collocazioni
In linguistica, il termine collocazione indica la combinazione (tecnicamente co-occorrenza) di due o più parole, che tendono a presentarsi insieme (contigue o a distanza) più spesso di quanto si potrebbe prevedere (Krishnamurthy 20062) o, per dirla con Jezek (2005: 178), «una combinazione di parole soggetta a una restrizione lessicale, per cui la scelta di una specifica parola (il collocato) per esprimere un determinato significato, è condizionata da una seconda parola (la base) alla quale questo significato è riferito». Sono dunque collocazioni bandire un concorso, perdere tempo, prendere una medicina così come amara sorpresa, irreparabile perdita, atroce sciagura, vecchio porco, ecc. Queste caratteristiche rendono le collocazioni – il cui funzionamento non è sempre chiaramente spiegabile – un fenomeno lessicale che si trova a un livello intermedio (difficilmente precisabile) tra le espressioni idiomatiche (➔ modi di dire), di cui di solito non condividono la rigidità sintagmatica, e le combinazioni libere (cfr. sotto), rispetto alle quali presentano maggiori restrizioni.
Che parole possano co-occorrere in modo significativo era già stato notato da A. Cruden nelle sue concordanze bibliche (1738), e in seguito anticipato a livello intuitivo da Bally (1951: 70) e da Porzig (che parlava di «campi semantici elementari»; 19572: 124-125). È tuttavia l’inglese Firth (nei suoi Papers in linguistic 1939-1951, pubblicati nel 1957) che, attribuendo un’importanza decisiva al contesto dell’unità lessicale, evidenzia come il significato di una parola dipenda dalle altre con cui questa si trova in combinazione. Firth nota, ad es., come in inglese il nome time ricorra spesso in collocazioni con i verbi saved, spent, fittered away, flies, presses, ecc. e con gli aggettivi long, same, good, ecc. Secondo Firth, infatti, il lessico di una lingua non deve essere concepito soltanto come un inventario di parole, ma anche come un insieme di possibilità di collocazione, determinate non aprioristicamente dal sistema, ma dall’uso.
Alle intuizioni di Firth fecero seguito i lavori di Halliday sulla coesione lessicale (Halliday & Hasan 1976) – ove il concetto di co-occorrenza, e quindi di collocazione, è ricondotto a quello di coesione testuale (➔ coesione, procedure di) e di prossimità – e quelli di Sinclair (Jones & Sinclair 1974), che attraverso l’indagine statistica di vasti corpora (➔ corpora di italiano) di testi per mezzo di calcolatori elettronici, introduce le nozioni di frequenza (tanto maggiore è la frequenza di co-occorrenza rispetto a quella delle unità lessicali prese singolarmente, quanto più si può parlare di collocazioni semantiche; Jones & Sinclair 1974: 19); e di nucleo (node), ovvero l’unità lessicale di cui si intende studiare il comportamento nelle collocazioni.
A Sinclair si devono varie elaborazioni: da un lato i concetti di collocational environment «contesto collocazionale» e di collocational span, ovvero di distanza massima fra i ‘collocati’, fissata in ± 4 posizioni a destra e a sinistra del nucleo (Jones & Sinclair 1974; per altre indicazioni, cfr. Miall 1992 e Smadja 1989); dall’altro – sul piano applicativo – l’insieme di progetti editoriali denominati Collins Birmingham University International Language Database (COBUILD), da cui nel 1987 nacque il pioneristico Collins Cobuild English Language Dictionary. Di Sinclair (1991: 109-110) è anche la proposta di spiegare la produzione linguistica del parlante come un insieme di possibilità combinatorie più o meno aperte basate sui principi di open-choice («scelta libera»: il livello grammaticale, le cui sole limitazioni riguardano la grammaticalità dell’enunciato, ma non necessariamente la sua coerenza) e di idiom («idioma»: il livello lessicale, sul quale la lingua rende disponibili un’ampia serie di semi-preconstructed phrases «frasi semi-preconfezionate», tra cui le collocazioni appunto, selezionate in quanto combinazioni e solo apparentemente analizzabili in segmenti). Preoccupazioni analoghe furono all’origine degli studi di M. Benson (1985; Benson, Benson & Ilson 1986b), che portarono – con un maggiore livello di precisazione tanto metodologico quanto terminologico, a cui in questa sede non si può che accennare – al BBI Combinatory Dictionary of English. A guide to Word Combinations (1986) nota opera di consultazione.
Come effetto di queste ricerche non sono mancati negli anni Novanta progetti di dizionari di collocazioni (sia su carta sia elettronici) che potessero non soltanto spiegare significato e uso delle collocazioni stesse, ma anche descrivere il
sistema di una lingua attraverso la descrizione della vita ‘sistematica’ di ogni parola di tale lingua e, in ultima analisi, di pervenire alla completezza descrittiva [... e] dar conto di come la lingua in effetti funziona ed è strutturata, e dare indicazioni sul modo in cui essa è memorizzata o si differenzia da altre lingue (Lo Cascio 1997: 86).
