Codici di settore
Dalla codificazione ai codici di settore
I codici di settore trovano un espresso fondamento positivo nella l. 29 luglio 2003 n. 229 recante Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. Legge di semplificazione 2001 e nella successiva l. 28 nov. 2005 n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005. Tali codici costituiscono l’ultimo strumento con cui il legislatore affronta il problema della complessità normativa, intesa come numero esorbitante, contraddittorietà, onerosità e scarsa qualità delle regole del nostro ordinamento, e sostituiscono il precedente modello dei testi unici misti di cui all’ormai abrogato art. 7, della l. 8 marzo 1999 n. 50. Questi ultimi contenevano nello stesso testo disposizioni sia legislative sia regolamentari e miravano ad attuare un riordino normativo appunto attraverso la delegificazione, ovvero l’implementazione dell’attività regolamentare al fine precipuo di ridurre e semplificare le leggi. Diversamente, con i codici di settore, il legislatore persegue un riassetto sostanziale delle materie affidato a codificazioni mediante decreti legislativi di riforma dei singoli settori, con ciò riportando l’attività legislativa a livello di fonte primaria e abbandonando l’inclusione nei testi di disposizioni di rango regolamentare (peraltro non più conciliabili con le sopravvenute modifiche costituzionali sulla competenza legislativa delle Regioni e sulle materie rimesse alla esclusiva legislazione statale, limitatamente alle quali residua ancora la potestà regolamentare del medesimo Stato).
Lo stesso Consiglio di Stato, nel parere 2/2004, reso nell’Adunanza generale del 25 ottobre 2004 con riferimento al primo dei codici di settore testualmente attuativo della l. 229/2003 – ossia il Codice dei diritti di proprietà industriale, emanato ai sensi dell’art. 15 della l. 12 dic. 2002 n. 273 (e successive modifiche), che richiama espressamente, tra i criteri di delega, la norma-cardine della semplificazione normativa, costituita dall’art. 20 della l. 15 marzo 1997 n. 59, come novellato dalla l. 229/2003 – ha espressamente ritenuto che la semplificazione normativa (intesa come qualità della regolazione) debba avvenire nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) riorganizzazione delle fonti di regolazione; b) riduzione del numero delle regole dell’ordinamento; c) limitazione della contraddittorietà e dell’onerosità delle regole dell’ordinamento nei confronti dei destinatari; d) miglioramento della qualità della normazione; e) alleggerimento degli oneri burocratici a carico dei destinatari della normativa; f) riduzione dell’intervento pubblico se non necessario; g) deregolazione; h) semplificazione dei procedimenti amministrativi.
Il tentativo di semplificare, ridurre e ordinare le norme nei nuovi codici di settore si colloca dunque nel quadro di una iperregolazione scaturita da fonti multilivello e di diversa provenienza, reso ancora più intricato dalle recenti riforme costituzionali e dalla crescente incidenza del diritto comunitario. I codici di settore, avvalendosi di una delega più ampia anche sul piano innovativo, sebbene limitatamente a specifici ambiti di materie, sono deputati non soltanto a un’opera di consolidamento e coordinamento delle norme esistenti (secondo la funzione dei testi unici), ma anche alla realizzazione di un riassetto normativo a livello di fonte primaria.
La crescente diffusione dei codici di settore costituisce, attualmente, l’ultimo stadio di un fenomeno di evoluzione legislativa che conduce al progressivo svuotamento del codice, inteso come fonte di una disciplina sistematica e unitaria, verso una pluralità di separate fonti di discipline settoriali.
La specificazione di settore toglie infatti alla parola codice il suo significato originario.
È opinione da tutti condivisa (non solo nei contributi dottrinali ma anche nei pareri resi dal Consiglio di Stato nell’esercizio della funzione consultiva per gli atti normativi proprio con riferimento ai nuovi codici di settore) che altro è un codice e altro sono, invece, i codici di settore.
Mentre il primo designa una unità di sistema, i secondi indicano una pluralità di discipline settoriali.
I codici di settore consistono pur sempre in raccolte organiche e sistematiche di norme relative a una o più materie, ma se condividono con il codice unitario il concetto di ordine, non contemplano più, invece, quello di completezza, che diversamente aveva caratterizzato la forma legislativa del codice unitario dalla metà dell’Ottocento fino al periodo fascista (v. più avanti il § La codificazione).
Il passaggio dall’unità del codice alla pluralità dei codici di settore segna una frammentazione delle diverse discipline, ciascuna delle quali viene a trovare un’autonoma collocazione dentro uno specifico codice di settore. La pretesa di ‘totalità’ del codice, che era espressione storica di una forte volontà politica di costituire un sistema centrale e unitario, cede di fronte alle sopravvenute esigenze di pluralità e specializzazione imposte dalla tecnoeconomia, che si riverberano anche nell’ambito legislativo.
Del resto la stessa unità interna al codice aveva cominciato a rompersi, a prescindere dall’avvento delle leggi speciali e delle discipline settoriali esterne al codice stesso, con la scomposizione di istituti non più unitariamente considerati, come testimonia, a titolo esemplificativo, il passaggio dalla proprietà alle proprietà e, quindi, dalla responsabilità alle responsabilità, e così via.
Invero, la frammentazione in settori non riguarda solo la legislazione, ma – tra i molteplici ambiti in cui si manifesta – anche la gestione amministrativa (e giudiziaria) dei diversi settori dell’economia, che vengono affidati alle nuove (e sempre più numerose) autorità amministrative indipendenti, il cui proliferare costituisce appunto un’altra importante implicazione dell’evoluzione dell’economia capitalistica e della cosiddetta globalizzazione.
Le istanze di specializzazione derivano dunque dalla complessità della società e del mercato e si traducono in una pluralità di sistemi frammentati e autonomi tra loro, che esigono ciascuno di essere dotato di un proprio statuto normativo pluridisciplinare che travalichi le tradizionali distinzioni tra discipline generali privatistiche e pubblicistiche. Nel contempo la pluralità viene a interessare anche le stesse fonti di produzione delle regole alle quali si aggiungono, accanto a quelle propriamente legislative di derivazione statale, regionale o sopranazionale, nuovi protagonisti della regolamentazione, quali il neocorporativismo delle autorità indipendenti, le norme tecniche o regole di standardizzazione degli enti di normalizzazione oppure gli stessi privati, in particolare attraverso i codici di condotta.
