1873 e 31 maggio 1919), sul contratto di trasporto (25 agosto 1891), sulla navigazione marittima (leggi 21 agosto 1879, 12 giugno 1902, I0 febbraio 1908, 12 agosto 1911, 14 settembre 1911); c) in Grecia, il codice di commercio del 1835 è una traduzione non priva di errori dei tre primi libri del codice di commercio francese. In luogo del quarto libro fu emanato il decr. 2 maggio 1835 sulla competenza dei tribunali di commercio. Il terzo libro, sul fallimento, fu poi sostituito con una legge del 1878 completata con la legge n. 3574 del 1910, mentre il secondo libro riguardante il diritto marittimo, fu modificato con una legge del 1910 sul modello del codice italiano. Le società commerciali sono state poi regolate da leggi più recenti, tra cui particolarmente importanti le leggi n. 2190 del 1920 e n. 2655 del 1921 e il decreto 17 luglio 1923. Lo chèque è regolato dalla legge n. 1338 del 1918; d) in Olanda, il codice di commercio, calcato sul modello francese, è del 10 aprile 1838. Sono stati però profondamente rinnovati il diritto marittimo (legge 22 dicembre 1924), il fallimento (legge 30 settembre 1893 e 13 novembre 1925), il regime dei libri di commercio (legge 5 maggio 1922) e la mediazione (legge 5 maggio 1922); e) in Egitto, è in vigore il codice del 13 novembre 1883; f) in Iugoslavia (per il territorio dell'antica Serbia) è tuttora in vigore il codice 26 gennaio 1860 di tipo francese; mentre i territorî ex austriaci continuano a essere regolati dal codice di commercio austriaco e quelli ex-ungheresi dal codice 16 maggio 1875; g) in Polonia, mentre rimangono tuttora in vigore nei diversi territorî le antiche legislazioni (russa, germanica, austriaca), le nuove leggi unificatrici sono influenzate dalla legislazione francese, e in particolare dalle leggi 7 febbraio 1919 sul registro di commercio; 29 aprile 1919, sulle società per azioni; 14 novembre 1924, sullo chèque e sull'ordinamento cambiario, ecc.
2. Legislazione di tipo germanico: a) in Germania l'unificazione della legislazione commerciale precedette di molti anni l'unificazione politica. L'ordinanza di cambio tedesca del 26 novembre 1848 fu la prima legge commerciale generale ai varî stati della federazione germanica, che più tardi adottarono, quasi tutti, il codice generale di commercio germanico che regolava tutta la materia commerciale, con esclusione del diritto cambiario e del fallimento o concorso, il quale è in Germania istituto comune ai commercianti e ai non commercianti e fu regolato con legge 10 febbraio 1877. La legge di cambio germanica fu il modello a cui si uniformò il diritto cambiario di molti paesi (Svizzera, Ungheria, stati scandinavi, Portogallo, Bulgaria, Romania, Brasile e Giappone). Il codice generale di commercio germanico esercitò, anch'esso, molta influenza sulle legislazioni successive. Dopo la pubblicazione del codice civile germanico avvenuta nel 1896, il codice generale di commercio fu sottoposto a revisione, e con notevoli modificazioni venne pubblicato il 10 marzo 1897 il nuovo codice di commercio a base professionale, completato da molte importanti leggi speciali (legge sulle società a garanzia limitata 20 aprile 1892. legge sullo chèque 11 marzo 1908, legge sulla concorrenza sleale 10 giugno 1914, legge sui cartelli 2 novembre 1923, ecc.); b) in Austria (e territorî ex-austriaci della Iugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia) nel 1851 fu adottata integralmente la legge cambiaria germanica e nel 1862 il codice generale di commercio del 1861, tranne il quinto libro riguardante il diritto marittimo (reg. 20 settembre 1879, n. 175). Leggi speciali regolano il concorso (ord. 10 dicembre 1914, n. 337), le assicurazioni (legge 23 dicembre 1917, n. 501), lo chèque (legge 3 aprile 1906, n. 84), le società a garanzia limitata (legge 6 marzo 1906 mod. legge 20 ottobre 1921, n. 571), le società per azioni (reg. 20 settembre 1899, n. 175); c) in Ungheria il codice di commercio è del 16 maggio 1875 (escluso il diritto marittimo); la legge cambiaria del 5 giugno 1876, la legge sui fallimenti del 27 marzo 1891, come del resto tutta la legislazione ungherese, sono di tipo prettamente tedesco; d) nella Svizzera l'unificazione della legislazione commerciale è avvenuta nel 1881. La particolarità di questa legislazione è la fusione del diritto civile e commerciale in una legge unica delle obbligazioni del 14 giugno 1881, la quale fu ripubblicata, dopo parziale revisione, il 30 marzo 1911 come quinta parte del codice civile. Tra le leggi speciali successive meritano menzione la legge 16 dicembre 1918 e 6 ottobre 1923 sul registro di commercio e la legge 8 luglio 1919 sulle società. La parte di diritto commerciale delle obbligazioni si ricollega strettamente al codice generale germanico; e) in Turchia il nuovo codice di commercio 29 maggio 1926, che, tranne il quarto libro modellato sul codice di commercio italiano, segue il sistema del codice germanico, è entrato in vigore il 4 ottobre 1926. Per il diritto marittimo è invece sempre in vigore il codice del 21 agosto 1863 modellato sul codice francese.
3. Legislazioni di tipo spagnolo. Anche le legislazioni di questo tipo misero largamente a profitto il codice francese, ma assumono una particolare fisionomia per la vasta utilizzazione di fonti indigene di diritto commerciale: a) nella Spagna l'antico codice di commercio del 1829 fu sostituito dal nuovo codice di commercio del 22 agosto 1885 che ha avuto solo parziali modificazioni con leggi speciali (legge 29 luglio 1903 sulla cambiale; legge 29 giugno 1911 sulle società per azioni; legge 27 marzo 1915 sulle associazioni, ecc.). Il fallimento commerciale è regolato in parte dal codice di commercio, in parte dalla legge di procedura civile 3 febbraio 1881 e da una legge speciale del 10 giugno 1897; b) in Portogallo il primo codice di commercio del 1833 fu sostituito dal codice del 23 agosto 1888. Il fallimento è regolato da una legge 14 dicembre 1905; c) delle repubbliche dell'America Meridionale alcune hanno codici che sono quasi letterale riproduzione del vecchio codice spagnolo del 1829, altre hanno preso a modello il codice portoghese del 1833. Qualche originalità hanno infine i codici del Chile, dell'Argentina, del Venezuela.
4. Paesi senza codice di commercio (Inghilterra, Stati Uniti, stati scandinavi, Russia): a) in Inghiltena e negli Stati Uniti il diritto commerciale è sostanzialmente consuetudinario. I principî generali del diritto comune (common law) sulle obbligazioni civili valgono anche per quelle commerciali. Vi sono molte leggi speciali che regolano singoli istituti. Tra le leggi inglesi sono notevoli quelle sulla cambiale (Bill of Exchange Act 1882), le leggi sulle società (Partnership Act 1890, Limited Partnership Act 1907, Companies Acts 1908, 1917, 1928); le leggi sul commercio marittimo (Ladings Act 1855, Carriage of Goods by Sea Act 1924, Merchant Shipping Act 1894-1926), la legge sul fallimento (Bankruptcy Act 1914) e sul concordato preventivo (Deeds of Arrangement Act 1914). Le leggi nord-americane variano da stato a stato. Solo il fallimento è regolato da una legge federale del 1° luglio 1898; b) in Russia le leggi generali dell'impero formavano una collezione di varî volumi, dei quali l'undecimo, seconda parte, conteneva le sei leggi principali regolanti la materia commerciale. Il decimo volume si occupava delle società. Il governo dei soviety sta provvedendo a una nuova legislazione. Il codice civile entrato in vigore il 1° gennaio 1923 regola la materia delle obbligazioni e disciplina anche istituti di carattere cambiario. Le leggi del 28 maggio 1926 regolano diffusamente il trasporto marittimo e la responsabilità limitata dell'armatore; c) negli stati scandinavi (Danimarca, Svezia e Norvegia) sono ancora a base della legislazione le antiche leggi dei secoli XVII e XVIII, in cui non vi è un'organica separazione tra diritto civile e commerciale. Esistono però numerose leggi commerciali speciali che risentono l'influenza della legislazione germanica, tra cui particolarmente importanti la legge cambiaria 7 maggio 1889 e la legge sullo chèque 3 agosto 1897, comuni ai tre stati scandinavi; inoltre per la Danimarca la legge sulla vendita 6 aprile 1906, la legge sulle società per azioni 29 settembre 1917, la legge sul registro di commercio 1° marzo 1889, la legge sulla tenuta dei libri di commercio 10 maggio 1912, il codice marittimo 10 aprile 1892, modificato dalle leggi 29 aprile 1913 e 1° maggio 1923, la legge 1° maggio 1923 sui trasporti aerei; per la Svezia, la legge 4 maggio 1855 sui libri di commercio, la legge 13 luglio 1887 sul registro di commercio, la legge marittima 12 giugno 1891, la legge 12 agosto 1910 sulle società per azioni, la legge fallimentare 13 maggio 1921; per la Norvegia, la legge 17 maggio 1890 sul registro di commercio, 19 luglio 1910 sulle società per azioni, 29 luglio 1911 sulle assicurazioni, marittima 20 luglio 1893, 7 dicembre 1923 sui trasporti aerei, 7 luglio 1922 sulla concorrenza sleale, sul fallimento 6 maggio 1899, ecc.
Bibl.: Tutti i lavori preparatorî del codice di commercio italiano vigente, dal 1869 al 1882, sono compresi nei seguenti volumi: a) Atti della commissione incaricata di preparare il progetto di codice di commercio per il Regno d'Italia, 1ª ed., voll. 5, Firenze 1872-73, 2ª ed., voll. 3, Roma 1884, con un'appendice contenente i lavori preparatorî del codice di commercio del 1865; b) Osservazioni e pareri della magistratura, ecc., sul progetto proposto da quella commissione, Roma 1878; c) Relazione ed esposizione dei motivi, del ministro Mancini al senato, Roma 1878; d) Lavori preparatorî del codice di commercio del Regno d'Italia, Roma 1883, voll. 2 (contiene i lavori preparatorî dal 1877 al 1882); e) Atti della commissione nominata con incarico di studiare le disposizioni e modificazioni concernenti il nuovo codice di commercio, Roma 1885.
Gli studî preparatorî per la riforma del codice di commercio sono contenuti nei seguenti volumi: Relazione e verbali delle discussioni della sottocommissione per lo studio della legislazione delle società commerciali, Roma 1895; Verbali delle discussioni della sottocommissione medesima, Roma 1908; Progetto di legge e verbali della sottocommissione per lo studio della legislazione sul fallimento, Roma 1908; Progetto preliminare per il novo codice di commercio, Milano 1922 (contiene il progetto preparato dalla commissione ministeriale nominata nel 1919; progetto e reazione relative al fallimento sono inserite nella Riv. di dir. comm., I, 1921, p. 522 e I, 1922, p. 190); Progetto di nuovo codice di commercio e Relazione, voll. 2, Roma 1925 (riflettono il progetto presentato dalla commissione reale nominata nel 1924). Per la legislazione straniera, una raccolta delle leggi commerciali dei varî paesi tradotte in tedesco è quella di O. Borchardt, Die geltenden Handelsgesetze des Erdballs, 3ª ed., Berlino 1906 e segg. Vi è una traduzione francese: Les lois commerciales de l'Univers, Parigi 1912. V. anche Annuaire de législation étrangère, Parigi 1872 e segg.
