MONFORTE, Cola
(Nicola) di. – Nacque da Angelo Monforte Gambatesa, quarto conte di Campobasso, potente barone del Regno di Napoli, e da Giovanna da Celano.
Si ignorano il luogo e la data della nascita, da collocare intorno agli anni Venti del Quattrocento, dal momento che il M., poco più che adolescente, era presente in delega del padre, al Parlamento riunito dal re Alfonso V d’Aragona il Magnanimo in S. Lorenzo Maggiore a Napoli il 28 febbr. 1443. Fanciullo fu indirizzato al mestiere delle armi, come tutti i maschi della sua schiatta (condottieri erano stati il padre e lo zio, Carlo, entrambi istruiti alla scuola del capitano braccesco Giacomo Caldora).
Formatasi all’inizio del secolo XIV dalla fusione di due piccole stirpi feudali, quella dei signori di Gambatesa in contado di Molise e dei Monforte di Fragneto in Principato Ultra, la famiglia Monforte Gambatesa aveva legato ai suoi molti rami, grazie all’attività mercenaria e a un’accorta politica matrimoniale, domini e titoli, che il M. – rimasto unico maschio del lignaggio – riuscì a riunire a metà del Quattrocento. Con la morte del padre (1450) riceveva infatti il blocco più cospicuo dello Stato feudale familiare; a lui affluirono anche la terra di Gambatesa e i castelli di Mirabello e Tufara, dell’avo Riccardo, e soprattutto, nel 1459, i vasti domini di Carlo (comprendenti la città di Termoli con il titolo comitale e i castelli pugliesi di Campomarino e Apricena) che, privo di figli maschi, aveva testato a favore del nipote. Altri beni, tra i quali il castello di Ferrazzano a sud di Campobasso, il M. otteneva poi in quegli anni grazie al matrimonio - concordato dal padre nel 1447 e celebrato il 21 nov. 1450 a Civita Campomarano in Molise - con Altobella di Sangro, figlia di Paolo (elemento di spicco, egli pure, del mercenariato regnicolo), e di Abenante degli Attendoli, zia di Francesco Sforza duca di Milano.
Poco più che trentenne, il M. era quindi a capo di uno Stato composto da oltre venti terre murate, benché queste, perlopiù siti montani di media consistenza, non fruttassero rendite equiparabili a quelle di altri grandi domini feudali del Regno.
Il 4 dic. 1456 il M. dovette far fronte alle devastazioni provocate dal terremoto che si abbatté sul Regno. Pose subito mano alla ricostruzione e specialmente alla riedificazione di Campobasso che ricopriva un perspicuo interesse strategico e che egli volle interamente rimaneggiata, con lo spostamento dell’abitato più a valle e l’innalzamento di un nuovo e più ampio circuito fortificato; tali opere richiesero sacrifici da parte dei sudditi della contea, come testimonia un documento vaticano, recante un appello, del 1457, del M. al papa, per chiedere se, in occasione del sisma, potesse esigere nelle proprie terre, «absque conscientie scrupolo», le gabelle della carne e del vino indispensabili alla ricostruzione (Figliuolo, I, p. 150). Benché i suoi domini non avessero continuità territoriale – dispersi com’erano sui territori di Capitanata, Contado di Molise e Principato Ultra –, la loro disposizione allungata tra i corsi paralleli dei fiumi Biferno e Fortore ne faceva un’ideale catena di fortificazioni posta a controllo di una delle vie di accesso alla Puglia: con Campomarino e Termoli, a cavaliere della foce del Biferno, come testa di ponte sul mare, e Montorio, Castellino, Monacilioni, Celenza, Castelvetere, Gambatesa e Tufara a munizione della via per il Molise, qui le sue terre si concentravano (Campodipietra, Oratino, Mirabello, Ripalimosani, Campobasso, Ferrazzano), per estendersi poi a sud e formare presso Benevento un nucleo compatto a controllo dei passi sanniti (Fragneto, Pontelandolfo, Pesco Sannita, Pietrelcina).