La progressiva erosione dell’unità sistematica del codice era già iniziata con il movimento legislativo che intorno alla fine degli anni Settanta del secolo scorso fu efficacemente denominato decodificazione (v. La decodificazione), a fronte del continuo e incessante proliferare di leggi speciali che hanno via via inglobato cospicue materie, sottraendole alla disciplina dettata dal codice e riducendo quindi quest’ultima a un’applicazione soltanto residuale (attenta, essenzialmente, alla rilevanza della operatività tecnica che ancora oggi caratterizza taluni strumenti).
Il codice, del resto, non costituisce una forma naturale, logica o necessaria per la stessa esistenza del diritto, bensì una forma storica e relativa in cui si può esprimere la legge, la quale muta a seconda del potere che la ispira.
L’attuale contesto storico, che vede l’indebolimento del potere politico a vantaggio di un primato delle forze del potere economico, unitamente allo sviluppo della scienza e della tecnica, che impone nuove esigenze di pluralità e di specializzazione delle regole, segna un mutamento nella direzione dell’opera legislativa, che muove dal codice verso le leggi speciali ‘decodificanti’ e poi da queste verso i codici di settore.
Di ciò si mostra consapevole lo stesso Consiglio di Stato, il quale, nel parere della Sezione consultiva per gli atti normativi emesso nell’Adunanza del 14 febbraio 2005, sullo schema di decreto legislativo recante Riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni. Codice delle assicurazioni, testualmente riconosce che questo processo «cambia […] l’idea di codificazione […] Si è in una fase storica nella quale all’idea regolativa del codice si è sostituita l’esistenza di discipline sistematicamente organizzabili in una pluralità di codici di settore. Le codificazioni incentrate sull’unità del soggetto giuridico e sulla centralità e sistematicità del diritto civile stanno, quindi, lasciando spazi a microsistemi ordinamentali, non fondati sull’idea dell’immutabilità della società civile, ma improntati a sperimentalismo ed incentrati su logiche di settore, di matrice non esclusivamente giuridica».
Tale processo, quindi, accompagna la codificazione «al raggiungimento di equilibri provvisori, ma di particolare significato perché orientati a raccogliere le numerose leggi di settore, in modo tale da conferire alla raccolta una portata sistematica, orientandola ad idee capaci di garantire l’unità e la coerenza complessiva della disciplina». In definitiva, la codificazione, nel 21° sec., viene considerata un’attività di ‘manutenzione’ del diritto positivo, più che un’attività di creazione.
Di talché i nuovi codici di settore non segnano affatto un’inversione di tendenza nel senso di una ‘ricodificazione’, intesa alla stregua di un ritorno alla unità sistematica del codice, bensì essi rappresentano un ulteriore stadio di sviluppo e di compimento del medesimo processo legislativo di decodificazione, che vede, appunto, le stesse leggi speciali decodificanti raccogliersi e consolidarsi in autonomi corpi organici specializzati per ciascun settore, ovvero dei veri e propri microsistemi legislativi.
Si passa così dal predicato della specialità delle leggi esterne al codice civile (che comunque lasciava al codice civile stesso qualche residuale applicabilità quale norma generale) al predicato della specializzazione che può ascriversi ai codici di settore, ciascuno dei quali comprende soltanto un frammento o una frazione del diritto, connotato da una propria ragione ispiratrice e anche da un proprio linguaggio tecnico (o tecno-letto), che – muovendo in particolare da quanto Natalino Irti ha diffusamente e progressivamente chiarito da tempo – impone all’interprete di ricercare sempre più soltanto all’interno del singolo microsistema gli specifici criteri per interpretare le norme, per colmare le lacune e per sciogliere le antinomie (prevalentemente mediante il criterio della competenza). L’applicabilità del codice civile viene resa dunque sempre più residuale e remota, e il codice civile viene inteso quale fonte complementare a cui l’interprete potrebbe ancora ricorrere solo dopo avere utilizzato con la massima estensione, anche con i metodi dell’analogia, tutte le energie espansive dei codici di settore.
A questo proposito appare interessante porre in rilievo che, se alcuni dei nuovi codici si limitano a enunciare un espresso rinvio al codice civile consentito solo per quanto non previsto dal codice di settore (v., per es., l’art. 38 e l’art. 135, 2° co., Codice del consumo), altri codici specificano, invece, ancora più chiaramente che l’applicabilità delle norme codicistiche generali resterebbe consentita soltanto in mancanza di qualsiasi altra disposizione, anche se non espressa dal codice ma da diverse fonti di rango inferiore, volta a regolare la specifica materia di riferimento (v., per es., art. 1, 3° co., Codice della nautica da diporto, con riferimento alla residua applicabilità del Codice della navigazione).
La diffusione dei codici di settore esprime dunque un’acquisita consapevolezza che le stesse leggi speciali (infatti già da più parti definite, piuttosto che speciali, collegate o complementari) non hanno più solo una funzione di integrare e completare la disciplina dei codici generali, bensì anche quella di introdurre nel sistema nuovi principi e regole ispirati da fonti diverse e diretti a perseguire finalità di interesse comunque generale, e anzi di una generalità, per così dire, ancora più ampia, tanto da superare i confini territoriali nazionali aprendo l’ordinamento agli orizzonti non solamente dell’armonizzazione di un diritto uniforme di una comunità sovranazionale, ma anche alle istanze spaziali del mercato e della globalizzazione.
Il tramonto della specialità è insieme causa ed effetto della crisi della generalità e dell’astrattezza della legislazione, che deriva appunto dalla influenza delle suddette esigenze di specializzazione imposte dalla tecno-economia: i principi generali non riescono più a rispondere ai nuovi e peculiari bisogni emergenti dai diversi settori del mercato globale e della moderna società civile (si pensi, per es., all’avvento dell’era digitale o all’espansione della società dei consumi, che determinano l’introduzione di nuove e specifiche forme di tutela già recepite nei relativi codici di settore), ciascuno dei quali esige una propria regolamentazione specifica, comportando così la frammentazione del diritto in una pluralità di sistemi normativi particolari e autonomi tra loro, ispirati a logiche diverse e perfino espressi con linguaggi particolari.