Il codice di procedura civile.
La riunione delle norme relative al processo civile in un unico testo, loro esclusivamente dedicato, è relativamente recente; nelle codificazioni del diritto romano e canonico le norme relative al processo civile e penale si trovano riunite con i precetti di diritto materiale (così nel Digesto e nel Codice giustinianeo e nelle collezioni canoniche). Non mancano leggi processuali, anche notevoli, le quali però si prefiggono non di esaurire la disciplina del processo, ma di regolarne qualche forma o di integrare in qualche parte il diritto comune. Così le numerose norme processuali contenute negli statuti medievali, i varî regolamenti giudiziarî per il tribunale camerale dell'impero (Kammergerichtsordnunègen) emanati in Germania dopo la recezione del diritto romano, che esercitarono notevole influenza anche sul processo particolare, gl'innumerevoli regolamenti giudiziarî dei varî stati territoriali, e la serie di ordonnances francesi, fino all'ultima e più vasta del 1667, che non costituiscono un corpo completo delle leggi processuali, pur obbedendo alla tendenza verso la codificazione.
Verso la fine del sec. XVIII si ebbe in Italia una legge processuale completa, il pregevole "codice giudiziario" compilato dal Barbacovi per il principato di Trento (1786). Maggiore importanza ebbero altri frutti della tendenza verso la codificazione comparsi in Germania; quali il regolamento generale giudiziario di Giuseppe II, emanato nel 1781, che ebbe vigore anche in Lombardia (dal 1° maggio 1786) e nel Veneto (dal 1798) e il regolamento generale giudiziario (Allgemeine Gerichtsordnung) per gli stati prussiani (1793). In Francia la rivoluzione, dopo varie effimere riforme, richiamò in vigore l'ordinanza (in un primo tempo abrogata) del 1667, la quale, assieme ad altre anteriori e posteriori, formò la base del progetto preparato da una commissione nominata da Napoleone, e approvato nell'aprile 1806 come code de procédure civile. Questo, entrato in vigore il 1° gennaio 1807, integrato e modificato successivamente da numerose leggi speciali, costituisce tuttora la base del diritto processuale civile francese. Neppure il codice francese disciplina tutta la materia processuale: ne resta fuori (oltre alla materia contenuta nei codici di diritto sostanziale) tutto il regolamento del ricorso per cassazione, contenuto in leggi speciali. Il codice francese di procedura civile ebbe una fortuna grandissima, dovuta in parte alle vicende politiche, in parte anche ai pregi di semplicità e di chiarezza per i quali esso segnava un notevole progresso sullo stato della legislazione antecedente; introdotto in gran parte d'Europa, in particolare in Italia e in Germania, non scomparve col declinare della fortuna napoleonica.
In Germania rimase in vigore nei territorî renani; informò dei suoi principî varie leggi territoriali e i numerosi progetti di riforma elaborati intorno al '70. Con le leggi giudiziarie dell'impero (legge sull'ordinamento giudiziario, regolamento processuale civile e penale, regolamento fallimentare), sanzionate nel gennaio 1877, entrate in vigore col 1° gennaio 1879, la Germania ebbe un diritto processuale unitario, nel quale confluirono, in varia misura, i principî del processo comune, del processo francese e delle abrogate legislazioni particolari. Il regolamento processuale del 1877, con numerose modificazioni apportate da leggi posteriori (1898, 1908, 1910, 1924, 1927), è tuttora in vigore, integrato dalla legge 24 marzo 1897, la quale disciplina l'esecuzione forzata sugl'immobili e sulle navi, che il regolamento del 1877 aveva abbandonato alle legislazioni dei varî stati federati. Dalla codificazione tedesca ha derivato notevoli elementi la riforma processuale austriaca, che batte però vie proprie (applicazione conseguente del principio dell'oralità, attribuzione di larghi poteri d'iniziativa al giudice), alla quale è legato il nome di Francesco Klein (1854-1926); le leggi processuali austriache (norma di giurisdizione del 1° agosto 1895; regolamento del processo civile della stessa data; regolamento esecutivo del 27 maggio 1896), entrate in vigore il 1° gennaio 1898, non hanno subito fin qui notevoli modificazioni; esse sono rimaste in vigore nelle terre redente fino al 30 giugno 1929. In Germania e in Austria sono attualmente in corso gli studî per una riforma legislativa comune. Dalle leggi germanica e austriaca (e più dalla prima) deriva anche il regolamento ungherese sul processo civile del 1911 (solo processo di cognizione), entrato in vigore nel 1914 (rimasto in vigore a Fiume fino al 30 giugno 1929).
In Italia dopo la restaurazione il codice francese fu mantenuto dapprima a Napoli e sostituito poi (1819) dalle leggi di procedura nei giudizî civili, pedisseque al modello francese. Negli altri stati, richiamato in vita lo stato di diritto preesistente all'invasione francese, non si tardò a sentire il bisogno di leggi nuove, che furono emanate dappertutto ad eccezione del regno Lombardo-Veneto, dove riebbe vigore il regolamento giudiziario austriaco del 1781 con poche modificazioni. Fra queste leggi si possono ricordare per Parma il codice di Maria Luisa (1820), per Modena il codice estense (1852), per Roma il codice di procedura civile di Pio VII (1817), sostituito poi dal celebre regolamento gregoriano (1834); in Toscana invece rimase in vigore il regolamento leopoldino (1771).
Particolare importanza ha la legislazione sarda. Dopo varie leggi parziali, fu elaborato un codice di procedura civile, promulgato il 16 luglio 1854, entrato in vigore il 1° aprile 1855 (1° codice sardo), opera pregevole che per quanto modellata sul codice francese attingeva varî istituti alle costituzioni piemontesi, agli altri codici italiani e a qualche altro modello straniero, in particolare al codice ginevrino del 1819, ai suoi tempi lodatissimo. Il codice sardo del 1854, emanato con riserva d'una prossima riforma, ebbe breve vita; con decreto reale, emesso in virtù dei pieni poteri legislativi, fu pubblicato il 20 novembre 1859 un nuovo codice (2° codice sardo), entrato in vigore il 1° maggio 1860, ed esteso nel 1861 alle provincie ex-pontificie e, per il processo contenzioso, alle provincie degli antichi ducati di Modena e Parma.
Subito dopo la costituzione del regno, si volle procedere all'unificazione legislativa anche nel campo processuale; il Pisanelli, coadiuvato da altri giuristi, compilò il progetto d'un nuovo codice di procedura civile che fu presentato, accompagnato da una relazione del suo autore, il 26 novembre 1863 al senato, e - decaduto per la chiusura della sessione - fu ripresentato alla camera il 24 novembre 1864 dal ministro Vacca. Dopo brevi discussioni nei due rami del parlamento, nelle quali il progetto non incontro serie opposizioni, in seguito alla legge 2 aprile 1865, n. 2215, che conferiva al governo la necessaria delegazione per la promulgazione dei nuovi codici, il progetto fu sottoposto all'esame della commissione di coordinamento e promulgato col r. decr. 25 giugno 1865, n. 2366, con effetto dal 1° gennaio 1866 (le disposizioni transitorie sono contenute nel r. decr. 30 novembre 1865, n. 2600). Il codice fu poi esteso alla provincia romana (decr. legisl. 27 novembre 1870, n. 6030) dal 10 aprile 1871 (i titoli I, IV e VII del libro III dal 1° febbraio 1871; le disposizioni transitorie sono contenute nel r. decr. 3 dicembre 1870, n. 6055); alle provincie venete e di Mantova col 1° settembre 1871 (legge 26 marzo 1871, n. 129; disposizioni transitorie r. decr. 25 giugno 1871, n. 284); alla Venezia Giulia e Tridentina e alla provincia di Zara col 1° luglio 1929 (r. decr. 4 novembre 1928, n. 2325). Oggi dunque il codice di procedura del 1865 si applica in tutto il regno, e forma la base del procedimento seguito nelle colonie italiane e di quello per la giurisdizione consolare nei ristretti limiti in cui è in vigore.
Il codice di procedura civile è composto di 950 articoli, divisi in un titolo preliminare (Della conciliazione e del compromesso) e in tre libri, a lor volta divisi in titoli e questi in sezioni e capi. L'ordinamento sistematico è piuttosto deficiente: il primo libro contiene, oltre alle disposizioni generali e a quelle relative alla competenza, l'intera disciplina del processo di cognizione, il secondo è dedicato al processo di esecuzione, il terzo (Dei vari procedimenti speciali), oltre alla disciplina del procedimento negli affari di volontaria giurisdizione, contiene altre disposizioni relative a varî tipi speciali di processo, sia di cognizione sia di esecuzione e cautelari. Non tutta la materia processuale è poi contenuta nel codice: a prescindere dai numerosi procedimenti speciali regolati nei codici di diritto sostanziale o in leggi speciali (es. articoli 2039 cod. civ., 71, 153, 163 cod. comm., 68-71 legge 30 ottobre 1859, n. 3731, sulle privative industriali, ecc.), e dalle norme processuali sparse nelle leggi più disparate, rimangono fuori di esso, per l'influenza dei modelli francesi, per vizio di sistema o per altre ragioni, gruppi importantissimi di norme schiettamente processuali: così le disposizioni sull'ammissibilità e sull'efficacia dei varî mezzi di prova, sulla cosa giudicata, sugli effetti e sui presupposti dell'esecuzione immobiliare e sulle condizioni dell'esecuzione mediante arresto personale, contenute nel codice civile; molte norme relative al processo in materia commerciale, e tutta la disciplina del fallimento e dell'esecuzione forzata sulle navi, contenute nel codice di commercio. Sono pure fuori tutte le disposizioni relative al procedimento avanti i giudici speciali e le leggi complementari sull'ordinamento giudiziario, sulle professioni legali, sulle tariffe giudiziarie, sul gratuito patrocinio, sui conflitti d'attribuzione.
