CODICE
(X, p. 676; App. II, I, p. 632; IV, I, p. 475)
Codice civile. - Negli ultimi quindici anni non si sono avuti eventi legislativi che abbiano inciso sulla codificazione civile col peso e la risonanza dei fatti segnalati al lettore nella IV Appendice.
Si disse allora dell'incidenza che la Costituzione repubblicana esercitò sulla rilettura del c. civile, anche nella fase in cui era prevalente l'inclinazione ad attribuire alle norme della carta fondamentale un'efficacia meramente programmatica, per riservare al legislatore ordinario la responsabilità e il potere, e dunque la discrezionale libertà, di tradurle in regole precettive. Sul terreno della legislazione speciale nelle aree del c. civile interventi e modifiche di grande rilievo riguardarono soprattutto la famiglia e il lavoro subordinato: per il diritto matrimoniale e della famiglia furono determinanti l'introduzione del divorzio (1970) e più tardi la riforma organica della materia (1975); nella disciplina dei rapporti individuali di lavoro, decisiva fu la serie di leggi dettate a garanzia della durata e della stabilità del rapporto, con l'approdo, a chiusura di un decennio denso di fatti e di idee, allo Statuto dei lavoratori (1970), denominazione abitualmente usata per indicare le ''Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento'' (che è il titolo completo della legge n. 300 di quell'anno).
Diritto di famiglia e diritto del lavoro, per la necessità di assidui aggiornamenti delle discipline più che per la specialità dei loro principi, costituiscono nella positiva esperienza di paesi di diritto privato codificato del nostro tempo oggetto di "codici" a sé, distinti e separati dal corpo del c. civile (e, quanto al lavoro, altresì dal c. di commercio, se del diritto del ceto mercantile si conserva l'autonomia delle fonti nell'ambito della codificazione del diritto privato).
La tendenza, diffusa nei paesi socialisti, ma non estranea ad altre aree politico-economiche, viene spesso giustificata, in sede teorica, in ragione della irriducibilità di quelle materie al diritto privato tradizionale, e talora per la necessità di superare la stessa distinzione pubblico-privato disegnata, e talora esasperata, dalla cultura giuridica. Una positiva spiegazione del distacco viene tentata col sottolineare l'accresciuta presenza dello Stato nell'assistenza familiare e nella cura dei minori e degli incapaci, e sul versante del lavoro col voler ricomprendere in una dilatata visione i momenti di partecipazione del sindacato alla programmazione pubblica e i sistemi di previdenza e sicurezza sociale, in misura sempre più larga sottratti a ogni iniziativa dei privati.
Il discorso sui limiti del c. civile, e sull'opportunità di affiancargli "codici" speciali in taluni settori, rimane legato all'idea dell'utilità tecnica e del persistente valore della codificazione (e in particolare, sia pure impoverita, della codificazione civile). Una siffatta linea di svolgimento può essere anche capita e assecondata, se non prevale il comprensibile timore che, con la separazione dal diritto privato, si voglia legittimare e incoraggiare una concezione paternalistica dello Stato, tra spinte corporative e motivazioni assistenziali.
La categoria storica del c. civile è stata tuttavia investita da una più radicale denuncia, che non vuole ridisegnarne i confini in ragione dei contenuti sociali ed economici, quanto piuttosto superare la formula, col prendere atto della progressiva e inarrestabile perdita di centralità, nel sistema, del c., e della nascita e del moltiplicarsi di "microsistemi" che obbediscono a una loro logica e si organizzano attorno a principi propri.
Il fenomeno viene presentato sotto il nome di "decodificazione": nella suggestiva parola si vuole riassumere un prepotente carattere della nostra età, così come l'illuminismo riformista europeo aveva rappresentato la grande epoca delle codificazioni. Le ragioni ideologiche e pratiche della "conversione" in atto vengono per solito indicate nella caduta della legge generale e astratta valida per tutti i cittadini, nell'affermarsi di un diritto dei gruppi e nel ricostituirsi di status personali che importano discriminazioni e privilegi, nel consolidarsi di discipline nate nel segno dell'eccezione e della provvisorietà (come accade, per fermarsi a esempi di tutta evidenza, per le locazioni di immobili a uso abitativo e per l'affitto dei fondi agrari).
La riflessione, in verità, può muovere da un dato di dimensione ed efficacia ancor più incisive se si considera la tendenza che va sotto il nome di "deregolamentazione" (deregulation) e che registra l'attribuzione (o il ritorno) di certe materie all'esclusiva competenza dell'ambiente sociale, e in primo luogo delle autonomie collettive di gruppi. Sotto l'insegna della "delegificazione" viene invece realizzata o incoraggiata l'utilizzazione di fonti produttive minori, in primo luogo regolamentari, nella disciplina di rapporti che hanno bisogno di un regime adeguato alle mutevoli e contingenti esigenze di tempi e di luoghi.
