Colonie d'oltremare
Nei due secoli qui presi in esame lo Stato da mar veneziano era costituito da circa cento centri coloniali distinti, quelli che in una forma o nell'altra, e per un arco di tempo più o meno lungo nel periodo in considerazione, fecero parte integrante dell'impero veneziano. Era un insieme esteso e alquanto discontinuo, disperso sull'intera area del Mediterraneo orientale, su territori assai diversi tra loro. Sarebbe impossibile, nell'ambito di questo capitolo, soffermarsi sui dettagli della vicenda di ciascuno, e dunque ci limiteremo a indicare poche caratteristiche specifiche, e taluni tratti comuni che presentano interesse o importanza particolari. Come impone la struttura generale di quest'opera, la nostra analisi sarà concentrata più sulle politiche e gli interessi di Venezia, che non sull'evoluzione particolare delle diverse colonie.
Nel 1381, concluso con la pace di Torino il grande scontro militare con Genova, lo Stato da mar rifletteva ancora gli esiti delle precedenti espansioni veneziane oltremare, ma anche le consistenti rinunce cui Venezia era stata costretta nel corso del secolo XIV dalle guerre con Genova e l'Ungheria. Nel 1358, dopo la pace di Zara a conclusione della guerra con l'Ungheria, Venezia aveva dovuto cedere tutti i suoi possedimenti lungo la costa dalmata, e dunque i territori d'oltremare più vicini alla metropoli - fatta eccezione per l'Istria - erano Modone e Corone, all'estremità meridionale del Peloponneso. In quella fase lo Stato da mar comprendeva anche la grande isola di Creta e la più piccola Cerigo (Kythera), oltre a una base sull'isola di Negroponte (Eubea) e la fortezza di Pteleon sulla terraferma greca antistante (1).
Non vanno dimenticati i numerosi possedimenti delle grandi famiglie veneziane, soprattutto nelle isole dell'Egeo, cadute nelle loro mani a seguito della quarta Crociata, o acquisite successivamente attraverso matrimoni, o in altri modi. L'isola di Scarpanto, tra Creta e Rodi, e la vicina Caso (Kassos) appartennero fino al 1537 a un ramo della famiglia Corner; nelle Cicladi gli Zen possedettero dal 1384 al 1437 l'isola di Andro; fino al 1407 una parte di Serifo appartenne ai Giustinian; i Premarin tenevano una parte dell'isola di Ceo (Kéa); di Stampalia (Astipalea) e Amorgo furono signori (fino al 1537) i Querini; tra il 1433 e il 1537 Serifo appartenne ai Michiel; Nanfio (Anafi) fu tra il 1531 e il 1537 di tre fratelli Pisani, mentre a un altro ramo della stessa famiglia andò dal 1508 al 1537 l'isola di Ios; e Paro appartenne negli anni Venti e Trenta del Cinquecento a esponenti delle famiglie Venier e Sagredo. Dal 1410 circa una parte di Cerigo (Kythera) fu dei Venier, mentre Cerigotto (Antikythera), situata tra Cerigo e Creta, apparteneva ai Viaro.
Altri piccoli Stati egei governati da famiglie non veneziane dipendevano inoltre, in misura più o meno consistente, da Venezia. Primo fra questi il ducato di Nasso (Naxos), o dell'arcipelago egeo, fondato nel secolo XIII dal veneziano Marco Sanudo e poi passato alla famiglia Crispo: oltre a Nasso, il ducato comprendeva diverse altre isole (Thirasia, Andro, Anafi, Santorino, Melos, Syra, Ios, Paro e Antiparo), alcune delle quali infeudate ad altre famiglie, veneziane e non. Meno importanti, i principati di Sifno - retto, insieme con altre isole, dai bolognesi Gozzadini - e di Andro, formalmente parte del ducato di Nasso e appartenuto tra la metà del Quattrocento e la metà del Cinquecento ai Sommaripa (2). Queste signorie isolane non facevano parte dello Stato da mar, non essendo rette direttamente da magistrati veneziani, né sistematicamente controllate dai consigli della metropoli. Ma durante il Quattro-Cinquecento appare evidente che senza la protezione di Venezia non avrebbero avuto alcuna possibilità di sopravvivere. È una situazione che risalta chiaramente dai trattati di pace tra Venezia e gli Ottomani, in cui alcuni di questi territori - come Thirasia, Santorino ("S. Erini") e Nasso ("Acsia") - vengono elencati accanto ai possedimenti veneziani a pieno titolo (3).
La pace di Torino diede l'avvio a una nuova grande ondata espansionistica oltremare, che si protrasse per tutto il Quattrocento e andò spegnendosi col finire del secolo. L'acquisizione più importante, negli ultimi anni del Trecento, fu Corfù, che si diede a Venezia nel 1386 dopo la caduta dei suoi precedenti signori, la famiglia Tocco. In quella stessa occasione Venezia acquisì le piccole isole limitrofe di Paxo e Antipaxo (Paxos e Antipaxos), e Butrinto (Bouthrotó), sulla terraferma antistante. Tre anni dopo passò sotto il gonfalone di San Marco anche Nauplia (Nauplion), chiamata dai Veneziani "Napoli di Romània", un'importante base sulla sponda nordorientale del Peloponneso. Nel 1390 furono assoggettate le isole cicladiche di Tino, Micono e Delo, e nello stesso anno il governo diretto di Venezia fu imposto a Negroponte, fino ad allora soggetta solo in parte alla giurisdizione veneziana. La città costiera albanese di Durazzo (Durrës) fu acquisita nel 1392, seguita nel 1393 da Alessio (Lesh). Nel 1394 la città peloponnesiaca di Argo fu annessa alla vicina Nauplia, e per qualche anno anche Atene fu veneziana. Nel 1396 si aggiunsero allo Stato da mar Scutari (Skhodër) e Drivasto (Drisht), sulla costa albanese (4).
Il secolo XV fu inaugurato da una serie di acquisizioni nella regione adriatica. Budua, sulla costa montenegrina, e le città albanesi di Antivari (Bar) e Dulcigno (Ucinj) divennero veneziane nel 1405 (furono temporaneamente perdute nel 1412, e riacquistate nel 1420); nel 1407 la medesima sorte toccò a Lepanto (Naupaktos) nel golfo di Corinto, e nel 1408 la città arcivescovile di Patrasso, sulla sponda opposta del Peloponneso settentrionale, passò per qualche anno sotto il protettorato di Venezia. La crisi dinastica nel Regno d'Ungheria, costretto ad allentare la sua presa sulla Dalmazia, portò al definitivo rientro di Venezia in quella regione, spesso su invito delle comunità locali. Nel 1409 furono acquisite le isole di Cherso (Crěs), Ossero (Osor) e Arbe (Rab), e le città di Zara (Zadar) e Nona (Nin); Sebenico (Sibenik) le seguì nel 1412. Nel 1420, anno della conquista del Friuli, Venezia riuscì anche a estendere in misura considerevole i suoi possedimenti nell'Adriatico orientale: sull'isola di Pago (Pag), sulle città e fortezze di Cittanova, Vrana, Traù (Trogir), Spalato (Split), e Almissa (Omiš), sulle isole di Brazza (Brač), Lissa (Vis) e Curzola (Korčula), sulla città portuale di Cattaro (Kotor) nel Montenegro, e su Navarino (Pylos), sulle rive occidentali del Peloponneso, sventolava il gonfalone di San Marco. L'isola dalmata di Lesina (Hvar) fu occupata nel 1421, mentre nel 1423 la città di Salonicco otteneva il protettorato veneziano, che conservò fino alla resa agli Ottomani, sette anni dopo. In Dalmazia la "repubblica" dei Pastrovichi (tra Budua e Antivari) e la comunità di Poglizza (Pojica, presso Spalato) riconobbero la sovranità veneziana rispettivamente nel 1423 e nel 1443. Ravenna fu annessa nel 1441. Nel 1451 l'isola di Egina (Legina, nelle fonti veneziane), nel golfo Saronico, passò a Venezia, e l'anno dopo lo stesso avvenne per la regione dalmata di Makarska, presso l'estuario della Narenta (Neretva), con i suoi sette liberi comuni. Nel 1453, anno della conquista turca di Costantinopoli, entrarono a far parte dell'impero veneziano le Sporadi settentrionali - Schiato (Skyatos), Scopelo (Skopelos) e Schiro (Skyros).
La prima lunga guerra con gli Ottomani (1463-1479) viene spesso identificata con un arretramento veneziano in Oriente - la perdita più grave fu l'isola di Negroponte, caduta nel 1470, alla quale vanno aggiunte Pteleon, sulla terraferma greca, perduta in quello stesso anno, Argo, persa già nel 1463, e le città albanesi di Scutari e Alessio, con i rispettivi territori, perdute nel 1479. Nel frattempo, però, nuove terre passavano a San Marco: Cervia fu acquisita nel 1463, Malvasia (Monemvasia), nel Peloponneso sudorientale, divenne una colonia nel 1464, e il Regno di Cipro, massima acquisizione di quel periodo, divenne di fatto veneziano a partire dal 1473, per rimanerlo fino al 1571. A conti fatti, le acquisizioni territoriali oltremare nel corso di quella guerra lunga e costosa bastarono a compensare ampiamente le perdite, nella prospettiva soprattutto delle potenzialità economiche dei nuovi possedimenti, e di Cipro in particolare.
Nel trattato di pace veneto-ottomano del 1479 anche il Sultano riconosceva le recenti acquisizioni di Venezia. Prima della successiva guerra con gli Ottomani, scoppiata venti anni più tardi, la Repubblica riuscì ad imporre la propria sovranità diretta anche all'isola di Veglia (Krk), nel golfo del Quarnaro, sino al 1480 governata, sotto protettorato veneziano, dalla famiglia croata dei Frangipane (Frankopan), e, nel 1482, sull'isola ionia di Zante (Zakynthos): insieme con le altre isole ionie - fatta eccezione per Paxo e Antipaxo, perdute nel 1537, e Santa Maura (Leukas), acquisita soltanto nel 1684 - Zante sarebbe rimasta veneziana fino alla fine della Repubblica. Per qualche anno, tra il 1494 e il 1500 (e ancora nel 1511-1517) il ducato egeo di Nasso fu amministrato direttamente da Venezia. Nel 1495, nel corso delle guerre d'Italia, la Repubblica si impossessò di alcuni porti pugliesi - Trani, Mola, Polignano, Monopoli, Brindisi, Otranto e Gallipoli - che occupò fino al 1509 (e poi ancora, sia pure non tutti, per un breve periodo tra il 1528 e il 1530).
Anche la guerra con gli Ottomani del 1499-1501 comportò qualche dolorosa perdita: Corone e Modone, definite "gli occhi" di Venezia nel Peloponneso meridionale, furono conquistate dalle armi del Sultano, e la stessa sorte ebbero Navarino, poco più in là, verso ovest, e Lepanto nel golfo di Corinto; e fu grave anche la perdita di Durazzo, sulla costa albanese. Anche questa volta, comunque, il quadro non fu del tutto negativo, grazie all'acquisizione nel 1500 di Cefalonia (Kefalonia) e della vicina Itaca (Ithaki), a completamento del sistema veneziano nelle ionie che avrebbe sostituito Corone e Modone come scalo per il commercio con il Levante.
Fino alla successiva guerra turco-veneziana, nel 1537, l'estensione territoriale dell'impero da mar non subì variazioni di grande rilievo: i possedimenti in Puglia e in Romagna (questi ultimi ampliati nel 1503) andarono perduti nel 1509, e furono in parte riacquistati nel 1528-1530. Ma l'epoca della grande espansione coloniale era ormai tramontata. La guerra del 1537-1541 portò soltanto perdite: nel Peloponneso si dovettero abbandonare Malvasia e Napoli di Romània, nell'Egeo andarono perdute le isole di Egina, Micono e Delo, oltre alle Sporadi settentrionali. E la guerra segnò la fine anche di molte signorie latine nelle isole, comprese quelle di famiglie veneziane: i Corner a Scarpanto, i Querini a Stampalia-Ambros, i Premarin a Ceo, i Michiel a Serifo, i Pisani ad Anafi e Ios, i Venier e i Sagredo a Paro. Venezia fu costretta a rinunciare a Paxo e Antipaxo nell'arcipelago ionio. Il trattato di pace del 1541 segna quindi una sostanziale contrazione dello Stato da mar a vantaggio dell'Impero otto-mano. Questa tendenza avrebbe trovato conferma nella guerra successiva, quella del 1570-1571, con la perdita di Cipro, il maggiore e più ricco possedimento della Repubblica oltremare, e delle città albanesi di Antivari e Dulcigno.