Il codice di procedura civile è stato oggetto di parziali riforme e modificazioni, in virtù di numerose leggi. Tra le più importanti: legge 28 novembre 1875, che ha limitato i casi d'intervento obbligatorio del pubblico ministero nelle cause civili; legge 30 giugno 1876, relativa alle forme della prestazione del giuramento; legge 6 dicembre 1877, abolitrice dell'arresto personale per debiti; leggi 16 giugno 1892 e 28 luglio 1895 sui conciliatori; legge 31 marzo 1901 sulla riforma del procedimento sommario e r. decr. 31 agosto 1901 per l'esecuzione della legge stessa; r. decr. legge 20 luglio 1919 sul giudizio di delibazione; r. decr. 24 luglio 1922 sul procedimento per ingiunzione; legge 15 settembre 1922 e r. decr. 20 settembre 1922, che hanno ampliato la competenza dei pretori e dei conciliatori e dettato nuove norme per il procedimento avanti a queste magistrature; r. decr. 21 ottobre 1923 sulla notificazione degli atti giudiziarî per mezzo della posta; r. decr. 30 dicembre 1923 sulle avvocature erariali, che ha dettato norme eccezionali di competenza e di procedimento per le cause in cui è parte l'amministrazione dello stato, e così via.
Il codice di procedura civile (con le modificazioni apportatevi) costituisce la legge processuale generale alla quale si deve far capo per colmare le lacune delle leggi processuali speciali, quando questo ricorso non sia escluso dalla diversità sostanziale delle disposizioni. Questo rinvio è talora espresso (art. 101 r. decr. 1° luglio 1926, n. 1130, per il procedimento in materia di conflitti collettivi di lavoro). Invece la possibilità di ricorrere alle leggi processuali speciali per integrare la legge comune va ammessa solo in quanto le disposizioni delle leggi speciali appariscano applicazione di principî già impliciti nella legge generale.
Riforma del codice di procedura civile. - Il bisogno d'una riforma del codice di procedura civile si è fatto sentire ben presto: un primo tentativo di riforma generale, imposto dal bisogno di riparare all'assoluta deficienza di norme sul processo sommario, che nella pratica si era generalizzato, benché secondo il codice avesse carattere eccezionale, fu costituito dalla legge 31 marzo 1901 sulla riforma del procedimento sommario e dal relativo regolamento 31 agosto 1901, già citati. Questa riforma apparve ben presto limitata e insufficiente: un nuovo progetto di riforme (del quale era autore il Mortara), che, lasciando intatte le linee fondamentali del codice, introduceva numerose modificazioni particolari, fu presentato al parlamento nel 1908 dal guardasigilli Orlando, ma non giunse alla discussione parlamentare. Un esperimento di riforma, connesso alla sostituzione del giudice unico al collegio anche nei tribunali (1913), non ebbe fortuna; a pochi mesi dalla riforma si tornò all'antico. Un notevole progetto di riforma (limitato al solo progetto di cognizione), preparato dal Chiovenda, fu presentato dalla Commissione per il dopoguerra; questo progetto, inspirato al regolamento austriaco, prevedeva un processo schiettamente orale, con notevole rafforzamento dei poteri del giudice. Nel 1923 il Mortara pubblicò una sua proposta di riforma, che in parte riproduceva il progetto Orlando del 1908. Conferita, con legge 30 dicembre 1923, n. 2814, la delegazione legislativa al governo del re per la riforma dei codici, veniva nominata la Commissione reale per la riforma, e alla sottocommissione C (pres. Mortara, vicepres. Chiovenda) veniva affidata la preparazione del codice di procedura civile. Il Carnelutti, relatore, preparò un progetto, notevolissimo per l'originalità della concezione, per l'armonia della costruzione, per la praticità delle soluzioni, e che servì di base al progetto presentato dalla sottocommissione al ministro guardasigilli nel giugno 1926. Ai principî del progetto, che dovrebbero servire di base all'attesa riforma, è informato ora il processo per la risoluzione delle controversie collettive del lavoro avanti la magistratura del lavoro (r. decr. 1° luglio 1926, n. 1130; tit. V, capo III).
Bibl.: Sui precedenti e le vicende del codice di procedura civile italiano vedi: G. Chiovenda, Princ. di dir. process. civ., 3ª ed., Napoli 1923, pp. 1-18; F. Carnelutti, Lezioni di dir. process. civ., I, Padova 1920, nn. 64-65; A. Olivieri, s. v. Codice di proc. civile, in Dig. ital. di O. Secchi (1899) e in Encicl. giur. ital. Per la legislazione tedesca vedi A. Wach, Handbuch des deutschen Zivilprozessrechts, I, Lipsia 1885, pp. 129-155; R. Schmidt, Lehrbuch des deutschen Zivilprozessrechts, 2ª ed., Friburgo e Lipsia 1906, par. 5 segg., spec. par. 20; per l'austriaca, R. Pollak, System des österr. Zivilprozessrechts, Vienna 1903, par. 16; per la francese, Garsonnet, Trattato di proc. civ. (trad. it. Lessona), II, Milano 1912, par. 533-540; per la legislazione svizzera (ogni cantone ha un codice di procedura civile, quali derivanti dal processo francese, quali dal tedesco, taluni con forti reminiscenze del diritto comune; alcune materie sono regolate dalla legislazione federale); A. Heusler, Der Zivilprozess der Schweiz, Mannheim 1923, e F. Carnelutti, Il processo civile della Svizzera, in Riv. di dir. proc. civ., I (1924), i, p. 350; per le legislazioni scandinave (Danimarca e Norvegia hanno codici processuali rispettivamente del 1916, in vigore dal 1919, e del 1915, in vigore dal 1923, derivati dal codice tedesco, Svezia e Finlandia hanno invece leggi che rimontano al 1734); Wrede, in Rheinische Zeitschrift für Zivil-und Prozessrecht, X (1924), pp. 362-75 e P. Calamandrei, Il processo civile della Svezia e della Finlandia, in Riv. dir. proc. civ., II (1925), I, p. 240 segg.; per il processo spagnolo (codice del 1881): F. Beceña, Caratteri generali del processo civile in Ispagna, in Studi di diritto processuale in onore di G. Chiovenda, Padova 1925, p. 3 segg., e J. Xirau, Le condizioni attuali del processo civ. in Spagna, in Riv. di dir. proc. civ., II (1925), i, p. 148. Per il processo portoghese (codice del 1876 riformato nel 1926 sulle orme del progetto Chiovenda del 1920): J. A. Dos Reis, La riforma del processo civile port., in Riv. dir. proc. civ., VII (1930), i, p. 158.
Sull'interpretazione del codice di procedura civile e la sua posizione nel sistema delle leggi processuali v. oltre Chiovenda, Principii cit., par. 4, e Carnelutti, lezioni cit., I, n. 65, Al. Rocco, L'interpretazione delle leggi processuali, in Arch. giur., XXVII (1906), p. 87 segg. Sul progetto di riforme del 1908 v. M. D'Amelio, Nuove disposizioni intorno all'ordine e alla forma dei giudizi, in Riv. dir. comm., VI (1908), i, p. 370 segg. e M. De Palo, La riforma della proc. civ. nel progetto Orlando, in Riv. dir. comm., VII (1909), i, p. 682.
Il progetto Chiovenda è stato pubblicato nel 1920: La riforma della procedura civ. proposta dalla Comm. per il dopo guerra: relaz. e testo annotato a cura di G. Chiovenda, Napoli 1920. Il progetto Mortara è stato pubblicato in Giur. ital., 1923, e 1924, con osservazioni dell'autore. Il progetto Carnelutti è stato pubblicato nel 1926 in due fascicoli (F. Carnelutti, Prog. del codice di proc. civ. presentato alla Sottocommissione reale: I, Processo di cognizione; II, Processo di esecuzione, Padova 1926), senza relazione; poi è stato pubblicato il progetto della sottocommissione reale (Roma 1927). Illustrazione del progetto e supplemento alla mancanza di una relazione è lo scritto del Carnelutti, Lineamenti della riforma del processo civile di cognizione, in Riv. dir. proc. civ. VI (1929), p. 3 segg. Riguardo all'esame del progetto: E. Betti, Osservazioni sul progetto del codice di proc. civ. presentato dalla sottocomm. per la riforma, in Ann. dell'Ist. di dir. comp. e di studî legislativi, II-III (1928-29), Roma 1929; Calamandrei, per la definizione del fatto notorio, in Riv. dir. proc. civ., II (1925), i, 273 segg.; id., Il concetto di lite nel pensiero di F. Carnelutti, in Riv. dir. proc. civ., V (1928), i, 3 segg., 89 segg.; Carnelutti, Lite e funz. process.; Lite e processo, ibid., 23 segg., 99 segg.
Il codice penale.
Il codice penale dell'Italia unificata (1889), si ricollega alle leggi penali di Roma, a quelle germaniche, ecclesiastiche, comunali e delle grandi monarchie che chiusero il Medioevo e, specialmente, al movimento riformatore (illuministico) della rivoluzione francese, concretatosi nel libro Dei delitti e delle pene del Beccaria (1764) e realizzato in alcuni dei codici degli ex-stati italiani. L'impulso alla codificazione penale promana dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (26 agosto 1789), che, superando il diritto penale comune, diede luogo al Code pénal del 6 ottobre 1791, votato dall'assemblea costituente. Il periodo napoleonico diede alla Francia il codice penale del 1810, tuttora in vigore, con modificazioni e aggiunte. In Italia, le idee rinnovatrici del Beccaria influirono direttamente sulla legislazione criminale della Toscana, dove il granduca Pietro Leopoldo compì una riforma audace per quei tempi. Negli altri stati d'Italia le codificazioni penali furono dominate dall'esempio del codice Napoleone. Tra la fine del 1700 e i principî dell'800, le leggi francesi furono introdotte nel Piemonte, nella Lombardia, nella Venezia, nella Liguria, nella Toscana, nel regno di Napoli. Il processo di formazione dell'unità italiana trovava i seguenti codici penali in vigore in ciascuno degli ex-stati: in Piemonte il codice sardo del 20 novembre 1859; in Lombardia e nella Venezia il codice 27 maggio 1852 (modellato sopra quello austriaco del 1803); in Toscana il codice penale e il regolamento di polizia punitiva del 20 giugno 1853; nel ducato di Parma, Piacenza e Guastalla il codice del 1820; nel ducato di Modena il codice estense del 1855; negli Stati della Chiesa, il regolamento sui delitti e sulle pene promulgato da Gregorio XVI il 20 settembre 1832; nel Napoletano, il codice per il regno delle Due Sicilie del 26 marzo 1819. Raggiunta l'indipendenza, il codice sardo venne man mano esteso ai nuovi territorî (con modificazioni e aggiunte nelle provincie napoletane), tranne che alla Toscana, la quale serbò il suo codice che non aveva la pena capitale. La differenza esistente, rispetto alla pena di morte, tra il codice toscano e il codice sardo-italiano, esteso a tutto il resto del regno, ritardò la formazione del nuovo codice penale unico. Non si voleva, da una parte, rinunziare alla pena capitale e, dall'altra, sembrava impossibile ripristinarla in Toscana. Una serie di progetti testimonia degli sforzi che l'Italia dovette sostenere per giungere alla unificazione legislativa penale. I primi studî risalgono al ministro Pisanelli (1863-64); da essi uscì un progetto del solo libro 1°, elaborato dal De Falco. Due commissioni furono nominate, rispettivamente, nel 1865 e nel 1866, dai ministri Cortese e De Falco, entrambe presiedute dal Pisanelli e che finirono col fondersi, col frutto di un progetto di codice penale e di un progetto di codice di polizia punitiva, poi fatti rivedere da un'altra commissione nominata dal ministro Vigliani (progetti del 15 aprile 1870). Il Vigliani, nel 1874, presentò al senato un progetto che, per essere stato ampiamente discusso da quel consesso, prese il nome di "progetto senatorio": esso servì di base agli ulteriori studî. Con l'avvento della Sinistra al potere, il nuovo guardasigilli P.S. Mancini, nel 1876, nominò una commissione per la revisione del progetto Vigliani: il 1° libro fu presentato e approvato dalla camera dei deputati nel 1877, ma non giunse in porto per l'opposizione del senato all'abolizione della pena di morte che quel progetto stabiliva. Gli studî furono proseguiti dai ministri Conforti e Villa, finché non divenne guardasigilli lo Zanardelli, che preparò un progetto con innovazioni proprie (1882-1883). Non ebbero successo gli sforzi del ministro Savelli che quel progetto sostanzialmiente accettava (1883); né quelli del Pessina che nel 1885 presentò alla camera lo stesso progetto con ulteriori modificazioni. Ritornato al potere, lo Zanardelli riprendeva il suo progetto del 1883 tenendo, peraltro, conto dei successivi studî, e così, con decreto 30 giugno 1889, veniva pubblicato il nuovo codice penale, il quale entrò in vigore il 10 gennaio 1890. Con r. decr. 1° dicembre 1889, n. 6500, furono emanate le norme di attuazione.
