COLLABORAZIONISMO
. Il termine, largamente usato negli ultimi anni nel linguaggio giuridico e in particolar modo nella pratica giudiziaria, non rappresenta una novità né dal punto di vista concettuale né dal punto di vista storico né dal punto di vista legislativo. Esso sta genericamente a designare tutte le forme di collaborazione con le autorità di uno stato nemico occupante, sia che queste forme rivestano carattere propriamente delittuoso, sia che il loro carattere illecito rimanga confinato nel campo amministrativo o anche in quello soltanto morale. La grande diffusione del termine negli ultimi anni è dovuta alla durata e all'intensità della occupazione bellica tedesca in quasi tutta l'Europa durante la seconda Guerra mondiale e alla conseguente vasta portata del fenomeno nei paesi occupati, dove autorità civili e autorità militari, enti varî e privati cittadini collaborarono in varie guise con le autorità occupanti e con lo stato tedesco, in contrasto con i precetti del diritto interno del proprio paese, o con gli ordini emanati in proposito dai governi legittimi costretti dall'occupazione militare nemica alla clandestinità o all'esilio, o quanto meno con il giudizio di morale riprovazione espresso da una larga parte della popolazione del paese occupato o dalle popolazioni di paesi rimasti immuni dal dramma dell'occupazione nemica del proprio suolo nazionale. È così avvenuto che il termine "collaborazionista" sia stato usato, durante e dopo la seconda Guerra mondiale, tanto per designare coloro che, prestando attività a favore del nemico, si siano resi colpevoli di reati, spesso gravissimi, preveduti dalla legislazione del proprio stato (autori di "delitti di collaborazionismo"), quanto per designare coloro che, nel soggiacere oltre misura alla volontà dell'occupante, abbiano compiuto atti incompatibili con la loro permanenza in servizio nelle amministrazioni dello stato occupato (collaborazionismo come illecito disciplinare o amministrativo), quanto anche nei confronti di coloro che abbiano, durante l'occupazione nemica, tenuto un comportamento pubblico o privato di stretta amicizia, cooperazione o servilità verso i rappresentanti del paese occupante, sia poi che questo comportamento abbia dato luogo ad apposite dichiarazioni di "indegnità nazionale" (come quelle previste nella legislazione francese), sia che invece lo sfavorevole apprezzamento del comportamento medesimo siasi esaurito in un giudizio riservato al campo della morale o del costume. È da avvertire che, anche nel campo giuridico, fenomeni analoghi si sono verificati anche in Asia in relazione alla occupazione militare giapponese.
Caratteri della legislazione sul collaborazionismo nei varî paesi. - Durante la guerra, tutti i governi legittimi europei costretti dall'occupazione tedesca all'esilio (come i governi polacco, norvegese, olandese, belga, lussemburghese, francese, iugoslavo, greco, ecc.) o relegati per effetto dell'occupazione stessa ad esercitare la propria sovranità in una parte soltanto del territorio nazionale (come il governo sovietico dopo il 22 giugno 1941 e quello italiano, dopo l'8 settembre 1943) provvidero ad emanare disposizioni dirette a prevenire e a colpire penalmente il dilagante fenomeno del collaborazionismo con gli occupanti tedeschi, talora facendo espresso richiamo a norme preesistenti nella propria legislazione penale, talora facendo capo ad una regolamentazione del tutto nuova e inventa ad hoc. Anche in altri paesi, già da tempo occupati o annessi alle potenze dell'Asse, quali la Cecoslovacchia, l'Albania, l'Ungheria, ecc., vennero emanate all'indomani della liberazione leggi speciali, nelle quali però, non di rado, data anche la peculiarità della situazione derivante dall'inesistenza di un governo legittimo del paese al momento iniziale del conflitto, i delitti di collaborazione con i Tedeschi venivano trattati alla rinfusa con i crimini di guerra commessi dai Tedeschi o al servizio dei Tedeschi, crimini che costituiscono invece una categoria giuridica completamente diversa.
La legislazione sul collaborazionismo in Italia. - In Italia la legislazione sul collaborazionismo si è manifestata con una serie di norme di diritto penale sostanziale e processuale, e di diritto amministrativo, le quali, per quanto aspramente criticate (soprattutto nell'epoca più recente), erano intese a mantenere il più possibile tanto la configurazione giuridica dei fatti quanto le misure adottate entro il quadro dell'ordinamento giuridico preesistente.