Sul tema specifico della codificazione, e in particolare sulla vicenda dei c. civili, un esame delle esperienze contemporanee induce a dubitare che si tratti di una forma storica superata, e che se ne debba freddamente registrare (o con compiacimento affrettare) il tramonto. Posta la domanda ''la codification, forme depassée de législation?'', l'Accademia di diritto comparato, nel congresso del 1982, ha raccolto risposte che sottolineano la compatibilità tra sistema codificato e strutture politiche ed economiche del nostro tempo, e segnalano anzi nell'ultimo quarantennio una ricchissima fioritura di c. civili (una cinquantina circa), nelle aree più diverse e lontane, dal mondo socialista (dove alla codificazione hanno proceduto anche paesi che non erano riusciti in passato a darsi una legge unitaria dei rapporti privati) all'America latina (dove nel secolo scorso e al principio del nostro vi erano state singolari figure di codificatori, studiosi che con un impegno prevalentemente individuale avevano provveduto a redigere opere di mole imponente), sino agli stati emergenti del Terzo Mondo afroasiatico. Si sono andate altresì allargando, nei paesi di tradizione non codicistica, la curiosità e l'attenzione ai modelli di c.; né può in contrario opporsi che i tentativi nell'ambiente inglese avviati attorno agli anni Sessanta sono rimasti infruttuosi, e che l'esperienza statunitense preferisce continuare sulla via delle "consolidazioni" del diritto fatto dai giudici (ma con una tecnica di linguaggio che si avvicina, pur sulla base di una più minuziosa casistica, alle formule dei nostri codici).
Di un dato ulteriore è opportuno tener conto nel discorso che denuncia il perduto valore dei c. civili e ne segnala il tramonto. Si vuol dire dell'estrema difficoltà, o meglio della constatata impossibilità, di ridurre nelle linee di una legge organica, o almeno di un testo unico, le stesse materie per le quali si rivendica la dignità di "microsistemi" nella dimensione "policentrica" dell'ordinamento, mentre al c. civile si vorrebbe riconoscere una funzione meramente residuale nella graduatoria delle fonti.
La materia dei contratti agrari, dove l'iniziativa di un testo unico era stata presa, ha rivelato insuperabili ostacoli che hanno bloccato il disegno; per altri settori, che pure vengono indicati come esemplare immagine del formarsi e del crescere di microsistemi (il pensiero corre alla locazione), non si registrano nemmeno serie proposte (e d'altra parte si scoprirebbe, all'interno dell'istituto sviluppatosi fuori del c., una pluralità di sottosistemi, se solo si considerano le locazioni abitative, quelle a destinazione commerciale, il leasing); per la materia del lavoro non sarebbe nemmeno immaginabile il c. speciale, oltre tutto per il ruolo che in essa assume l'autonomia collettiva delle associazioni sindacali.
Dal discorso sulla decodificazione può tuttavia accogliersi l'utile suggerimento a porre nella giusta luce fatti di produzione e moti di promozione del diritto che si pongono fuori dei confini statuali (si pensi al diritto comunitario) o fuori del dominio della legge (si ricordino le fonti extralegislative e in primo luogo l'autonomia sindacale), o che nella legge formale realizzano una sostanziale "negoziazione" (e mediazione) di gruppi sociali, che è un tipico segno della società pluralista.
In definitiva più importanti della decodificazione e del destino dei c. civili, poiché essi non appaiono votati a una fine imminente, sono i fenomeni di estensione delle fonti extralegislative. In tale prospettiva certamente si spegne o si attenua l'illusione, nutrita nell'età delle grandi codificazioni, di poter fondare nella legge statuale dotata di caratteri di generalità e astrattezza il diritto privato comune dei cittadini. Ma gli esiti del nuovo corso non sono di eguale intensità e rapidità in ciascun ambiente, e intanto si ripropongono o si riscoprono momenti che pure appartennero all'ideologia dei c.: si pensi alle materie sottratte alla potestà della Chiesa e "secolarizzate".
Sotto l'ultimo aspetto nel diritto italiano va segnalata la disciplina del matrimonio religioso con effetti civili, qual è delineata nel recente accordo tra Stato italiano e Chiesa cattolica (1984), disciplina ispirata al proposito di ridurre al minimo le differenze di regime delle due "forme" matrimoniali (e, secondo un'opinione largamente seguita, di ripristinare l'esclusività della giurisdizione statuale sui matrimoni dei cittadini). La revisione (1987) della legge sul divorzio mette in luce un'altra tendenza, che pure si presenta più ricca di implicazioni del discorso sul tramonto del c.: si allude alla progressiva "privatizzazione" della materia, un carattere che connota in primo luogo l'impostazione e lo svolgimento del processo.