La fisionomia del dominio del M., che gli dava il controllo di una delle «chiavi» del Regno, attirò l’attenzione del re Ferdinando I in un momento critico per la Corona. Tra l’estate 1458 e l’inverno 1459 si compì infatti la discussa successione del figlio del Magnanimo e nel Regno ardevano focolai di rivolta, sostenuti da Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto, e alimentati da Antonio Caldora, conte di Trivento ed erede del condottiero Giacomo. Le terre di Caldora confinavano con i domini del M. e il re Ferdinando pensò dunque di legare a sé, con benefici e incarichi, il giovane, che peraltro alla morte di Alfonso era accorso a Napoli a prestargli omaggio. Assecondando la bellicosa natura del M., che da anni praticava con una galea la guerra di corsa e che era stato aggregato alla flotta che oppugnava Genova, nell’agosto 1458, il re lo fece capitano di una squadriglia di vascelli regi; lo inviò poi oratore a Venezia e, in dicembre lo nominò viceré degli Abruzzi, con la dotazione di una condotta di 100 cavalli e, dal 4 genn. 1459, un vitalizio di 500 ducati annui. Si trattava di una carica di grande responsabilità, che poneva nelle mani del M. la regione più turbolenta del Regno e dimostrava la ferma volontà del re di fare di lui un suo fedele collaboratore nella difficile congiuntura interna. Il M. sulle prime parve ricambiare la fiducia accordatagli, svolgendo il suo ufficio con solerzia (raccolse notizie sui movimenti dei Caldora e dispose presidi di fanteria in vista di una loro aperta ribellione). Tuttavia, quando il principe di Rossano, cognato del re, consentì lo sbarco alle foci del Volturno di Giovanni d’Angiò, duca di Lorena, figlio del pretendente al trono Renato, il M. seguì la strada della ribellione.
Una lettera inviata a Francesco Sforza dal suo oratore a Napoli mostra la viva incredulità della corte per la defezione del M., che «veramente fra l’altri ha havuto poca rasone de moverse contra el re». In realtà, si trattò di una scelta prudente, supportata da una fredda valutazione della situazione contingente. Si è già detto della vicinanza dei ribelli e delle terre di quelli ai possessi del M.; vanno poi considerati i legami professionali e familiari che questi aveva con i Caldora e con gli elementi che ne guidavano le compagnie mercenarie (fra questi, Francesco Ricciardis di Ortona e Carlo di Sangro, ribelli della prima ora, erano rispettivamente marito di una zia paterna, Giovannella, e cognato del M.). Fu comunque una scelta convinta, come provano l’impegno da lui profuso nella lunga guerra che seguì alla ribellione del baronaggio e gli esiti ai quali tale zelo condusse.
Alla vigilia del Natale 1459, il M., i Caldora e Jacopo da Montagano calavano in Terra di Lavoro al comando di 900 cavalli per unirsi al figlio del pretendente. Nel febbraio 1460, poi, avviando un legame che si rivelò duraturo, egli scortò il duca Giovanni in Puglia attraverso le proprie terre, guerreggiando al suo fianco. Il re Ferdinando non tardò a rivalersi della defezione: nel gennaio del 1460 ordinò il sequestro nella capitale delle case possedute dal M., che furono donate ad Antonio d’Accia, capitano degli uomini d’armi del demanio, e tra il 14 e il 20 maggio diede il guasto al contado di Campobasso. Né ciò turbò il M., che, incoraggiato dalla rotta subita da Ferdinando a Sarno nel luglio di quell’anno, in agosto firmò l’appello inviato dai ribelli a Roma per indurre il papa Pio II ad abbandonare l’alleanza con l’Aragonese.
Fitte nubi si addensavano tuttavia in quei mesi sul M., l’occupazione delle cui fortezze, che sbarravano la strada per la Puglia, appariva ora come una necessità per il re, isolato con il suo esercito in Terra di Lavoro: lo avvertiva Francesco Sforza, che in novembre consigliava Ferdinando di lanciarsi contro i possessi del Monforte. La stagione invernale impedì l’attuazione del piano, ma era imminente un attacco allo Stato del M. che, sospettoso, nel marzo 1461 reagì con brutale violenza a un presunto complotto ordito ai suoi danni, imprigionando l’abate di S. Sofia di Benevento, rifugiatosi mesi prima presso di lui, e impiccando, «cum le mane sue», uno dei fratelli di questo, il nobile Gorone. Vigile, il M. restò dunque a presidio dei suoi possessi fino ad agosto, quando un colpo di mano degli Aragonesi, riusciti a filtrare in Capitanata attraverso i passi irpini, lo costrinse a recarsi colà con Ercole d’Este; era ciò che attendeva il re, il quale, ricevuti rinforzi da Milano e Roma, attaccò le terre del M. per aprire finalmente «la via largha» per la Puglia. Sotto la minaccia delle artiglierie, Pietrelcina, Pesco Sannita, Pontelandolfo e Fragneto vennero a patti (14-21 settembre). Né fu di conforto al M. il ricompattarsi, in quel difficile frangente, dell’esercito angioino: raggiunto Giovanni il 23 ottobre, se ne allontanò dopo tre giorni per le difficili condizioni del campo ribelle, privo di vettovaglie (ma anche per l’impossibilità di far circolare fuori dei propri domini le monete coniate nelle sue zecche).