La disposizione di maggiore rilievo, nel campo del diritto penale sostanziale, è quella dell'art. 5 del decr. legisl. luog. 27 luglio 1944, n. 159, sulle sanzioni contro il fascismo, il quale, emanato dopo la liberazione di Roma ma durante l'occupazione tedesca dell'Italia settentrionale e di gran parte dell'Italia centrale, stabiliva che "chiunque, posteriormente all'8 settembre 1943, abbia commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza ad esso prestata, è punito a norma delle disposizioni del codice penale militare di guerra". Soggiunge la norma stessa (e qui è contenuto soprattutto il suo più volte discusso carattere retroattivo) che "le pene stabilite nel codice penale militare di guerra per i militari sono applicabili anche ai non militari". Nonostante la latissima formulazione della norma, che ha dato luogo a qualche incertezza iniziale nell'applicazione giudiziaria, è stato costantemente ritenuto, in dottrina come in giurisprudenza, che le ipotesi criminose da applicarsi ai casi di collaborazione col nemico non possano essere altre se non quelle già contenute nel codice penale militare di guerra o in quegli altri codici (codice penale militare di pace, codice penale comune) ai quali il codice di guerra stesso faccia rinvio.
Così, nonostante l'uso invalso nella pratica giudiziaria e forense, di parlare di "reato di collaborazionismo", nessuna condanna è mai stata irrogata se non sulla base di un articolo di uno dei codici suddetti (sempre con espressa menzione al citato decr. legisl. del 1944 e con stretto riferimento agli estremi costitutivi delle ipotesi criminose in detti codici contemplate). Piuttosto, l'unificazione di codeste ipotesi nella considerazione del citato art. 5 e delle leggi successive che ad esso fanno riferimento, ha comportato l'effetto di far considerare, nell'immensa maggioranza dei casi, come reato unico un complesso di azioni criminose che, alla stregua dei criterî ordinarî, avrebbero dovuto essere considerate come altrettanti casi di concorso materiale o di concorso formale di reati della stessa specie o di reati aventi una diversa oggettività giuridica.
Le disposizioni più frequentemente applicate sotto il nome ormai convenzionale di collaborazionismo sono state quelle degli art. 51 cod. pen. mil. di guerra, che prevede la pena capitale per l'aiuto al nemico nelle sue operazioni militari, 58 cod. pen. mil. di guerra, che punisce con la reclusione da dieci a vent'anni l'aiuto al nemico nei suoi disegni politici sul territorio occupato o invaso, e 54 cod. pen. mil. di guerra, che contempla genericamente l'intelligenza o corrispondenza con il nemico e che è stato - anche se più raramente - variamente applicato tanto a forme di collaborazionismo militare politico quanto a forme di collaborazionismo cosiddetto economico, in particolare industriale. Qualche volta hanno trovato applicazione anche le norme sullo spionaggio a favore del nemico (art. 59 e seg. cod. pen. mil. di guerra), sull'abbandono del corpo per combattere contro lo stato" (art. 50 stesso codice), nonché norme del codice penale militare di pace (art. 77: alto tradimento del militare) e del codice penale comune (per es., art. 242), espressamente richiamate dal codice di guerra.
Qualche corte del Piemonte, soprattutto nell'epoca immediatamente successiva alla fine della guerra, ha applicato agli imputati di collaborazione col tedesco invasore le norme del codice penale militare di pace e del codice penale comune sul "cittadino che porta le armi contro lo stato senza fare menzione alcuna della legge incriminatrice speciale; e le norme stesse furono applicate ai numerosi militari delle forze armate repubblicane fasciste nei primi giorni dopo la liberazione dell'Italia del nord, prima ancora che venisse ivi estesa la legislazione sulle sanzioni contro il fascismo, da parte dei tribunali militari (partigiani) straordinarî di guerra autocostituitisi o costituiti dai comandanti militari locali prima della presa di potere da parte delle potenze alleate. Quanto a questi casi può anzi soggiungersi che, senza l'esistenza dei codici penali militari, avrebbero potuto trovare applicazione sotto il nome di "collaborazionismo" le tradizionali ipotesi del codice penale comune sul favoreggiamento bellico del nemico.