Mentre la specialità, in ragione di determinate differenze (riguardo alla locazione, per es., le distinzioni tra quella abitativa, quella commerciale, quella di fondi rustici) deroga, per taluni aspetti, alla disciplina generale, che resta comunque necessariamente presupposta e ribadita, la specializzazione o specificità si pone come regola aggiuntiva dotata di un certo grado di novità e di autonomia: qui la differenza tiene conto dell’impatto della novità sul precedente e, per certi versi, questa novità consente una maggiore autonomia rispetto alla specialità.
L’autonomia è legata anche al fatto che la specificità, nel far nascere il ‘nuovo’, non tiene conto solo del ‘generale’, visto in particolare come norma codicistica, ma guarda anche alla interdisciplinarietà del settore. I vari codici di settore presentano generi differenti e riassetti normativi operati diversamente; di certo, per tutti il settore rappresenta una forma di interdisciplinarietà rispetto alle classiche divisioni del sapere e, occorre ribadire, essi rappresentano un superamento della stessa partizione pubblico/privato.
Del resto, è sintomatico che le maggiori interferenze tra codici di settore e codice civile si hanno solo per il Codice del consumo; gli altri codici di settore denotano una maggiore autonomia rispetto al codice civile, anche se per essi si pone il problema di verificare se e in quali limiti il codice di settore si differenzi dal Testo unico. Con riguardo a tale ultimo profilo, tenendo conto della tradizionale distinzione tra codice e Testo unico, secondo la quale, mentre il codice è sostanzialmente innovativo della materia, il Testo unico mira soltanto a raccogliere in un unico atto tutto il materiale normativo vigente (sebbene, una volta approvato nelle forme opportune, anche il Testo unico abbia lo stesso effetto abrogativo dei codici, con la conseguenza che le future modifiche alla disciplina andranno a incidere direttamente sul Testo unico e non sulle leggi in esso catalogate), i singoli codici di settore, indipendentemente dal nomen a essi attribuito, tenderanno a inquadrarsi nell’una o nell’altra categoria a seconda che rechino un quid novi alle discipline organizzate in un microsistema organico e unitario (sebbene nei limiti del settore di riferimento e senza pretesa di unicità e completezza), oppure si risolvano effettivamente in una mera raccolta delle leggi già esistenti in una data materia.
La premessa e – nel contempo – la conclusione di questa indagine sembrano consistere in ciò: mentre il codice tradizionale è un monumento che si erge solido nel tempo, gli attuali codici di settore appaiono destinati a proliferare e a tenere conto della rapidità dell’evoluzione economico-sociale e, quindi, a evolversi e a mutare anch’essi rapidamente (come dimostrano, per es., le nuove integrazioni e modifiche al recente Codice del consumo).
Se il codice unitario prefigura un assetto stabilmente determinato dal legislatore per l’avvenire, viceversa i codici di settore fotografano l’esistente e recepiscono i bisogni contingenti imposti dalle forze della tecnica e dell’economia, e in quanto tali restano assoggettati a continui adattamenti. Lo stesso legislatore si mostra consapevole della necessaria attitudine al mutamento dei codici di settore, infatti, per fare un esempio, il Codice del consumo contiene nell’art. 144 una previsione espressamente dedicata agli aggiornamenti che dovranno essere attuati mediante esplicita modifica del codice stesso.
Tuttavia, nonostante le specificità che differenziano i codici di settore dalla codificazione tradizionale, essi restano pur sempre destinati a garantire, oltre alla completezza e alla coerenza, anche la stabilità del testo legislativo, come precisato dalla Sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato (v. il parere reso nell’Adunanza del 30 gennaio 2006 sullo schema di decreto legislativo recante disposizioni correttive e integrative del Codice dell’amministrazione digitale), secondo cui: «pur se l’idea della codificazione è mutata e dal modello illuministico si è passati alla costruzione di microsistemi legislativi, è comunque coessenziale all’idea medesima la necessità di raccogliere le leggi di settore al fine di garantire l’unità e la coerenza complessiva della disciplina (Adunanza generale, 25 ottobre 2004, n. 10.548/04). Il che evoca, in ogni caso, il principio della esaustività e sistematicità del testo, nonché della sua stabilità, cioè della tendenziale intangibilità. Solo se completo ed esaustivo, infatti, un testo normativo può assurgere alla qualificazione di codice in senso proprio; altrimenti può perdere la sua stessa ragion d’essere».
Del resto, lo stesso uso della parola codice incide non solo sulla coerenza sistematica che il settore viene ad assumere, ma altresì assicura alle disposizioni legislative in esso contenute una maggiore durevolezza e stabilità nel tempo rispetto alla moltitudine di leggi prive della protezione offerta dal trovarsi consolidate in una raccolta, in quanto le disposizioni contenute in un «testo normativo che rechi nell’epigrafe l’indicazione codice ovvero testo unico» rimangono in vigore (v. art. 14, 17° co., lett. a) della l. 28 nov. 2005 n. 246, Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005) e possono quindi per ciò solo – appunto in virtù della propria forma legislativa di codice o Testo unico – sfuggire alla indiscriminata e immediata efficacia abrogativa ‘automatica’ di disposizioni legislative anteriori al 1970 non espressamente dichiarate indispensabili o escluse dalla predetta abrogazione, così come portata da taluni altri recentissimi interventi legislativi pur sempre volti al medesimo fine della semplificazione normativa, sebbene perseguito con mezzi diametralmente opposti a quello istitutivo dei codici di settore.
In questo senso, da ultimi si segnalano, addirittura emanati con la forma della decretazione di urgenza da parte del Governo (che mal si concilia con la delicatezza e la necessaria ponderazione che riguarda i fenomeni di abrogazione delle fonti del diritto), dapprima il d.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito nella l. 6 ag. 2008 n. 133 (definito il decreto taglialeggi o ghigliottina) e, in rapida successione temporale, il d.l. 22 dic. 2008 n. 200, introdotto ricorrendo alla medesima forma non solo per disporre l’abrogazione di altre leggi e per correggere in corsa l’elenco di quelle già disposte con il precedente (in ciò ponendo altresì gravi problemi di diritto intertemporale per la conseguente reviviscenza di norme già frettolosamente abrogate), ma altresì al fine di perseguire con ulteriori provvedimenti il salvataggio di alcune altre leggi che, sebbene ‘vecchie’, sono poi risultate ancora utili allo stesso frettoloso legislatore che le aveva più o meno inavvertitamente ricomprese nella sommaria abrogazione.