Il codice penale Zanardelli, venuto alla luce in un momento di transizione, ha risentito solo in minima parte l'influenza della scuola criminale positiva: notevole, peraltro, è la rinunzia alla "libertà di elezione" come fondamento dell'imputabilità e l'adozione della volontà empirica, nonché l'accoglimento di alcune misure di sicurezza riguardo ad alcuni dei cosiddetti incapaci di diritto penale (il capov. dell'art. 46, nel caso di proscioglimento dell'infermo di mente, tiene in conto la "pericolosità" per obbligare il giudice penale a disporre la consegna dell'individuo all'autorità di pubblica sicurezza per i provvedimenti d'ordine cautelare). Il codice Zanardelli consta di 3 libri: parte generale, delitti, contravvenzioni (abbandona la tripartizione dei reati in: crimini, delitti e contravvenzioni, corrispondente al triplice ordine dei giudici). Esso, inoltre, ha il dettato chiaro ed efficace, senza definizioni dottrinali. In genere, è piuttosto mite nelle pene, oltre all'avere abolito la pena capitale; tuttavia, molto confidava nella segregazione cellulare, contro cui è nota la crociata del Ferri. Nonostante il progresso da esso rappresentato nel tempo in cui fu emanato, il codice Zanardelli si è manifestato impari e non adatto a contenere energicamente il movimento della delinquenza che andava aumentando nel dopoguerra. Specialmente, è stata avvertita dai giuristi e dai pratici la necessità: a) di adottare provvedimenti adeguati contro i delinquenti infermi di mente, anormali psichici, ubriachi, tossicomani; b) di organizzare un sistema prevalentemente educativo per i minorenni delinquenti meritevoli di essere trattati con criterî peculiari, avuto riguardo alle cause specifiche di questa forma di delinquenza; c) di adottare sanzioni a tempo indeterminato per i delinquenti abituali; d) in generale, di tener conto delle esigenze di prevenzione, oltreché di quelle di repressione; e) di facilitare la riabilitazione dei delinquenti occasionali; f) di rinunziare, in taluni casi, alla repressione (perdono giudiziale); g) di individualizzare il trattamento per ciascun delinquente, avuta presente la caratteristica di ciascun reo, rivelata dai precedenti, dalle qualità del reato, dai motivi a delinquere; h) di far vigilare dal giudice penale l'esecuzione; i) di abolire la disumanizzante segregazione cellulare; l) di rendere obbligatorio il lavoro carcerario, autorizzandone l'esplicazione anche all'aperto; m) di assistere, con apposite istituzioni, il liberato dal carcere, per evitare le funeste occasioni di ricaduta nel delitto. Insufficiente fu il tentativo compiuto dal ministro Scialoja, presentando alla camera dei deputati il 10 marzo 1910 un progetto d'interpretazione autentica di alcuni articoli del codice penale (che risolveva solo alcune questioni, ma non toccava le riforme essenziali). Un macchinoso progetto Quarta (1912), relativo ai minorenni delinquenti, non ebbe seguito. Similmente non ebbe seguito un progetto Luzzatti contro la recidiva e l'abitualità criminosa. Un tentativo per combattere integralmente la criminalità, dal punto di vista positivista, è quello rappresentato dal progetto Ferri di codice penale italiano (1° libro; 1921), redatto da una commissione, nominata dal guardasigilli Mortara e presieduta dal Ferri e composta di giuristi e di biologi. Adottava il principio della responsabilità legale o sociale, prevedendo una serie di sanzioni (esclusa la pena nel senso tradizionale) a tempo indeterminato da adattarsi alla personalità di ciascun autore di reato, conferiva ampî poteri al giudice nell'applicazione delle sanzioni, fino alla concessione del perdono giudiziale e curava in particolar modo l'esecuzione delle misure reattive, sia col chiamare il giudice a sopraintendervi sia con assumere a fulcro del regime penitenziario il lavoro. Il progetto Ferri ebbe larga eco nel mondo; ma le vicende parlamentari arrestarono i lavori di questa commissione; finché, con l'avvento del governo fascista, non fu approvata la legge 24 dicembre 1925, n. 2260, la quale dava al governo la facoltà, fra l'altro, di "emendare il codice penale". In esecuzione di tale mandato, l'on. Rocco preparò un progetto, assai elaborato, che rese di pubblica ragione nella estate del 1927. Esso, dal punto di vista politico, si proponeva di presidiare più efficacemente lo stato e il principio di autorità, di eliminare ogni ingiustificato "sconto di pena" al delinquente, coerentemente a una diversa concezione inspirata dal fascismo. Quindi, il progetto Rocco aumentava in genere le pene, consentiva il cumulo delle medesime nell'ipotesi di reati concorrenti, e instaurava un maggior rigore, anche col ripristino della pena di morte. Dal punto di vista della orientazione scientifica, il progetto Rocco conservava il cardine della imputabilità, intesa come "capacità d'intendere e di volere" secondo la formula escogitata dal Manzini. Tuttavia, il progetto largamente rispondeva alle esigenze poste in luce dal positivismo, specialmente con organizzare una serie organica di misure di sicurezza, da adottarsi, a tempo indeterminato, riguardo ai soggetti infermi di mente, agli immaturi per età, ai delinquenti abituali e professionali, con procedimento che ammette la revisione periodica del giudicato. Il progetto Rocco ammetteva perfino la figura del delinquente "per tendenza" (il testo originario usava l'aggettivo "istintiva"), risultato caratteristico dello sperimentalismo penale, e il concetto educativo delle pene, imponendo l'obbligo del lavoro e disponendo il controllo da parte del giudice. Il perdono giudiziale, come caso di constatazione della mancanza di pericolosità dell'autore di reato, era limitato ai minorenni. Opportune disposizioni reagivano contro i soggetti ubriachi e intossicati, che prima erano trattati come non del tutto imputabili. L'elenco dei reati era più numeroso che non nel codice del 1889, il pubblico ufficiale tutelato meglio nel suo prestigio, i reati contro la stirpe costituivano per la prima volta un titolo a sé. Il progetto preliminare di codice penale subì una profonda revisione per opera di una commissione ministeriale presieduta dal sen. Appiani e quindi di una commissione interparlamentare presieduta dal sen. D'Amelio. Il testo definitivo è stato approvato e pubblicato con r. decr. 19 ottobre 1930 e andrà in attuazione il 1° luglio 1931. Quantunque i presupposti filosofici del nuovo codice non siano del tutto rettilinei, specie per il dualismo che crea fra pene e misure di sicurezza, fra imputabilità e pericolosità (è da notare che l'imputabilità appare fittizia e artificiosa in alcuni casi, grazie a una soverchia estensione del principio delle actiones liberae in causa), dal punto di vista pratico, realizza una felice fusione dell'elemento giuridico col biologico, mostrando di avere saputo valutare alcuni risultati delle indagini positiviste.
Non manca chi avrebbe preferito una semplice integrazione del codice penale del 1889 con apposite leggi di prevenzione criminale, sull'esempio dell'Inghilterra, del Belgio e della Francia; ma la creazione di un intero nuovo codice è da ritenere senza dubbio opera migliore, perché ha consentito la revisione di tutti i concetti giuridici e degl'istituti tradizionali, conformemente alle esigenze della tecnica più progredita, e consentirà un utile esperimento delle cosiddette tendenze eclettiche e conciliative dei vecchi principî con i nuovi.
Bibl.: E. Ferri, principî di dir. criminale, Torino 1928, p. 13 segg.; E. Florian, Parte generale del dir. pen., Milano 1926, I, pp. 134, 154; U. Spirito, Storia del dir. pen. ital., Roma 1925, II, Appendice; id., Il nuovo dir. penale, Venezia 1929; S. Longhi, Prevenzione e repressione nel dir. pen. attuale, Milano 1911; id., Per un codice della prevenzione crim., Milano 1922; C. Saltelli ed E. Romano, Commento teorico-pratico del nuovo cod. pen., Roma 1930.