Resta comunque chiaro che il legislatore italiano del 1944-45, nella repressione delle attività svolte dagli autori e dai sostenitori della "repubblica sociale italiana", anziché adottare le norme relative ai fomentatori di guerra civile, ha scelto il sistema legislativo penale relativo ai delitti di aiuto al nemico e d'intelligenza col nemico, raggruppati nei relativi titoli dei codici penali militari sotto il nome di "delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello stato".
Per inciso è da notare che il singolare e tragico destino di questi titoli dei codici penali militari italiani del 1941 è stato quello di essere applicati, nei diciannove mesi della coesistenza sul medesimo territorio del regno d' Italia e della "repubblica sociale italiana", dall'uno rispettivamente contro i sostenitori dell'altro. Anche nel territorio soggetto all'occupazione tedesca, infatti, le autorità esecutive e giudiziarie fasciste repubblicane applicavano contro i patrioti fedeli al governo italiano legittimo, e contro i partigiani in particolare, le stesse norme penali sull'aiuto al nemico (art. 51), sull'intelligenza col nemico (art. 54), sullo spionaggio a favore del nemico (art. 59), ecc.
L'adozione di siffatto riferimento ai codici militari, aggravata dall'estensione delle norme dei codici penali militari ai non militari, posta anche in relazione con la durata dell'occupazione militare tedesca e con la conseguente diffusione del fenomeno collaborazionistico, ha implicato un tale numero di giudicabili da rendere necessarî, in un primo tempo, alcuni provvedimenti legislativi diretti a distinguere i maggiormente responsabili dai colpevoli minori e, in un secondo tempo, provvedimenti di amnistia e di indulto di una larghezza senza precedenti nella storia della legislazione italiana. In ordine cronologico e d'importanza è da ricordare anzitutto il decr. legisl. 22 aprile 1945, n. 142, che, pure proponendosi lo scopo di sottoporre a pene gravissime e in ogni caso a giudizio alcune categorie di "collaborazionisti presunti" (ministri e sottosegretarî di stato del governo della "repubblica sociale" e dirigenti nazionali del partito fascista repubblicano, presidenti, membri e pubblici accusatori dei tribunali speciali e straordinarî della "repubblica sociale", capi di provincia, segretarî e commissarî federali, direttori di giornali politici, ufficiali superiori in formazioni di camicie nere con funzioni politico-militari), ha indubbiamente, anche se indirettamente, contribuito ad alleggerire la persecuzione penale di tutti i giudicabili non compresi nelle categorie suddette.
L'elencazione contenuta nell'art. 1 del suddetto decreto ha dato luogo a gravi e lunghe controversie interpretative, in quanto che venne in un primo periodo ritenuto che gli appartenenti alle categorie elencate fossero colpiti da presunzione iuris et de iure di aiuto al nemico o di intelligenza col nemico, senza possibilità d'indagine sull'elemento soggettivo del reato o sulla sussistenza di cause di giustificazione. Successivamente e sotto l'impulso della dottrina, la quale ha rifiutato qualsiasi ingresso a principî che avrebbero sconvolto una tradizione penalistica contraria a qualsiasi forma di responsabilità presunta, anche la giurisprudenza ha del tutto abbandonato tale orientamento troppo rigoroso.
Per l'articolo 15 del decr. legisl. 5 ottobre 1945, n. 625, gli appartenenti alle "brigate nere" del periodo fascista repubblicano dovevano essere denunciati alle commissioni provinciali per l'assegnazione al confino o a campi d'internamento istituite nel 1945. Anche questa norma, che faceva espressamente salve le responsabilità penali per i fatti costituenti reato e che quindi implicava l'ammissione che non sempre l'appartenenza alle brigate nere costituisse reato, si è convertita in un fattore d'indulgenza giudiziaria verso una categoria indubbiamente incriminabile in toto alla stregua delle leggi vigenti, ma troppo vasta per poter passare interamente sotto la giurisdizione penale.
Il decreto presidenziale di amnistia 22 giugno 1946, n. 4, emanato per l'avvento della Repubblica italiana in seguito ai risultati del referendum istituzionale e fonte di vivissime polemiche anche in seno all'Assemblea costituente, ha, con l'art. 3, concesso amnistia a tutti i reati di collaborazionismo e a tutti i reati ad essi connessi ai sensi del codice di procedura penale senza alcun limite di pena edittale e fatta eccezione solamente per i delitti commessi da persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile o politica o di comando militare, nonché per i casi in cui fossero stati compiuti stragi, omicidî, sevizie particolarmente efferate, saccheggio, e per i delitti commessi a scopo di lucro; all'art. 9 il decreto stesso prevedeva un ampio condono, sempre con le stesse eccezioni.