Potrebbe apparire singolare come, di fronte al problema della iperregolazione e della sovrabbondanza di norme, la stessa esigenza di semplificazione ispiri nel contempo, accanto al complesso sforzo legislativo volto al riordino sistematico delle diverse discipline raccolte e organizzate nei codici di settore, anche opposti interventi volti alla drastica e indiscriminata cancellazione (addirittura in via di urgenza) delle norme che si presumono sovrabbondanti.
Il legislatore della semplificazione da una parte crea e dall’altra taglia. Ma, a ben vedere, c’è una logica coerenza nel tentativo di semplificare e di riordinare il sistema sia creando nuove forme legislative per raccogliere e razionalizzare (anche innovando) le leggi reputate utili, sia cancellandone altre che appaiono superflue.
In buona sostanza, la tendenza legislativa sembra indirizzarsi nel senso che ciò che è reputato utile entra e viene sistemato nei codici, mentre ciò che resta fuori si elimina mediante abrogazione. L’esigenza, avvertita pragmaticamente, si pone in considerazione del fatto che i codici di settore non determinano l’abrogazione totale della legislazione precedente, per non invadere la potestà legislativa regionale del nuovo assetto costituzionale. Pertanto, la decretazione volta ad abrogare tende a recuperare l’obiettivo perseguito in precedenza mediante lo stesso strumento del Testo unico, il quale – tramite il medesimo intervento legislativo e limitatamente alla materia delle discipline oggetto della consolidazione – era rivolto a conseguire nel contempo un duplice risultato: da una parte, raccogliere in un unico atto tutte le leggi vigenti e, dall’altra, determinare l’abrogazione di quelle escluse.
La linea che accomuna entrambe le opposte forme di semplificazione potrebbe dunque rinvenirsi nell’obiettivo di ridurre la moltitudine inestricabile di leggi isolate, instabili e scoordinate in una pluralità contenuta e ordinata di fonti di cognizione che consentano all’interprete di trovare nuovi criteri di orientamento per ricostruire il sistema in generale, posto che non si trova più di fronte a un monosistema unitario, bensì di fronte a una pluralità di sistemi specializzati: appunto i codici di settore.
La codificazione
Nel parlare di codici di settore, appare interessante un cenno al profilo storico che accompagna la codificazione e connota, da sempre, il termine codice nei diversi significati succedutisi nel tempo.
L’antico etimo latino codex, già diffuso nel diritto romano, benché con un’accezione diversa da quella moderna, designava originariamente il nome dei manoscritti confezionati su tavolette cerate connesse tra loro, e assunse il significato generico di libro compatto cucito sul dorso, che si legge voltando le pagine. In seguito, il termine venne impiegato per indicare il vero e proprio libro rilegato, quando il codex cominciò a sostituirsi al rotolo di papiro (volumen). Tuttora, nella filologia classica, il termine codice designa appunto un manoscritto confezionato in questa forma.
In campo giuridico, invece, si assiste a uno slittamento di significato dal contenente al contenuto, impiegandosi il vocabolo dapprima (a partire almeno dal 3° sec.) per indicare un libro di leggi, raccolte e ordinate dall’autorità in un insieme unitario e promulgato con un unico atto, fino (a partire dal 17° sec.) a designare non tanto il libro in cui il diritto è riordinato, quanto lo stesso diritto nelle sue connotazioni di unitario e ordinato.
Sicché, in diritto, il termine codificazione esprime il significato di una raccolta e sistemazione ordinata di norme giuridiche, intesa soprattutto come attività del potere legislativo finalizzata a esporre in un testo unitario le norme di un particolare ramo del diritto vigente in un dato momento storico.
Non si tratta soltanto di una mera raccolta o consolidazione di leggi regolanti una data materia, con la finalità di rendere alle norme ordine e stabilità (quale sarebbe invece il Testo unico), bensì di un fenomeno giuridico che consiste nell’opera di ordinamento sistematico, il più possibile completo, astratto e organico di un determinato (più o meno ampio) ambito giuridico, reso coerente anche attraverso la manipolazione del materiale legislativo già esistente e incluso, e per ciò stesso con carattere innovativo rispetto agli atti preesistenti in esso raccolti.
Alla base della genesi di un codice c’è l’idea di tradurre in principi il diritto di un popolo; di riassumerlo in un testo il più possibile coerente e completo, cioè privo di antinomie e di lacune; di affidare il governo della società a un sistema stabile e durevole di norme generali e astratte, sottratte a qualsiasi arbitrio di giudici o interpreti.
Per quanto attiene alle origini, pur essendo già presente anche nelle epoche antiche (si rammenta che il termine codice è legato non solo a uno dei più antichi esempi di testo normativo – il codice di Hammurabi – ma indica altresì, intorno al 500 d.C., una delle raccolte imperiali – il Codex Iuris Iustiniani – caratterizzata dall’ambizione di raccogliere e tramandare ai posteri, malgrado le interpolazioni più o meno pesanti, l’intero diritto romano), il fenomeno della codificazione, intesa in senso moderno, si sviluppa in Europa continentale a partire dalla crisi del cosiddetto diritto comune, iniziata fin dal 15° secolo.
Da quel momento in poi, infatti, in concomitanza con la progressiva decadenza del potere dell’imperatore e del papa e con il sostanziale smarrimento da parte della dottrina giuridica della capacità di attuare quella caratteristica operazione di sintesi e uniformazione del diritto comune, la regola interpretata non soltanto aveva ormai preso il sopravvento sulla norma uniforme presente nei testi giustinianei, ma aveva altresì assunto significati differenti nelle diverse terre di applicazione. Ne discese, di conseguenza, la necessità di una razionalizzazione di tipo centralistico del diritto vigente, che comportò, da una parte, il divieto di utilizzare le opinioni della dottrina e, dall’altra, di porre un’unica interpretazione alla quale attribuire il crisma della ufficialità. Questo processo, svolto solo parzialmente dalle cosiddette consolidazioni, fu agevolato dalla nascita degli Stati nazionali, che assunsero a poco a poco il monopolio della produzione del diritto eliminando tutto ciò che era stato considerato come tale in precedenza e prefigurando di poter plasmare una nuova società attraverso una propria legge imposta su un territorio definito.