Nel campo dei rapporti patrimoniali, le indicazioni più stimolanti, ma per ripensare il ruolo della legge piuttosto che l'esperienza storica (non consumata né anacronistica) dei c., vengono da altra provenienza. Ci riferiamo alla diffusa ricognizione, nelle relazioni e nelle controversie tra operatori economici (e in primo luogo nella soluzione arbitrale dei conflitti), di una lex mercatoria con antiche radici, in larga parte fatta di consuetudini e usi e a sua volta suscettibile di consolidazioni sostanzialmente non lontane dall'idea moderna di c., come traspare dalle proposte recenti di un restatement europeo dei contratti.
Bibl.: F. Vassalli, Motivi e caratteri della codificazione civile (1947), ora in Studi giuridici, iii, 2, Milano 1960, pp. 605 ss.; R. Nicolò, Codice civile, in Encicl. del diritto, vii (1960), pp. 240 ss.; M. Viora, Consolidazioni e codificazioni, Torino 19672; P. Rescigno, Per una rilettura del codice civile, in Giurisprudenza italiana, 4 (1968), coll. 205 ss.; Id., Introduzione al Trattato di diritto privato, i, Torino 1982; R. Sacco, Codificare: modo superato di legiferare?, in Riv. dir. civ., 1 (1983), p. 117; C. Ghisalberti, La codificazione del diritto in Italia 1865-1942, Bari 1985; N. Irti, L'età della decodificazione, Milano 19862.
Codice penale. - È antica l'affermazione secondo cui i c. penali riflettono nella maniera più diretta le condizioni storico-politiche in cui versa un paese.
Questo vale naturalmente anche per il c. penale italiano del 1930, che, se nella sua struttura, almeno nella parte generale, non è certamente in diretto collegamento col regime dell'epoca, resta comunque espressione di un preciso momento storico. Più precisamente di un orientamento, prevalente allora in campo giuridico, imperniato fondamentalmente su concezioni proprie di una società ancora scarsamente sviluppata: un c. in ispecie che indirizzava i suoi precetti a individui presunti in via di principio liberi nella determinazione delle proprie azioni, e che poneva l'accento soprattutto sulla tutela di determinati istituti recepiti nella loro valenza tradizionale: come nel caso dell'istituto della proprietà, per una certa accezione della morale corrente e per una sottovalutazione delle problematiche connesse ad esempio agli illeciti nel settore societario o in quello della tutela dell'ambiente.
Risulta pertanto di grande interesse l'esame dei punti in relazione ai quali si è sviluppato il discorso sulla riforma di siffatto c.: giacché in tal modo si può avere un importante riscontro di quella che è stata l'evoluzione della società italiana. Interesse reso ancor più notevole dal fatto che non sono generalmente emerse, pur in una situazione sociale e politica così mutata nel tempo, richieste di abrogazione della codificazione del 1930 o di radicali innovazioni, ma solo di adeguamento e comunque limitate modifiche, anche se talora di grande spessore (si pensi alla nuova disciplina dell'aborto o alla riforma della disciplina della continuazione nel reato nel senso del suo ampliamento anche al concorso formale e alle violazioni di diverse posizioni di legge).
La tendenza a considerare ancora valido l'impianto del 1930 − nonostante la Costituzione del 1948, che ha mutato profondamente l'ordinamento italiano anche per quanto riguarda il settore penale: basti il solo fatto dell'elevazione a livello costituzionale del principio secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 terzo comma) − salvo aggiustamenti dunque tutto sommato marginali, doveva assumere decisi contorni, per quanto concerne la parte generale, nel progetto di riforma varato, in sede redigente nel 1971, dalla Commissione giustizia del Senato e poi decaduto con lo scioglimento della Legislatura.
Altro discorso, nello stesso progetto, si delineava per la parte speciale. In ispecie nel rivedere le varie figure criminose, in quelle sedi era emersa l'esigenza di una revisione in senso liberale della disciplina dei reati d'opinione, dei delitti contro la personalità dello Stato e della materia del vilipendio; discorso poi interrotto dalla legislazione dell'emergenza contro il terrorismo e la criminalità organizzata, che ha anzi utilizzato ampiamente i margini offerti al riguardo dal codice Rocco.
Soprattutto già allora − alla luce d'altronde del dettato costituzionale che pone in evidenza lo stretto collegamento della pena con la funzione di rieducazione − si apriva il tema della constatata inadeguatezza delle pene detentive cosiddette di breve durata, considerate ormai come una sorta di anticamera per l'inserimento nel mondo della criminalità. Di qui sono derivate le varie proposte di depenalizzazione volte a sostituire il ricorso alle pene − almeno a quelle ordinarie della reclusione e dell'arresto, della multa e dell'ammenda − con altri strumenti prevalentemente di natura amministrativa. Processo che doveva trovare un importante sbocco nella l. 24 novembre 1981, n. 689, di cui peraltro fu subito lamentata l'eccessiva cautela nel procedere alla depenalizzazione.