Il periodo rinascimentale risulta dunque distinto in una fase iniziale di espansione su vasta scala, protrattasi fino al 1470 circa; una fase intermedia in cui le acquisizioni si alternarono alle perdite, tra il 1470 e il 1501; infine una terza fase, che comprende le ultime due guerre cinquecentesche contro gli Ottomani, segnata da una notevole riduzione territoriale dello Stato da mar.
Durante la prima fase Venezia seppe sfruttare a proprio favore l'avanzata ottomana nella regione compresa tra l'Egeo e l'Adriatico, e le croniche condizioni di insicurezza sulle coste adriatiche, dovute all'attività delle corone d'Ungheria e di Napoli e alle pressioni esercitate dai principati serbi, bosniaci, croati e albanesi dell'interno. Alcune delle acquisizioni sopradette, tra le quali Scutari, Dulcigno, Antivari e Budua nel 1405, furono dovute all'intervento militare (5), ma non furono poche le dedizioni spontanee. La prospettiva di entrare a far parte di un Impero musulmano e il crollo di numerosi Stati-cuscinetto nei Balcani indussero molte città, comunità e signorie a cercare la protezione del leone alato. In diversi casi la presa di possesso veneziana di un dato territorio seguì all'estinzione di una dinastia locale, o all'avvento di un erede debole o minore, o a una disputa sulla successione. A volte l'avvento della dominazione veneziana fu dovuto alla concomitanza di una successione dinastica incerta o disputata con la minaccia turca. Nel 1388, ad esempio, Maria d'Enghien, vedova di Piero Corner, rinunciò in favore della Repubblica alla signoria di Argo e Nauplia. Nel 1423 Salonicco, minacciata dalla conquista ottomana, si offrì alla signoria veneziana. Egina si diede a Venezia nel 1451, dopo la morte di Antoniolo Cavapenna, suo signore: i cittadini rifiutarono di lasciarsi governare dal suo legittimo erede. Zante fu annessa nel 1482 dopo l'assassinio di Antonio Tocco per mano dei suoi sudditi ioni - nella regione erano peraltro evidenti i segnali di un forte interessamento ottomano (6).
L'opportunità di assorbire questo o quel territorio nel proprio impero veniva considerata da Venezia soprattutto, ma non esclusivamente, nella prospettiva della rete del suo commercio marittimo. Quando una città o un territorio si offrivano alla signoria veneziana, il senato ne valutava i pro e i contro: il potenziale contributo diretto all'economia dello Stato veneziano, il possibile apporto al sistema commerciale complessivo, la collocazione strategica, le implicazioni diplomatiche dell'eventuale annessione, e infine - ma non certo meno importante - l'entità dell'impegno necessario per proteggere il territorio in questione da eventuali nemici. In molti casi le proposte venivano respinte, perché la Repubblica era restia a provocare altre potenze che rivendicavano la sovranità sul territorio, o perché il senato riteneva che la posta non valesse la spesa e l'impegno necessari per conquistarla. Tra la fine del Trecento e il primo Quattrocento le città di Cattaro e Zara tentarono più volte di ottenere la protezione veneziana, prima di essere definitivamente annesse (7). Nel 1428 la città arcivescovile di Patrasso, nel Peloponneso settentrionale, chiese la protezione di Venezia, ma il senato esitò a concederla, perché i territori soggetti alla giurisdizione di Patrasso si erano considerevolmente ridotti, e la protezione loro e della città dai nemici avrebbe richiesto un impegno eccessivo (8). In altri casi però, ritenendo minacciati i propri interessi, Venezia decise di intervenire di propria iniziativa per prendere possesso di taluni territori e impedire ad un'altra potenza di fare altrettanto: Cipro è l'esempio più calzante. Dal 1463 Venezia aveva ingaggiato una lunga guerra con gli Ottomani, e Cipro - anche senza tener conto della sua vasta estensione, delle potenzialità economiche e dell'ottima posizione lungo le rotte commerciali - era situata in un'eccellente posizione strategica. Alla morte di re Giacomo di Cipro, nel 1473, l'isola rischiava di cadere nelle mani del cosiddetto partito catalano, aggressivamente sostenuto dal Regno di Napoli. Venezia decise di intervenire, ufficialmente per tutelare la regina Caterina Cornaro, sua figlia "adottiva", ma in realtà per proteggere i suoi interessi: il Regno cipriota divenne dunque un protettorato veneziano, e nel 1489 fu formalmente annesso allo Stato da mar, del quale comunque faceva di fatto già parte da sedici anni (9).
Di regola l'atto di dedizione a Venezia era il risultato di trattative tra le personalità locali di maggior rilievo e le autorità veneziane, che definivano i cosiddetti "capitoli". Questo documento diventava una sorta di costituzione di base, che insieme con gli statuti o le consuetudini legali dei territori in questione - generalmente ratificati da Venezia sanzionava l'ordine sociale esistente e garantiva i privilegi dei diversi gruppi sociali. I "capitoli" di Corfù (1386), ad esempio, comprendevano una clausola a conferma dei diritti dei proprietari terrieri corfioti sui loro contadini; o ancora, nel 1425 Venezia confermò tutti i privilegi goduti dai cittadini di Salonicco (10). Anche dopo l'atto di dedizione, accadeva che organismi locali o gruppi sociali delle diverse colonie proponessero nuovi "capitoli", la cui ratifica o recusazione costituiva una procedura ordinaria per il sistema statale veneziano, il meccanismo per l'aggiornamento delle leggi e dei principi che reggevano i diversi territori, non soltanto nello Stato da mar (11).
In alcuni casi, non volendo sostenere i costi dell'amministrazione di un dato territorio che pure aveva interesse a mantenere entro la propria orbita, Venezia tentava di affidarlo a uno dei suoi patrizi in concessione o investitura feudale, soggetta al protettorato della Repubblica. Tra il 1390 e il 1429, ad esempio, le isole di Tino e Micono furono offerte a diversi patrizi veneziani, e solo dopo ripetute petizioni degli abitanti furono finalmente sottoposte all'amministrazione diretta di Venezia (12). Anche la restituzione, intorno al 1410, di una parte dell'isola di Cerigo alla famiglia Venier, che ne era stata cacciata a seguito del suo coinvolgimento nella grande rivolta di Creta (1365-1366), andrebbe considerata in questa luce (13).
La distinzione tra i territori marittimi e quelli di Terraferma, dopo le conquiste territoriali in Italia e l'espansione dello Stato da mar nel Quattrocento, trova riscontro in numerose innovazioni amministrative e istituzionali, come la creazione di gruppi distinti di "savi" all'interno del collegio, detti savi di Terraferma e savi agli ordini, o la separazione, dopo il 1440, delle due serie - "mar" e "terra" - nei registri del senato, la prima dedicata ai decreti riguardanti le colonie oltremare e i traffici marittimi, la seconda a quelli attinenti Venezia e la Terraferma (14). Distinzioni, queste, che riflettevano l'esigenza di una maggiore efficienza amministrativa per uno Stato i cui confini erano in continua espansione. Dal punto di vista costituzionale comunque, nonostante le peculiarità dei territori che costituivano lo Stato da mar - legate alla rispettiva distanza dalla metropoli, alle caratteristiche culturali, alle esigenze di difesa dalla minaccia ottomana, o alla relativa rilevanza nei traffici marittimi - non esisteva una significante divisione tra questo e la Terraferma. La legislazione fiscale poteva distinguere tra territori marittimi e di Terraferma, e le decisioni giudiziarie, come le sentenze di bando, potevano riferirsi all'una o all'altra zona, ma i medesimi principi di governo valevano per l'Italia come per l'oltremare, i medesimi consigli centrali - il collegio, i dieci o il senato - governavano tutti i territori soggetti al dominio veneziano, i medesimi indirizzi legali venivano applicati ovunque e le medesime linee di tendenza in fatto di politica economica e fiscale contraddistinguevano l'atteggiamento di Venezia nei confronti dei suoi domini di Terraferma e di mare. L'unica suddivisione che contava all'interno dello Stato veneziano era quella tra la Dominante e i suoi diversi domini (15).
La coesione dei domini veneziani trova riscontro anche nell'ambigua definizione della linea di demarcazione tra Terraferma e Stato da mar. Secondo alcuni lo Stato da mar comprendeva tutti i territori veneziani situati oltre il golfo del Quarnaro, cioè oltre l'Istria. Nel luglio 1499, quando fu istituita una nuova imposta sui redditi da salario, si operò una distinzione tra gli incarichi "dal Quarner in qui", tenuti a versare metà del salario, e quelli "dal Quarner in verso il mare", tenuti a versarne solo un terzo. Nel giugno 1501 l'imposta sul reddito sui salari dei magistrati "dal Quarner in là" fu abolita, in quanto i patrizi non prestavano volentieri servizio "in li lochi marittimi" in un periodo di guerra con gli Ottomani (16). L'ispezione dei "Sindici di Terraferma" del 1483, descritta da Marin Sanudo, li portò anche in Istria, definita dall'autore "ultima region de l'Italia, fine et termine" (17). Eppure lo stesso autore, trattando in un'altra opera delle funzioni degli "officiali alle Rason vecchie", specifica che essi "revedono li libri delli rettori marittimi, massime dell'Istria" (18). La serie dei decreti del senato intitolata Senato mar comprende anche deliberazioni concernenti Capodistria e Chioggia, e nella serie archivistica delle relazioni dei rettori veneziani ne esiste un gruppo intitolato "relazioni marittime" in cui compaiono alcuni rapporti di rettori di quei due centri (19). Giovanni Botero - che non era però veneziano -, la cui Relatione della Republica venetiana fu pubblicata nel 1605, comprende l'Istria nel capitolo sullo Stato da mar (20). A quanto pare il fatto che l'Istria fosse sull'altra sponda dell'Adriatico e l'abitudine di recarsi a Chioggia per via d'acqua influirono sulla loro collocazione nel concetto spaziale dei Veneziani. La stessa logica valeva anche per Ravenna, considerata un possedimento marittimo fino al 1485, quando il consiglio dei dieci decretò che da quel momento sarebbe stata considerata invece "inter civitates et terras nostras a parte terrae" (21).
L'espansione quattrocentesca e la successiva contrazione dei territori d'oltremare nel corso del Cinquecento non rendono certo più facile una stima della loro popolazione, né l'individuazione delle tendenze demografiche nei possedimenti marittimi di Venezia.