L'applicazione giudiziaria del decreto di amnistia del 22 giugno 1946 al collaborazionismo e ad altri reati fascisti, soprattutto da parte della Cassazione, è stata indubbiamente di una larghezza che più di una volta sembrò varcare i limiti segnati dal testo legislativo e che ha dato luogo a vivaci dibattiti sia in campo dottrinale sia in campo politico. Successivamente, l'entrata in vigore della nuova Costituzione repubblicana, il 1° gennaio 1948, ha portato immediatamente con sé l'emanazione di una legge abrogativa della pena di morte per i delitti di collaborazionismo, con effetto anche sulle pene già inflitte, nonché altre attenuazioni in materia. La tesi, invece, secondo cui l'art. 25 della nuova Costituzione avrebbe reso impossibile l'ulteriore applicazione di leggi retroattive - quale indubbiamente è la legge sulla collaborazione, almeno sotto alcuni aspetti (estensione di alcune incriminazioni ai non militari, spostamento della data iniziale dello stato di guerra tra Italia e Germania dal 13 ottobre all'8 settembre 1943 e introduzione di presunzioni di responsabilità con riferimento a determinate norme incriminatrici sotto cui assumere le responsabilità stesse) - è stata respinta dalle Sezioni unite della Cassazione in una importante udienza tenutasi il 7 febbraio 1948.
Molto più ricca e in qualche punto quasi tumultuosa è stata la produzione legislativa relativa agli aspetti processuali della repressione dei reati di collaborazione con i Tedeschi.
Al decr. del 27 luglio 1944 che attribuiva ai tribunali militari la competenza per i delitti commessi dai militari e ai tribunali militari ordinarî (generalmente, data la gravità dei reati, corti di assise ordinarie) la competenza per i delitti commessi da non militari, faceva seguito il decr. 22 aprile 1945 che, alla vigilia della liberazione dell'Italia del nord, istituiva in tale zona corti straordinarie d'assise per giudicare tutti i delitti in questione senza distinzione e che venne a poco a poco accompagnato da decreti istituenti analoghe corti straordinarie nel restante territorio dello stato. Con decr. 5 ottobre 1945 alle corti straordinarie d'assise venivano sostituite sezioni speciali di dette corti e veniva ripristinata la competenza dei tribunali militari in quei casi in cui si presentassero questioni implicanti un giudizio di carattere militare. Tanto questi decreti, come altri successivi e pure molto importanti, quale il decr. legge 12 aprile 1946, regolavano minutamente anche la costituzione e il funzionamento di detti organi giurisdizionali, nonché la procedura, sottoposta a particolari regole soprattutto in materia di ricorso per cassazione e di revisione. Il 26 giugno 1947 un altro decreto legislativo stabiliva la cessazione del funzionamento delle sezioni speciali col 31 dicembre dello stesso anno, sì che attualmente la repressione penale del collaborazionismo punibile prosegue, da parte dei tribunali militari ordinarî e delle corti d'assise ordinarie, entro i limiti che si sono venuti segnando attraverso la legislazione di diritto sostantivo e gli orientamenti giurisprudenziali sopra indicati.
All'infuori della materia strettamente penale, la collaborazione con i Tedeschi ha dato luogo in Italia ad altre sanzioni. Preminente fra tutte la confisca dei beni, stabilita in un primo tempo dall'art. 9 del decr. 27 luglio 1944, a carico dei cittadini "i quali hanno tradito la patria ponendosi spontaneamente ed attivamente al servizio degli invasori tedeschi" e successivamente estesa ad autori di altri reati preveduti dalle leggi sulle sanzioni contro il fascismo nonché ad altre categorie di ex-fascisti. A norma del decr. legisl. 26 marzo 1946, n. 134, che inquadrava tanto la confisca quanto l'avocazione dei profitti di regime nel sistema tributario, venivano tra l'altro, dichiarati privi di qualsiasi effetto rispetto allo stato gli atti di disposizione posti in essere dopo l'8 settembre 1943 dal "cittadino il quale abbia tradito la patria ponendosi spontaneamente ed attivamente al servizio dei Tedeschi", eccezione fatta soltanto per gli atti di disposizione a titolo gratuito "compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblico vantaggio".
