Cola di Rienzo
Al nome del celebre tribuno romano (1313 o 1314 - 1354) è legato un capitolo importante della fortuna di D. nel Trecento. Con piena sicurezza si può infatti attribuire a C. un commento alla Monarchia, conservatoci anonimo sotto forma di note marginali al testo del trattato dantesco in due manoscritti: boemo il più antico, della fine del Trecento (Znojmo, Archiv, III 306), ungherese l'altro, dei primi decenni del Quattrocento (Budapest, Magyar Nemzeti Múzeum, 212). Allusioni alla morte di Ludovico il Bavaro e al pontificato di Clemente VI permettono di collocare la composizione del commento dopo l'11 ottobre 1347 e prima del 6 dicembre 1352; e con tutta probabilità nelle terre dell'impero, dove C. si recò nel 1350 per avviare con il suo intervento presso Carlo IV la riforma della Chiesa e la rinnovazione del mondo, e dove rimase fino al giugno del 1352, quando dall'imperatore venne consegnato ai legati del pontefice. D'altra parte l'attribuzione del commento a C. è attestata dal confronto con le lettere che egli scrisse in quel tempo: perfettamente identici vi si riconoscono la lingua, lo stile, le idee, i sentimenti, la cultura storica e letteraria. Ogni volta che il testo della Monarchia si inoltra in discussioni filosofiche e teologiche, il commento si riduce infatti a un sunterello poco esatto degli argomenti danteschi, mostrando nel suo autore una preparazione insufficiente per quelle discipline; ma larga vi si palesa la conoscenza dei classici latini, con una predilezione spiccatissima per gli storici, e profonda la pratica delle Sacre Scritture: secondo il tipico carattere della cultura di C. lettore attentissimo di testi storici, nei quali cercava le testimonianze di quella vita romana sulla quale intendeva modellare la propria, e sempre pronto a fare sfoggio di citazioni scritturali.
Scritto in un latino per lessico e sintassi a mezza strada tra Medioevo e Umanesimo, impreziosito dall'uso degli artifizi retorici secondo le regole delle ‛ artes dictandi ' e animato dal fuoco di ispirata eloquenza che scalda certe pagine, il commento di C. ha il pregio di essere il più antico giunto fino a noi. È ben vero che di una ventina d'anni lo precede la Reprobatio Monarchiae Dantis del domenicano riminese Guido Vernani; ma le osservazioni del frate assumono la struttura di un trattatello polemico, e non propriamente di un commento a piè di pagina; senza contare che alle glosse di C. resta in ogni caso d'essere le prime d'animo ghibellino.
Infatti nel commento risuona soprattutto l'accusa contro la Chiesa corrotta, minacciata dal castigo di Dio, secondo la drammatica previsione degli eremiti con i quali C. era di recente vissuto nelle solitudini dell'Appennino, prima di muovere verso Praga; mentre alla radice di tanta corruzione è posta la pretesa pontificia di esercitare il potere temporale, usurpandolo all'imperatore. Ciò spiega le ragioni che mossero C. a comporre il suo commento della Monarchia. Anzitutto ebbe peso l'interpretazione che egli dava della figura di D., ammirato come il predicatore di una Chiesa povera, non macchiata da ambizioni di primato politico, come profeta ardente di un ideale diffuso e sofferto; e ammirato per la volontà d'inserire in questo ideale riformistico la funzione dell'Impero, reputato indispensabile per una società civilmente ordinata, nella quale sarebbe stata possibile la realizzazione di un'ideale vita di povertà, di umiltà, di carità. D'altra parte è intuibile che nel muovere C. alla fatica di commentare la Monarchia poté anche l'entusiasmo per la poesia di D., da lui esaltato come " disertissimus orator ", capace di pagine mirabili per " eloquenti et gravi stilo ", nelle quali brillava la " sententiarum gravitas " e il " sermonis lepos ". Più che da ammirazione per la dottrina filosofica, teologica, giuridica di D., e per la sua maestria di sottile dialettico, dobbiamo insomma ritenere che C. sia stato trascinato da consenso verso la parola affascinante che predicava la restaurazione della giustizia, nell'esaltazione delle virtù dell'antica Roma, onde strappare alla Chiesa il " gladium sanguinis " e restituire all'Impero la sua alta missione per la salvezza del genere umano, nell'ordine voluto dalla Provvidenza. In tal senso ben si comprende come C., partito verso Praga con l'animo colmo d'entusiasmo per questa affascinante ‛ renovatio ', abbia dedicato la propria attenzione al trattato dantesco, parola consolatrice di un altro profeta perseguitato; e ben si comprende come nel tentativo d'indurre Carlo IV all'azione che egli vagheggiava, additasse la Monarchia come esortazione esemplare e invincibile dimostrazione.
Bibl. - Per il testo del commento e la documentata attribuzione a C., v. P.G. Ricci, Il commento di C. di Rienzo alla ‛ Monarchia ' di D., in " Studi medievali " s. 3, VI (1965) 665-708; cfr. anche F.M. Bartoš, Dantova Monarchie, C. di Rienzo, Petrarka a počátky reformace a humanismu u nás, in " Vĕstník královské české společnosti nauk. Třída filosoficko-historicko-filologická " V (1951). La descrizione del codice ungherese e di quello boemo alle pp. 11-12 e 18-19 dell'Edizione Nazionale della Monarchia, Milano 1965; cfr. ivi anche le pp. 84-86.