Il secolo XVI è meglio documentato dei periodi precedenti, ma le testimonianze si rivelano spesso problematiche, a conferma delle difficoltà incontrate dal governo veneziano stesso nel costruirsi, in un qualsiasi momento dato, un'idea anche approssimativa dell'entità demografica delle sue colonie. Le cifre riferite da diversi rettori veneziani nel corso del Cinquecento ci consentono comunque una valutazione approssimativa: intorno alla fine del periodo in considerazione lo Stato da mar (compresa l'Istria ma escluso il Peloponneso) avrebbe contato all'incirca 610-650.000 abitanti, pari a circa il 25-27% della popolazione dell'intero Stato veneziano (22). Questo fu probabilmente il punto massimo raggiunto dallo Stato da mar in tutta la sua storia. I territori più popolosi erano Creta e Cipro, con rispettivamente poco più e poco meno di 200.000 anime; la Dalmazia veneziana e l'Albania ne contavano circa 60-100.000; le isole ionie circa 70.000; Tino e Cerigo circa 12.000; e l'Istria circa 55.000. Nel tardo Quattrocento e nella prima metà del Cinquecento l'Istria, la terraferma dalmata e alcune isole egee subirono un calo demografico, specie nelle campagne, a seguito delle guerre con gli Ottomani e delle scorrerie dei pirati. Anche la peste imponeva di tanto in tanto un pesante tributo, come nella zona di Spalato nel 1527, quando - secondo una testimonianza posteriore - si portò via circa 6.000 anime. Altri territori però, tra i quali le isole dalmate, Creta, Cipro e probabilmente Cefalonia, avrebbero conosciuto nello stesso periodo una notevole crescita demografica, a dispetto di numerose recrudescenze della peste - particolarmente grave quella che colpì Creta nel 1523. Due tendenze opposte, dunque, alle quali contribuiva in misura determinante la migrazione: lo spopolamento dell'area adriatica fu dovuto all'emigrazione verso le isole vicine e la terraferma italiana, mentre la crescita di Cipro, Creta e Cefalonia era legata all'emigrazione dai territori ottomani verso i domini veneti, attivamente incoraggiata dalla Repubblica (23).
I dati quantitativi relativi al secolo XV sono rari e l'unico modo per giungere a una stima demografica approssimativa consiste nel procedere a ritroso partendo dai dati posteriori, tenendo conto delle modificazioni territoriali e delle tendenze demografiche generali.
Quindi, alla vigilia dell'annessione di Cipro (1489), lo Stato da mar avrebbe avuto circa la metà degli abitanti rispetto a un secolo dopo, mentre nel tardo Trecento - considerati gli effetti di lungo periodo della Peste Nera e le minori dimensioni territoriali dell'impero veneziano d'oltremare all'epoca - la sua popolazione sarebbe stata ancor meno numerosa.
Nel cuore di Venezia, di fronte al palazzo Ducale, Jacopo Sansovino costruì durante gli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento l'elegante loggetta del campanile, i cui bassorilievi proclamano il destino imperiale di Venezia. Al centro, due dei fluviali rappresentano i domini veneziani nella terraferma italiana; li affiancano le figure di Venere e Zeus, che rispettivamente rappresentano le due grandi isole di Cipro e Creta (24). Ed è vero che, considerate le loro dimensioni, la massa della popolazione, il ruolo centrale nel sistema marittimo veneziano e l'importanza strategica per la difesa dello Stato da mar, le due grandi isole possono essere considerate come i pilastri portanti dell'impero d'oltremare. Nei documenti ufficiali entrambe vengono definite "Regni", un termine che non soltanto ne sottolineava l'importanza relativa all'interno del sistema statale di Venezia, ma era anche funzionale al prestigio della Repubblica sulla scena internazionale.
Creta fu l'unica colonia che Venezia tentò di "colonizzare" nel senso originario del termine. Non possiamo soffermarci in questa sede sull'insediamento dei coloni ("feudatarii") veneziani a Creta, né sui complessi rapporti che si intrecciarono tra questi e la metropoli nel corso dei secoli XIII e XIV. Va comunque osservato che i contrasti tra i coloni veneziani e la Serenissima, caratteristici dei primi secoli, non si ripeterono in epoca rinascimentale. Grande rilievo viene attribuito dagli storici al processo di ellenizzazione subito dai coloni e dai loro discendenti - un fenomeno di grande interesse, chiaramente documentato dalle fonti contemporanee (25). Un altro aspetto caratteristico attestato nelle relazioni dei rettori veneziani del Cinquecento è dato dalla trasformazione di molti coloni in gentiluomini di campagna, o persino in contadini, poco abituati alla vita di città e dunque considerati inadatti alle funzioni amministrative (26). Le fonti però indicano anche che i feudatari veneziani continuavano a rappresentare un gruppo sociale a sé stante, costituito da circa 4-500 nobiluomini tenacemente legati alla propria posizione di privilegio, soggetti a "prove di nobiltà", e impegnati fino all'ultimo nella difesa della propria distinzione dal resto della popolazione indigena, compresi i nobili cretesi (27).
Dal punto di vista di Venezia, è probabile che Creta fosse la più difficile da governare tra le colonie dello Stato da mar. Il cupo ricordo delle rivolte trecentesche non era spento. La religione ebbe una sua parte nelle animosità tra Cretesi e Veneziani (su questo ritorneremo più avanti), ma parrebbe che le difficoltà incontrate da Venezia nell'imporre la propria autorità sull'isola, specie nelle remote zone di montagna, derivassero in buona parte dalla topografia stessa di Creta, dalla povertà di certe regioni e dalla loro peculiare struttura sociale. Gli sforzi compiuti dai rettori veneziani per spezzare la presa dei potentati locali su alcuni settori della società cretese, o per affermare la forza della legge veneziana nelle zone meno soggette a controllo, non potevano offrire che soluzioni temporanee (28).
L'importanza di Creta come emporio commerciale nei secoli XV e XVI fu di assoluto rilievo. L'isola era un punto di incontro per le navi in viaggio da Venezia verso l'Egitto, la Siria, Cipro, il mar Egeo, Costantinopoli e il mar Nero, ma anche per quelle dirette a Occidente - verso la Sicilia, la Francia, le Fiandre e l'Inghilterra. Tra i prodotti interni dell'isola, i più ricercati erano i suoi vini, esportati sia a Oriente che a Occidente. Secondo il viaggiatore francese Belon (1550) i famosi vini di malvasia - provenienti in origine dall'omonima colonia, ma prodotti a Creta dalla metà del Cinquecento - venivano esportati in due forme: la prima, fatta fermentare a Rettimo, destinata all'esportazione in Germania, in Francia e in Inghilterra; la seconda, non fatta fermentare a Creta, esportata da Candia e Canea verso l'Italia. Si esportava anche il moscato, sia dolce che secco, prodotto in grandi quantità nelle campagne di Candia e Canea. L'Inghilterra, la Fiandra, il Portogallo, Alessandria, Costantinopoli, Chio, Messina, Malta e i porti del mar Nero erano destinazioni regolari per le navi cariche di vino cretese. Altri generi da esportazione erano i formaggi e gli agrumi, sia come frutti che come succhi - pare che attorno alla metà del Cinquecento Costantinopoli consumasse ogni anno 3-400 barili di succhi d'arancio e di limone cretesi. Creta era importante anche come centro per la lavorazione del legname, dalle costruzioni navali alle botti, agli intagli ornamentali - destinati soprattutto alle chiese (29).
D'altro canto, però, l'incremento demografico del Cinquecento provocò a Creta una scarsità sempre più grave di cereali, cronica debolezza della maggior parte dei domini veneziani d'oltremare, con l'eccezione di Cipro (30).
A partire dal 1473 Cipro, "piccolo continente" di circa 9.400 chilometri quadrati, divenne il più grande, e il più redditizio, possedimento della Repubblica oltremare. Venezia non colonizzò Cipro come aveva fatto per Creta; di conseguenza i Veneziani insediati nell'isola in modo più o meno permanente non erano molti, e per lo più risiedevano a Nicosia, che sul finire della dominazione veneziana contava quasi 25.000 abitanti all'epoca, la più grande città dello Stato da mar (31). Alcune famiglie veneziane, comunque, come i Corner della Ca' Granda, i Contarini dal Zaffo o i Giustinian conti di Carpasso, ricavarono grandi profitti dalle loro tenute cipriote (32). Quanto alla nobiltà locale, alcune famiglie - come i Negron, i Singlitico, i de Nores e i Podocataro - riuscirono ad approfittare del secolo di pace offerto dalla dominazione veneziana per accumulare enormi fortune, e alcuni di loro fecero carriera militare nell'esercito veneziano di Terraferma, in Italia (33).
Per tutto il periodo veneziano, la popolazione di Cipro conobbe un incremento costante; le vaste colture di grano e orzo consentivano una esportazione piuttosto regolare verso Venezia e gli altri suoi possedimenti, e in qualche occasione bastarono persino a salvare la metropoli dalla carestia, alla produzione dello zucchero si sostituì gradualmente quella del cotone, che nel corso del Cinquecento divenne una cospicua fonte di reddito per i proprietari terrieri locali; l'artigianato urbano produceva una grande varietà di merci, in particolare stoffe di qualità; le grandi saline sulla costa meridionale garantivano alla Repubblica entrate costanti, e costituivano un supporto essenziale per la navigazione commerciale veneziana, attraverso un sistema di sovvenzioni alla cantieristica finanziato con partite di sale cipriota. Situata com'era di fronte alle coste siriane, Cipro costituiva uno scalo e un emporio di prima importanza per il commercio levantino (34) Anzi, da un certo momento in poi, le grandi navi veneziane non si presero più neppure la briga di arrivare fino ai porti siriani, preferendo gettare l'ancora nelle più sicure acque cipriote, dove scaricavano e caricavano le loro merci mentre imbarcazioni di stazza minore si occupavano del trasporto tra Cipro e le coste vicine. I Ciprioti impegnati in questa attività svolgevano dunque un ruolo essenziale in uno dei settori più importanti della vita economica veneziana (35). Va rilevato che, a parte qualche incidente marginale, fino al 1570 Cipro veneziana poté godere di un secolo di relativa pace, non essendo seriamente coinvolta nelle ostilità durante le tre guerre veneto-ottomane del 1463-1479, 1499-1501 e 1537-1540, sebbene si trovasse nel bel mezzo del Mediterraneo orientale. È evidente che questa stabilità costituì un grande vantaggio per lo sviluppo dell'economia cipriota. Perciò non c'è da stupirsi che, dopo la perdita dell'isola nel 1571, Venezia tentasse ogni via possibile per rimettere piede sull'isola col consenso dei Turchi, offrendo in cambio persino un versamento annuale di 100.000 ducati (36).
Prima dell'acquisizione di Cipro, nel 1473, Negroponte veniva contata tra i principali avamposti veneziani in Levante: Costantinopoli e il mar Nero occupavano sempre un posto di primo piano nel sistema commerciale di Venezia e Negroponte era il punto nodale di smistamento dei traffici marittimi nell'Egeo. L'isola era peraltro ricca di prodotti agricoli ed esportava grano, seta e cera. Negli anni Sessanta del Quattrocento Venezia riservava agli scambi con Negroponte un convoglio speciale di galere da mercato. Alla vigilia della conquista ottomana nel 1470 la "camera" dell'isola era a corto di fondi, ma il senato poteva comunque affermare che dal punto di vista della produzione agricola "condictio illius insule est ita bona, sicut unquam fuit, et redditus optimi" (37). D'altra parte, a indicare il valore attribuito da Venezia a Negroponte può bastare la spropositata entità della somma - 250.000 ducati - offerta dalla Repubblica ai Turchi per riacquistarla dopo averla perduta nel 1470 (38).
Diverse fonti attestano che per buona parte del secolo XV Corfù godette di una relativa prosperità. La comunità locale disponeva di una serie di consigli e magistrati autonomi, come i "giudici annuali", con giurisdizione sui reati civili minori, i "provveditori alle tollete", che controllavano le finanze dell'amministrazione giudiziaria, e il "magistrato alla sanità". I dignitari locali occupavano numerosi incarichi militari nell'isola e in alcuni avamposti veneziani sulla terraferma greca; tra questi ultimi era particolarmente importante Butrinto, scalo protetto per gli scambi tra l'isola e la terraferma, e centro di un'intensa attività peschereccia. In ottima posizione sull'imbocco dell'Adriatico, Corfù era insieme un indispensabile porto di scalo e un emporio per i traffici internazionali di Venezia. Di un certo interesse erano anche le sue esportazioni: soprattutto sale e "valania", le ghiande di quercia utilizzate soprattutto per la conciatura (39).