Valutate le difficoltà dei propri aderenti e nel pericolo di perdere lo Stato, il M. tentò allora la riconciliazione, con l’idea, è da credere, di prendere tempo. Le trattative con la Corona, avviate in novembre, durarono fino al gennaio 1462. Pure, quando i negoziati parevano conclusi, la diffusione della falsa notizia della morte di Francesco Sforza, principale alleato del re, indusse il M. a riabbracciare il partito angioino: errore fatale, che chiarì le sue reali intenzioni e ne minò per sempre la credibilità agli occhi della corte. Le successive fasi del conflitto, distinte dalla ripresa aragonese, lo costrinsero a intercalare più volte l’azione diplomatica a quella armata (nel dicembre 1462, dopo un nuovo attacco alle sue terre, propose di rimettere il proprio Stato nelle mani del duca di Milano), ma per la Corona egli era uomo che «dà solo parole». Del resto, l’esercito ribelle ormai agonizzava e vani erano i successi che egli ancora ottenne (presa di San Severo nell’aprile 1463 e attacco ad Apricena in luglio).
La partita, per anni giocata dal M. con spregiudicatezza, era chiusa e nei primi mesi del 1464, ritiratosi l’Angioino a Ischia, egli rimase solo ad attendere, nella rocca di Termoli, che l’esercito regio allestito per schiacciare i Caldora, con lui ultimi a resistere, lo travolgesse. Vano fu un estremo appello inviato a Giovanni affinché riprendesse la lotta: le lettere spedite all’Angiò tra febbraio e marzo 1464 vennero intercettate dagli uomini del re e, d’altro canto, Giovanni già veleggiava verso la Provenza. Al M. non restò altro da fare che venire a patti.
La capitolazione, ancorché dura, non fu rovinosa: il M. avrebbe conservato parte dei feudi, ma rimesso Campobasso nelle mani del re. Essa tradiva però la fretta di Ferdinando, determinato a chiudere al più presto il conflitto, e lasciava inquietanti sospetti sulle future azioni di quel sovrano troppo a lungo offeso. Lo intuì il M., che, deciso a non rischiare una rivalsa, nel giugno del 1464, lasciata la famiglia a Termoli, abbandonò per sempre il Regno.
Il volontario esilio aprì una fase nuova nella sua vita. Sua intenzione era di mettere a frutto l’esperienza militare acquisita nel corso della guerra e di collocarsi stabilmente sul mercato della guerra: progetto utile a compensare in parte la perdita dello Stato e non privo di prospettive, in considerazione del credito di cui godeva in campo mercenario e delle relazioni di cui disponeva (prima tra tutte, quella con la casa d’Angiò). Tuttavia, il momento non era dei più propizi all’avvio di una nuova carriera, poiché le armi in Italia riposavano ed egli usciva dal Regno privo di una sua compagnia e dei mezzi utili a formarla (la sua condotta era stata sequestrata da Ferdinando e accorpata alle milizie statali). Gli esordi furono perciò difficili.
La prima tappa da esule del M. fu Rimini, dove era già in luglio. Alla ricerca di un contratto, passò poi a Bologna, e di lì si diresse a Revere, presso Mantova, in un castello del Gonzaga, dove fu raggiunto dalla moglie e dai figli, Angelo e Giovanni. In novembre, però, Giovanni d’Angiò, memore degli alti servizi ricevuti, gli propose una condotta. Era l’avvio di una carriera che in pochi anni avrebbe portato il M. ai vertici della milizia.
Agli inizi del 1465 si recava in Provenza a stabilire i termini dell’ingaggio. Ritornava poi a Mantova in primavera, per allontanarsene però quasi subito, richiamato Oltralpe da Giovanni d’Angiò, che ne richiedeva i servizi. La nobiltà titolata di Francia, infatti, muoveva guerra al re Luigi XI e Giovanni riuniva armati per raggiungere il campo dei ribelli (tra i condottieri italiani reclutati figurava anche il napoletano Giacomo Capece Galeota, capitano caldoresco e sodale del M. nell’ultima resistenza contro Ferdinando). Al seguito di Giovanni, il M. si distinse nell’assedio di Parigi, ma a fine di agosto 1465, colto da febbri, fece ritorno a Mantova. È in questo periodo che va collocata la morte della moglie, della quale non si trova più traccia nelle fonti, o, a prestar fede a Tristano Caracciolo, che si consumò l’uxoricidio, di cui il M. si sarebbe macchiato per aver scoperto l’adulterio della consorte.