Codice di Procedura Penale. - La procedura moderna, come il diritto penale, trae la sua origine dal movimento d'idee della seconda metà del sec. XVIII. Al Montesquieu si deve l'affermazione che il codice di procedura penale non è soltanto il codice dei malfattori, ma il "codice della libertà". Il Beccaria, poi, protestò contro gli abusi della detenzione preventiva, le accuse segrete, gl'interrogatorî capziosi, la tortura, il giuramento imposto agl'imputati, la prova legale. La Rivoluzione francese consacrò le prime conquiste della moderna procedura criminale. Il Code d'instruction criminelle del 1808 è il primo vero codice di procedura penale distinto dal codice penale sulle tracce del codice 3 brumaio dell'anno IV, del quale conserva la denominazione che si riferisce a una fase sola del processo, l'istruzione giudiziaria. Il codice del 1808 segue un tipo misto di procedimento: a una fase inquisitoria fa seguire un'altra accusatoria. L'accusa spetta a un organo apposito, il pubblico ministero, distinto dal giudice; il danneggiato può esercitare l'azione civile nel processo penale; è bandita la prova legale e sostituita con il libero convincimento del giudice; si tende a conferire uguali diritti all'accusatore e all'accusato, specialmente nella fase del giudizio; il processo, durante l'istruzione, è scritto e segreto, mentre è orale e pubblico nel giudizio; l'esecuzione delle sentenze non è abbandonata al volere del pubblico ministero. Il codice francese di procedura, come quello penale, costituì il paradigma di tutta la legislazione processuale europea dell'Ottocento. Un tentativo di codice nazionale fu compiuto in Italia, nel 1806, dal Romagnosi, per incarico del Luosi, per il regno italico; ma esso non ebbe seguito. Degli ex-stati italiani, il regno delle Due Sicilie, dopo il codice giuseppino del 1808, ebbe il codice borbonico del 1819, il quale dedicava la parte 4ª al diritto processuale: esso, pur imitando il sistema francese, ha caratteristiche proprie. Nello stato pontificio, Gregorio XVI, nel 1831, emanò un regolamento di procedura che s'inspirava al sistema inquisitorio. In Toscana, il sistema inquisitorio fu consacrato col motu proprio del 1849. ll ducato di Modena, con il codice del 1855, conservò quasi intatto il sistema anteriore alla Rivoluzione francese. Il ducato di Parma ebbe un codice del 1820, frutto dell'imitazione del codice francese, ma senza giuria. Il Lombardo-Veneto, dopo l'estensione del codice austriaco del 1803 a tipo inquisitorio, ebbe nel 1853 un codice a tipo misto. Negli stati sardi fu emanato nel 1847 un codice a sistema misto e, istituita la giuria con legge 26 marzo 1848, seguì il codice del 1859, che fu esteso a tutto il regno, con modificazioni rese necessarie dalla riconosciuta superiorità delle leggi napoletane. Il codice di procedura penale dell'Italia unificata reca la data del 26 novembre 1865. Ma questo codice, come quello francese, si rivelò ben presto insufficiente: non poche leggi vennero a modificarlo (legge sulla condanna condizionale del 1904, legge del 1902 sul casellario giudiziale, legge del 1906 sulla riabilitazione, ecc.). La convinzione della necessità di una riforma fu espressa dal De Falco, nel 1866. Seguirono progetti di nuovi codici o di parziali riforme: il progetto De Filippo del 1868, un progetto De Falco del 1871, il progetto Villa del 1880; il progetto Taiani del 1885, il progetto Ferraris del 1891, quello Calenda del 1895, il progetto Finocchiaro-Aprile del 1905, il progetto Orlando del 1909, la nuova edizione del progetto Finocchiaro-Aprile del 1911, che fu poi approvato e pubblicato con r. decr. 27 febbraio 1913 e andò in vigore il 1° gennaio 1914; esso rimane in vigore fino al 30 giugno 1931. Da queste vicende si rileva che, se è stato relativamente agevole risolvere, appena compiuta l'unità d'Italia, il problema dell'unificazione formale delle leggi di procedura penale, in confronto del tempo molto più lungo occorso per compilare il codice penale nazionale che reca la data del 1889, molto più difficile e laborioso fu il processo formativo di un codice di procedura penale nazionale, per il quale si è dovuto attendere il 1913 (non potendosi tener conto del frettoloso raffazzonamento del 1865). In realtà, il codice del 1913, mentre ha un'impronta assai liberale nel suo insieme (basti ricordare che ammette l'intervento, sia pure limitato, della difesa dell'imputato nell'istruzione, e che limita i casi e il tempo della carcerazione preventiva), dal punto di vista tecnico-giuridico è espressione di un felice risveglio degli studî processuali. A taluno, anzi, è apparso un po' troppo dottrinario nella sua struttura e nelle definizioni. Sotto quest'aspetto, esso mostra l'influenza dei codici e delle dottrine processuali tedesche. Il codice del 1913 si divide in quattro libri. Nel I sono ordinate le disposizioni generali, e cioè le azioni nascenti dal reato, il giudice, le parti, gli atti processuali (compresi in essi le nullità e i termini). Il libro II comprende la materia attinente alla raccolta delle prove, cioè gli atti iniziali dell'istruzione, l'istruzione formale, l'istruzione sommaria, il regime della libertà personale dell'imputato, i mezzi d'impugnazione dei provvedimenti dati dal giudice nell'istruzione. Il libro III disciplina il giudizio, nei tre momenti degli atti preliminari, del giudizio, delle impugnazioni. Il libro IV regola l'esecuzione dei giudicati e alcuni istituti speciali (il casellario, la riabilitazione dei condannati, i rapporti giurisdizionali fra autorità italiane e straniere). Questo codice, pur rappresentando un progresso, non appagò del tutto gli studiosi e i pratici; a un anno di distanza dalla sua entrata in vigore, l'on. Orlando, con r. decr. 28 marzo 1915, nominò una commissione per la revisione di esso, commissione i cui lavori non ebbero seguito. Felici innovazioni del codice del 1913 sono: l'introduzione del procedimento per decreto (che importa, per talune contravvenzioni, la condanna senza giudizio), l'estensione dell'istruzione sommaria affidata al pubblico ministero, l'ordinamento di norme generali sulle impugnazioni, la disciplina della riapertura dell'istruzione, la restituzione in termini, la determinazione del sistema delle nullità (pur col difetto di un'eccessiva larghezza), l'estensione a tutti i giudici dei poteri discrezionali spettanti prima al solo presidente di assise, l'ammissione piuttosto larga della revisione, l'ordinamento degl'incidenti di esecuzione come autonomo momento giurisdizionale. Accanto a tali pregi, l'esperienza ha rilevato non pochi difetti: esagerata applicazione del principio dell'unità della giurisdizione, per il quale le decisioni penali fanno stato nel processo civile e, cosa eccessiva, le decisioni civili fanno stato nel penale; erroneità di una definizione ristretta dell'imputato, dalla quale si fa dipendere l'esercizio dei diritti processuali; erroneità di avere troppo giurisdizionalizzata la figura del pubblico ministero, che è bene che rimanga parte attiva ed energica; necessità di sfrondare il sistema delle nullità; necessità di rendere meno artificioso il congegno delle perizie e di rendere possibile il riesame delle medesime; complicazione farraginosa di interferenze fra giudice istruttore e pubblico ministero nell'istruzione sommaria; possibili contraddizioni di giudicati nei giudizî contumaciali; abuso del ricorso per cassazione, che andrebbe ridotto a pochi casi; necessità di ammettere la revisione in peius. Tali esigenze di riforme hanno indotto il governo a chiedere al parlamento la delega della facoltà di emendare, insieme con il codice penale e la legge di pubblica sicurezza, il codice di procedura penale, benché questo conti appena tre lustri di vita. Con legge 24 dicembre 1925, n. 2260, fu accordata la delega, secondo la quale non si tratterebbe di sostituire un nuovo testo al codice di procedura penale ma solamente di "modificare le disposizioni di questo, tenendo conto degl'inconvenienti messi in luce dalla sua applicazione pratica e di emendare gli articoli che hanno dato luogo a controversie o che comunque siano riconosciuti formalmente imperfetti". Coerentemente al generale orientamento dello stato fascista, è stata elaborata una riforma nel senso del rafforzamento dell'autorità dello stato, pur senza menomare le garanzie inerenti all'imputato e alle altre parti. Un punto importante, messo in luce sin dalla relazione ministeriale al progetto di delega, è il ritorno, voluto dal guardasigilli on. Rocco, all'istruzione formale come tipo comune e normale, mentre col codice processuale del 1913 il tipo di istruzione normale era quello sommario. Lo scopo di questa innovazione è di evitare che il pubblico ministero, quale organo essenziale del processo, istituito per svolgere l'azione penale con energia e continuità, disperda le sue possibilità nell'istruzione penale, la quale mira all'assicurazione delle prove e a una prima valutazione di esse ai fini del rinvio a giudizio.
Il nuovo codice processuale penale ha avuto un'elaborazione meno lunga del codice penale: il progetto preliminare fu compiuto nell'estate del 1929. Nel 1930 fu sottoposto all'esame della commissione interparlamentare presieduta dal sen. D'Amelio; con r. decr. 19 ottobre dello stesso anno il testo definitivo veniva approvato e pubblicato per andare in vigore col 1° luglio 1931. Nel nuovo codice processuale il pubblico ministero è veramente responsabile dell'esercizio dell'azione penale, essendo sottratto tale momento al controllo del giudice e dovendo tuttavia l'organo dell'accusa rispondere ai suoi superiori e al governo. Sono soppresse le norme speciali sui giudizî di assise regolati da apposito decreto. Le nullità processuali sono tutte sanabili con l'acquiescenza delle parti e, per essere rilevanti, devono recare alle medesime un reale pregiudizio. La condizione d'ammissibilità del ricorso per cassazione, consistente nell'obbligo per il condannato di costituirsi in carcere, è estesa alle altre impugnazioni. Come correttivo del divieto della reformatio in peius è conferito al pubblico ministero il diritto di proporre appello incidentale. Al contumace si attribuisce pienezza di difesa nel giudizio, abolendosi la limitazione della prova. Conseguentemente al contumace spettano quei soli mezzi d'impugnazione della sentenza, che sono attribuiti alle parti presenti nel giudizio. La difesa è esclusa dalla fase istruttoria; la discussione del dibattimento è sottoposta alle giuste limitazioni che il giudice crederà di prescrivere. È soppresso il mezzo straordinario del ricorso nell'interesse della legge e la revisione è limitata solo a favore del condannato. Sono soppresse le artificiose limitazioni nel definire la qualità di "imputato", che ostacolavano l'esercizio dei diritti processuali dell'individuo. In complesso, la legislazione italiana compie un notevole progresso sia con l'equilibrare meglio le esigenze della persecuzione penale con le garanzie dovute all'imputato (non più assistito dalla vieta presunzione dí innocenza), sia con il precisare le singole norme e gl'istituti.
Bibl.: L. Lucchini, Elementi di procedura pen., Firenze 1908, p. 43 seg.; E. Florian, Il processo penale ed il nuovo codice, Milano 1914: B. Alimena, Procedura penale, Napoli 1914, p. 22; V. Manzini, trattato di dir. processuale pen. ital., Torino 1925, I, p. 57; E. Massari, Lineamenti del processo penale italiano, Napoli 1929, p. i seg.; A. Rocco, Relazione ministeriale, al progetto di pieni poteri per la riforma del cod. pen. e del cod. di proc. pen., riprodotto da Scuola positiva. I (1925), p. 260; U. Spirito, storia del dir. pen. it., Roma 1925, II, p. 170 seg.: R. De Notaristefani, Del giudizio, in Commento del cod. di proc. pen., diretto dal Mortara, Torino 1923, VI, passim, e specialmente p. 32 seg. (in questo volume sono riprodotte interessanti notizie storiche sulla procedura).
Codice penale militare.
La necessità di una legge penale militare, distinta e separata dalla legislazione comune, venne sempre riconosciuta, e, allorquando s'iniziarono le codificazioni nei varî paesi civili, giammai mancò la sistemazione del diritto penale militare, sia dal punto di vista sostanziale e cioè dell'indicazione dei fatti ritenuti violatori di norme penali, sia dal punto di vista formale e cioè delle discipline processuali, che regolano l'applicazione delle sanzioni punitive.
Le speciali esigenze della vita militare e della disciplina, le supreme finalità alle quali è indirizzata la costituzione delle forze armate di uno stato, le caratteristiche dei reati che derivano dalla violazione di doveri militari, o che da essi traggono origine, la necessità della conoscenza esatta dell'ambiente nel quale si svolgono i reati, sono fra le principali ragioni per le quali fu sempre riconosciuto, insieme con il diritto comune, anche quello marziale, diritto quest'ultimo che non è straordinario o eccezionale, ma soltanto speciale per la qualità personale dell'agente, che deve militare sotto le bandiere, nelle varie manifestazioni terrestri, marittime, aeree, o di altri servizî speciali.