Anche sulla natura giuridica della suddetta confisca dei beni si è avuto in dottrina e in giurisprudenza un ampio dibattito, il quale divenne particolarmente acuto in relazione alla ricordata amnistia, i cui effetti, per i principî generali del codice penale in materia, si sarebbero indubbiamente estesi alla confisca dei beni ove questa avesse dovuto essere considerata una pena o una misura di sicurezza. La Cassazione a sezioni unite ha ritenuto di poter risolvere la questione negando qualsiasi carattere criminale alla sanzione in questione e considerandola una sanzione meramente civile; soluzione questa che lascia notevoli perplessità, mentre d'altro canto, ad escludere gli effetti dell'amnistia sulla confisca, sarebbero forse bastati alcuni argomenti desumibili dal testo della legge speciale.
Altre norme legislative relative al "collaborazionismo" sono, in materia amministrativa, quella dell'art. 17 del decr. 27 luglio 1944, la quale, in sede di "epurazione della amministrazione", stabiliva la dispensa dal servizio degli "impiegati che, dopo l'8 settembre 1943, hanno seguito il governo fascista o gli hanno prestato giuramento o hanno collaborato con esso", ammettendo l'inflizione di pene disciplinari meno gravi per coloro che dimostrassero di essersi trovati esposti a gravi minacce e pericoli per la persona propria o dei proprî congiunti e l'esenzione da ogni sanzione per "coloro che hanno in modo efficace, con l'opera propria, aiutato i patrioti e danneggiata l'azione dei Tedeschi e del governo che apparentemente servivano", nonché le analoghe disposizioni in materia di epurazione degli albi professionali, delle accademie e degli istituti culturali e delle imprese private. Particolare considerazione trovarono ancora i responsabili di collaborazione col Tedesco nel decr. legisl. g novembre 1945, n. 702, che, impostando su nuove basi l'epurazione e riducendone fortemente la portata, elencava alcune categorie di dipendenti delle pubbliche amministrazioni di ogni categoria, gruppo e grado da dispensarsi senz'altro per incompatibilità con la permanenza in servizio "per avere dopo l'8 settembre 1943: a) prestato servizio militare o civile alle dipendenze del tedesco invasore; b) aderito al partito repubblicano fascista; c) prestato servizio volontario nelle formazioni militari del governo della sedicente repubblica sociale italiana o, col grado di ufficiale, in quelle del lavoro organizzate dal governo stesso; d) partecipato a rastrellamenti o ad esecuzioni sommarie e di condanna ordinate dai nazi-fascisti o svolto opera di delazione a favore di questi ultimi; e) esercitato funzioni di capo della provincia o di questore per nomina del sedicente governo della repubblica sociale, ovvero di presidente, di pubblico accusatore o di membro dei tribunali speciali o straordinarî istituiti da detto governo; f) abbandonato la propria sede per seguire e servire il governo fascista; g) svolto opera specifica di collaborazione con i Tedeschi o con la sedicente repubblica sociale italiana". Anche questo decreto stabiliva non doversi far luogo a dispensa "quando le attività dopo l'8 settembre 1943 siano state svolte a seguito di coercizione o allo scopo di danneggiare l'azione dei Tedeschi o del governo che solo apparentemente si serviva". Dopo numerosissimi altri provvedimenti legislativi che variamente regolarono, prima e dopo il precedente, la procedura in materia d'epurazione (v. fascismo: Sanzioni, in questa App.), il decr. 7 febbraio 1948, n. 48, è venuto a portare criterî di grande attenuazione anche in questa materia, eliminando il provvedimento della dispensa dal servizio per tutti coloro che, aventi grado superiore al quinto o parificato, si fossero iscritti al partito fascista repubblicano o avessero abbandonato la propria sede per seguire il governo fascista repubblicano, ferma restando la dispensa stessa soltanto per gli altri gruppi di collaborazionisti testé elencati.