Conclusasi la guerra del Bene pubblico, il M. rimase al servizio di Renato d’Angiò, di cui risulta essere, tra il 1466 e il 1467, consigliere. Si preparava intanto l’intervento angioino in Catalogna, che, ribellatasi sin dal 1462 a Giovanni d’Aragona, invocava ora il duca Renato come suo principe. Chiamato ancora a sostenere con le armi i diritti paterni, nell’estate 1467 Giovanni d’Angiò passava in Spagna con il proprio esercito, il cui nerbo era formato dalle truppe del M. e di Capece Galeota. Tra l’agosto e il settembre 1467 era all’assedio di Gerona e respingeva una sortita guidata dal principe Ferdinando d’Aragona, il futuro re Cattolico. Nel 1469 si recava a Roma per guadagnare il papa alla causa angioina e l’anno dopo, pur essendo morto Giovanni d’Angiò (dicembre 1470), proseguiva le operazioni belliche agli ordini della municipalità di Barcellona. Nell’ottobre 1471, persa Gerona e dopo la rotta subita da Capece Galeota sul fiume Bejes, veniva egli pure sconfitto dal connestabile conte di Prades, per riprendersi però nel corso dell’inverno e attaccare con una brillante azione, il 4 apr. 1472, il campo del re Giovanni (battaglia di Peralda), che scampò fortunosamente alla cattura (l’intero parco di artiglieria aragonese, del valore di 12.000 ducati, cadde nelle mani del M.). Era l’ultimo atto vittorioso di una campagna spacciata; il cambio di fronte di Carlo il Temerario, duca di Borgogna, che ora appoggiava il re aragonese, e gli aiuti a questo inviati da Napoli rendevano insostenibile l’impresa. Il M. si ritirò però in Provenza carico di gloria: in virtù della sua fedeltà alla casa angioina, per la quale aveva ripudiato i propri domini italiani, e per lo zelo mostrato nelle recenti guerre, il duca Renato gli donava la signoria di Commercy (5 luglio 1472), con il diritto di successione ai figli, che avevano combattuto con lui.
Si concludeva con tali onori, e con la fama derivata da tante imprese sostenute in Francia e Spagna, la militanza al soldo degli Angiò. Una breve ferma con il figlio di Giovanni, il giovanissimo Nicolò, infatti, deluse il M., che, richiestone insistentemente, passò al servizio di Carlo il Temerario, il quale ne aveva apprezzato la maestria nel corso della guerra del Bene pubblico. Impegnato in quei mesi a realizzare un dispositivo militare possente, utile a reggere i suoi ambiziosi disegni politici, il duca volle attorniarsi di sperimentati uomini di guerra italiani e, tra questi, il M. e Capece Galeota ebbero un posto di rilievo, nonostante le proteste che intanto giungevano da Napoli.
Nel novembre 1472 il duca di Borgogna, fornitolo di lettere di cambio, inviava in Italia il M., «consanguineus noster carissimus», per formare una nuova condotta adeguata al ruolo che avrebbe ricoperto in campo. Nei primi mesi del 1473, il M. era a Vercelli, a dirigere il lavoro del suo agente, Gaspare dell’Aquila, incaricato di rastrellare milizie in Piemonte, si recò poi a Brescia (marzo) per esercitare le truppe e a Reggio (aprile), dove incontrò gli altri condottieri italiani assoldati dal duca. Tornò in Borgogna in agosto, alla guida di una compagnia imponente, composta da 300 lance e 100 balestrieri a cavallo. Il Temerario ne fu entusiasta: in giugno, da Utrecht, aveva assegnato al M. 4500 ducati e ora lo nominava suo ciambellano.
Nell’estate 1474 l’esercito borgognone uscì alla campagna e pose il blocco a Neuss, munita città renana (30 luglio). Nel corso del lungo assedio, il M. si segnalò, compiendo audaci azioni per forzare le difese della città e indurre il presidio ad arrendersi. Serpeggiava però tra gli italiani lo scontento per la lentezza con cui correvano le paghe. Nel maggio 1475, quindi, il M. si rivolse a Giovanni Pietro Panigarola, oratore sforzesco, affinché si facesse mallevadore presso il duca Galeazzo Maria per un suo ingaggio a Milano alla fine della ferma con la Borgogna.