Proprio in conseguenza dell'obiettiva insufficienza di questa legge, gli sforzi successivi di riforma si sono indirizzati prevalentemente nel tentativo d'inserire in una nuova prospettiva i meccanismi di applicazione della pena; prospettiva legata d'altronde al più generale affermarsi del rilievo centrale attribuito ai diritti della persona e quindi dell'esigenza di contenere al massimo le restrizioni a quello che è uno dei momenti più importanti di tali diritti: la libertà personale. Questa tendenza, che già emerge chiaramente con il nuovo ordinamento penitenziario del 1975, doveva trovare più compiuta espressione con i forti ritocchi apportati all'ordinamento medesimo dalla l. 10 ottobre 1986, n. 663 ("Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà").
La citata legge, infatti, se ha per oggetto immediato l'esecuzione penitenziaria, in realtà ha inciso profondamente sulla stessa nozione di pena, evidenziando un deciso sforzo a contenerne la durata in funzione del comportamento tenuto dal condannato e soprattutto a mitigarne drasticamente la funzione afflittiva: si pensi al largo spazio dato ai permessi, all'ammissione al lavoro all'esterno, all'affidamento in prova per tossicodipendenti e alcooldipendenti in vista del loro recupero, e a quello assai più ampio, rispetto al passato, dato alla detenzione domiciliare.
Con l'entrata in vigore del nuovo c. di procedura penale, l'esigenza di una revisione del c. penale si è fatta più forte, in primo luogo per quanto attiene alla necessità di riprendere in considerazione in una complessiva prospettiva unitaria tutta la variegata legislazione penale che si è andata disordinatamente accumulando nel tempo, presupposto questo indispensabile per procedere a uno sfoltimento delle figure di reato, e quindi del carico giudiziario, che si rivela essere un presupposto essenziale per la riuscita del nuovo c. di procedura penale.
Sempre a questo fine si ricollega un'altra fondamentale esigenza: quella di rivedere alcuni importanti istituti di diritto penale sostanziale onde realizzare un coordinamento con precise scelte di fondo del nuovo processo. Basterà richiamare la evidente necessità di una rivisitazione della disciplina del concorso, davanti a un c. di procedura penale che limita fortemente il ricorso alla connessione; ovvero l'opportunità di una riconsiderazione in senso soggettivo della disciplina delle circostanze, elemento importante in una prospettiva processuale che dà ora ampio spazio ai riti alternativi e quindi a una particolare valutazione della posizione specifica dell'imputato patteggiante o comunque favorevole a sottoporsi a un rito abbreviato.
Come accennato, le esigenze di riforma non hanno però trovato − né la trovano tuttora − espressione in una proposta legislativa di complessiva revisione del c., non solo per motivi contingenti e per una tuttora diffusa convinzione della validità perdurante delle sue strutture portanti, specie dopo la revisione della disciplina dell'applicazione delle pene; ma anche, probabilmente, per un'importante ragione di fondo. E cioè la generale consapevolezza che sembra ormai superato il tempo delle grandi codificazioni, specie di diritto sostanziale: giacché queste presupporrebbero un corpus di principi unitari solidificati su cui vi sia un'ampia convergenza e soprattutto una notevole staticità nello sviluppo della società, esclusa invece per antonomasia dalla forte dinamica caratteristica dello sviluppo del mondo contemporaneo, che in campo penale si traduce sovente in un'affannosa rincorsa all'individuazione di nuove forme criminose, alla conseguente necessità di una revisione degli istituti, e nel fenomeno, anch'esso gravido di problemi, del superamento nel costume sociale del sentimento della illiceità penale di determinati comportamenti. Una complessa, e in qualche misura anche paralizzante, situazione, chiaramente evidenziatasi nel corso del dibattito che ha accompagnato la nuova legge sulla droga (l. 26 giugno 1990, n. 162), in cui si sono contrapposte visioni contrastanti sulla stessa funzione e validità del ricorso allo strumento delle pene.
Bibl.: G. Leone, Sulla riforma del primo libro del Codice penale, in Rivista italiana di diritto penale, 1960, pp. 182 ss.; G. Vassalli, Codice penale, in Enciclopedia del diritto, 7, Milano 1960, pp. 261 ss.; F. Bricola, Teoria generale del reato, in Novissimo Digesto italiano, 19, Torino 1973, pp. 8 ss.; G. Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, pp. 482 ss.; P. Nuvolone, Il sistema del diritto penale, Padova 1982, pp. 9 ss.; AA.VV., Metodologia e problemi fondamentali della riforma del codice penale, ivi 1985; M. Romano, Commentario sistematico del Codice penale, 1, Milano 1987, pp. 7 ss.
Codice di procedura penale. - Il nuovo c. di procedura penale è stato approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, e pubblicato il successivo 24 ottobre nella G. U. n. 250. È stata prevista una vacatio legis di un anno. Il lungo slittamento della data di effettiva entrata in vigore è stato imposto dalla necessità di adeguare l'organico giudiziario e le strutture a ricevere il nuovo rito.