Questa caratteristica venne ad accentuarsi con l’adozione dei sistemi parlamentari, in considerazione del fatto che la legge è approvata dal Parlamento e considerata diretta espressione della volontà popolare, assurgendo quindi a fonte primaria dell’ordinamento. Tale sistema porta a considerare il giudice come un mero esecutore di comandi della legge e relega la dottrina a svolgere soltanto un ruolo di commento e di chiarificazione dei testi.
In questo contesto, contrassegnato da una forte volontà politica di carattere culturale in opposizione alle autonomie feudali, il codice, nella sua accezione che lo contraddistingue ancora al momento attuale e che lo pone in contrapposizione ai codici di settore, si manifesta, in molte aree politiche e culturali, lo strumento maggiormente adatto a conformare e uniformare un modello di società nazionale.
Infatti, sebbene in precedenza non fossero mancati tentativi di raccogliere in un unico testo norme o consuetudini (senza risalire alle testimonianze più antiche, si pensi, per es., ai libri medievali dei feudi oppure alle numerose compilazioni di leggi principesche), il sistema del diritto codificato moderno, al quale tuttora si fa riferimento quando si utilizza il termine codice, ha inizio soltanto con l’avvento degli Stati nazionali e assume rilievo solo in quelli caratterizzati da una più forte vocazione centralista, manifestandosi in particolar modo attraverso l’adozione dei cinque codici (civile, di procedura civile, penale, di procedura penale, di commercio) maturati in seguito alla Rivoluzione francese. Il legislatore esprime, attraverso il codice, un disegno coeso e razionale; non fotografa l’esistente, ma lo prefigura.
Per quanto riguarda le origini della codificazione civile, il Codice napoleonico del 1804 costituì il modello per eccellenza delle codificazioni relative al diritto privato e divenne la base di buona parte delle codificazioni in Europa continentale.
Si intende quindi evidenziare che le forti differenze di tecnica legislativa legate alla forza e alla tradizione culturale dei diversi ambienti (basti menzionare, a titolo di esempio, la presenza di una parte generale contenuta fino al 1976 nel codice civile tedesco, diversamente da quanto era previsto dal legislatore francese e italiano) testimoniano l’intima connessione del codice – secondo l’accezione che lo ha contraddistinto fino all’avvento dei codici di settore – con la nazione di appartenenza e, di conseguenza, con la sovranità nazionale e la sovranità del diritto. Ne discende che i codici, pur nella unitarietà del valore che li ispira, presentano fra di loro rilevanti differenze legate ai diversi contesti di riferimento.
Per quanto attiene, in particolare, alla codificazione in Italia, appare sufficiente accennare esclusivamente alla nascita del fenomeno e al suo declino.
Alla Restaurazione, i principi, dopo aver in un primo tempo richiamato in vigore quasi dappertutto la legislazione prerivoluzionaria, diedero avvio alla formazione di codici sulla traccia di quelli francesi. In Piemonte, la codificazione tardò invece ad attuarsi: fu necessario attendere l’assunzione al trono di Carlo Alberto. Dopo l’unità d’Italia, il governo fu autorizzato a promulgare nel Regno i codici civile, di procedura civile, di commercio e di marina mercantile, ai quali seguì quello di procedura penale. Grazie a tali codici si perfezionò l’unificazione legislativa dello Stato.
L’ottica di fondo non muta con il passaggio dal codice del 1865 a quello del 1942 giacché, nonostante le rilevanti modifiche del disegno e dei contenuti, pur essendo già raggiunta l’unità dello Stato, il codice del 1942 prosegue con la unificazione del diritto privato incorporando il codice di commercio all’interno del nuovo codice civile. Pur modificandosi il disegno e alcuni principi ispiratori, permane lo spirito della codificazione sorretto da un potere forte e unificante, volto a disegnare la società e a proclamare, in particolare, l’unità del diritto privato comune, che incorpora anche i principi di quel diritto singolare nato dall’esperienza degli operatori economici.
A prescindere dalla diversità, anche profonda, delle scelte politiche e dei relativi sistemi legislativi, lo spirito della codificazione – ove presente – non muta nei diversi luoghi e nei tempi, e permane fino all’età della decodificazione.
La decodificazione
Il termine decodificazione è generalmente inteso nel linguaggio comune come attività volta a decifrare e interpretare il significato di un segnale, e trova altresì una varietà di specificazioni nelle particolari discipline in cui il medesimo vocabolo viene impiegato. Esse spaziano dalla linguistica (ove designa l’attività di identificazione e interpretazione di messaggi da parte del soggetto ricevente) alla semiotica (indicando l’attività di identificazione di un contenuto, svolta alla luce di un dato modulo espressivo) oppure all’informatica (nel cui ambito descrive l’operazione che decifra un segnale riportando alla forma originaria informazioni rappresentate secondo un determinato codice).
Il vocabolo assume invece un significato affatto diverso nell’ambito degli studi giuridici nei quali è stato tradotto con largo successo da N. Irti nell’anno 1978, in occasione di una lezione tenuta all’Università di Salamanca che è stata poi pubblicata nell’omonimo saggio L’età della decodificazione («Diritto e società», 1978, pp. 613 e sgg.).
Esso descrive il complesso processo storico che ha rotto l’unità sistematica del diritto privato; unità che, prima raccolta intorno al codice civile, è stata ridotta in frantumi dal continuo proliferare di leggi speciali.
Nel tempo, infatti, una enorme quantità di leggi speciali ha riguardato e riguarda molte materie in precedenza regolate esclusivamente dai codici, la cui nuova regolamentazione sempre meno spesso viene inserita e coordinata nel sistema codicistico mediante la tecnica legislativa della cosiddetta novella (che peraltro richiede indubbiamente uno sforzo maggiore al legislatore proprio in ragione delle difficoltà connesse alla collocazione, alla traduzione e al coordinamento della nuova disciplina nel sistema già esistente), bensì viene affidata al fluire di una moltitudine frammentaria e disordinata di leggi speciali.
