Schiavitu, colonato e servitu della gleba
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il sistema della villa, basato sull’impiego di schiavi organizzati in squadre e diffuso in alcune aree di vitale importanza dell’Impero romano, cede il passo nella tarda antichità a un nuovo modo di produzione incentrato sui coloni, che vengono vincolati alla terra per ragioni fiscali. Non c’è continuità tra colonato e servitù della gleba, che si afferma in un contesto profondamente mutato.
La visione secondo la quale l’evoluzione economica tra l’epoca romana e quella medievale si sarebbe svolta attraverso tre fasi successive caratterizzate dalla schiavitù, dal colonato e dalla servitù della gleba, è superata da tempo. La schiavitù, che vede un rapido e massiccio incremento nel periodo dell’espansione di Roma nel Mediterraneo, dà vita all’interno della villa rustica ad una particolare forma di impiego nota come modo di produzione schiavistico. Tre autori di trattati di agricoltura, Catone, Varrone e Columella, vissuti rispettivamente nei secoli II e I a.C. e I, descrivono abbastanza accuratamente il sistema della villa schiavistica i cui prodotti, soprattutto vino e olio, sono in buona parte destinati alla vendita sul mercato.
Gli schiavi (servi) variano di numero in proporzione all’estensione della terra da coltivare, sono organizzati in squadre e, nel caso di ville di più ampie dimensioni, collocati alla base di una piramide sotto il controllo di altri schiavi (monitores), in una posizione gerarchicamente superiore, che sono a loro volta diretti da uno schiavo (vilicus), responsabile della corretta gestione dell’azienda direttamente di fronte al proprietario o a un suo rappresentante (procurator). In base alle testimonianze letterarie e all’evidenza archeologica, il modo di produzione schiavistico è ritenuto dagli studiosi circoscritto a un determinato ambito territoriale, essenzialmente all’Italia e ad alcune province, e limitato a un arco temporale che difficilmente si prolunga oltre gli inizi del III secolo. Questo sistema di produzione ha bisogno per il proprio funzionamento del temporaneo apporto di manodopera supplementare e non è alternativo, ma al contrario parallelo e talvolta anche complementare, all’affitto a coloni liberi, almeno per tutta la durata del principato. Inoltre, in varie aree dell’impero esistono altre forme di produzione, a seconda delle diverse consuetudini regionali. La scomparsa del modo di produzione schiavistico è determinato dalla crisi generale che investe l’impero nel III secolo e porta a un mutamento talmente profondo dell’economia da segnare la transizione a una nuova epoca storica, la tarda antichità.
L’ultima testimonianza dell’esistenza della villa composta da un organico (instrumentum) strutturato di schiavi si può far risalire al giurista di età severiana Ulpiano, il quale fa anche riferimento a una figura di schiavo affittuario (servus quasi colonus) che, sebbene attestata sin dalla fine della repubblica, deve aver avuto nel corso del tempo una crescente diffusione.
Nella tarda antichità si assiste a una sensibile trasformazione del paesaggio agrario, nel quale la villa continua a svolgere un ruolo importante, ma molto diverso rispetto al passato. La villa tardoantica è descritta da Rutilio Palladio, autore di un trattato di agricoltura nel IV secolo, ed è documentata da significativi ritrovamenti archeologici. Essa costituisce ora il polo di convergenza di una folta popolazione di coloni sia liberi sia schiavi, che vivono con le loro famiglie e lavorano autonomamente su singoli lotti di terra. Il centro della villa continua a ospitare soltanto le strutture adibite alla lavorazione e conservazione dei frutti prodotti dai coloni. È ipotizzabile dunque che un certo numero di schiavi rimanga ivi insediato con il compito di controllare e far funzionare queste strutture. Un simile scenario è suggerito da Palladio, che esprime la necessità di dotare la villa anche di artigiani per evitare ai contadini di spostarsi per richiedere i loro servizi nei centri urbani. In sostanza, il rapporto tra il modello di villa descritto da Palladio e quello degli autori di epoca classica appare rovesciato: la terra è suddivisa in lotti e affittata a coloni al cui servizio si trova un ridotto instrumentum servile nel settore centrale della struttura produttiva.
Nella tarda antichità, dunque, la presenza degli schiavi nelle campagne non scompare, ma muta il modo del loro impiego. Cifre elevatissime di schiavi sono riportate dalle fonti che riguardano la vita della nobile Melania e del marito Piniano in relazione alle loro immense proprietà sparse in varie province della prefettura gallica, in Africa, in Sicilia, in Campania. Al momento della decisione dei due coniugi, agli inizi del V secolo, di abbandonare la vita mondana e ritirarsi in convento, 8000 schiavi accettano la libertà, mentre un numero imprecisato preferisce essere venduto al fratello di Piniano. Almeno una parte di questi schiavi sono utilizzati come coloni: in un possedimento vivono 400 schiavi sistemati in 60 abitazioni (villulae), verosimilmente suddivisi in uno o più nuclei familiari, in gruppi mediamente composti di sei o sette persone. L’impiego di nuclei familiari di schiavi come coloni si potrebbe ricavare anche da una costituzione di Costantino che vieta di smembrare le famiglie di schiavi situate sulle terre del patrimonio imperiale in Sardegna.