È il primo c. dell'Italia repubblicana, e porta la firma del presidente della Repubblica, F. Cossiga, e del ministro di Grazia e Giustizia, G. Vassalli, il quale con forte impegno ha portato a termine un progetto che era in elaborazione da alcuni decenni e che nel tempo aveva subito varie vicissitudini.
La prima costruzione di un nuovo sistema processuale, infatti, risale al 1963, per opera di F. Carnelutti. In varie successive legislature fu tentata l'approvazione di un disegno di legge-delega per la redazione di un c., ma fu impedita sempre dalla lentezza dell'iter e dallo scioglimento anticipato delle Assemblee legislative. Soltanto nella sesta legislatura si arrivò all'approvazione della prima legge-delega, n. 108 del 3 aprile 1974, e una Commissione, presieduta da G. Pisapia, riuscì a concludere i lavori di redazione del ''progetto preliminare'' che furono pubblicati all'inizio del 1978. Entrava però l'Italia, proprio in quell'epoca, nel burrascoso periodo del terrorismo. Anche la criminalità comune assunse forme e manifestazioni di alta pericolosità sociale, divenendo più numerose le associazioni criminali e più frequenti i delitti efferati, come omicidi a scopo di rapina e sequestri di persona. Questa imprevista situazione costrinse il legislatore non soltanto ad abbandonare l'idea di poter concludere la riforma del c., ma anzi a varare alcune leggi, indicate poi come ''leggi dell'emergenza'', che, contraddicendo i principi ispiratori della riforma, aumentavano i poteri della polizia e del pubblico ministero riducendo gli spazi d'intervento della difesa e di tutela di alcune libertà individuali.
È stata indubbiamente questa la ragione per cui la legge-delega n. 81 del 16 febbraio 1987, quella cioè che ha condotto all'attuale nuovo c. di procedura penale, essendo il frutto di molteplici rielaborazioni, pur utilizzando gli stessi criteri di fondo della prima legge-delega del 1974, ha proiezioni che si discostano dal ''modello accusatorio'', che si voleva inizialmente adottare, in non pochi e nevralgici punti.
La riforma si è ispirata fin dall'inizio ai seguenti principi generali: a) massima semplificazione dello svolgimento del processo con eliminazione di tutte le attività non essenziali; b) definizione dei poteri-doveri della polizia giudiziaria e del ruolo del pubblico ministero nell'ambito delle ''indagini preliminari'', con distinzione netta tra attività d'investigazione e attività istruttoria, eccezionalmente prevista quest'ultima con le garanzie del contradittorio tra le parti; c) limitazione della custodia cautelare; d) parità tra accusa e difesa; e) possibilità di meccanismi processuali differenziati secondo la complessità del processo; f) riserva esclusiva al dibattimento del momento formativo della prova con applicazione della cross-examination.
È facile dall'insieme di queste linee scorgere che la volontà del legislatore è stata quella di abbandonare definitivamente il ''rito inquisitorio'', quel tipo di processo cioè contrassegnato da una prima fase istruttoria segreta, condotta dal pubblico ministero e dal giudice istruttore con esclusione quasi totale della difesa, e una seconda fase, quella del dibattimento pubblico, dedicata al controllo delle prove già acquisite in atti scritti nella fase precedente e perciò il più delle volte ridotta a un vuoto rituale.
La scomparsa, dunque, della tradizionale figura del giudice istruttore è il primo risultato della riforma. L'investigazione sulle prove del reato è compito della polizia giudiziaria e del pubblico ministero. Se questi organi procedono alla verbalizzazione delle dichiarazioni dei testimoni, debbono formare un fascicolo che è subito posto a disposizione della difesa, ma non sarà consegnato al giudice del dibattimento. Eccezionalmente − sono i casi per es. di irripetibilità o di possibile dispersione della prova − può essere richiesto dal pubblico ministero e dal difensore che il ''giudice delle indagini preliminari'' proceda all'acquisizione di una singola prova. È l'ipotesi dell'''incidente probatorio'', in cui la prova è raccolta dinanzi al giudice nel contraddittorio delle parti, come se fosse una parziale anticipazione del dibattimento, ma senza pubblicità.
La fase dell'investigazione conduce in tempi brevi, da 6 a 18 mesi, all'udienza preliminare. Dinanzi al ''giudice delle indagini preliminari'' le parti anticipano gli elementi probatori a carico e a discolpa dell'imputato, e il giudice decide se debba o no procedersi al giudizio dinanzi al Tribunale. È questo il momento in cui diviene possibile il cosiddetto ''patteggiamento''. Se l'imputato si dichiara colpevole e tutte le parti sono d'accordo, senza rinvio al Tribunale lo stesso giudice dell'udienza preliminare può pronunciare la sentenza di condanna, applicando una diminuzione di un terzo sulla pena che dovrebbe essere irrogata tenendo conto di ogni altra circostanza aggravante e attenuante. Un giudizio definito abbreviato, dal legislatore previsto per esaurire speditamente una larga parte dei processi, su richiesta dell'imputato e col consenso del pubblico ministero, consente al giudice delle indagini preliminari di pronunciare sentenza ''allo stato degli atti''.