A queste leggi speciali si tende poi ad attribuire ordine e stabilità mediante diversi procedimenti di consolidazione (che in ogni caso – giova ribadire – costituiscono sempre forme oppure categorie di tecnica legislativa non già logiche o necessarie, bensì storiche e relative).
Si pensi, oltre alla principale espressione della consolidazione che è costituita dai testi unici, anche agli esempi di denominazione (talvolta ‘ambiziosa’) delle leggi speciali come statuto o regime (per es., rispettivamente, lo statuto dei lavoratori o quello dei diritti del contribuente, nonché il nuovo regime delle locazioni), ma soprattutto – per ciò che più qui interessa – il processo di consolidamento delle leggi speciali ha dato altresì vita anche a nuovi codici, appunto i codici di settore, che nulla hanno a che vedere con l’idea di codice dell’inizio del secolo scorso.
In realtà, l’opposta corrente di pensiero secondo cui il processo di decodificazione non potrebbe esistere, in tanto giunge a tale conclusione in quanto muove dal postulato per cui non è mai esistita una codificazione del diritto vera e propria, tale, cioè, da raccogliere in maniera organica tutte le leggi vigenti e al contempo in grado di cancellare tutte le leggi precedenti contrastanti.
Il fenomeno della decodificazione non si risolve soltanto nel profilo descrittivo, che ne offre la rappresentazione in prospettiva storica, ma deve essere considerato anche dal punto di vista di carattere metodologico-costruttivo, che ne assume e interroga i risultati, sospingendosi fino a rimeditare ruolo e posizione dell’interprete il quale – venuta meno l’unità del codice civile – si trova a dover ricostruire il sistema coordinando una pluralità di fonti, ovvero il vecchio codice e le leggi speciali decodificanti.
Il processo di decodificazione si raccoglie intorno alla tensione dialettica tra codice civile e leggi speciali. Il modo in cui il concetto di specialità muta e si evolve (da specificazione a specializzazione) appare il più utile angolo di osservazione dal quale guardare all’atteggiarsi del fenomeno dalle origini della codificazione fino ai tempi attuali.
Dapprima, nell’età liberale, il moto di unità nazionale trova soddisfazione nella centralità del codice civile del 1865 che, dominando il sistema, si fa sede unica della generalità normativa. Il codice è la carta della borghesia terriera: in esso si riflettono istanze di stabilità e sicurezza, tipiche della società tardottocentesca. Domina la fiducia nel progresso e nella capacità del singolo: al diritto è richiesto di garantire e salvaguardare il principio di autonomia privata da opprimenti ingerenze dello Stato. I principi generali che percorrono la disciplina dei singoli istituti, dettata dal legislatore in un linguaggio ordinato, uniforme e omogeneo, esprimono una pretesa di coerenza e di completezza che li rende dotati di una forza espansiva tale da colmare le eventuali lacune dell’ordinamento. Le leggi speciali si limitano ad applicare a singoli gruppi di casi i principi enunciati dal codice: qui la specialità, volgendosi in specificazione, giova a diffondere la logica del codice verso fattispecie in esso non previste, preservando così l’ordinata sistematicità. Il predicato di specialità delle leggi, dunque, rispetta il significato attribuito al termine dalla teoria generale, cioè non esprime una caratteristica intrinseca della norma, bensì dipende dalla comparazione con una norma generale, costituita appunto dal codice civile, cui la legge speciale si limita quindi ad aggiungere una specifica nota di differenza in un più ristretto ambito di applicazione, ribadendone comunque i principi generali. Solo le leggi eccezionali, rompendo con i principi generali, introducono isolatamente schegge e frammenti di instabilità: ma le disposizioni preliminari al codice civile ne vietano l’estensione analogica, contenendone così drasticamente l’energia innovatrice.
In seguito, nel periodo tra le due guerre, il primato del codice si viene gradualmente smarrendo. Lo Stato si avvia su un percorso di giuridificazione della società, occupa spazi della vita economica, la cui disciplina era prima affidata agli accordi dei singoli. Aumenta il numero di leggi volte a regolare materie e istituti estranei al codice: leggi, non più deputate al mero ufficio di divulgare la logica del sistema, bensì portatrici di nuovi criteri, che non si lasciano ricondurre entro i principi generali del codice civile. La specialità cessa di atteggiarsi a semplice specificazione: l’ordinata sistematicità è intaccata, il rapporto di genere a specie tra codice e leggi speciali interrotto e compromesso. Per riguadagnare la perduta unità, il legislatore del periodo fascista, nell’approvare il codice civile del 1942, tenta la soluzione politica di procedere alla rigorosa determinazione di principi generali, individuati nelle dichiarazioni della Carta del lavoro del 1927, che entrino in gioco non solo per colmare lacune dell’ordinamento, ma pure, alla stregua di criteri ermeneutici generali, in ogni fase di interpretazione e applicazione del diritto.
Infine, con l’abrogazione, nel 1944, della Carta del lavoro e la promulgazione della Costituzione repubblicana, il 1° gennaio 1948, si apre l’ultima fase storica, che viene appunto definita come età della decodificazione. Fase che, sotto un profilo politico, è segnata dallo sgretolamento della sovranità centrale. La Carta costituzionale disegna una rigida gerarchia delle fonti, espropriando definitivamente la centralità del codice civile. Il sistema si raccoglie in nuova unità intorno alla Costituzione. Le leggi speciali sono ora incaricate di svolgere e applicare i principi costituzionali: tra i due poli, su cui gravita il rapporto di genere a specie, non compare più il codice civile, il primo termine essendo ormai tenuto dalla Costituzione. Si assiste così al continuo prodursi di leggi speciali che, introducendo i nuovi principi pure in materie già disciplinate dal codice, ne riducono e svuotano l’ambito di applicazione.
Se, sotto un profilo statico-sincronico, codice e leggi speciali ricoprono, nella gerarchia delle fonti, la medesima posizione, viceversa, attraverso una visione dinamico-diacronica, il processo di decodificazione dimostra la propria implacabile capacità di erosione di spazi prima occupati dal codice. La successione cronologica tra codice civile, Costituzione e leggi speciali rende infatti conto di come solo queste ultime – in quanto successive – possano attuare, con riguardo a singole materie, i principi della Carta repubblicana.