Era il primo segno di un disagio destinato a crescere e che nasceva, anche, da una scarsa condivisione delle strategie militari adottate dal duca (accordate a un’impulsività tattica insociabile al pragmatico tecnicismo del costume bellico italiano) e della brutalità con la quale il Temerario teneva la disciplina in campo, di cui più volte fecero le spese le truppe italiane.
Si preparava, intanto, l’apogeo della fortuna del M., che il 4 luglio 1475, con Capece Galeota, sbaragliava con un’azione da manuale le truppe giunte al seguito dell’imperatore Federico III d’Asburgo per costringere il duca di Borgogna a togliere l’assedio: provocatili ad arte sotto i loro alloggiamenti e simulata una fuga, i due condottieri indussero gli imperiali a inseguirli, per aggredirli poi, convertita con una fulminea manovra la fuga in attacco, e decimarli.
Fu una vittoria memorabile, che diede al Temerario il vanto di piegare un esercito superiore di numero guidato dall’imperatore in persona. Nelle settimane che seguirono lo scontro, mentre il duca riceveva l’omaggio dei principi tedeschi e l’imperatore chiedeva una tregua, il M., nominato luogotenente dell’esercito e messo a capo di 1800 lance, fu spedito con Capece Galeota e con Claude de Neufchâtel, monsignore di Fay, alla conquista della Lorena, tenuta a quel tempo da René de Vaudémont. Il M. condusse con impeto la nuova impresa e, all’arrivo del Temerario (ottobre), la regione era già tutta occupata, con esclusione di Nancy, che cadde poco dopo (30 nov. 1475).
Entrato trionfalmente nella capitale della Lorena, il duca di Borgogna vi si trattenne un mese per tenervi corte. In tale occasione, alla presenza dei suoi consiglieri, degli oratori esteri e di ospiti eminenti (tra i quali Federico d’Aragona, secondogenito del re di Napoli), istituì con solenne cerimonia le sue «ordinanze», cioè le truppe permanenti del Ducato, costituite da 2000 lance di cavalleria divise in 20 compagnie agli ordini di altrettanti condottieri in ferma «perpetua»; tra questi figuravano i figli del M., che ricevettero al contempo la signoria di alcuni castelli lorenesi. Si trattava di una riforma tesa a ottimizzare le forze armate e ad allineare la Borgogna alle scelte di altri Stati che avevano già istituito truppe permanenti, ma che confliggeva con il sistema delle condotte. Se ne sdegnò pertanto il M., la cui compagnia era stata appunto ridimensionata per dar vita alle ordinanze. Per tale ragione, e per il disaccordo sui nuovi progetti bellici che si preparavano, egli chiese licenza e partì per la Spagna, nell’urgenza, dichiarava, di «fornire uno suo votto» al santuario di Santiago de Compostela (16 genn. 1476).
Non partecipò dunque il M., in virtù della sua «pia», e provvidenziale, decisione, ai drammatici avvenimenti che in meno di un anno portarono al tracollo del duca di Borgogna. Deciso a punire le comunità svizzere per il loro appoggio all’imperatore, infatti, il Temerario trascinò in quei giorni il proprio esercito, stremato da un intenso biennio di guerra, in una dissennata campagna invernale contro le terre elvetiche: sottoposte a una feroce disciplina e a condizioni estreme, le truppe subirono due clamorose sconfitte (a Grandson e Morat, 3 marzo e 22 giugno 1476) che annullarono quasi del tutto il potenziale bellico fiammingo.
Tuttavia, sebbene le dimensioni del disastro suggerissero strategie più caute, il Temerario apparecchiò subito una nuova campagna e ordinò il ritorno in campo del M., che era già stato richiamato invano in marzo e che giunse in Borgogna a fine giugno 1476, appena in tempo per arginare la dilagante ripresa dei nemici in Lorena, ma non riuscendo, però, a impedire la perdita di Nancy, che dovette arrendersi a René de Vaudémont e agli Svizzeri suoi alleati. Si congiunse dunque, tra il 19 e il 22 ottobre, al duca di Borgogna. L’idea del duca era di assediare la città e, presa quella, recuperare la Lorena. Ai primi di novembre le opere ossidionali erano già predisposte, ma alcuni capitani, tra cui il M., consigliarono il duca di sospendere l’impresa e di ritirare l’esercito in patria per riprendere la guerra nella successiva primavera. L’assedio si annunciava infatti molto rischioso, per i disagi della stagione e la forza del presidio; giungeva inoltre notizia che Vaudémont stesse riunendo un grande esercito con il concorso di Svizzeri e Tedeschi.