Nel Cinquecento Corfù fu la base principale della marina militare veneziana, quartier generale del provveditore generale da mar e del capitano del golfo. Dopo la guerra degli anni Trenta, fallito il tentativo ottomano di occuparla nonostante le gravi perdite inflitte all'economia e alla popolazione, una vasta opera di fortificazione trasformò Corfù in un vero e proprio bastione militare a guardia dell'accesso all'Adriatico (40). L'isola continuava a godere di un'agricoltura relativamente prospera, basata sulle olive e l'uva passa - "è un bel zoiello Corfù", scriveva nel 1510, al momento di lasciarla, il governatore Priamo Contarini (41) - ma lo sviluppo della produzione olivicola aggravò la sua dipendenza dall'importazione di cereali dalla vicina terraferma greca, dalla Puglia, dalla Sicilia e da Cipro.
Nel corso del Quattrocento si era affermata a Corfù una ricca aristocrazia, per lo più italianizzata, le cui figlie erano prede ambite per i cacciatori di dote del patriziato veneziano: le dodici baronie di Corfù facevano sempre gola (42).
Zante, che sul finire del nostro periodo contava circa 20.000 abitanti, fu un'acquisizione relativamente tarda. La più meridionale delle grandi isole ionie era anch'essa un importante scalo sulla rotta marittima tra Venezia e il Mediterraneo aperto (sia verso oriente che verso occidente), specie dopo la perdita di Corone e Modone nel 1501. Come Cipro, non subì danni di rilievo durante le prime due guerre cinquecentesche con i Turchi, il che consentì agli imprenditori locali di sviluppare una prospera agricoltura, in larga misura basata sulla produzione di uva passa per l'esportazione. Come l'olio per Corfù, questa specializzazione produsse gravi problemi di rifornimento alimentare, ma favorì anche un intenso traffico marittimo tra Zante e le vicine coste del Peloponneso (43). Nel 1546 la relazione finale di un rettore riferiva alla Signoria che Zante "è, per gratia de Idio, hora molte augmentata, si de popolo come de ogni altra cosa, a beneficio de Vostra Serenità" (44). Una lista del 1554-1555, che indica le tariffe della tassa portuale ("arboraso") imposta ai vari tipi di navigli di diversa provenienza nel porto di Zante, può dirci qualcosa circa l'importanza dell'isola come stazione marittima: vi si nominano "nave venetiane; nave ragusee, francese, spagnolle et altri forestieri; schirazi venetiani, candiotti, corfiotti; marciliane da Venetia; grippi de Puglia, Cicilia, Calavria; grippi de Patras, Lepanto et Arta; navilii coronei et modonesi; navilii di Schiavonia et Corfiotti picholi; navilii di Santa Maura; grippi candiotti piccoli; navilii che vendeno legne; navilii che vendeno pesce; navilii che vendeno naranze et limoni; navilii picolli da Coron" (45). Un'attività intensissima, che provocò il rapido sviluppo di un "borgo della marina", a una certa distanza dalla città fortificata; nel 1546 il sobborgo contava già 2.000 edifici, compresi palazzi e magazzini, e una popolazione di circa 7.900 abitanti (46).
Cefalonia, un'altra acquisizione recente, contava 1.246 famiglie all'inizio del dominio veneziano - nel 1504 - e circa 25.000 anime poco prima del 1570 (47). I rettori veneziani ne parlano come di un'isola fertilissima, ricca di cereali, vigne, canapa e legname. Particolarmente importante era l'economia pastorale, con circa 100.000 capi tra pecore e capre nel 1548, che fornivano lana e formaggi in abbondanza. Negli anni Sessanta, sull'esempio di Zante, anche la produzione di uva passa si andò diffondendo nelle campagne. Di regola la rendita dell'isola superava le spese - sul finire degli anni Sessanta l'eccedenza era intorno ai 2.000 ducati (48).
Per quanto diverse tra loro per numerosi aspetti, le colonie in Dalmazia e in Albania erano accomunate dal medesimo tratto strutturale, costituite com'erano, nella maggior parte dei casi, da un centro urbano e dal territorio da esso dipendente, che in alcuni casi comprendeva a sua volta centri urbani minori con i rispettivi territori, e persino qualche isola. Zara, sede di un arcivescovado latino, veniva considerata la metropoli della Dalmazia. Il suo territorio, come altre zone dalmate, fu più volte gravemente danneggiato dalle guerre e dalle scorrerie: nel 1499, ad esempio, pare che il pascià della Bosnia devastasse le campagne, razziando circa 50.000 capi di bestiame e deportando in schiavitù circa 7.000 persone (49). Nel 1527 la popolazione dell'intero territorio era così distribuita: in città 6.903 anime; nel "borgo" 1.148; all'esterno del "borgo" 22; nelle "ville" 9.109; nelle isole 6.859 - in tutto 24.041 anime (50). Negli anni Cinquanta del Cinquecento, nonostante le perdite inflitte dalle ultime guerre, Zara disponeva ancora di un territorio relativamente più esteso rispetto ad altre città della regione, con circa 37 isole e 85 insediamenti minori soggetti alla sua giurisdizione (in precedenza erano stati 280), tra i quali i centri fortificati di Vrana, Nona, Nadin e Novegradi. Il comune di Zara conservava alcune delle proprie istituzioni, e poteva disporre di una quota delle entrate doganali (51). Altre colonie, come Cattaro, Traù o Budua, a giudicare dalle relazioni veneziane del 1525 e del 1553 erano meno assillate dalle incursioni turche: stando a quanto dice nel 1525 il provveditore, i cittadini di Cattaro avevano l'abitudine di lasciare la città per due o tre mesi durante la vendemmia, senza alcun timore dei Turchi loro vicini. Nello stesso anno i "sindici" riferivano di Traù che "quel poco de territorio li resta habitato è bellissimo e fructifero". A Budua nel 1553 il "sindico" osservava che i "turchi" dell'entroterra "tengono buona amicizia con Buduani": i veri nemici erano invece i Pastrovichi, sudditi veneziani come loro (52).
Nonostante la cupezza del quadro spesso dipinto dalle descrizioni cinquecentesche dei rettori veneziani, l'Istria, la Dalmazia e i possedimenti sulle coste albanesi erano ancora in grado di fornire a Venezia e agli altri territori notevoli quantitativi di prodotti agricoli e materie prime, come vino, sale, carne e pesce salato, pellami dall'entroterra balcanico, legname e materiali per l'edilizia, come la famosa pietra d'Istria utilizzata per la costruzione di tanti palazzi veneziani. E disponevano anche di centri manifatturieri: nel 1520 alle fiere di Recanati risultano venduti consistenti quantitativi di "rasse", "sarze" e "grisi" - tessuti di qualità inferiore prodotti in Dalmazia e in Istria (53). Non si deve dimenticare che l'entroterra balcanico, prima e dopo l'occupazione ottomana, non era soltanto la base di partenza per le incursioni contro la fascia costiera in mano veneziana, ma anche un importante interlocutore economico. Le colonie veneziane in Dalmazia e in Albania avevano molto da dare e molto da ricevere dagli abitanti dell'interno. Gli scambi commerciali tra queste regioni interdipendenti, così come quelli tra l'entroterra balcanico e l'Italia (Venezia compresa), passando per la Dalmazia, furono in genere piuttosto intensi - attraverso i canali legali, o attraverso il contrabbando.
Delle isole adriatiche, alcune erano povere e aride, mentre altre, come Cherso, Ossero e Arbe, erano caratterizzate da un'estesa economia pastorale. La relazione di un "sindico" nel 1553 riferisce che a Cherso e Ossero si contavano 120.000 capi di ovini e caprini, oltre a molti altri "bovini, cavallini e asinini"; la lana locale veniva utilizzata sull'isola per produrre tessuti (54). Alcune isole si erano specializzate in diversi tipi di attività marinare, costituendo importanti riserve di manodopera addestrata per le flotte veneziane: la riva degli Schiavoni, a Venezia, testimonia ancor oggi il contributo di questi sudditi coloniali all'attività marinara della Repubblica. L'isola di Lesina era famosa per l'abilità dei suoi marinai e pescatori, oltre che per l'abbondanza dei suoi banchi di sardine (55). A Curzola c'erano "molti marinari esperti", e una notevole attività cantieristica: era l'unico centro dalmata in cui Venezia incentivasse la costruzione di navi di grande stazza (56). Alcune isole disponevano di un'organizzazione comunale responsabile di buona parte delle attività pubbliche, persino della tesoreria - sicché in campo economico e finanziario ai magistrati veneziani rimaneva ben poco da fare. Così stavano le cose a Lesina (la cui giurisdizione si estendeva alla vicina isola di Lissa), a Brazza e a Curzola. Nonostante le dimensioni modeste, dai documenti ufficiali risulta che alcuni di questi possedimenti riuscivano a ottenere una piccola eccedenza di rendita rispetto alle spese: nel 1525 vi riuscirono Cherso e Ossero, Veglia, Arbe, Traù e Pago. Grazie allo sfruttamento delle sue saline, quest'ultima versava ogni anno a Venezia circa 30.000 ducati. D'altro canto, però, lo stesso giro d'ispezione rilevava che a Zara, Sebenico, Spalato, Cattaro e Antivari il bilancio era negativo (57).
Le piccole comunità "repubblicane" di Poglizza (presso Spalato) e dei Pastrovichi (fra Budua e Antivari) costituivano un altro caso particolare tra i possedimenti in Dalmazia. Venezia interveniva ben poco nella loro amministrazione, ricevendone in cambio servizi militari nella regione e altrove. Nel corso del secolo XVI i Pastrovichi operarono anche nei trasporti navali adriatici, un'attività che in larga misura sfuggiva al controllo veneziano (58). Nella sua relazione del 1567 il rettore di Spalato scriveva che la comunità di Poglizza, lontana dalla costa e priva di un centro fortificato, alla fine era stata costretta a riconoscere la signoria ottomana (59). Di fatto, l'accesso al mare e le fortificazioni erano elementi essenziali per la sopravvivenza dei possedimenti veneziani.
Le isole egee, come Egina, Tino, Schiato e Scopelo, costituivano una sorta di Far East dello Stato veneziano. La distanza dalla metropoli, e il fatto che in genere erano amministrate da patrizi giovani e meno esperti, le trasformavano talvolta in territori di caccia sfacciata per magistrati che guardavano alla carica biennale in un'isola remota come a un'occasione per riempirsi le tasche. Non era facile controllare possedimenti tanto lontani, considerati tra l'altro di importanza secondaria, ed è probabile che a volte gli esiti fossero deplorevoli (60). Le incursioni dei pirati rappresentavano un problema endemico per le piccole isole, tanto che alcune furono quasi interamente abbandonate dagli abitanti. Un'eccezione parrebbe essere costituita dall'isola di Tino, i cui abitanti (circa 9.000 nel 1563) avevano fama di sapersi ben difendere dai pirati, che quindi - a quanto risulta da testimonianze contemporanee - giravano al largo. Il caso di Tino è dunque un buon esempio di come il benessere dei possedimenti veneziani oltremare dipendesse dalla sicurezza dagli assalti dei pirati. Stando alla relazione di un funzionario coloniale veneziano del 1563, grazie alla sua relativa sicurezza Tino era la più ricca delle isole egee, fatta eccezione per Chio. E il caso di Tino diviene particolarmente interessante dopo il 1540, quando l'isola rimase l'unico avamposto veneziano nell'Egeo - fino al 1715: a quanto pare anche gli Ottomani avevano qualche interesse a consentire un minimo di presenza veneziana nel cuore del loro Impero. Per Venezia, oltre alla sua importanza come scalo navale nell'Egeo e come centro di produzione della seta, Tino era un fondamentale punto di raccolta di informazioni sul mondo ottomano: "lanterna dell'Arcipelago", l'avrebbe definita un autore del primo Seicento (61).