Il compimento della decodificazione apre l’età dei codici di settore, i quali appunto non segnano affatto un ritorno alla codificazione unitaria, bensì rappresentano la fase culminante del processo decodificante, che vede le varie discipline sottratte al codice civile consolidarsi in una pluralità di autonomi microsistemi legislativi.
La originaria frammentarietà, che sempre caratterizzava leggi speciali ed eccezionali, appartiene ormai a un’altra fase storica. Alla decodificazione si accompagna, come secondo termine di un inscindibile binomio, un incalzante processo di consolidazione. Le leggi speciali espandono progressivamente la propria sfera di applicazione, fino a diventare esclusiva sede di disciplina di interi istituti. Sempre con maggior frequenza, questo itinerario sfocia e si conclude in una legge consolidatrice, che finisce con l’assumere la veste di testo unico, nonché, da ultimo, di codice di settore. Nascono così autonomi sistemi di norme, portatori di logiche nuove, ed esprimenti diversi e vari linguaggi, che riflettono il gergo tecnico della materia disciplinata. Il moto centrifugo è compiuto, l’età tolemaica definitivamente tramontata: è il tempo in cui le leggi, atteggiandosi a statuti di gruppi, appaiono lo specchio di interessi particolari. Nel fascio di corpi legislativi, che si irradia intorno alla Costituzione, c’è pure il codice civile, al quale però non tocca più alcuna posizione di privilegio: esso è ormai soltanto uno dei molteplici rami di una polisistematica realtà normativa.
Il senso di antitesi storica, che l’età della decodificazione esprime rispetto agli anni del liberalismo ottocentesco, ha mutato in profondità l’ufficio dell’interprete. Concetti generali e strumenti tecnici sono stati oggetto di meditate riflessioni e di radicali ripensamenti. Basti rammentare l’arduo problema delle lacune, risolto dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile tramite il ricorso a disposizioni che regolano casi simili e, in ipotesi di permanenza del dubbio, ai principi generali dell’ordinamento: criteri che dovranno provarsi non più sulle norme del codice, ma entro i micro-sistemi legislativi, deputati a regolare la materia recante la lacuna. Al codice civile si potrà ricorrere soltanto come disciplina residuale, che interverrà una volta esaurita l’energia normativa del microsistema.
La realtà si mostra dinamica e disorganica: il moto centrifugo, sospingente verso la polisistematicità, trova nuovo vigore nei trattati europei, che gradualmente vanno sostituendo la portata innovatrice della Costituzione. All’interprete compete il compito di commentare e interpretare le norme, ricondurle e collocarle nel microsistema di riferimento, disegnare il quadro di rapporti intersistematici, individuare i nuovi criteri ermeneutici sia per colmare le lacune sia per sciogliere le antinomie delle discipline settoriali, le quali si pongono non più in rapporto di specialità rispetto al codice bensì quali frazioni autonome e complementari dell’ordinamento, che l’interprete è chiamato a ricostruire.
Codici, testi unici, testi unici misti e codici di nuova generazione
Si è accennato fin qui alle cause e agli effetti del fenomeno legislativo che ha segnato e segna il passaggio dalla unità del sistema alla pluralità di autonomi microsistemi legislativi. Le leggi speciali decodificanti prima, e i codici di settore poi, non si pongono in rapporto di specialità rispetto al codice, ma esprimono essi stessi principi generali nelle materie di propria competenza e si pongono in rapporto di autonomia e, quindi, di prevalenza o complementarità rispetto alla disciplina solamente sussidiaria e residuale ancora espressa nel codice. La specialità si tramuta in specializzazione. La globalizzazione e il governo della tecnoeconomia pongono delle inarrestabili esigenze di specializzazione e determinano perciò un inevitabile frazionamento del diritto.
La pluralità dei diversi sistemi normativi specializzati determina una crisi della generalità, della astrattezza e della stabilità delle numerose discipline il cui ambito di applicazione è sempre più circoscritto, particolare e variabile. La legislazione di settore appare infatti sempre meno proiettata a regolare l’avvenire secondo un indirizzo politico prestabilito dal legislatore, bensì interviene per recepire bisogni contingenti e mutevoli imposti dalle forze della tecnica e della economia. A fronte dell’aumento della quantità di norme, diminuisce la qualità delle stesse, ponendosi dunque la necessità di contenere la iperregolazione e di semplificare la complessità normativa. All’interprete spetta il compito di individuare i nuovi criteri ermeneutici idonei a ricostruire la completezza e la coerenza dell’ordinamento generale.