Nella pervicace difesa del suo disegno, il Temerario si mostrò sordo a tali pareri e anzi, pare che, nel corso di uno dei molti consigli di guerra tenuti in quei mesi, aggredisse il M., primo tra i fautori di una strategia più prudente, accusandolo di codardia. Che tale episodio, narrato da un cronista attendibile (De Tummulillis) – e compatibile, d’altronde, con l’indole del M. – fosse, oltre che vero, causa della defezione che egli compì di lì a poco dal M. è difficile a dirsi; ed è forse anche inutile chiederselo.
Con l’impassibile determinazione che da sempre distingueva le sue scelte, il M., stimata spacciata l’impresa, il 2 genn. 1477, presi con sé i figli, passò al servizio di René de Vaudémont. Tre giorni dopo si chiudeva, nella rotta di Nancy, la vita del Temerario, mentre dalle retrovie dell’esercito lorenese il M. accorreva a sbarrare la fuga a quelle genti che fino a pochi giorni prima aveva comandato.
La drammatica fine del Temerario segnò la conclusione della lunga militanza oltramontana del M., che dopo dodici anni di assenza tornò in Italia, giusti i contatti che, già dal marzo del 1477, Venezia aveva preso con lui per assicurarsi il servizio di quello che ormai era riconosciuto come uno dei più valenti condottieri italiani. A giugno era ad Alessandria e ai primi di luglio, fatte passare furtivamente le sue genti in Veneto attraverso i domini del Ducato di Milano, giunse a Venezia, dove firmò una condotta per 500 cavalli. Si ritirò poi a Brescia (settembre), per predisporre la compagnia.
La prima impressione che le sue truppe suscitarono nelle autorità della Serenissima furono pessime: pochi uomini mal montati e peggio armati, duramente provati dalle guerre di Borgogna. Tuttavia, allorché il provveditore dell’Esercito, Lorenzo Loredan, lo raggiunse per assistere alla mostra e alle esercitazioni, dovette ricredersi e lodare la grande perizia del M., che in un mese (era il 3 ott. 1477) aveva approntato una fiorita schiera, forte di 482 cavalli e 132 uomini d’armi in perfetto assetto di guerra.
Fu un conforto per la Repubblica, che in quelle settimane sosteneva una rovinosa incursione turca sul fronte orientale e che ai primi di novembre poté inviare lì il M. come governatore delle milizie del Friuli. In ottemperanza ai suoi compiti, che prevedevano la riorganizzazione delle difese della provincia, il M. vergò in quell’occasione un memoriale (Croce, 1933) che fu letto pubblicamente in Senato il 15 dic. 1477 e che costituisce una delle più interessanti pagine di organica militare del Quattrocento.
Il M. vi riversava tutta l’esperienza accumulata in mille imprese sostenute fuori d’Italia, indicando la necessità di variare la tipologia dei combattenti (cavalleggeri, balestrieri a cavallo, schioppettieri, picchieri), per disporre di una forza duttile – da impiegare sia per la difensiva sia per l’offensiva – e dinamica, in grado di spostarsi con rapidità sul territorio. Tale memoriale può essere considerato a giusto titolo come il testamento militare del Monforte.
Rimosso in aprile dall’incarico di governatore in Friuli, da lui provvisoriamente ricoperto, per il ritorno del titolare della carica Carlo Fortebracci, e mobilitato a maggio per la guerra di Toscana, il M., ai primi del luglio 1478, a circa cinquant’anni, morì improvvisamente.
Toccò ai figli prendersi cura della compagnia e, in particolare, ad Angelo, il primogenito, la ventura di restaurare per alcun tempo la dignità del lignaggio. Entrato nel 1480 al soldo di Ferdinando, infatti, questi gli restituì i feudi aviti e il titolo, con un atto di magnanimità di cui, nel 1487, poteva a ragione vantarsi: «havevamo tornato lo Stato ad lo figliolo del Conte de Campobasso per li boni suoi portamenti, havendo usato il padre contra nui tante reprobate opere» (Regis Ferdinandi …, p. 145).
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