Soggetti del collaborazionismo punibile. Caratteri del collaborazionismo nei confronti di altri reati. - Come aiuto al nemico, al nemico occupante in modo particolare, il collaborazionismo è reato che non può essere commesso indifferentemente da qualsiasi soggetto. In qualche caso la magistratura italiana, la Cassazione in particolare, ha ritenuto di potere applicare le ricordate disposizioni del cod. pen. mil. di guerra anche a fatti commessi da cittadini tedeschi residenti nell'Italia occupata e resisi colpevoli di aiuto alle truppe del loro paese mediante delazioni, maltrattamenti od altro. Ma deve avvertirsi che, così come non può essere soggetto attivo di reati che comunque si riportino al concetto di collaborazionismo il militare dello stato nemico o colui che comunque sia organo dello stato nemico, così deve parimenti escludersi la punibilità per lo stesso titolo di tutti i cittadini di stati in guerra con lo stato le cui norme penali vengono in considerazione a questo effetto; nel caso nostro con lo stato italiano legittimo dopo l'8 settembre 1943.
Vale infatti in questi casi il generalissimo principio, enunciato anche nella relazione ministeriale al progetto del codice penale Rocco a proposito dell'attuale art. 247 cod. pen., per cui soggetto attivo dei delitti di favoreggiamento bellico non può mai essere un suddito dello stato in guerra con lo stato italiano, perché egli è da identificare col nemico, sì che rispetto a lui il fatto non può costituire reato. Trattasi di una causa di discriminazione oggettiva del fatto commesso dal cittadino nemico, la quale trova la sua fonte in un principio di diritto internazionale per pacifica consuetudine accolto dagli ordinamenti interni dei varî stati e tale quindi che contro di esso non spiega influenza alcuna il fatto che la norma incriminatrice sia formulata nel senso che soggetto attivo del reato possa essere "chiunque". Possono invece essere soggetti attivi dei reati in questione gli stranieri non nemici, a favore dei quali non milita alcuna discriminante e che, quando l'ipotesi criminosa non sia espressamente limitata al solo cittadino, sono indubbiamente tenuti, a norma dei principî generali sull'efficacia personale della legge penale, a doveri di fedeltà verso la nazione ospitante occupata.
Gli appartenenti allo stato nemico occupante sono tuttavia sempre punibili per reati contro le leggi e gli usi della guerra (v. guerra: I crimini di guerra, in questa App.): in particolare i militari delle forze armate tedesche e altri funzionarî dello stesso stato possono essere tratti a rispondere di fatti commessi in territorio italiano occupato a norma degli art. 174 segg. e 232, n. 5 del cod. pen. mil. italiano di guerra, quando questi fatti abbiano travalicato i limiti imposti dal diritto internazionale bellico (e, in conformità a questo, dal diritto penale del paese occupato).
È da ricordare al riguardo che il campo del collaborazionismo punibile è infinitamente più vasto di quello dei crimini di guerra. Ai fini della sussistenza o meno dei delitti di aiuto al nemico o di intelligenza col nemico è infatti irrilevante se l'attività svolta a favore del nemico sia una attività bellica lecita o una attività bellica illecita ai sensi del diritto internazionale. Decisiva è soltanto la violazione di un obbligo di fedeltà verso lo stato occupato e soprattutto l'offesa agli interessi politici, militari, economici, nazionali o internazionali dello stato medesimo: ed è evidente che siffatta offesa è recata anche da chi usi mezzi bellici perfettamente leciti, partecipando a regolari operazioni militari o di polizia contro cittadini dello stato occupato o svolgendo propaganda o compiendo costruzioni o somministrazioni a vantaggio del nemico.
Nei delitti di favoreggiamento bellico (collaborazionismo), della distinzione tra attività internazionalmente lecita e attività anche internazionalmente illecita potrà tener conto il giudice soltanto nella commisurazione discrezionale della pena, punendo ad esempio più gravemente chi abbia infierito contro patrioti catturati o feriti di chi si sia limitato a compiere nei loro confronti operazioni di polizia o attività analoghe; punendo più gravemente chi abbia aiutato il nemico ad attuare feroci rappresaglie non consentite dal diritto internazionale di chi abbia soltanto cooperato all'esecuzione di sentenze penali dall'autorità occupante legittimamente emanate; punendo più gravemente chi abbia collaborato col nemico nel saccheggio del territorio occupato, di chi abbia soltanto partecipato a fianco del nemico a perquisizioni, indagini di polizia, "rastrellamenti" e altre operazioni consimili.