I diversi territori veneziani in Dalmazia, in Albania e nella terraferma greca andrebbero considerati come gli elementi di una serie di complessi coloniali più vasti, con funzioni insieme economiche e militari. Scutari, ad esempio, era una città dell'interno, sulle rive del lago omonimo, cui si accedeva con grande difficoltà dall'Adriatico lungo il fiume Boiana. Doveva la sua importanza economica alle ricche peschiere e al fatto di essere una buona base lungo la via commerciale verso l'entroterra balcanico, ed era inoltre un indispensabile punto di raccolta di informazioni sulla complicata situazione economica e militare della regione. Ma Scutari non avrebbe potuto essere tenuta e difesa per tanti decenni se non avesse fatto parte di un complesso più vasto, che comprendeva la città costiera di Alessio, e all'interno la città fortificata di Croia con altri centri fortificati minori (62). Sistemi territoriali analoghi, costituiti da numerosi nuclei amministrativi con i rispettivi territori, esistevano anche più a sud, intorno a Durazzo, così come a nord, in Dalmazia, intorno a Zara, Nona e Novegradi, e in Istria, il cui centro principale era Capodistria. Anche i possedimenti minori lungo la costa greca nordoccidentale, come Soponto, Butrinto, Saiate, Parga, Prevesa, Arta e Lepanto, appartenevano a un complesso più vasto, il cui centro stava nelle isole ionie, a Corfù. Lo stesso valeva per Corone, Modone e Navarino, o per Nauplia e Argo nel Peloponneso, che insieme costituivano una grande entità territoriale in cui l'entroterra agricolo provvedeva alle necessità essenziali dei centri urbani. L'impostazione territoriale non assunse però connotati istituzionali prima della fine del Cinquecento, quando la carica di provveditore generale per la Dalmazia e l'Albania divenne una magistratura permanente (63).
"Ad proficuum et honorem Venetiarum": questa frase, ripetuta di continuo nelle "commissioni" assegnate ai rettori, fissava gli obiettivi di ogni aspetto della presenza veneziana oltremare. Profitto e onore per la metropoli e per i suoi abitanti, e in particolare per i patrizi (64). Per conseguire questi obiettivi occorreva difendere l'impero dalle minacce esterne, garantire la stabilità sociale ed economica nelle diverse parti dello Stato da mar, integrare l'amministrazione delle singole colonie nella più vasta rete del sistema veneziano, controllarne - in modo diretto o indiretto - le principali risorse, e incoraggiare le attività economiche che potevano incrementare l'apporto delle colonie al sistema generale.
La difesa era fonte di preoccupazioni continue, sempre più gravi a mano a mano che l'Impero ottomano, a partire dalla metà del Quattrocento, andava guadagnando in potenza e in fame di acquisizioni territoriali. La priorità assegnata alla difesa dello Stato da mar risalta chiaramente dal continuo ritornare sul tema nei dispacci e nelle relazioni dei rettori e nelle deliberazioni dei consigli a Venezia, nonché dalla nomina di magistrati di rango superiore con incarichi relativi agli aspetti militari del dominio veneziano nelle colonie più importanti, da affiancare all'amministrazione civile. Vale la pena di notare che i problemi di sicurezza riguardavano soprattutto la difesa dalle minacce esterne: le fonti veneziane indicano una preoccupazione assai minore per i pericoli interni.
La difesa di un'isola o di una colonia sulla terraferma dai nemici esterni si riduceva a due fattori principali. Il primo, di ordinaria amministrazione, riguardava le incursioni dei pirati e le razzie dall'entroterra, entrambe eventualità alquanto diffuse in tutto il Mediterraneo, ma in modo particolare nell'Egeo e nell'Adriatico (65). Occorreva anche mantenere sicure le acque intorno ai possedimenti veneziani per il traffico locale, un problema di importanza vitale per le colonie la cui sopravvivenza dipendeva dall'importazione di generi alimentari dalle zone vicine. I pirati non erano certo solo musulmani, c'erano pirati e corsari di tutti i tipi: nell'Adriatico i più famosi erano gli Uscocchi - nel 1564 Venezia li contava ormai tra i suoi problemi prioritari - ma non c'erano solo loro. Nel 1548 il provveditore a Cefalonia riferiva che quasi tutti i pirati in attività intorno all'isola erano "Leventi, Messenesi et d'altri luoghi del'Imperatore" (66). La pirateria turca imperversava invece nell'Egeo e nel Mediterraneo orientale; i possedimenti più muniti, come Creta o Cipro, erano relativamente meno esposti a questa piaga, e abbiamo visto che in qualche caso eccezionale, come quello di Tino, anche una piccola isola poteva opporre resistenza.
La difesa delle colonie dai pirati richiedeva l'intervento della marina militare. Cipro, Creta, Zante, Corfù e talvolta anche isole minori come Cerigo erano dotate di alcune galere adibite a questo scopo. Nel luglio 1480, ad esempio, una "galia da pellegrini" diretta a Cipro da ponente fu intercettata al largo da una delle galere di pattuglia, che la scortò fino a Limassol (67). Gli equipaggi di quelle galere venivano arruolati nelle colonie, e il comando era affidato a nobili locali, ma Venezia fu sempre abbastanza prudente da evitare che le unità coloniali della sua flotta prestassero servizio nelle zone d'origine.
La flotta militare non era però sufficiente. Un elemento essenziale del sistema difensivo delle colonie era costituito dai posti di guardia, con personale di origine locale - in genere contadini -, collocati nei punti più alti, che annunciavano con segnali di fumo e di fuoco l'avvicinarsi di imbarcazioni o contingenti armati sospetti. Questo sistema fu applicato in diversi possedimenti veneziani oltremare (68). Ma l'elemento principale della difesa territoriale fu costituito da cavalleggeri. Nei territori oltremare Venezia preferiva tenere truppe non indigene, ma non sempre la regola poteva essere rispettata alla lettera. Nella seconda metà del Quattrocento la Repubblica cominciò a utilizzare un tipo particolare di cavalleria leggera, gli "stradioti", reclutati di regola in Grecia e in Albania e impiegati soprattutto per la difesa dei domini d'oltremare - sorveglianza delle coste e interventi contro la pirateria. Erano mal pagati e tendevano a lasciarsi assorbire dalle società che avrebbero dovuto difendere. A Cipro e altrove alcuni di essi ottennero terre sulle quali insediarsi con le loro famiglie, e privilegi fiscali: un sistema di colonizzazione militare che presentava qualche vantaggio nelle fasi iniziali, in quanto gli stradioti traevano di che vivere dalle risorse delle colonie e Venezia non doveva provvedere al loro mantenimento. Nel lungo periodo, però, evidenziò gravi difetti, perché i coloni stradioti si trasformavano volentieri in contadini, accesi difensori dei privilegi fiscali, ma assai meno entusiasti quando si trattava di espletare i loro doveri militari. Comunque sia, la fedeltà degli stradioti a Venezia fu comprovata in ripetute occasioni, non soltanto nelle operazioni militari ma anche laddove una colonia veneziana cadeva nelle mani dei Turchi. In questi casi - ad esempio dopo la perdita delle colonie peloponnesiache di Corone e Modone nel 1501, o dopo la caduta di Nauplia e Malvasia nel 1540 - gli stradioti sopravvissuti si reinsediarono tutti in altre colonie veneziane (69).
La difesa delle colonie da un esercito invasore organizzato era ovviamente tutt'altra faccenda. Soprattutto nel Cinquecento, richiedeva un grande impegno e enormi risorse finanziarie, essendo fondata la strategia veneziana sulla fortificazione dei principali centri urbani secondo le regole delle nuove tecniche militari. I maggiori centri dello Stato da mar furono progressivamente ristrutturati, in qualche caso demolendo interi quartieri e modificando radicalmente l'assetto urbano. Spesso l'iniziativa di queste grandi opere partiva dai sudditi delle colonie, che rivendicavano il diritto a essere meglio difesi dai possibili attacchi: un'eventualità che in pratica si riduceva sempre al rischio dell'invasione ottomana. A Candia, Canea, Suda, Corfù, Zara, Sebenico, Famagosta, Cerines (Kerynia) e Nicosia - per dire solo dei cantieri principali - furono avviati grandi progetti di rifortificazione (70). Per evidenziare l'importanza attribuita da Venezia a questi progetti, basterebbe ricordare che nel 1518 e nel 1520, quando era ancora fresco il trauma della temporanea perdita della Terraferma nella guerra della lega di Cambrai, ingenti somme destinate alla difesa di Treviso, Padova, Vicenza e Brescia furono dirottate sulla fortificazione di Corfù (71). Alcune delle nuove fortificazioni marittime ebbero modo di dimostrare la propria efficacia durante le due guerre con gli Ottomani (1537-1540, 1570-1571). In altri casi, come a Nicosia, si constatò che le nuove mura di tipo moderno non bastavano per difendere una città assediata. L'esperienza delle guerre veneto-ottomane - ad esempio le tragiche vicende dell'assedio turco di Corfù nel 1537, quando la popolazione non combattente fu allontanata dalla città, rimanendo alla mercè del nemico indusse i sudditi veneziani d'oltremare a costruire complessi fortificati ("ridotti", "cinte") all'esterno dei centri urbani principali, in cui la popolazione rurale e il bestiame potessero trovare riparo nei momenti di emergenza (72). Queste opere erano in larga misura finanziate da contributi di diverse categorie di sudditi coloniali, e con l'assegnazione di quote sulle entrate di altri territori, ma spesso Venezia doveva intervenire con qualche migliaio di ducati del proprio. La sua disponibilità a farlo dimostra l'importanza attribuita allo Stato da mar dai governanti della Repubblica marinara (73).
In alcune colonie le forze terrestri comprendevano contingenti di leve feudali: a Cipro e Corfù il sistema traeva origine nelle tradizioni ereditate dai regimi precedenti, mentre a Creta derivava dalle modalità della colonizzazione veneziana nel Duecento. Nel Quattrocento, però, il vecchio sistema feudale aveva ormai perduto buona parte del suo valore militare, e Venezia non contava più sul suo apporto per la difesa dei domini marittimi. Gli stradioti, impiegati di regola contro i pirati, venivano naturalmente utilizzati anche in guerra. Un'altra componente dell'organizzazione militare veneziana nelle colonie era costituita dalla fanteria italiana, inviata da Venezia per periodi di tempo limitati, e in contingenti alquanto ridotti, se non quando la situazione militare ne imponeva il rafforzamento. Come l'apparato militare in Terraferma, queste unità non erano necessariamente costituite da sudditi veneziani: c'erano artiglieri e genieri, con il loro equipaggiamento, e spesso gli ufficiali erano nobili locali, o provenienti da altri territori veneziani. Questi soldati di professione rappresentavano un onere finanziario che, ovviamente, Venezia tendeva a ridurre al minimo; i contingenti di stanza oltremare in tempo di pace erano quindi relativamente esigui, e mal pagati (74).
Una parte consistente della difesa delle proprie terre ricadeva dunque sulle spalle dei sudditi; e la guardia costiera, cui si accennava più sopra, non era che un aspetto marginale. Nel Cinquecento fu organizzata in diverse colonie da mar, come Cipro, Creta, Zante, Cefalonia, Cerigo, Zara, Sebenico, Spalato e le isole dalmate, una milizia contadina, le "cernide", sul modello della struttura esistente nella Terraferma veneziana. I contadini venivano armati e addestrati periodicamente, e presero parte a diverse operazioni militari, come la difesa di Cipro dall'invasione ottomana. Evidentemente Venezia non avrebbe armato i contadini delle sue colonie se non avesse potuto contare su un buon grado di fedeltà e obbedienza (75).