Proprio le varie proposte lessicografiche (discusse, anche con aperture sull’italiano, da Marello 1996, 2004 e Lo Cascio 1997) hanno evidenziato la complessità delle collocazioni come fenomeno lessicale a sé stante (benché di difficile elicitazione e sistematizzazione) nelle lingue naturali, nonché la loro rilevanza negli studi sulla riduzione dell’ambiguità semantica (Church et al. 1989; Brown et al. 1991; Degan & Itai 1994), sulla traduzione e sull’insegnamento delle lingue straniere (Pöll 1997, Granger 1998, Prat Zagrebelski 1998). Tali rilievi nascevano dal fatto che le collocazioni non hanno equivalenti formali immediati nelle varie lingue (cfr., ad es., l’ingl. deliver a speech rispetto a fare un discorso; to have a shower rispetto a fare una doccia; spagn. echar gasolina, lett. «gettare benzina», rispetto all’ital. fare benzina, poner un ejemplo «porre un esempio» rispetto a fare un esempio, ecc.), sono arbitrarie, e quindi richiedono studi comparativi e contrastivi condotti su vasti corpora.
In base alle osservazioni precedenti non tutte le coppie e le triple di parole, evidentemente, possono essere considerate collocazioni. Osservando i seguenti esempi:
(1) mangiare un panino
(2) mangiare a quattro palmenti
(3) mangiare di gusto
si ricava ad es. che (1) non è una collocazione ma una combinazione libera, in quanto panino potrebbe essere sostituito da una ampia serie di nomi affini, indicanti un oggetto commestibile, e l’espressione risulterebbe comunque perfettamente usuale e accettabile con uno qualsiasi di questi (vedi 4). Gli es. (2) e (3) invece sono collocazioni, in quanto i loro costituenti mostrano una certa predilezione a combinarsi tra loro, consolidata dall’uso e dall’alta frequenza di co-occorrenza, e l’insieme risulta così lessicalizzato. Gli es. (5) e (8), invece, non sono collocazioni perché la combinazione dei loro costituenti – malgrado la sostituzione di mangiare e di attimo e momento con un sinonimo – risulta inusuale:
(4) mangiare una pizza / un gelato / una mela
(5) * cibarsi a quattro palmenti
(6) cogliere il momento
(7) cogliere l’attimo
(8) * cogliere il tempo
La differenza tra una collocazione e un’espressione idiomatica sta invece nel fatto che quest’ultima è fissa nella sua struttura e nei suoi costituenti («pietrificata» e «congelata», per usare le parole di Cowie, in Cowie & Mackin 1983: xii), e che il suo significato non può quindi essere desunto dalla somma del significato dei suoi costituenti. Il significato di una collocazione, invece, sia pur secondo meccanismi non completamente trasparenti, deriva da quello dei suoi costituenti, per questo le collocazioni sono considerate unità quasi o semi-composizionali.
Negli esempi seguenti:
(9) mangiare la foglia
(10) mangiare a quattro palmenti
(9) è espressione idiomatica, irrigidita nella sua forma e che non consente alcuna «espansione» (Pawley & Hodgetts Syder 1983: 210): infatti, se si sostituisse la foglia con una foglia, le foglie, le foglie rosse, le locuzioni risultanti potrebbero essere interpretate soltanto nel loro significato letterale, e perderebbero il valore idiomatico.
A partire da questi brevi confronti, le caratteristiche formali delle collocazioni possono essere sintetizzate in:
(a) non-composizionalità: il significato di una collocazione non risulta dalla somma dei significati dei costituenti, ma presenta un elemento semantico aggiuntivo dato proprio dalla loro co-occorrenza (cfr. giornata nera, caffé nero, umore nero);
(b) non-sostituibilità: il costituente di una collocazione non può essere sostituito con un sinonimo (o con un termine appartenente allo stesso campo semantico) senza rischiare che si crei una combinazione inusuale o innaturale (cfr. umore nero rispetto a umore scuro); in altri termini, i sinonimi non possono scambiarsi liberamente;
(c) allo stesso tempo, possibilità di sostituire un collocato con un altro semanticamente analogo senza cambiare il senso della collocazione (cfr. dirimere una controversia e risolvere una controversia);
(d) relativa autonomia dei costituenti: a differenza delle espressioni idiomatiche, i componenti di una collocazione mantengono le proprie funzioni grammaticali anche variandone l’ordine (la guerra è scoppiata / è scoppiata la guerra), e tra il nodo (o base) e il collocato è sempre possibile inserire altre parole (cfr. la guerra che tanto si temeva è quindi scoppiata);
(e) inalterabilità semantica delle parole della collocazione: le parole mantengono il loro significato letterale.
Oltre alle caratteristiche formali stabilite dall’uso, le collocazioni presentano restrizioni di carattere grammaticale e sintattico e possono quindi essere disposte in una tassonomia vera e propria, valida tanto per l’italiano e le altre lingue romanze, quanto per l’inglese, il tedesco, e le lingue slave (Benson, Benson & Ilson 1986a; Hausmann 1989: 1010; Heid 1994: 230).