In questo quadro si collocano le leggi annuali di semplificazione, introdotte dall’art. 20 della l. 59/1997 (cosiddetta legge Bassanini 1), e originariamente intese come strumento periodico di semplificazione dei procedimenti amministrativi attraverso una progressiva delegificazione (volta a sostituire la fonte legislativa con quella regolamentare): la prima di esse (la l. 8 marzo 1999 n. 50) si prefiggeva di attuare un generale riordino normativo mediante la predisposizione dei cosiddetti testi unici misti, contenenti cioè disposizioni sia legislative sia regolamentari. In seguito, nel corso della successiva XIV legislatura, la l. 229/2003 (legge di semplificazione 2001), all’art. 1, ha riscritto interamente il suddetto art. 20 della legge istitutiva, modificando l’ambito e la struttura della legge annuale di semplificazione e spostandone l’asse verso la semplificazione (sia legislativa sia amministrativa) attuata attraverso un’opera di riassetto normativo e codificazione per settori. Contestualmente, l’art. 23 della stessa legge ha soppresso lo strumento dei testi unici misti abrogando l’art. 7 della l. 50/1999, al fine di superare, fra l’altro, i problemi di conciliabilità della delegificazione con la potestà legislativa regionale introdotta dalla sopravvenuta riforma costituzionale del 2001. Successivamente, la l. 28 nov. 2005 n. 246 (cosiddetta legge di semplificazione e riassetto normativo per il 2005), ha apportato altre modificazioni alla l. 59/1997, integrando il processo di riordino normativo e di semplificazione delle procedure amministrative con ulteriori principi e criteri direttivi, i quali prevedono, tra l’altro, un’integrazione tra gli obiettivi interni di semplificazione e qualità della regolazione e gli orientamenti comunitari in materia, nonché un meccanismo generale di coordinamento tra le iniziative volte a migliorare la qualità della normazione a livello statale, regionale e locale. La medesima l. 246/2005 ha portato a compimento l’esperienza dell’Analisi di impatto della regolamentazione (AIR), già avviata a titolo sperimentale nella precedente legislatura. È stata disposta l’applicazione obbligatoria e generalizzata dell’AIR quale supporto alle decisioni dell’organo politico di vertice dell’amministrazione e sono state disciplinate le competenze ministeriali al riguardo. La legge ha inoltre introdotto un nuovo strumento di analisi, da effettuare questa volta a posteriori: la Verifica di impatto della regolamentazione (VIR). Questa consiste in una valutazione, anche periodica, del raggiungimento delle finalità e nella stima dei costi e degli effetti prodotti da atti normativi sulle attività dei cittadini e delle imprese, nonché sull’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Il d.l. 10 genn. 2006 n. 4, a integrazione di tali strumenti, ha previsto l’istituzione di un Comitato interministeriale di indirizzo per le politiche di semplificazione e di qualità della regolazione, che dovrebbe fare da ‘cabina di regia’ per le attività delle diverse amministrazioni statali in materia. Infine, sempre la stessa legge di semplificazione e riassetto normativo per il 2005 ha introdotto la già menzionata norma taglialeggi, la quale consiste in una particolare procedura volta a una drastica riduzione e semplificazione delle leggi vigenti che prevede, al termine di un processo di ricognizione delle disposizioni legislative statali vigenti, l’abrogazione generalizzata di tutte le disposizioni legislative statali pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, a eccezione di quelle espressamente elencate dall’articolo e di quelle che siano ritenute indispensabili dal Governo con propri decreti legislativi (di seguito e recentemente, emanati non senza una certa schizofrenia).
I nuovi codici di settore, come già il precedente esperimento dei testi unici misti, costituiscono dunque forme legislative volte a perseguire l’obiettivo della semplificazione. Tuttavia, anche prima dell’avvento delle leggi espressamente dedicate alla semplificazione normativa, già i previgenti testi unici legislativi perseguivano il medesimo obiettivo di semplificare, consolidare e ordinare in un unico testo – talvolta anche con una portata innovativa – tutta la disciplina dettata per regolare una data materia.
La denominazione non sembra quindi sempre capace di rendere i tratti distintivi delle diverse forme legislative, le quali talvolta finiscono per sovrapporsi se non addirittura per identificarsi. Infatti, anche a prescindere dai casi in cui la definizione di codice risulta attribuita a provvedimenti legislativi che appaio;no tecnicamente dei veri e propri testi unici (per es., il Codice della strada approvato con d. legisl. 30 apr. 1992 n. 285), non manca chi tende a interpretare in maniera riduttiva tutti i nuovi codici di settore alla stregua di semplici testi unici, tanto più qualora si consideri che anche gli stessi testi unici possono svolgere una funzione innovativa oltre che compilativa, almeno quelli successivi alla l. 23 ag. 1988 n. 400, in quanto vengono approvati non più con decreto del presidente della Repubblica ma piuttosto con decreto legislativo, e sempre in base a delega legislativa (sebbene la distinzione tra testi unici compilativi e innovativi già trovasse affermazioni nella risalente giurisprudenza costituzionale).
Anche la testuale attribuzione da parte del legislatore della denominazione codici di settore istituiti ai sensi delle anzidette leggi di semplificazione (n. 229/2003 e n. 246/2005) potrebbe non costituire un criterio in assoluto discriminante per identificare e distinguere i codici di settore da altre forme legislative, giacché, se così fosse, taluni codici di nuova generazione emanati in virtù di altre deleghe legislative, quale, per es., il Codice in materia di protezione dei dati personali (d. legisl. 30 giugno 2003 n. 196, emanato a norma dell’art. 1 della l. 24 marzo 2001 n. 127, recante delega al Governo per l’emanazione di un Testo unico in materia di trattamento dei dati personali, e della l. 31 dic. 1996 n. 676, recante delega al Governo in materia di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali), solo perché privi del suddetto richiamo legislativo testuale alle leggi di semplificazione (peraltro, nel caso del codice in esame anche perché emanato ancora durante la previgente fase di semplificazione attuata mediante i testi unici misti), resterebbero esclusi dalla categoria pur condividendone presupposti e contesto di riferimento, con ciò ponendosi ulteriori dubbi di qualificazione.
Infine, anche molto tempo prima dell’attuale situazione in cui si collocano le esigenze di semplificazione normativa che hanno dato vita alle forme legislative in esame, un antesignano dei codici di settore potrebbe rinvenirsi già risalendo al Codice della navigazione (approvato con r.d. 30 marzo 1942 n. 327). Oggi, poi, anche questo ‘antico’ codice di settore subisce a sua volta lo scorporo della materia della nautica da diporto, che il legislatore ha voluto collocare in un nuovo co-dice di settore o Testo unico (il Codice della nautica da diporto, approvato con d. legisl. 18 luglio 2005 n. 171, e quindi emanato in attuazione della direttiva 2003/44/CE, peraltro anch’esso privo dell’espresso richiamo alla legge istitutiva dei codici di settore, sebbene cronologicamente successivo, e dunque di dubbia classificazione in tale categoria), stabilendo testualmente che le norme del Codice della navigazione, salvo espresso rinvio, si applichino in via del tutto residuale solo in mancanza di previsioni contenute nel nuovo codice nonché di ulteriori leggi, regolamenti e usi di riferimento specificamente dedicati alla nautica di diporto: una sorta di specializzazione della specializzazione, se è vero che già il diritto della navigazione costituisce un settore dell’ordinamento ad alta specializzazione.
Ciò premesso, appare non agevole, oltre che di scarsa utilità, il tentativo di catalogare, enumerandoli in rigidi elenchi per distinguerli dai codici tradizionali e dai testi unici legislativi e misti, i diversi nuovi codici di settore, che vanno continuamente modificandosi e ampliando il proprio numero.
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