Fonte di numerosi problemi sono i rapporti tra delitti di collaborazionismo e reati comuni. Talvolta infatti accade che a titolo di collaborazione col nemico siano incriminate attività altrimenti lecite, e alle quali l'illiceità di cui altrimenti difettano viene data appunto dalla circostanza d'essere commessi in aiuto al nemico e in contrasto col diritto del proprio paese, quali la propaganda o la apologia del nemico, le sottoscrizioni o il reclutamento in suo favore, l'attività informativa (delazioni, indicazioni al nemico, ecc.), l'attività industriale o commerciale (costruzioni o somministrazioni a favore del nemico) e gran parte della attività di polizia; ma assai spesso dànno vita ai vari titoli di collaborazionismo altre attività che già di per sé stesse concretano dei reati comuni, ai quali si aggiunge il fine specifico di giovare al nemico, o attività le quali contengono in sé i caratteri soggettivi e materiali di reati comuni. Tra le prime vanno soprattutto ricordate le sevizie inflitte agli ostaggi o ai patrioti catturati dal nemico od operando al servizio di questo, gli omicidî comuni, le stragi, gli incendî e i saccheggi perpetrati al servizio del nemico; tra le seconde soprattutto le fucilazioni in esecuzione di sentenze o di ordini dell'autorità occupante e numerose attività di polizia che, se non fossero compiute al servizio del nemico e in contrasto con gli imperativi dello stato occupato, costituirebbero attività lecite (perquisizioni, arresti, catture ecc. compiuti dalla polizia, regolare o irregolare, del paese occupato sempre al servizio del nemico o per giovare al nemico). Tutti questi casi, nei quali la medesima azione riveste allo stesso tempo gli estremi di un delitto di collaborazionismo e di un reato comune, dànno indubbiamente luogo al normale concorso formale di reati, per il quale la legge italiana prevede il cumulo delle pene (cod. pen., art. 81).
La giurisprudenza italiana in materia di collaborazione col tedesco invasore si è esattamente attenuta a questo criterio, ravvisando, ad esempio, nell'uccisione di partigiani il concorso formale dei reati di omicidio e di aiuto al nemico nelle sue operazioni militari, e nell'uccisione di ostaggi o di detenuti politici il concorso dei reati di omicidio e di aiuto al nemico nei suoi disegni politici. È dipeso solo da circostanze pratiche di eccessivo cumulo di capi d'imputazione elevabili a carico d'un medesimo soggetto o da difficoltà nel compiuto accertamento dei fatti se non di rado le corti straordinarie d'assise hanno proceduto solamente per i delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello stato anche là dove sarebbe stato doveroso procedere per concorrenti reati comuni (per es., in tema di sevizie costituenti anche lesioni personali, di rastrellamenti costituenti illecite privazioni della libertà personale, ecc.). È da escludersi invece la possibilità di ravvisare in detti casi delle ipotesi di reato complesso (cod. pen., art. 84), così come è superfluo avvertire che anche i reati di collaborazionismo possono concorrere materialmente con altri delitti sia militari (es. abbandono di comando, diserzione, ecc.), sia politici (es. omicidio per odio contro gli antinazisti), sia comuni (es., corruzione, abuso di atti d'ufficio, furto, rapina, ecc.).
Le cause di esclusione dei delitti di collaborazionismo. - A gravi dispute, tutt'altro che sopite, ha dato luogo, in ognuno dei paesi afflitti nel corso della recente guerra da una lunga occupazione nemica, il problema della legittimità della punizione delle attività prestate a favore del nemico e quello dei suoi limiti. È anzitutto evidente, anche in linea di fatto, che se in ogni attività comunque ridondante a vantaggio dell'occupante e volontariamente compiuta dovesse riconoscersi una collaborazione illecita col nemico, nessuno o quasi dei cittadini di un paese occupato sarebbe immune dall'essere incorso in un illecito siffatto. Ma nella pacifica esclusione di qualsiasi carattere illecito in attività consimili (la quale discende dalla considerazione dell'elemento soggettivo e del danno o dell'idoneità a produrlo, richiesti per la sussistenza dei varî delitti di collaborazione col nemico) non si esaurisce la liceità di tutte le attività che, prestate dal cittadino o dal funzionario del paese occupato, abbiano giovato al nemico durante l'occupazione.