Altro rito previsto per snellire le procedure è quello del giudizio detto immediato. Si attua quando il pubblico ministero, per ''l'evidenza degli elementi di prova'', chiede che l'imputato sia presentato direttamente in tribunale senza passare attraverso il filtro dell'udienza preliminare, e il giudice lo concede.
Giunto al dibattimento, il nuovo processo penale esprime nella massima estensione i principi di oralità e di terzietà del giudice che deve valutare la concludenza delle prove, principi con i quali si è voluto attuare il ''modello accusatorio'' già da molti decenni sperimentato nei paesi anglosassoni. Dopo la fase delle investigazioni, le parti procedono in pubblica udienza alla presentazione delle prove d'accusa e di difesa dinanzi al tribunale. Tutto ciò avviene oralmente. Non esistono atti scritti se non il fascicolo che contiene i documenti degli ''incidenti probatori'', se ve ne sono stati.
La cross-examination riassume anche figurativamente uno degli schemi adottati dal legislatore per attuare nel nuovo sistema processuale penale la parità tra accusa e difesa e l'isolamento del giudice, che deve valutare le prove rimanendo distaccato sia dalle parti che dalla fase delle investigazioni.
Il pubblico ministero e il difensore interrogano direttamente i testimoni. Il giudice che dovrà emettere la sentenza assiste a questo momento costruttivo per la dimostrazione della colpevolezza e dell'innocenza soltanto sorvegliando la regolarità del contraddittorio. Può al termine dell'esame, eseguito dalle parti a tempi alternati, porre a sua volta domande per integrare l'indagine. Di tutto ciò che avviene in aula è redatto un verbale con l'ausilio di uno stenotipista o di mezzi meccanici di riproduzione.
Alcune modifiche sono state apportate anche al giudizio pretorile, a quello per i minorenni e al sistema delle impugnazioni, sempre nella direzione della massima semplificazione delle procedure e della parità tra accusa e difesa. Il legislatore ha previsto anche un periodo di rodaggio del nuovo c., perché nei tre anni successivi all'entrata in vigore sarà possibile al governo emanare disposizioni ''integrative e correttive'' con ulteriori decreti legislativi.
Bibl.: Progetto preliminare al codice di procedura penale, Roma 1988; M. Chiavario, Riforma del processo penale, Torino 1988; E. Amodio, O. Dominioni, V. Grevi, Nuovo processo penale, Milano 1989; D. Siracusano, Introduzione allo studio del nuovo processo penale, ivi 1989; D. Carponi Schittar, Esame incrociato nel processo accusatorio, Padova 1989.
Codex iuris canonici. - Il 25 gennaio 1983 il pontefice Giovanni Paolo ii ha promulgato il nuovo Codex iuris canonici, che ha integralmente sostituito il precedente c., promulato da Benedetto xv nel 1917. Dal 27 novembre dello stesso anno, giorno in cui è entrato in vigore, esso costituisce il complesso normativo fondamentale dell'ordinamento giuridico della Chiesa cattolica latina. Il primo annuncio ufficiale dell'esigenza d'intraprendere una riforma del c. del 1917 risale a 24 anni prima, quando Giovanni xxiii manifestò il proposito di convocare un concilio ecumenico. Ma fu soprattutto dopo la celebrazione di questo concilio, il Vaticano ii (1962-65), che tale esigenza divenne particolarmente pressante per la sfasatura che si era venuta a creare tra la vecchia legislazione e la nuova dottrina conciliare. Molti erano, infatti, i principi e le linee fondamentali di questa dottrina che non trovavano adeguato riscontro nella normativa del c.: dalla stessa concezione di Chiesa, vista dal concilio come popolo di Dio, con conseguente uguaglianza fondamentale di tutti i suoi membri, alla valorizzazione della collegialità nel governo dei fedeli, sia a livello universale, sia a livello di Chiese particolari; dal rapporto tra Chiesa universale e Chiese locali al rilancio dell'ecumenismo, quale movimento destinato a riunificare tutte le Chiese cristiane e al dialogo verso le altre credenze religiose; dall'attenzione alle realtà e ai problemi del mondo contemporaneo al riconoscimento della libertà religiosa e alla profonda considerazione verso la dignità propria di ogni persona umana. Dopo la chiusura del concilio il papa Paolo vi dette perciò deciso impulso all'opera di revisione legislativa, affidandone l'attuazione a una commissione cardinalizia, presieduta dal card. P. Ciriaci e, dopo la morte di questi, avvenuta nel 1967, al card. P. Felici.