In tale tassonomia, Benson (1985: 61) distingue due categorie:
(a) collocazione lessicale (che contiene elementi dello stesso livello sintattico): ad es., scolare la pasta, fallo difensivo, ecc.;
(b) collocazioni grammaticali (in cui cioè si combinano una parola dominante – verbo, nome, aggettivo – e una grammaticale, tipicamente una preposizione: ad es., aderire a, mostrare di, pronto per, ecc.).
Secondo questa classificazione, tuttora accettata, le più frequenti tipologie di collocazioni sono:
(11) verbo + articolo + nome (oggetto):
a. scattare una fotografia
b. prendersi una vacanza
c. stabilire un primato
d. fare una telefonata
In generale, i verbi possono presentare estensioni collocazionali di misura variabile: dalle collocazioni in cui i collocati appartengono allo stesso campo semantico (svolgere un incarico / una mansione / un ruolo) a quelle le cui basi hanno un repertorio collocazionale limitato (conciliare il sonno; intavolare una discussione); a un livello intermedio tra questi due poli si trovano i costrutti a verbo supporto (➔ verbi, supporto; Polenz 1963, Harris 1976; per l’italiano Cicalese 1999), nei quali il verbo ha un significato generico e funge, appunto, soltanto da ‘supporto’ al nome, che ha funzione predicativa e determina il valore della collocazione: dare inizio; prendere una decisione; fare benzina, prestare attenzione, mettere fretta, prendere tempo ecc. I verbi supporto possono essere distinti in verbi ‘di base’ o ‘neutri’ (fare, dare, avere, essere, prendere, ecc.) e verbi ‘estesi’ (presentare, contrarre, prestare, ecc.); questi ultimi, rispetto ai primi, specificano maggiormente il contenuto della collocazione (prendere un’infezione contro contrarre un’infezione; fare le scuse contro presentare le scuse; dare attenzione contro prestare attenzione, ecc.).
(12) (articolo) + nome (soggetto) + verbo
a. una guerra scoppia
b. il vento soffia
c. la situazione precipita
nelle quali il verbo monovalente denoterebbe un’azione caratteristica della cosa designata attraverso il nome soggetto (Benson & Benson & Ilson 1986a: xxvii).
(13) nome + aggettivo
a. nodo cruciale
b. cerimonia inaugurale
c. errore clamoroso
d. clima mite
e. capelli castani
In questa struttura, l’aggettivo di solito intensifica la base nominale o ne specifica una qualità. Viceversa, si ha il tipo:
(14) aggettivo + nome
a. alta opinione
b. vasto orizzonte
In costrutti di questo genere i collocati hanno a volte un’estensione molto limitata e formano unità così compatte con la base che risulta difficile distinguere le collocazioni dalle espressioni idiomatiche, come in:
(15) mercato nero
(16) borsa nera
dove nero, che vale «illegale», non può essere sostituito da altri termini appartenenti al campo semantico dei colori.
(17) nome + nome
a. parola chiave
b. guerra lampo
c. visita lampo
in cui uno dei due nomi modifica l’altro, in un rapporto di determinato-determinante.
(18) nome + preposizione + nome
a. tavoletta di cioccolato
b. pizzico di sale
c. spicchio d’aglio
d. sciame d’api
e. stormo di uccelli
in cui il primo nome costituisce il collocato e il secondo la base, che generalmente, dal punto di vista semantico, indica un’entità più piccola, o il gruppo cui appartiene un determinato oggetto / essere.
(19) avverbio + aggettivo
a. fermamente convinto
b. diametralmente opposto
c. gravemente ferito
A questo tipo appartengono collocazioni formate da participio con funzione aggettivale e avverbio: la base (l’aggettivo) è intensificata dal collocato (l’avverbio). Analogamente si ha la sequenza:
(20) verbo + avverbio
a. scordarsi completamente
b. pentirsi amaramente
c. rifiutare categoricamente.
Fin dai primi studi sul tema (Firth 1957, 1968), si notò che determinate collocazioni si trovano in particolare in alcune varietà e registri della lingua, ad es., nei ➔ linguaggi settoriali.
È il caso dei cosiddetti tecnicismi collaterali (o pseudotecnicismi; Serianni 1989: 103), che si presentano come co-occorrenze preferenziali, e a volte come vere e proprie formule, se non come ➔ cliché che evidenziano una sorta di «conformismo volontario» (Mortara Garavelli 2001: 17).
Se ne trovano in vari ambiti: nel linguaggio dell’informatica quanto in quello della politica e dell’economia. Ma è soprattutto nel linguaggio giuridico e medico (cfr. ricorrere in giudizio; accusare [o lamentare o riferire] un sintomo, apprezzare una tumefazione, patologia conclamata, ecc.; per elenchi dettagliati cfr. Serianni 2005: 113 segg.), che essi abbondano spesso senza che la lessicografia li registri. Tali fenomeni quindi andrebbero documentati da appositi dizionari di collocazioni (Serianni 2005: 141).
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