È noto che per la convenzione dell'Aia del 1907 l'organizzazione civile è mantenuta anche sotto l'egida dell'occupante, che ha diritto di legiferare, di amministrare con gli stessi organi che si trovano nel paese occupato, di avvalersi dei funzionarî in carica, ecc. Sulla base di questi principî, i quali trovano addentellato sin nelle più antiche distinzioni dei giusnaturalisti, sono state comunemente ritenute non incriminabili, soprattutto dalle corti italiane, l'attività meramente civica svolta dalle autorità amministrative o da altri cittadini alle dipendenze dell'occupante in contrapposto all'attività politica e militare, l'attività rivolta alla realizzazione di fini permanenti del gruppo sociale (per es., approvvigionamento) in contrapposto alle finalità contingenti dell'ordinamento illegittimo o di quello dell'occupante, l'attività giudiziaria rivolta all'applicazione e alla esecuzione del diritto preesistente e mantenuto in vigore dall'occupante anche se a vantaggio di quest'ultimo, nonché la stessa attività di polizia, purché intesa meramente alla tutela dell'ordine pubblico, ristretta ai cosiddetti compiti di istituto e svolta da quei soggetti che alla polizia appartenevano nel momento in cui il regime d'occupazione ebbe inizio. Di qui notevoli brecce nel collaborazionismo punibile attraverso le cause discriminanti dell'esercizio di un diritto o di una facoltà legittima e dell'adempimento di un dovere, dovendosi tuttavia escludere - come sistematicamente è stata esclusa - l'applicabilità di ogni e qualsiasi scriminante che tragga fondamento dalle leggi o dagli ordini della "repubblica sociale italiana", considerata, secondo una frequente espressione della Cassazione, "autorità illegittima, ribelle e traditrice, emanazione e strumento del nemico occupante", che per suo mezzo riusciva a realizzare finalità che il diritto internazionale non gli avrebbe consentito (per es. arruolamenti).
Viceversa l'esclusione dei reati di collaborazionismo può essere largamente ammessa sotto il profilo dell'elemento soggettivo, sia attraverso il riconoscimento di cause di esclusione della colpevolezza (stato di necessità e altre forme di costrizione, errore di fatto, erroneo convincimento di versare in stato di liceità), sia attraverso la constatazione dell'assenza del fine specifico di aiutare il nemico richiesto come elemento costitutivo di molti fra i delitti in esame.
Bibl.: G. Vassalli e G. Sabatini, Il collaborazionismo e l'amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Roma 1948; T. Fortunio, La legislazione definitiva sulle sanzioni contro il fascismo, Roma 1946; S. Iener, Le sanzioni contro il fascismo, Roma 1946; A. Boselli, I reati di collaborazione col tedesco invasore, Genova 1946; U. Pioletti, Sulla pretesa complessità del reato di collaborazione col tedesco invasore, in Giust. pen., II, 1946, p. 330 segg.; id., Osservazioni sul decreto di amnistia 22 giugno 1946, n. 4, in Arch. pen., I, 1946, p. 471 segg.; P. Nuvolone, Il collaborazionismo punibile, in Crit. pen., 1946, p. 72 segg.; id., Tribunali straordinari di guerra e collaborazionismo presunto, in Giur. it., II, 1946, p. 27 segg.; id., Omicidio e collaborazionismo, in Giur. compl. Cass., 1945, p. 121 segg.; id., Il rapporto di dipendenza gerarchica nei reati di collaborazionismo, in Giust. pen., II, 1946, p. 213 segg.; E. Battaglini, Osservazioni sulle circostanze attenuanti nel delitto di collaborazione col tedesco invasore, in Giust. pen., II, 1946, p. 101 segg.; G. Vassalli, Delazioni al tedesco invasore e delitto di calunnia, in Giur. compl. Cass., 1947; id., Il delitto di intelligenza col nemico e altri problemi in tema di collaborazionismo, ibid.; G. Toesca di Castellazzo, Prime interpretazioni del decr. legge 22 aprile 1945, n. 142, sui reati di collaborazione con i tedeschi, in Cass. pen., 1945, n. 78; id., L'appartenenza al p. f. r. e l'arruolamento nelle forze armate della r. s. i. di fronte al diritto penale, in Giust. pen., II, 1946, p. 28 segg.; id., Il reato di comunicazione illecita col nemico durante l'occupazione, in Riv. pen., 1946, p. 545 segg.; id., L'arruolamento nelle brigate nere e il collaborazionismo, in Giur. compl. Cass., I, 1946, p. 71 segg.