I sudditi delle colonie d'oltremare, e soprattutto della Dalmazia, delle isole ionie e di Creta, venivano reclutati in gran numero anche per il servizio sulle galere militari. In ciascuna località l'amministrazione coloniale doveva tener nota degli "huomini da fatti" considerati abili per la mobilitazione. Gli equipaggi delle galere venivano arruolati anche a Venezia e in Terraferma, ma l'apporto delle colonie d'oltremare era assai più cospicuo, in proporzione alla consistenza demografica dello Stato da mar. Nei momenti di emergenza veniva aumentato il numero fisso delle galere della flotta da guerra alle quali le colonie erano normalmente tenute a provvedere. A Creta ad esempio, che nel corso del Quattrocento provvedeva di regola a due galere, fu richiesto nel 1467 - durante la guerra con gli Ottomani - di armarne altre sei o otto (76). Delle quaranta galere che il senato decise di mobilitare nel 1513, ventisette dovevano essere armate nelle colonie, di cui dodici a Creta, due a Corfù, due a Zara e una ciascuna nelle seguenti colonie: Nasso, Zante e Cefalonia (una per le due isole), Nauplia, Cattaro, Traù e Spalato (una per entrambe), Sebenico, Curzola, Lesina, Capodistria, Brazza, Pago, Cherso e Ossero (una per le tre isole). Nel 1524, aprendo una campagna di arruolamento per tremila marinai salariati per le galere, il senato si rivolgeva a "Histriani, Dalmatini, Murlachi, Albanesi et Greci", ed escludeva i Ciprioti e i Cretesi, "riservati per altri bisogni" (77). Stando a una relazione del 1534, 755 Corfioti prestavano allora servizio nell'"armata" veneziana (78). Nel 1539, nel pieno della guerra con gli Ottomani, il senato ordinò l'armamento di ventuno galere a Creta, oltre alle quattro alle quali di norma l'isola già provvedeva all'epoca (79). Non sempre le richieste del senato potevano essere soddisfatte appieno: nel 1442 risultò che nei dodici anni precedenti Tino e Micono non avevano armato alcuna galera, nonostante le ingiunzioni del senato (80). D'altra parte, queste pressioni potevano avere effetti negativi sulle società coloniali: negli anni Settanta del Cinquecento un rettore veneziano riferiva che "il nome di gallea è aborrito in quel regno", e molti Cretesi preferivano fuggire sulle montagne per evitare l'arruolamento (81).
Le fortificazioni e i contingenti militari non bastavano comunque a difendere le colonie dagli invasori: la raccolta di informazioni era un altro fattore fondamentale, e lo Stato da mar era una fonte inestimabile di notizie su quanto accadeva nel Mediterraneo, in particolare sui movimenti della flotta e dell'esercito del Sultano. Al primo segno di movimento della flotta o dell'esercito in qualsiasi direzione, alla prima notizia di attività fuori dall'ordinario nell'arsenale di Istanbul, l'invio di dispacci da tutti i possedimenti veneziani d'oltremare assumeva un ritmo febbrile. I diari di Marin Sanudo (1496-1533) ben riflettono flussi e riflussi di quella marea di informazioni: prima e durante la guerra veneto-turca del 1499-1501, durante l'invasione ottomana della Siria e dell'Egitto (1516-1517), la conquista di Rodi (1522), la campagna in Ungheria (1526), Venezia fu subissata dalle notizie, vere o false, sui movimenti dei Turchi provenienti dai suoi domini nell'Egeo, a Creta, a Cipro, in Albania e in Dalmazia.
La difesa dalle minacce esterne era una delle condizioni necessarie perché i Veneziani potessero godere del profitto e dell'onore derivanti dalle colonie oltremare. Un'altra condizione era quella della stabilità interna, anch'essa tenuta in grande considerazione dal governo veneziano. "Nihil enim est quod magis satisfaciat populis quam in suis vetustis rebus conservari", recita il preambolo a una parte del 1474 riguardante Cipro (82). E infatti, almeno nelle fasi iniziali del dominio veneziano, la conservazione della struttura legale, sociale e istituzionale precedente fu la chiave di volta della politica di Venezia nello Stato da mar, nella misura in cui essa non entrava in conflitto con gli interessi o l'esercizio della sovranità della Repubblica. Nell'ambito del diritto penale, in linea di principio gli statuti veneziani venivano applicati in tutto l'impero, sebbene si possano individuare segni di rispetto per le tradizioni legali locali nei "capitoli" di diverse città soggette, oltre che nelle istruzioni della Signoria ai suoi magistrati coloniali. In altri ambiti però, fatta eccezione per pochi e limitati cambiamenti considerati indispensabili, le consuetudini fiscali, finanziarie, giudiziarie e amministrative del luogo, così come gli organismi responsabili della loro applicazione, furono quasi sempre confermati nei nuovi possedimenti acquisiti da Venezia in questo periodo. E anzi, a volte fu la stessa Repubblica a sanzionare quelle antiche consuetudini prescrivendone la codificazione, per garantire un più ordinato funzionamento del sistema giudiziario nelle colonie. Ad esempio, le consuetudini feudali della Romània latina furono codificate in dialetto veneziano a metà Quattrocento, dopo essere già state ufficialmente sanzionate a Negroponte, Nauplia, Corone e Modone; furono poi imposte a tutti i territori veneziani della Grecia, Creta esclusa (83). Analoga procedura fu applicata a Cipro nel 1531, con la traduzione e codificazione delle assise della Haute Cour e della Cour des bourgeois (84).
L'apparente continuità fu però soltanto il punto di partenza per un lento processo di adattamento costituzionale e giuridico, che andò trasformando per gradi le consuetudini e le istituzioni locali, armonizzandole con i principi di governo veneziani,
e correggendole secondo il mutare delle circostanze. Il sistema giudiziario veneziano nelle colonie era caratterizzato da una notevole flessibilità, lasciando ampia libertà ai magistrati, invitati a giudicare "prout sibi secundum deum et justitiam et honorem nostrum videbitur": un modus operandi, questo, che dimostrò di poter garantire una buona misura di continuità e di stabilità (85).
Il caso di Cipro, relativamente ben documentato, è un buon esempio del modo in cui questa politica fu applicata. Con la formale annessione dell'isola nel 1489, la Repubblica ratificò le tradizioni giuridiche locali e buona parte delle istituzioni esistenti. La Haute Cour cipriota, però, che sotto i Lusignano aveva avuto autorità suprema nell'interpretazione delle consuetudini feudali del Regno, fu abolita, in quanto la sua esistenza avrebbe ostacolato la libertà d'azione di Venezia nell'isola, e avrebbe potuto anche prestarsi ad essere interpretata come una limitazione della sua sovranità. Col passare del tempo, comunque, nei due capoluoghi ciprioti di Nicosia e Famagosta furono istituiti nuovi consigli urbani, che andarono progressivamente assumendo una serie di responsabilità nell'amministrazione del Regno, e nell'elezione di Ciprioti a cariche di rilievo come i governatorati locali o i vescovadi greci. Venezia istituì persino un consiglio distinto per gli esponenti popolari della cittadinanza di Nicosia (86).
La concessione di alcuni diritti agli elementi popolari, in cui ci si imbatte anche in altri territori, non dovrebbe però indurci a conclusioni sbagliate. La Repubblica patrizia preferì sempre operare in collaborazione con le oligarchie locali che, nella maggior parte dei casi, continuarono a godere dei loro privilegi sociali ed economici e anzi spesso videro rafforzata la loro posizione sotto il dominio veneziano. La collaborazione delle oligarchie locali era indispensabile per il mantenimento della stabilità sociale e per l'ordinato funzionamento della macchina governativa nelle colonie. Sotto Venezia, i nobili ciprioti svolsero un ruolo importante nell'amministrazione del Regno, non solo in quanto proprietari terrieri e garanti dell'ordine sociale esistente, ma anche come governatori provinciali, magistrati, esponenti dei consigli urbani, ufficiali militari e commissari del fisco (87). A Corfù i membri delle classi superiori occupavano le cariche minori nell'isola, ma prestavano servizio anche come governatori o castellani nelle piccole dipendenze veneziane sulla terraferma greca prospiciente, come Butrinto, Saiate, Parge e Lepanto (88). L'oligarchia di Spalato svolgeva funzioni analoghe nel vicino comune dalmata di Poglizza (89). I patrizi zaratini potevano accedere a diverse cariche amministrative in città e nel territorio, e prestavano inoltre servizio come ufficiali nelle colonie (90). Venezia riuscì sempre a trovare sudditi locali più che disposti all'esercizio di queste funzioni, ambitissime dai maggiorenti delle comunità in tutto lo Stato da mar.
L'applicazione dei principi di questa politica coloniale dipendeva in buona misura dai magistrati veneziani. Nei possedimenti maggiori, gli affari civili e quelli militari venivano amministrati da funzionari diversi. "Rettore" era il termine generico per designare un governatore veneziano, ma i magistrati civili di rango superiore nelle diverse colonie portavano titoli diversi: "duca" a Creta, "bailo" a Negroponte, "luogotenente" a Cipro. In molti casi, soprattutto nei domini maggiori, il rettore principale era affiancato da uno o due consiglieri, e da funzionari finanziari detti "camerlenghi": insieme con il governatore civile, questi costituivano un organismo detto "reggimento", che prendeva le decisioni per voto di maggioranza. I magistrati militari superiori erano detti in genere "capitani", ma nelle occasioni particolari in cui occorreva un'autorità più alta veniva inviato da Venezia un "provveditore", un titolo, quest'ultimo, che però spettava anche ai governatori di alcuni possedimenti minori come Zante e Cerigo. Tra le cariche minori c'erano le castellanie e i reggimenti più piccoli: il capitano di Cerines a Cipro, il castellano di Famagosta, i castellani di diverse piazzeforti in Istria e in Dalmazia, e così via. Nelle colonie minori le funzioni civili e quelle militari si fondevano nella figura di un unico rettore veneziano - "bailo e provveditore" a Corfù, "conte e capitano" a Zara, podestà a Budua. Erano tutti patrizi veneziani eletti a quelle cariche dal maggior consiglio, e prestavano servizio nelle rispettive colonie per un periodo di tempo prestabilito, in linea di principio non superiore ai due anni. Ai patrizi in partenza per le colonie veniva consegnata una "commissione", contenente tutte le deliberazioni pertinenti dei consigli veneziani, per indirizzarli nell'esercizio della carica; al ritorno a Venezia dovevano presentare una dettagliata "relazione". In questo sistema, che non era riservato allo Stato da mar ma valeva per l'intero Stato veneziano, si riflettevano i principi di governo della Repubblica, fondati sull'elettività, sulla rotazione delle cariche, sulla deliberazione collettiva, sulla decisione per voto di maggioranza, sulla responsabilità pubblica e sulla distribuzione dell'autorità tra diversi centri di potere (91).
Ogni paio d'anni occorreva assegnare tutti questi incarichi nell'intero Stato da mar, e dunque il numero dei patrizi che si avvicendavano nelle cariche era davvero alto: Marin Sanudo, che enumerò tutte le magistrature dello Stato veneziano sullo scorcio del XV secolo, ne elencava 112 nello Stato da mar (rispetto alle 116 della Terraferma) (92). Si trattava per lo più di cariche minori. A mo' di esempio, seguendo l'itinerario di Marin Sanudo nell'ispezione delle colonie del 1483, nella sola Istria incontriamo venti rettori veneziani con titoli di vario genere (per lo più "podestà"), nei seguenti centri: Capodistria (due magistrati), Muge (Muggia), Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Ruigo (Rovigno), Pola, Raspo, Buie, S. Lorenzo di Pasnadego, Portole, Grisignana, Pimonti (Pinguento), Pignan, Albona, Fianona e Marmaran (93). Per molti patrizi queste cariche minori costituivano una indispensabile fonte di reddito e inoltre preparavano i più giovani alle cariche superiori, nelle colonie più importanti. Agli incarichi di massimo livello - duca di Creta, luogotenente di Cipro, o capitano in uno dei due "Regni" - sedevano i patrizi più esperti e prestigiosi, che venivano riccamente retribuiti (94).