Senza occuparsi dei precedenti storici della legislazione penale militare, che nel Digesto (XLIX, 16, de re militari) trova già una sistemazione organica, si può affermare che l'influenza delle leggi francesi (Code des délits et des peines pour les troupes de la République, 11 novembre 1796) si fece sentire nei varî stati italiani, ognuno dei quali ebbe i proprî regolamenti, statuti, articoli di guerra, codici, ecc., come variamente furono chiamati. Nel Piemonte dal r. editto penale militare 27 agosto 1822 e dal r. editto penale militare marittimo 18 luglio 1826, si passò al codice penale militare 28 luglio 1840, al quale succedette il codice 1°0 ottobre 1859 esteso al regno d'Italia. Il 15 febbraio 1870, divennero obbligatorî i codici per l'esercito e per la marina promulgati con le leggi 28 novembre 1869, n. 5378 e 5367, ancora vigenti, benché siano stati ripetutamente presi in esame per una riforma.
Col r. decreto 28 giugno 1925 fu istituita una commissione presieduta dal senatore Di vico, la quale attende alla compilazione d'un progetto per le forze armate, tenendo conto delle nuove esigenze e dell'ammaestramento della grande guerra europea, durante la quale fu necessario completare con numerose provvidenze legislative le disposizioni dei codici militari vigenti. Si deve però rilevare che nel complesso i codici vigenti non vennero meno alle finalità che si proponevano, e alle quali miravano le leggi militari. È certo che i codici militari in vigore e riferentisi alla legislazione penale del 1865 e agl'istituti giuridici ivi contenuti, se avevano reale bisogno di essere coordinati con le disposizioni del codice penale (1889) e di procedura penale (1912), successivamente promulgati, con la sostituzione anche di questi ultimi, risentiranno ancora di più la necessità d'una riforma coordinatrice.
I reati previsti nei codici militari hanno necessariamente per presupposto la qualità militare dell'agente, e solo per eccezione si estendono anche agli estranei alla milizia per determinate forme di reati che riguardano la sicurezza dello stato, quali il tradimento, lo spionaggio, ecc. Per il codice italiano la suindicata giurisdizione militare si avvera soltanto per il tempo di guerra, soluzione molto discussa in dottrina. Attualmente però una parte di questi reati venne sottratta alla giurisdizione ordinaria con la legge 25 novembre 1926, n. 2008, che riconosce la competenza del tribunale speciale per la difesa dello stato per i delitti di spionaggio; ma si deve tenere presente che la durata di detto tribunale speciale fu fissata in 5 anni e nel 1931 prorogata di altri 5. Il reato militare, oltre che dall'elemento soggettivo sopra indicato, è costituito dalla violazione di un precetto (comando o divieto) preveduto da una legge penale militare, e questa, per i codici vigenti, comprende sia reati esclusivamente militari, sia reati con i quali è leso un interesse comune, insieme con interessi militari (reati obiettivamente militari).
Sotto questo riflesso una teorica, che ha pure trovato codificazione in leggi di altri paesi e formerà tema di discussione nel progetto che si sta elaborando, pensa di comprendere molti reati nel codice penale militare, opinando che ogni violazione di legge penale costituisce per il militare, innanzi tutto la violazione del giuramento dato di osservare tutte le leggi, e una offesa al prestigio e al decoro dell'esercito, siccome si esprime la relazione della commissione speciale senatoria sull'autorizzazione al governo di provvedere alla riforma della legislazione penale militare (rel. D'Amelio, legisl. XXVII, 1ª sess., 1924-1926, p. 12).
Nei codici vigenti si è seguito un sistema misto, perché per taluni ieati (p. es. furto e altri reati contro la proprietà e la fede pubblica) si riconosce la giurisdizione militare, ravvisandosi prevalente l'offesa ai doveri militari, per quanto esista pure una lesione concorrente di diritto comune, e certamente il sistema seguito formerà tema di discussione. Attualmente sono compresi nei codici penali militari i reati di servizio, costituiti: dalla provocazione di guerra mediante atti ostili arbitrarî; dalla provocazione di rappresaglie mediante atti arbitrarî; dalla resa o perdita dolosa o colposa di truppe in aperta campagna o di fortezza; dall'abbandono di comando; dalla disobbedienza all'ordine di non attaccare; dalla violata solidarietà nelle capitolazioni; dall'incitamento alla codardia e dalla codardia (reati tutti che presuppongono uno stato di guerra); dall'abbandono di posto e dalla violata consegna; dall'ubriachezza in servizio, ecc. Seguono poi i reati contro la disciplina e cioè: la disobbedienza; la rivolta; l'ammutinamento e l'insubordinazione nelle loro varie forme semplici e aggravate; la diserzione; la subornazione (istigazione fatta a militare, anche da parte di persona estranea alla milizia, a commettere reato militare, e cioè previsto dalle leggi militari); l'abuso d'autorità; gli atti di violenza commessi in occasione d'alloggio militare o nell'esecuzione di un ordine o di una consegna; le ferite e percosse tra militari di grado uguale (resta escluso l'omicidio, anche preterintenzionale, e la lesione che abbia cagionata malattia o incapacità al servizio oltre i 30 giorni, il che costituisce grave lacuna); la mutilazione volontaria, i reati di calunnia e di diffamazione, comprendendosi in quest'ultima anche l'ingiuria.
Altro gruppo è quello dei reati contro la fede pubblica (falso, anche di certificati e di congedi); contro l'amministrazione (prevaricazione - e cioè peculato e infedeltà e quindi ogni frode in fornitura - corruzione); contro la proprietà (furto, truffa e appropriazione indebita - purché il soggetto passivo del reato sia l'amministrazione militare, o un militare - incendio e deterioramento di edifici, opere e oggetti militari). I codici hanno poi una parte speciale riguardante il tempo di guerra, durante il quale molti delitti, ordinariamente di competenza ordinaria, passano alla giurisdizione militare (omicidî, devastazioni, saccheggi, reati contro le pubbliche autorità, stupro, grassazione, rapina, busca, ecc.) e infine si occupano delle disposizioni procedurali. Si tratta quindi di un sistema completo di codificazione di per sé stante, e indipendente dalla codificazione ordinaria e civile.
Bibl.: F. Gabrieli, La legislazione penale militare, Torino 1918, voll. 3; Giurisprudenza del Tribunale supremo, 1863-1915, Roma (dal 1863 al 1876 col nome di Astrea) e successivamente Massimario delle sentenze del tribunale supremo (Noseda, Ciancarini, Ciardi); Manzini, Commento ai codici penali militari, V. Torino 1916; id., Diritto penale militare, Padova 1928 (solo diritto sostanziale); id., Legislazione penale di guerra, Torino 1918; I. Mel, I codici penali militari per l'esercito e per l'armata, Napoli 1880; G. Nappi, trattato di dir. e proc. pen. mil., Milano 1917; P. Vico, Diritto penale militare, in Enciclopedia del dir. pen. ital., XI, parte 1ª, 1908 (Diritto sostanziale); id., Diritto penale formale militare, ibid., VI, parte 2ª, I, Milano 1917.
Codice penale militare marittimo. - La necessità d'una legislazione penale militare marittima distinta da quella per l'esercito fu sentita molto tardi, sotto l'impulso dei progressi nautici e dell'accresciuta importanza della marina militare. Nella prima metà del sec. XIX, nei varî stati d'Italia, troviamo lo statuto penale 30 giugno 1819 per l'armata delle Due Sicilie e il r. editto penale militare marittimo sardo, promulgato da Carlo Felice il 18 luglio 1826. Dopo la pubblicazione del codice penale militare del 1859, il Cavour dava incarico all'on. Vigliani di compilare un progetto di codice penale militare marittimo; progetto che, dopo varie vicende, venne approvato con legge 28 novembre 1869, n. 5366.
Il codice penale militare marittimo è anche oggi la fonte principale del diritto penale militare marittimo; conta 607 articoli e consta di due parti: 1. dei reati e delle pene; 2. della procedura penale. La prima parte è suddivisa in due libri, oltre alcune disposizioni preliminari (art. 1 e 2). Il libro 1° contiene disposizioni relative tanto al tempo di pace quanto al tempo di guerra; nel titolo 2°, disposizioni generali (pene, applicazioni delle pene, estinzione dei reati e delle pene); nel titolo 2°, disposizioni speciali, in 20 capi, sotto i quali sono raggruppati i titoli d'incriminazione della legge penale militare marittima. Il libro 2° contiene esclusivamente le disposizioni relative al tempo di guerra. La seconda parte, che tratta della procedura penale, contiene, in sette titoli, le disposizioni sulla costituzione dei tribunali di marina, sulla competenza, le regole di procedura avanti i tribunali militari marittimi, innanzi ai consigli di guerra e ai consigli sommarî a bordo, le regole sul procedimento in contumacia, disposizioni speciali sulla procedura in tempo di guerra. Seguono alcune disposizioni generali (art. 605-607).
Le statuizioni del codice penale militare marittimo sono, in linea generale, comuni con quelle del codice per l'esercito tranne speciali differenze determinate dalla diversità degli ordinamenti e dei servizî e dal diverso modo di operare delle due armate. Non hanno così corrispondenza nel codice penale per l'esercito: il mancato impiego da parte di un comandante di un legno da guerra di tutti i mezzi disponibili per salvare la nave (art. 86); il non aver il comandante abbandonato per ultimo una nave, in caso di perdita di questa (art. 87); il non aver il comandante attaccato il nemico o sospeso la caccia; o aver negato soccorso a navi in pericolo (art. 96); il non aver il comandante tenuto la nave al posto di combattimento assegnato (art. 97); l'essersi il comandante di una frazione separato dal suo capo (art. 98) o il non aver impiegato tutti i mezzi per riunirsi nel più breve tempo (art. 99); il fatto dell'individuo di marina che abbandona il servizio distaccato dal bordo o l'imbarcazione a cui è destinato (art. 111); l'avere, in caso di naufragio, abbandonato la nave senz'ordine (art. 112); l'arbitrario imbarco di merce passeggera a bordo di navi dello stato (art. 115); l'arbitrario lavoro in arsenali o laboratorî della marina militare (art. 117); l'avere un comandante aperto un plico prima del tempo o fuori del luogo ordinato o il non aver fatto il possibile, in caso di cattura, per sottrarre al nemico il plico e le carte di bordo, ecc. (art. 123); le vie di fatto, gl'insulti o le minacce commesse da persone estranee al servizio della marina contro i loro superiori o da persone estranee al servizio della marina, imbarcate su navi dello stato, contro un ufficiale di servizio (art. 152 e 154); la sottrazione o distruzione violenta delle carte di bordo, su di un bastimento catturato o predato (art. 241); il furto a bordo di un bastimento predato (art. 242); la violazione di disposizioni sull'accensione e vigilanza dei fuochi e sull'introduzione a bordo di materie infiammabili (art. 256 a 269); i reati commessi da piloti o da marinai di commercio nei loro rapporti con la marina militare.