Anche la condizione dei coloni tardoantichi muta rispetto a quella degli affittuari dell’epoca precedente. Essi, infatti, pur rimanendo liberi sotto il profilo giuridico, vedono limitata la loro libertà di movimento. Il fenomeno colpisce parallelamente due categorie: da una parte, i coloni impiegati sulle proprietà imperiali e, dall’altra, quelli occupati nelle proprietà dei privati, per ragioni che in entrambi i casi possono dirsi, in senso lato, di natura fiscale. La prima attestazione del vincolo al suolo, infatti, è in una costituzione di Costantino che nel 319 impedisce ai coloni del fisco di recarsi altrove a cercare una diversa occupazione.
Per i coloni dei privati la prima testimonianza legislativa del vincolo è del 332, in una costituzione emanata dallo stesso Costantino; essa dispone che il colono fuggitivo sia restituito al proprietario sul quale ricade la responsabilità per il pagamento della sua capitazione. Il vincolo dei coloni privati si può ricondurre pertanto alla riforma fiscale di Diocleziano che combina l’imposta sul possesso fondiario (iugatio) con quella sulla manodopera in essa occupata (capitatio).
Gli effetti demografici della crisi del III secolo peraltro inducono assai presto gli imperatori ad adottare una politica di ripopolamento delle aree più colpite.
Alcune fonti parlano di deportazioni di barbari prigionieri che vengono installati con le loro famiglie prima sulle proprietà imperiali e in seguito anche su quelle dei privati. Dettagli di questi provvedimenti, che si susseguono per tutto il corso del IV secolo, si possono ricavare anche da una legge di Teodosio II del 409, con la quale si stabilisce l’assegnazione di barbari sciri a privati ai quali si vieta di ridurli in schiavitù e di considerarli in uno statuto diverso da quello del colonato.
La differenza tra la natura del vincolo dei coloni imperiali e quella del vincolo dei coloni privati scompare nella seconda metà del IV secolo, come dimostra una legge che abolisce in Tracia la capitatio humana ma impedisce ai coloni, in virtù di uno ius originarium, di allontanarsi dai fondi dei loro possessori che sono tenuti a continuare a pagare la iugatio terrena. L’aggettivo originalis si applica allora a tutti i coloni vincolati all’origo e serve a indicare la trasmissione ereditaria del vincolo stesso. Dubbio è invece il significato del termine tributarius, che talvolta appare associato ai barbari installati come coltivatori nell’impero, mentre altre volte figura più genericamente come sinonimo di colonus.
Una nuova distinzione viene introdotta nel corso del V secolo tra i coloni della parte occidentale e quelli della parte orientale dell’impero. La cancelleria occidentale continua a qualificare i coloni con l’aggettivo originalis o con il sostantivo originarius. Tale uso è confermato dalle fonti letterarie relative all’Occidente, mentre non appare mai applicato ai coloni orientali, i quali vengono invece indicati come censibus adscripti e, più tardi, adscripticii, cui corrisponde in greco l’aggettivo enapographoi, che compare anche nei papiri egiziani.
Alcuni dettagli sui coloni adscripticii ci vengono offerti da Giustiniano, che in una costituzione si spinge ad accostarli metaforicamente agli schiavi. In verità, nella sistematica giustinianea la distinzione tra liberi e schiavi non viene meno. Giustiniano intende enfatizzare l’inferiorità della condizione dei coloni adscripticii non sotto il profilo giuridico, ma sotto quello sociale, collocandoli tra i ranghi più bassi della categoria degli humiliores, fino a considerarli addirittura vicini agli schiavi.
Lo stesso imperatore, recependo una norma del suo predecessore Anastasio, distingue tra i coloni adscripticii, i cui beni vengono considerati come peculium, e i coloni, divenuti liberi dopo essere rimasti per oltre 30 anni sul fondo che, pur non potendosi allontanare dal fondo stesso, mantengono la piena disponibilità dei propri beni. In una Novella di Giustiniano si aggiunge che tutto ciò che questi coloni acquistano non solo non può diventare peculio dei loro signori, ma può consentire ai coloni di riacquistare la libertà se i possedimenti acquisiti consentono di raggiungere la sussistenza senza il ricorso all’affitto di altra terra.
Sia in Occidente che in Oriente, sul piano economico e sociale, diversamente da quello giuridico, l’impiego indifferenziato di schiavi e coloni nelle campagne molto spesso avvicina le posizioni fino ad assimilarle di fatto. La caduta dell’Impero d’Occidente, però, rende più difficile seguire l’evoluzione del fenomeno.
I giudizi degli studiosi contrappongono nettamente coloro che sostengono una continuità tra il colonato tardoantico e la servitù della gleba medievale e coloro che la negano decisamente, anche se l’ago della bilancia oggi pende dalla parte di questi ultimi. Sembra infatti sempre più improbabile cogliere una continuità nelle labili tracce percepibili nella documentazione tardoantica dell’introduzione di un modello manoriale, che costituirebbe la naturale sede di origine e di diffusione della servitù della gleba. L’avanzamento delle ricerche in questo campo ha svelato la complessità e varietà delle forme di dipendenza esistenti dopo la formazione dei regni romano-barbarici. La stessa nozione di servitù della gleba che – come da tempo è stato autorevolmente dimostrato – è il tardo risultato di una combinazione di parole trovate nelle costituzioni imperiali a opera di Irnerio, celebre esperto di diritto bolognese, si rivela dunque, per questo periodo storico, fallace ed euristicamente inadeguata a includere sotto un’unica definizione la frastagliata realtà delle diverse situazioni locali.