Non era sempre possibile impedire ai funzionari coloniali di approfittare della permanenza nei territori d'oltremare per favorire i propri interessi personali. A volte il periodo in carica nelle colonie consentiva ai patrizi veneziani di combinare alleanze matrimoniali con le figlie dei maggiorenti locali (95); si dava il caso che patrizi che già avevano interessi in certe colonie cercassero di ottenervi incarichi governativi; e non sempre il divieto ufficiale per i rettori veneziani di occuparsi di commercio o di altri affari nel periodo in cui erano in carica veniva rispettato alla lettera (96). Tutto sommato, comunque, nonostante diverse irregolarità, parrebbe che l'amministrazione coloniale funzionasse abbastanza bene - dal punto di vista di Venezia - permettendo alla metropoli di godere dei frutti del suo dominio senza suscitare troppi risentimenti. In molti casi i magistrati coloniali svolsero il loro compito nel modo più coscienzioso, ispirati dai valori rinascimentali del dovere pubblico e del patriottismo. Si rimane spesso impressionati di fronte a magistrati veneziani che dedicano ogni loro energia all'organizzazione degli approvvigionamenti in tempo di carestia, che rischiano la vita in tempo di peste, che cercano affannosamente rimedi per un'invasione di locuste, o che elaborano nuovi sistemi per le forniture idriche (97).
Oltre ai patrizi, incontriamo funzionari del ceto cittadinesco - e non pochi cittadini delle colonie stesse o di altri possedimenti veneziani - impiegati nelle burocrazie coloniali come cancellieri, notai, scrivani e contabili. Questi incarichi venivano spesso acquistati, e in qualche caso passavano persino di padre in figlio, o nipote: poiché venivano considerati come una sorta di proprietà, e poiché non era prevista un'età precisa di pensionamento, era frequente che l'esercizio vero e proprio venisse ceduto a una terza persona, mentre il titolare percepiva buona parte del reddito rimanendo a Venezia, o altrove (un sistema tipico non soltanto dello Stato da mar, ma dell'intera amministrazione veneziana) (98). A questo livello amministrativo, tanto lo Stato da mar che la Terraferma offrivano molte occasioni di lavoro qualificato a un personale proveniente da ogni parte dei domini veneziani.
Il controllo sull'amministrazione coloniale avveniva a diversi livelli: i rettori dovevano riferire regolarmente su tutto quanto avveniva nelle rispettive colonie alla Signoria, al senato o, soprattutto a partire dal tardo Quattrocento, al consiglio dei dieci, e da quei consigli ricevevano l'approvazione definitiva per ogni decisione di qualche rilievo. La contabilità locale andava periodicamente consegnata ai "savi alla scrittura" (99). Le decisioni giudiziarie dei magistrati coloniali potevano essere appellate di fronte agli organismi giudiziari centrali della Repubblica (100). Rientrati a Venezia, i rettori dovevano presentare al collegio una relazione scritta esauriente, che poi veniva letta di fronte al senato. I rendiconti finanziari dei rettori uscenti andavano presentati al controllo degli "ufficiali delle rason vecchie", o ai magistrati nominati appositamente per questo scopo (101). Venivano inoltre predisposte, ogni qualche anno, ispezioni di "sindici" che visitavano una serie di colonie per controllare l'amministrazione e consentire ai sudditi locali di presentare le loro doglianze a un'autorità superiore senza dover affrontare un lungo viaggio (102), e in più di un'occasione le ispezioni si conclusero con un rettore trascinato a Venezia in catene per affrontare un processo per appropriazione indebita, o per altri abusi (103).
La situazione coloniale sin qui delineata trova evidente conferma anche nella sfera religiosa. I sudditi dell'impero veneziano d'oltremare erano in maggioranza non cattolici: nelle città costiere dell'Istria, della Dalmazia e dell'Albania le classi superiori erano per lo più di cultura italiana e cattolica, ma nei ceti popolari e tra i contadini prevalevano le culture slava e albanese (104). A Cipro, e in misura minore a Creta, esistevano anche gruppi minoritari come gli Armeni, i Maroniti, i Copti, i Melchiti, i Nestoriani e i Giacobiti (105); gli Ebrei erano presenti quasi ovunque nello Stato da mar, con le concentrazioni maggiori a Creta e Corfù (106). Il gruppo culturale e religioso più importante era però costituito dai Greci. La Chiesa romana e quella ortodossa si confrontavano da secoli e sul rapporto di Venezia con i suoi sudditi greco-ortodossi pesava l'amara memoria delle lunghe, e a volte sanguinose, contese intorno alle questioni teologiche, ai riti, e spesso a materie più mondane quali l'autorità politica, la proprietà o la gerarchia ecclesiastica. A Creta non era ammessa la presenza di un vescovo greco e per ottenere l'ordinazione i preti ortodossi dovevano recarsi altrove, a Modone, a Zante o a Cipro. A Cipro e Zante, dove Venezia ereditò un ordinamento ecclesiastico da tempo consolidato, i vescovi greci erano suffraganei dei rispettivi superiori romani. Le colonie veneziane furono forse l'unica area in cui l'unione delle Chiese romana e bizantina, proclamata dal Concilio di Firenze nel 1439, venne presa sul serio, o meglio venne utilizzata per giustificare la situazione esistente, in cui i Greci erano obbligati a riconoscere la superiorità di Roma (107).
Per quanto relativamente tollerante nei confronti dei sudditi non cattolici in materia di riti e tradizioni religiose, Venezia fu inflessibile nel riservare alla gerarchia cattolica le massime cariche e le principali fonti di rendita ecclesiastica nelle sue colonie. I vescovadi e gli arcivescovadi dello Stato da mar venivano in genere destinati a sudditi veneziani, e nella maggior parte dei casi i più importanti venivano affidati a patrizi o cittadini di Venezia. Nel 1423, dopo la prima fase dell'espansione in Dalmazia, il senato decretò che in quella regione solo i cittadini veneziani potessero essere vescovi, e il medesimo principio fu applicato a Cipro dopo la sua annessione all'impero serenissimo (108). Nel 1488 fu deciso che i benefici che valevano fino a 60 ducati potevano essere assegnati a cittadini delle rispettive colonie, ma dovevano essere Latini, o quantomeno Levantini latinizzati (109). Elencando nel 1512 i vescovadi e gli arcivescovadi dello Stato veneziano, Marin Sanudo ne conta venticinque nello Stato da mar (rispetto ai nove della Terraferma), cinque dei quali erano arcivescovadi (110). In realtà l'elenco di Sanudo è incompleto, perché all'epoca lo Stato da mar contava trentaquattro vescovadi, di cui sei arcivescovadi (111), ma anche limitandoci ai dati da lui forniti è interessante osservare che dei venticinque benefici maggiori elencati, otto (tra i quali tre arcivescovadi) erano occupati da patrizi veneziani, sei da sudditi veneziani di Bergamo, Brescia (due vescovi), Zara, Vicenza e Padova, tre da persone che vengono identificate come veneziane, o che comunque possiamo considerare tali in base ai loro cognomi, e tre da persone che Sanudo non nomina. Anche dopo Agnadello, quando il senato veneziano fu costretto a rinunciare al diritto di nominare la maggior parte dei vescovi, molto spesso l'elezione papale veniva aggirata con diversi stratagemmi, come la "renuncia" in favore di un parente, i patteggiamenti ("composizioni"), e altro (112) Le prelature dei territori d'oltremare venivano usate come strumenti di controllo e sfruttamento coloniale, e le rendite dei benefici maggiori confluivano su Venezia. Nel primo Cinquecento, ad esempio, la rendita annua dell'arcivescovado di Nicosia veniva stimata in 6.000 ducati; aggiungendovi quelle degli altri tre vescovadi ciprioti, la rendita annua dei prelati cattolici dell'isola ammontava a 10.500 ducati (113). Non erano molti i prelati dello Stato da mar che godessero di tanto reddito, né tutti i vescovi erano veneziani - e ci fu persino qualche prelato cattolico, soprattutto nel Cinquecento, che esercitò di persona le proprie funzioni nella sua diocesi (114). Cionondimeno, il totale delle rendite ecclesiastiche che ogni anno affluiva dalle colonie a Venezia era senza dubbio notevole.
Venezia era ben consapevole della sensibilità dei sudditi greci in materia religiosa e dello stretto rapporto tra la sfera religiosa e la stabiliti sociale e politica nelle sue colonie. Nel 1462 il senato fu informato della scoperta, nell'isola di Egina, della testa di san Giorgio martire: il trasferimento della santa reliquia a Venezia può ben essere considerato come una sfacciata manifestazione di colonialismo religioso, ma Venezia fu abbastanza prudente nelle sue istruzioni al capitano della flotta, ordinandogli di ottenerla con la persuasione, senza ricorrere, a qualsiasi costo, all'uso della forza (115). Vale la pena di osservare che la Repubblica fu sempre bene attenta a evitare che i rappresentanti della Chiesa romana suscitassero conflitti con i suoi sudditi greco-ortodossi. Quando l'arcivescovo di Cipro Filippo Mocenigo (1560-1571) tentò di obbligare il clero greco a pubblicare i decreti del Concilio di Trento, il consiglio dei dieci intervenne subito a raffreddare gli zelanti entusiasmi del prelato e scrisse al papa, spiegandogli "il moto grande che sarebbe in tutto il Levante, quando si tentasse di alterar li riti de Greci, per tanti et tanti anni osservati et tolerati, et quai scandali una tal inovatione potrebbe parturire a danno di tutta la Christianità" (116).
Fino a quando durò l'Impero bizantino, l'ortodossia presentava anche implicazioni politiche che rischiavano di mettere a repentaglio la stabilità nelle colonie veneziane. A Creta assai più che altrove, l'identità greco-ortodossa si avvicinava molto a quella che potremmo definire una coscienza nazionale, stimolata dal clero greco che, in diverse occasioni, si mise alla guida di vere e proprie insurrezioni. Le più gravi di queste, nel periodo in esame, furono la cosiddetta congiura di Siphis Vlastòs, nel 1453-1454, e le successive ribellioni del 1460-1462 (117). Il clero greco fu sempre considerato come un elemento potenzialmente sovversivo, e diverse esplosioni di malcontento videro coinvolti i preti ortodossi (118).
Nondimeno, a partire dal tardo Quattrocento Venezia venne progressivamente assumendo un ruolo che il cardinale greco Bessarione ebbe a definire di "quasi alterum Byzantium". Con la sua importante comunità greca in città, le sue tipografie greche, e la consapevolezza di presentarsi come metropoli agli occhi di un gran numero di sudditi greci delle colonie d'oltremare, Venezia adottò nei loro confronti una politica improntata alla moderazione, alla quale essi risposero in genere in modo positivo. Gli esiti culturali di questo ravvicinamento ebbero enorme importanza nel periodo rinascimentale, sia in Italia che nei possedimenti veneziani d'oltremare - soprattutto a Creta. Non va però dimenticato che nelle colonie queste tendenze culturali riguardavano soltanto una parte limitata della società urbana (119).
Il Rinascimento fu probabilmente l'ultimo periodo nella lunga storia della Repubblica in cui lo Stato da mar ebbe un ruolo di primo piano nell'economia veneziana. Il contributo delle colonie al commercio marittimo internazionale di Venezia, e attraverso di esso alle ingenti rendite doganali della Repubblica, era ancora considerevole. La disposizione geografica dello Stato da mar, lungo le rotte verso il Mediterraneo orientale, dimostra chiaramente il nesso strettissimo tra la politica di sfruttamento coloniale e il commercio marittimo. Da Venezia all'Adriatico meridionale si navigava soprattutto bordeggiando, e anche oltre l'Adriatico le navi passavano più tempo nei porti veneziani che in alto mare (120). Frate Felix Fabri, che fece due volte il viaggio da Venezia al Levante - nel 1480 e nel 1483 - descrive la rotta delle galere da mercato sulle quali ritornò a Venezia da Alessandria. Ostacolate dalle avverse condizioni atmosferiche le galere, organizzate in tre distinti convogli, vagarono per il Mediterraneo orientale nel disperato tentativo di rientrare in patria. Va rilevato che buona parte degli scali in cui trovarono riparo erano colonie o protettorati di Venezia: Pafo, Ios, Sifno, Milo (dove equipaggi e passeggeri dei tre convogli consumarono un banchetto pantagruelico), Modone (dove, a dire di Fabri, furono caricati 6.000 maiali sotto sale e un'enorme quantità di arance), Paxo, Corfù, Curzola, un'isoletta innominata di fronte a Sebenico, Zara, Rovigno e Parenzo (121). Queste ed altre colonie offrivano una serie di risorse estremamente utili al buon funzionamento del commercio marittimo di Venezia: cibo, acqua e riparo per gli equipaggi, cantieri per la manutenzione delle navi, notizie su quanto accadeva lungo la rotta, magazzini per le merci che non dovevano rimanere in terra straniera ma non potevano essere trasferite direttamente a Venezia (Modone, Corfù, Creta e Cipro erano gli empori principali del commercio veneziano). Inoltre, nelle colonie le navi veneziane erano al riparo dagli arbitrii dei governi o dei funzionari stranieri - nei porti altrui, persino le guardie potevano assumere atteggiamenti ostili. Quando era necessario, le navi veneziane riparate nelle colonie d'oltremare potevano costituire convogli per garantirsi una maggiore sicurezza; e naturalmente le colonie offrivano vantaggi fiscali ai vettori e alle merci veneziane. Erano buoni mercati per i prodotti di Venezia, e con i loro prodotti consentivano alle navi di completare il carico: ogni giorno Venezia riceveva generi alimentari, legname e materiali per l'edilizia dai vicini territori dell'Adriatico; il vino di Creta, lo zucchero e il cotone da Cipro, l'olio di Corfù, la seta di Tino riempivano le stive delle navi sulla via del ritorno a Venezia.