Oggi, il codice penale militare marittimo non risponde più alle esigenze della marina militare. Le sue deficienze (fra le quali è riconosciuto pure l'eccesso delle pene comminate) richiamarono l'attenzione anche prima che esso fosse approvato, tanto che la commissione parlamentare del 1868 definiva l'opera "meramente transitoria", giustificata da imperiosa necessità, e, fin d'allora, era augurata una completa revisione legislativa.
I lavori di revisione furono iniziati nel 1881 e vennero spesso interrotti e ripresi. Dopo la guerra si è sentita più imperiosa, in tutti gli stati, la necessità di dar vita a un codice penale militare unico, e tale principio è stato accettato anche dall'Italia.
Codice per la marina mercantile.
Il codice per la marina mercantile in vigore nel regno d'Italia venne pubblicato il 25 giugno 1865, modificato successivamente e ridotto a testo unico con r. decr. 24 ottobre 1877, n. 4146. Consta di 461 articoli ed è diviso in due parti. La prima "Disposizioni amministrative" è suddivisa in quattro titoli: 1. dell'amimnistrazione della marina mercantile; 2. del servizio marittimo; 3. del servizio dei porti e delle spiagge; 4. del diritto marittimo in tempo di guerra. La seconda concerne la materia penale e processuale ed è pure divisa in quattro titoli: 1. dei reati marittimi e delle pene; 2. dei reati marittimi (in particolare); 3. della giurisdizione penale marittima mercantile, della competenza e della procedura; 4. del potere disciplinare. Alcune disposizioni del titolo IV della parte prima sono state ritoccate, abrogate e sostituite durante la guerra. Il codice si completa col Regolamento per l'esecuzione del testo unico del codice per la marina mercantile, pubblicato per decreto 20 novembre 1879, n. 5166. Consta di 1079 articoli e, occupandosi anche di materie di diritto privato, si può dire che costituisca pure il regolamento del libro II del codice di commercio (del 1883) che tratta "Del commercio marittimo e della navigazione". La materia del regolamento è distribuita in sei titoli: 1. circoscrizione marittima; personale; attribuzioni amministrative e giudiziarie degli uffici di porto; 2. servizî marittimi; 3. disposizioni relative al servizio dei porti e delle spiagge; 4. giurisdizione civile contenziosa dei capitani e degli ufficiali di porto, competenza e procedura; giurisdizione penale marittima mercantile, competenza e procedura; 5. potere disciplinare; 6. disposizioni generali e transitorie.
In esso gli articoli 345-361 furono abrogati e sostituiti dal regolamento per l'uniforme tenuta del giornale nautico dei bastimenti mercantili nazionali, approvato con r. decr. 17 dicembre 1885, n. 3612, e da quello per la tenuta del giornale di macchina del 14 maggio 1893, n. 311; gli articoli 500-518, dal r. decr. 9 maggio 1895, n. 352, che modifica le disposizioni riguardanti le visite dei bastimenti mercantili; gli articoli 523-528 dal regolamento che determina le norme per l'imbarco, trasporto in mare e sbarco delle merci pericolose approvato con r. decr. 13 luglio 1903, n. 361, modificato con successivo r. decr. 21 aprile 1904, n. 186; gli articoli 529-534 dal r. decr. 15 giugno 1914, n. 625; gli articoli 536-545 dal regolamento approvato con r. decr. 23 ottobre 1895, n. 671, che stabilisce gli attrezzi e corredi di cui devono essere muniti i bastimenti mercantili; gli articoli 546-587 dal regolamento approvato con r. decreto 20 maggio 1897, n. 178, che fissa le condizioni speciali richieste nelle navi addette al trasporto dei passeggeri; gli articoli 934-968 dal regolamento 7 maggio 1914, n. 447, per il servizio di pilotaggio nei porti dello stato, ecc.
La culla del codice per la marina mercantile fu il Piemonte. Il primo progetto del 1861 venne presentato al senato piemontese il 23 gennaio 1863 con una diffusa relazione. Discusso nell'ottobre e novembre 1864 fu pubblicato il 25 giugno 1865. I suoi principî direttivi si può dire che siano stati: 1. separazione dell'amministrazione della marina mercantile da quella militare, per la diversità degli scopi rispettivi; 2. direzione della marina mercantile affidata al ministro della Marina per le speciali condizioni tecniche e per la necessaria unità d'azione nell'amministrazione della marina militare e commerciale; 3. separazione fra i rapporti di diritto pubblico, vale a dire fra ciò che concerne le relazioni fra i cittadini e lo stato e i rapporti di diritto privato interessanti in special modo la gente di mare e disciplinati dalle leggi commerciali; 4. applicazione dei principî di diritto pubblico proclamati nella convenzione di Parigi del 16 aprile 1856, nelle disposizioni relative al diritto marittimo in tempo di guerra, con la più larga applicazione consentita dall'accresciuta libertà degli scambî e dalle maggiori garanzie offerte dallo stato per la tutela del naviglio nazionale; 5. abolizione, in materia penale, d'ogni penalità non riconosciuta dal codice comune e di ogni tribunale speciale per la repressione dei delitti, riservata solo alle autorità marittime la giurisdizione sulle contravvenzioni e infrazioni disciplinari.
Questo codice però non corrispondeva del tutto alle aspirazioni del ceto mercantile; sembrava pervaso da un certo spirito burocratico e da soverchia ingerenza governativa nelle cose della marina commerciale. Il ministro della Marina del tempo, nella relazione al progetto di riforma, scriveva: "Conviene riconoscere che, nonostante la buona prova fatta dal codice per la marina mercantile, esso ha difetti di forma e di sostanza, contiene disposizioni troppo severe in ordine all'esercizio dell'arte nautica ed è troppo strettamente informato al principio della tutela governativa sulle cose della marina mercantile".
Era sentito altresì il bisogno di avvicinarsi alle leggi marittime degli altri stati. Ma la riforma si limitò a semplici ritocchi e il codice del 1865 mantenne quasi inalterato il suo contenuto organico. Una commissione di senatori esaminò il progetto e il 20 giugno 1876 presentò una prima relazione. Approvato dal senato il 2-8 marzo 1877, dalla camera dei deputati il 17-18 maggio 1877, il nuovo codice per la marina mercantile (oggi vigente) fu pubblicato col r. decr. 24 ottobre 1877, n. 4146.
Attualmente (1930) è in elaborazione la riforma del codice per la marina mercantile, in molte parti antiquato e non rispondente alle esigenze della moderna tecnica delle costruzioni navali; riforma più che mai urgente. Nel piano generale della riforma dei codici (legge 30 dicembre 1923; r. decr. 4 giugno 1924; decr. minister. 7 luglio 1924) già si stabilì che quello di commercio e quello della marina mercantile dovessero essere radicalmente rifatti. Il senato ha espresso poi il voto che le disposizioni di diritto privato marittimo contenute nel libro II del codice di commercio siano fuse e incorporate con quelle di diritto pubblico del codice per la marina mercantile per formare un codice a sé che sarà il "Codice marittimo" (v. alleg. 3 b alla relazione della commissione sul disegno di legge presentato il 12 novembre 1923, in Lavori preparatori per la pubblicazione dei nuovi codici di procedura civile, di commercio e per la marina mercantile, Ministero della giustizia, Roma 1925, p. 345 segg.).
Bibl.: C. Bruno, Codice per la marina merc., in Dig. ital., VII, parte 2ª, p. 538 segg.; P. Boselli, Le droit maritime en Italie. Notes, Torino 1885, p. 148 segg.; A. Scialoja, Sistema del diritto della navigaz., I, Roma 1929, p. 68 seg.; A. Sisto, Istituzioni di dir. maritt., Milano 1927, p. 5 segg.; Vocino, Codice marittimo; note, giurisprud., raffronti, Firenze 1921.
Codex iuris canonici.
Questo codice rappresenta la più recente collezione sistematica della legislazione della chiesa. L'antica e celebre raccolta, il Corpus iuris canonici era da lungo tempo divenuta insufficiente; anzi si poteva dire che, appena promulgata ufficialmente, era già incompleta. Infatti ne restavano esclusi gl'importantissimi canoni del concilio di Trento, chiusosi quasi contemporaneamente alla promulgazione del Corpus, i quali introducevano notevoli riforme negli ordinamenti e nella disciplina ecclesiastica. E, dopo questo, varie norme giuridiche erano venute mano a mano a modificare l'antico diritto: le regole della cancelleria apostolica; le decisioni delle sacre congregazioni romane e dei tribunali ecclesiastici; infine le numerosissime costituzioni pontificie, rese sempre più importanti per la riaffermata autorità dei sommi pontefici. Alcune di queste costituzioni apportarono notevoli innovazioni nell'ordinamento centrale della Chiesa; basta ricordare l'istituzione delle congregazioni romane, opera di Sisto V. Tutte queste nuove fonti erano contenute in raccolte ordinate, per gran parte, cronologicamente, come i voluminosi Bullaria; e ad esse si aggiungevano i precetti del Corpus iuris canonici, in alcune parti abrogati, ma in altre ancora in vigore. Da ciò derivavano incertezze e confusioni nella legislazione canonica e ne era reso assai arduo lo studio; chi si fosse accinto a trattare un qualche argomento, avrebbe dovuto infatti consultare tutte queste varie fonti attraverso le voluminose raccolte, opera resa anche più difficile dalla grande quantità di norme derogate o disusate. D'altra parte, molte decisioni riguardavano casi singoli, onde era necessario estrarne le norme generali; e si doveva altresì ricorrere alle consuetudini, alla giurisprudenza, alla dottrina.
Tali gravi inconvenienti indussero a fare alcuni tentativi di collezioni ufficiali e private (v. canoniche, collezioni), e non mancarono lavori sistematici moderni per riordinare la vasta e intricata materia; ma il bisogno d'una codificazione era vivamente sentito, e più ancora lo fu, allorché gli stati moderni provvidero quasi tutti, uno dopo l'altro, a codificare il loro diritto.
Di tali desiderî si fece autorevole interprete il Concilio vaticano del 1869-70. Quando Pio IX interpellò i cardinali e i vescovi cattolici sull'opportunità di radunare il concilio, alcuni accennarono alla convenienza di esaminare anche la questione della legislazione canonica, sia per riordinarla, sia per apportarvi modificazioni. Ma la proposta d'un coordinamento della legislazione fu poi chiaramente espressa nelle riunioni dei padri. Tuttavia, pur essendo tutti concordi sulla proposta fondamentale, non lo erano altrettanto sulla maniera di attuarla; e in queste divergenze si rispecchiavano le difficoltà che la tradizione e la natura del diritto canonico sembravano opporre alla codificazione. Alcuni vescovi propendevano per una nuova collezione di canoni da aggiungersi a quella del Corpus; altri per una revisione di questo, per toglierne le parti abrogate; altri invece per un nuovo corpo di leggi con opportune aggiunte e cambiamenti; taluni in forma di codice, taluni in forma di Corpus, comprendente non solo le norme schematiche, ma altresì i motivi di esse, secondo il sistema tradizionale. Per quest'ultima forma stavano i vescovi dell'Italia meridionale, che presentarono un progetto assai particolareggiato. L'interruzione del concilio impedì che la questione fosse discussa e risolta; ma essa era ormai sollevata, e anche in seguito continuò a essere dibattuta nella dottrina, come continuarono le insistenze di cardinali e di vescovi per addivenire alla codificazione.