Questa speciale commissione era coadiuvata da numerosi gruppi di studio (coetus consultorum) formati da studiosi ed esperti provenienti dai più diversi paesi, con la presenza anche di alcuni laici. Ogni gruppo ebbe l'incarico di studiare la riforma di un determinato settore della legislazione e di predisporre, per tale settore, un primo progetto di revisione. Non appena pronti − a partire dal primo, De procedura administrativa, nel 1972, sino all'ultimo, De iure patrimoniali Ecclesiae, nel 1977 − i singoli progetti (chiamati schemata) furono inviati, con una relazione illustrativa, a tutto l'episcopato cattolico e ad alcuni speciali organi di consultazione (i dicasteri della Curia romana, le università ecclesiastiche, l'unione dei Superiori generali), con l'invito a far pervenire le proprie osservazioni. L'enorme massa di osservazioni − sia di carattere generale, sia con riguardo ai singoli canoni dei progetti − venne minuziosamente vagliata dai gruppi dei consultori e tenuta in considerazione per una profonda rielaborazione degli originari progetti, condotta in stretto contatto con la Commissione cardinalizia, cui venivano frequentemente sottoposte le questioni di maggiore importanza.
Dopo un'opera di coordinamento sistematico dei singoli schemata, si giunse finalmente a presentare al pontefice, il 29 giugno 1980, un progetto completo di nuovo codice. Questo progetto venne nuovamente sottoposto all'esame dei singoli membri della Commissione cardinalizia, che nel frattempo era stata allargata con l'inserimento di numerosi vescovi provenienti da diversi paesi, in modo da dare maggior risalto alla partecipazione collegiale di tutta la Chiesa. Sulla base delle singole osservazioni e delle indicazioni emerse da una seduta collegiale della medesima Commissione, fu elaborato un secondo progetto completo di c. che fu trasmesso il 22 aprile 1982, per il varo definitivo, al pontefice, il quale volle ancora procedere personalmente, con l'aiuto di un ristretto gruppo di esperti, a un ultimo riesame del testo prima di decretarne la promulgazione.
Promulgato il 25 gennaio 1983, al termine di questo lungo iter preparatorio, il c. poteva così entrare in vigore. Esso si presenta più breve rispetto al precedente (1752 canoni invece che 2414), anche se la materia risulta distribuita in sette libri, anziché in cinque. L'impostazione sistematica risulta profondamente modificata, soprattutto nella parte centrale: abbandonata la tripartizione in personae, res e actiones di tradizione romanistica, il principio ispiratore è ricavato dalla visione ecclesiologica propria della dottrina del Concilio Vaticano ii. Dopo un primo libro introduttivo, dedicato, come nel precedente c., alle Normae generales, si passa così a considerare il Populus Dei (cui è espressamente dedicato il ii libro), con i compiti (o munera) specifici ad esso inerenti: il munus regendi o funzione di governo (che delinea una costituzione gerarchica in seno alla Chiesa, la cui regolamentazione giuridica trova posto nello stesso libro ii De Populo Dei), il munus docendi o funzione d'insegnamento (disciplinata nel libro iii), il munus sanctificandi, cui è dedicato il libro iv, nell'ambito del quale assume particolare importanza la disciplina dei sacramenti, ivi compreso il matrimonio. Il regime giuridico dei beni temporali trova autonoma collocazione nel libro v, mentre gli ultimi due libri sono dedicati alle sanzioni penali e ai processi.
Riguardo al contenuto sostanziale del nuovo c., va particolarmente sottolineato lo stretto rapporto che intercorre con la dottrina conciliare. I documenti del Concilio Vaticano ii hanno costituito un costante punto di riferimento che ha guidato l'opera di riforma legislativa dal suo inizio alla fine, tanto da far sottolineare allo stesso Giovanni Paolo ii, nella costituzione apostolica di promulgazione, che questo nuovo c. può essere concepito come un enorme sforzo di trasferire in linguaggio canonistico la dottrina conciliare.
In effetti, numerose sono le corrispondenze tra concilio e c., a partire dalla formulazione dei singoli canoni, che spesso utilizzano termini ed espressioni riprese testualmente dai documenti conciliari. Anche dal punto di vista sostanziale, occorre riconoscere che in molti punti la dottrina del Concilio Vaticano ii trova adeguato riscontro nella normativa codicistica: come avviene, per ricordare alcuni esempi tra i più significativi, per lo statuto giuridico dei fedeli e in particolare dei laici, per la configurazione degli organismi destinati a dare concreta attuazione al principio di collegialità, per la regolamentazione del matrimonio, per la valorizzazione dei diritti di difesa nei processi.
Non sembra quindi giustificata l'accusa d'infedeltà o, addirittura, di tradimento del concilio che da qualche parte si è sentita sollevare, anche se la stessa esigenza di una formulazione in termini giuridici può indubbiamente aver prodotto una maggiore rigidità e talora anche un certo impoverimento rispetto alla ricchezza e alle potenzialità insite nei testi dottrinali del concilio.