La dottrina era divisa. Alcuni scrittori tedeschi ritenevano troppo difficile l'impresa; altri invece ammettevano che si potesse fare un testo legislativo, ma nella forma di un Corpus. Invece i canonisti francesi e quelli italiani preferivano la codificazione, per comprendervi altresì il diritto pubblico interno ed esterno della chiesa, e quindi anche le norme per le relazioni con gli stati, pur dissentendo fra loro sulla distribuzione della materia e sulla forma dei singoli articoli. Alcuni di questi scrittori redassero alcune esposizioni di diritto canonico in figura di codice. Le maggiori difficoltà che si opponevano all'impresa erano formali e sostanziali. Varî canonisti (Calisse, Ruffini, Friedberg) ritenevano che si accordasse male la forma rigida e schematica propria dei codici con la natura delle norme di diritto canonico, collegate sempre con la morale religiosa e ispirate a criterî di equità; onde in esse si tiene sempre conto delle circostanze particolari, dando grande parte al prudente arbitrio del giudice, che non è strettamente legato al diritto vigente, anzi talvolta assume la veste di legislatore. Quanto alla sostanza, si ravvisava una grave difficoltà nello stabilire principî giuridici generali che dovessero regolare le relazioni della chiesa con gli acattolici e soprattutto con gli stati, dato anche l'atteggiamento di molti di questi e altresì il contrasto fra le norme del diritto canonico e alcuni principî di diritto pubblico moderno.
Nonostante queste incertezze, la codificazione fu decisa e Pio X, con la costituzione Arduum sane munus del 19 marzo 1904, nominò una commissione di cardinali alla quale aggiunse un collegio di consultori, presieduto dall'allora monsignore Pietro Gasparri, che era al tempo stesso segretario della commissione cardinalizia. Questa commissione ebbe l'incarico di raccogliere e coordinare tutte le leggi della chiesa, togliendo quelle abrogate o cadute in desuetudine e introducendovi le modificazioni opportune. Affinché l'opera riuscisse meglio rispondente allo scopo, furono incaricati gli arcivescovi di raccogliere, per mezzo dei sinodi provinciali, le eventuali proposte di modificazioni alle norme vigenti; tutti i vescovi dell'orbe cattolico furono autorizzati a nominare un loro fiduciario, ovvero a delegare qualcuno fra essi affinché partecipasse, di persona o per lettera, ai lavori del collegio dei consultori, facendosi organo delle proposte e dei voti degli altri ordinarî.
Secondo le direttive del sommo pontefice, esposte in una costituzione dell'11 aprile 1904, l'opera doveva essere ristretta alle regole della disciplina, e non occuparsi dei principî di fede. Fonti del nuovo codice dovevano essere il Corpus iuris canonici, gli atti del concilio di Trento, le costituzioni pontificie, i decreti delle sacre congregazioni, le sentenze dei tribunali ecclesiastici. Riproducendo le parole di queste fonti, si doveva redigerne la parte dispositiva in canoni brevi e chiari, in latino.
I voti e le relazioni dei singoli consultori e collaboratori vennero esaminati ripetutamente nelle sottocommissioni, fino a raggiungere possibilmente l'accordo; l'ultima decisione e revisione spettava alla commissione cardinalizia. A mano a mano che si compilavano gli schemi dei singoli libri, questi erano mandati, sotto l'obbligo del segreto, ai vescovi, agli abati nullius e ai capi supremi degli ordini religiosi, perché vi facessero le loro osservazioni, le quali erano quindi riesaminate dalla commissione cardinalizia, per giungere alla redazione definitiva. Dopo questi lavori, il codice fu promulgato dal papa Benedetto XV con la costituzione Providentissima Mater Ecclesia del 27 maggio 1917 e andò in vigore il 19 maggio 1918. Il nuovo corpo di leggi è intitolato Codex iuris canonici Pii X Pontificis Maximi iussu digestus, Benedicti papae XV auctoritate promulgatus; e fu reso pubblico mediante inserzione negli Acta Apostolicae Sedis del 27 giugno 1917.
Esso è composto di 5 libri, divisi, tranne il primo, in parti, in sezioni, e poi ancora in titoli, in capitoli, in articoli e canoni; questi ultimi corrispondono agli articoli dei codici moderni. I canoni sono complessivamente 2414. La divisione delle materie è almeno in parte quella tradizionale con modificazioni di carattere moderno. Il primo libro (Normae Generales) parla della materia del codice, dei limiti di tempo e di territorio alla sua efficacia, delle sue relazioni con le leggi e le consuetudini precedenti, della legge ecclesiastica in generale, della consuetudine, del computo del tempo, dei rescritti, privilegi e dispense. Il secondo (De personis) detta norme sulle persone fisiche e morali e sugl'istituti giuridici che vi si riferiscono: domicilio, gradi di parentela, atti e loro validità; tratta dei chierici e dei loro diritti e doveri; dell'ufficio ecclesiastico in generale, e della maniera di provvedervi; delle singole dignità e uffici, dei religiosi, dei laici (terz'ordine, confraternite e altre pie associazioni). Il terzo (De rebus) oltre a cenni sulla classificazione delle cose e sulla simonia, contiene l'ampia e importante materia dei sacramenti (e quindi anche del matrimonio) e dei sacramentali; dei luoghi e dei templi sacri, del culto divino, del voto, del giuramento; del magistero ecclesiastico (predicazione, seminarî, scuole, proibizione, censura dei libri); dei benefici e del patronato; dei beni temporali della chiesa, dei contratti, delle pie fondazioni. Il quarto (De processibus) disciplina l'ordinamento dei tribunali e i procedimenti ecclesiastici ordinarî e speciali (compresi quelli per le cause matrimoniali); nonché gli altri per le cause di beatificazione e di canonizzazione. Il quinto (De delictis et de poenis) contiene la materia penale. Precedono il testo del codice la costituzione promulgativa di Benedetto XV, e la professione di fede cattolica; lo seguono come complemento, e col titolo di Documenta, otto costituzioni di varî papi da quella Altitudo di Pio III del 1537 alle due di Pio X del 1906: Commissum nobis e Vacante sede apostolica. Queste leggi vertono sopra argomenti diversi: vacanza della sede apostolica ed elezione del sommo pontefice (con la soppressione del cosiddetto ius exclusivae o diritto di veto), concorsi a uffici parrocchiali, istruzioni ai confessori, norme sugli infedeli convertiti e sulle facoltà dei missionarî.
Il codice è una collezione autentica, perché emanata dalla suprema autorità legislativa della chiesa, che l'ha approvata e promulgata nel suo complesso. Ha efficacia universale, perché obbliga tutti i fedeli soggetti alla chiesa; non si estende però alle chiese orientali, le quali in materia disciplinare hanno regole proprie; tuttavia alcuni ritengono che anche per esse il codice possa aver valore di fonte sussidiaria. Infine la collezione è unica ed esclusiva, perché fu volontà del legislatore che tutte le norme di diritto canonico fossero in essa raccolte. Ciò per quanto riguarda le norme disciplinari; poiché il codice non contiene le norme di diritto divino, sia naturale che positivo, le quali sono dichiarate sempre vigenti ancorché non richiamate né espressamente né implicitamente, e nemmeno le leggi liturgiche; soltanto incidentalmente i canoni si riferiscono ai principî di fede e di diritto divino. Così le leggi liturgiche rimangono esse pure in vigore, tranne che vi sia deroga in qualche punto del codice. Parimenti mantiene la sua efficacia il diritto dei concordati vigenti. Il nuovo testo non si occupa neppure delle relazioni fra Chiesa e Stato.
Sostanzialmente, il codice riproduce in gran parte l'antica disciplina, pure arrecandovi qualche notevole modificazione (rammentiamo, p. es., l'abolizione del diritto di patronato); onde, nel dubbio, non si presume la correzione dell'antico diritto; alle norme antiche si applica l'interpretazione tradizionale. Formalmente il codice costituisce la nuova legislazione canonica. Pertanto, le antiche leggi generali sono abrogate (anche senza espressa dichiarazione) se contrarie al nuovo testo, e, quelle penali, se non sono in esso mantenute o richiamate; le leggi particolari invece cadono se contrarie, ma possono tuttora ritenersi vigenti se aggiungono qualche norma speciale al diritto comune. Norme analoghe valgono per le consuetudini; però quelle centenarie e immemorabili possono essere tollerate, se l'ordinario ritenga inopportuno abolirle e purché non siano espressamente riprovate dal codice. È dubbio se siano tuttora in vigore le norme anteriori alla nuova collezione, concernenti materie che questa non disciplina. Il codice non ha, di regola, effetto retroattivo; onde non toglie né i diritti acquisiti, né i privilegi e gl'indulti già concessi, non revocati, e di cui tuttora si usa. È importante notare come in questa legislazione sia stata per la prima volta ammessa la recezione di norme delle leggi civili per alcune materie: contratti, usucapione, prescrizione estintiva.
Col motu proprio Cum iuris canonici del 15 settembre 1917, Benedetto XV, per evitare l'arbitrio e l'incertezza nell'interpretazione del codice, nominò una commissione di cardinali, alla quale attribuì il diritto esclusivo d'interpretare in maniera autentica le disposizioni del testo; e anche di modificarle, con particolare autorizzazione del sommo pontefice. Più tardi furono emanate alcune istruzioni per lo studio del nuovo diritto nelle quali fu ordinato di attenersi scrupolosamente al testo.
Edizioni: Del Codex Iuris Canonici sono state fatte moltissime edizioni, dopo la prima apparsa negli Acta Apostolicae Sedis; una delle più importanti è quella curata dal cardinale Gasparri, il quale, oltre a preporvi una prefazione che illustra il lavoro di formazione del testo, l'ha corredata di note, indicando per ciascun canone le fonti. È in corso di stampa il testo delle Fontes del codice, in diversi volumi.
Bibl.: A proposito del nuovo codice è stata finora pubblicata una quantità notevole di commentarî e di opere; ci limitiamo a indicare alcuni lavori in cui la bibliografia è riferita ampiamente: M. Falco, Introduzione all o studio del Codex Iuris Canonici, Torino 1926; Bibliografia sul Codice di diritto canonico, in Monitore ecclesiastico, 1918, p. 247 segg.; V. Del Giudice, Saggio di bibliografia del Codex Iuris Canonici, in Archivio giuridico "Filippo Serafini", LXXXV (1921), p. 289 segg.; C. P. Gasparri, Praefatio all'edizione del Codex.