I documenti del Concilio Vaticano ii costituiscono anche il più diretto punto di riferimento per l'interpretazione delle disposizioni del Codex iuris canonici. Questo, come ha osservato Giovanni Paolo ii, deve infatti essere collocato accanto al "Libro contenente gli Atti del Concilio", in un abbinamento ben valido e significativo che vede "questi due Libri, elaborati dalla Chiesa del xx secolo", integrarsi vicendevolmente in un'unità armonica e complementare. Secondo una suggestiva immagine usata dallo stesso pontefice, e tenendo conto che prima e al di sopra di questi due libri va posto "il Libro eterno della Parola di Dio", si viene a delineare "come un ideale triangolo: in alto c'è la Sacra Scrittura, da un lato gli Atti del Vaticano ii e dall'altro il nuovo Codice canonico".
Meno intenso è invece il rapporto che lega la nuova alla vecchia legislazione. Mentre il c. del 1917 sottolineava il momento della continuità con il precedente diritto (Codex vigentem huc usque disciplinam plerumque retinet), stabilendo, nel dubbio, una presunzione di conformità dei nuovi canoni con lo ius vetus, il c. attuale si limita soltanto a richiamare la tradizione giuridica canonica per l'interpretazione di quelle disposizioni che riproducono il diritto antico. Particolare importanza, anche per il nuovo c., continua ad avere l'interpretazione autentica che il pontefice ha affidato, come avveniva in passato, a un'apposita commissione, denominata attualmente Pontificio Consiglio per l'interpretazione dei testi legislativi, composta da cardinali e da alcuni vescovi, coadiuvati da un gruppo di consultori esperti in materia canonica. Le deliberazioni di questo organismo, emanate sotto forma di risposte a dubbi o quesiti che vengono sottoposti al suo esame, hanno pieno valore di legge e possono così assicurare, oltre a un sicuro chiarimento del significato delle disposizioni legislative, un'ampia uniformità nell'applicazione concreta di esse.
Per quanto riguarda la posizione del c. nel più vasto complesso dell'ordinamento giuridico canonico, va precisato che esso riguarda la sola Chiesa latina e non le Chiese di rito orientale, per le quali è, ormai da lungo tempo, in preparazione un altro e autonomo codice. Restano poi al di fuori del c. le leggi liturgiche e le disposizioni speciali contenute negli accordi stipulati dalla Santa Sede con le varie nazioni o comunità politiche, nonché diverse leggi speciali che vanno crescendo di numero e d'importanza, come quelle che regolano l'elezione del pontefice, l'ordinamento della Curia romana, il processo di canonizzazione dei santi. Sotto questo profilo, se si tiene anche conto della potestà legislativa riconosciuta, in misura crescente, alle Conferenze episcopali nazionali, si può dire che il nuovo c. costituisce un compendio meno completo ed esauriente della legislazione canonica rispetto al precedente e che in misura sempre maggiore, accanto alle disposizioni del c., occorre tener conto di altre fonti normative.
Il nuovo c. è stato generalmente accolto con favore e apprezzamento dagli operatori della pastorale e del diritto nell'ambito della Chiesa. Le innovazioni introdotte dal Concilio Vaticano ii avevano infatti reso ormai, in molti casi, superate e di dubbia applicazione le disposizioni del c. del 1917, creando una situazione d'incertezza giuridica che non giovava all'ordinato svolgimento dei rapporti all'interno della comunità ecclesiale. Significativa è la rapida e larghissima diffusione del libro del codice. Pur restando il testo latino l'unico con valore ufficiale, esso è stato subito tradotto, con l'autorizzazione della Santa Sede, in tutte le principali lingue nazionali, diventando così accessibile non soltanto a una ristretta cerchia di specialisti o di addetti ai lavori, ma a tutti i fedeli. Pur con i limiti e le deficienze inevitabili in un'opera di tale complessità, e pur con i necessari adattamenti che l'esperienza concreta non mancherà di suggerire, sembra, in conclusione, che questo c. risponda adeguatamente a quel ''bisogno di norme'' che la Chiesa, come compagine sociale e visibile, presenta anche nell'attuale momento storico, e che esso possa risultare un mezzo efficace, secondo gli auspici dello stesso Giovanni Paolo ii, perché "la Chiesa possa progredire, conforme allo spirito del Vaticano ii, e si renda ogni giorno più adatta ad assolvere la sua missione di salvezza in questo mondo".
Bibl.: F. D'Ostilio, La storia del nuovo Codice di diritto canonico, Città del Vaticano 1983; Il nuovo codice di diritto canonico, a cura di S. Ferrari, Bologna 1983; La normativa del nuovo codice, a cura di E. Cappellini, Brescia 1983; Il nuovo Codice di diritto canonico. Novità, motivazione e significato, Roma 1983; Il Codice del Vaticano II, a cura di A. Longhitano, Bologna 1983-87; V. Fagiolo, Il Codice del Postconcilio, Roma 1984; Il nuovo codice di diritto canonico. Studi, Torino 1985; Le nouveau Code de droit canonique (Actes du V Congrès international de droit canonique), Ottawa 1986.