In diversi possedimenti, come Creta, Cipro, Zante e Zara, parecchi sudditi coloniali disponevano di imbarcazioni proprie, quasi sempre di piccole o medie dimensioni, che in genere percorrevano rotte più brevi di quelle solcate dai grandi mercantili veneziani. Soprattutto nell'Adriatico il commercio marittimo (spesso di contrabbando) tra i centri dalmati e albanesi e le vicine regioni italiane e balcaniche era senza dubbio tra le risorse principali dell'economia coloniale. Nel 1559 Antonio Zane, consigliere di Cipro, osservava che tra quell'isola e le vicine coste egiziane, siriane e anatoliche ferveva incessante l'attività di un numero infinito di imbarcazioni, tutte armate da Ciprioti (122). Le colonie d'oltremare costituivano un'indispensabile riserva di personale qualificato per le navi veneziane: stando a una relazione del 1534, in quel momento la flotta mercantile impiegava ben 639 Corfioti; e buona parte dei piloti delle navi veneziane erano sudditi delle colonie d'oltremare (123).
Il sale era un elemento fondamentale dell'economia coloniale veneziana. Quasi tutte le colonie disponevano di saline sottoposte, in linea di principio, al monopolio dello Stato. Nell'Adriatico però, soprattutto dopo il 1460, solo la metà circa della produzione veniva portata a Venezia, mentre il resto veniva ripartito tra il consumo locale e altri mercati. I provveditori al sal veneziani provvedevano alla distribuzione del sale coloniale presso un'ampia varietà di consumatori, non soltanto in città ma in tutta la terraferma italiana, e spesso anche oltre i confini dello Stato. La crescita demografica in Terraferma a partire dal tardo Quattrocento comportò un aumento del reddito dalla commercializzazione del sale coloniale. Nel 1521-1522 la rendita annuale delle vendite effettuate dall'ufficio del sale ammontava a 159.820 ducati, un terzo dei quali provenienti dalla vendita di sale cipriota (124), il cui trasporto, come abbiamo già detto, contribuiva al finanziamento della cantieristica a Venezia. Nel 1514 il papa riuscì a impedire il trasporto di sale veneziano lungo il Po, ostacolandone lo smercio presso gli altri Stati dell'Italia settentrionale; Venezia fu quindi costretta a cercare altri mercati, all'interno e all'esterno dei propri confini - a partire dalla metà del Cinquecento, ad esempio, grossi quantitativi di sale prodotto a Pago venivano utilizzati per salare le sardine nell'isola di Lesina. Un altro importante mercato per il sale prodotto sulle coste e nelle isole dell'Adriatico era costituito dai territori ottomani. A Sebenico i Morlacchi, sudditi ottomani dell'entroterra, scendevano sulla costa per acquistare sale in cambio di grano, formaggio, frutta, lana e altri prodotti. I profitti delle saline venivano ripartiti tra le autorità locali veneziane e un emin ottomano della zona (125).
Lo sfruttamento della dominazione coloniale dipendeva in buona misura da un'oculata amministrazione finanziaria, la cui direttrice principale era data dal costante impegno a garantire che le rendite e le risorse dei possedimenti bastassero a coprire tutte le spese necessarie alla loro amministrazione e difesa, dirottando nel contempo verso la metropoli ogni altra rendita disponibile. Un altro indirizzo costante del sistema coloniale veneziano era il trasferimento delle eccedenze di una "camera" a copertura delle spese di un'altra: nel 1413, ad esempio, Nauplia produsse un'eccedenza che fu dapprima trasferita a Creta, e poi fu utilizzata dagli officiales armamenti; nel 1425 una somma di denaro fu inviata da Nauplia a Modone; nel 1553 Cherso e Ossero finanziarono Zara (126). Non è però sempre facile individuare i diversi metodi di sfruttamento delle risorse, né valutarne la portata. Ad esempio, le enormi rendite del monopolio del sale, integralmente derivate dallo sfruttamento delle risorse coloniali, non comparivano di regola nella contabilità delle camere locali (127). L'imposizione della moneta veneziana, coniata appositamente per i domini d'oltremare, era un'altra forma di sfruttamento indiretto. Un documento del 1386 dimostra che il profitto ricavato da Venezia dal conio del "tornesello" - una moneta di buglione destinata ai territori greci - rappresentava un valore aggiunto del 44% sul suo valore intrinseco. Sotto il doge Andrea Contarini (1382-1400), ogni anno venivano inviati in Grecia cinque milioni e mezzo di queste monete (128). Nemmeno le somme versate a Venezia per l'acquisizione di proprietà o cariche oltremare compaiono nei bilanci delle rispettive colonie. E ovviamente i documenti ufficiali ci consentono ben di rado di valutare i profitti derivanti dalle attività nell'economia coloniale dei privati cittadini - e persino di alcuni ecclesiastici - veneziani. I dispacci e le relazioni degli amministratori coloniali non fanno che lamentare le condizioni in cui versano le rispettive camere; quasi sempre le lamentele riflettono reali difficoltà finanziarie, ma dobbiamo stare ben attenti a non confondere i bilanci in deficit delle singole colonie con la redditività complessiva dell'impero veneziano.
La ragion d'essere del colonialismo, quanto meno nella sua manifestazione veneziana, è soprattutto economica. Tra il 1381 e il 1571 lo Stato da mar fu occupato, ampliato e difeso perché portava profitto a Venezia e ai suoi cittadini "proficuum et honorem", ma innanzitutto - "proficuum". In quest'ottica, le colonie svolgevano una triplice funzione: erano indispensabili punti di appoggio per la rete internazionale del commercio marittimo; di quella rete, erano gli empori e i centri di smistamento; e infine - aspetto tutt'altro che secondario - le loro risorse naturali e umane venivano sfruttate in diversi modi non soltanto per trasferire ricchezze dalla periferia al centro, ma anche per consentire a Venezia di non utilizzare risorse proprie per conservare l'impero da mar. L'idea che in questa fase esso rappresentasse un onere economico merita un riesame (129): è impensabile che Venezia arrivasse ad offrire - come fece dopo la perdita di Negroponte e di Cipro - somme immense per tentare di riacquistare i territori perduti, se il governo della Repubblica non fosse stato convinto della saggezza economica di tanto investimento. L'onore aveva la sua importanza, certo, ma la disponibilità a pagare 250.000 ducati per Negroponte, o una pensione annuale di ioo.000 ducati per Cipro, senza prevedere di ricavarne quantomeno un guadagno equivalente, sarebbe stata in stridente contrasto con la logica stessa della politica coloniale veneziana.
Lo Stato da mar si caratterizzava per l'assenza di una qualsiasi omogeneità geografica, culturale o geopolitica: era Venezia a fornire gli elementi di coesione a quell'insieme eterogeneo di territori distinti. Venezia si dimostrò maestra nel comporre quegli elementi disparati in un unico sistema, unendo la massima flessibilità all'attenzione costante a un inquadramento comune che le consentisse di amministrare il suo impero d'oltremare vigilando oculatamente sul suo sviluppo. In molti casi la Repubblica riuscì persino a trasformare gli abitanti di quei territori in sudditi fedeli, meritevoli della definizione ad essi riservata dai consigli veneziani: "fedeli nostri".
Nel corso dei due secoli oggetto di questa rassegna, i confini dell'impero d'oltremare subirono frequenti cambiamenti, a fronte di fenomeni nuovi e drammatici come l'avanzata ottomana nei Balcani, nell'Egeo e nel Mediterraneo orientale. Ma i principi di base del governo coloniale veneziano rimasero sostanzialmente immutati. La profonda persuasione del proprio destino imperiale improntò per tutto il Rinascimento l'atteggiamento della Repubblica nei confronti dello Stato da mar: immutabili i principi di giustizia repubblicana, gli indirizzi economici, il pragmatismo di fondo. Se un mutamento di indirizzo vi fu, ciò avvenne semmai nella direzione di una maggiore autonomia delle comunità locali, o persino dei diversi gruppi sociali all'interno delle colonie; di un'enfasi minore sulle distinzioni tra Latini e non Latini; di una tutela più risoluta dei sudditi non cattolici a fronte di una Chiesa sempre più militante come quella del Cinquecento. Sarebbe però una grave esagerazione attribuire allo Stato veneziano, in questa come in qualsiasi altra fase della sua lunga esistenza, un carattere federativo (130). Nonostante le correzioni di tiro, i rapporti tra la Dominante e lo Stato da mar conservarono sempre la loro fondamentale natura coloniale.
Il 1571 costituisce un decisivo momento di svolta nella storia dello Stato da mar. È vero che la precedente guerra del 1537-1540 aveva comportato perdite dolorose, ma finché possedette Cipro Venezia poteva ancora considerare aperta la sua età imperiale (131). La numerosa popolazione dell'isola, la sua importante produzione cerealicola, i vasti campi di cotone, le manifatture urbane, la sua funzione chiave nel sistema dei trasporti marittimi e nel commercio veneziano con il Levante, e persino il fatto di contribuire al prestigio della Repubblica rendendola padrona di un Regno, erano tutti fattori del massimo rilievo. Perduta Cipro, la storia prende tutt'altra piega. Per la prima volta dopo molti secoli lo Stato da mar diventa una componente alquanto marginale del sistema statale veneziano. Gli orizzonti della Repubblica si contraggono: nell'Egeo rimane soltanto Tino, in splendido isolamento fino al 1715, e la vera linea di demarcazione dello Stato da mar è quella che va da Creta a Cerigo; rimarranno a Venezia, fino alla fine della Repubblica, le isole ionie e buona parte dei possedimenti in Dalmazia e in Istria. Nel 1669 Creta si arrenderà agli Ottomani, con l'eccezione di poche piazzeforti. Nel tardo Seicento una rinnovata onda di espansione coloniale si concluderà con l'annessione del Peloponneso e con un considerevole ampliamento dei domini veneziani sulla costa dalmata - solo questi ultimi, però, rimarranno tali a lungo. Venezia fu uno Stato coloniale fino all'ultimo Settecento, ma non avrebbe mai più riacquistato l'aureola imperiale.
Traduzione di Enrico Basaglia
1. Sulla storia più antica dell'impero coloniale veneziano v. Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècle), Paris 1975, pp. 63-349.
2. Carl Hopf, Dissertazione documentata sulla storia dell'isola di Andros e dei suoi signori dall'anno 1207 al 1566, Venezia 1859; Id., Chroniques gréco-romanes inédites ou peu connues, Berlin 1873, pp. 481-489, 526-528; Id., Di alcune dinastie latine in Grecia: i Giustinian di Venezia. I da Corogna, "Archivio Veneto", 31, 1886, pp. 147-167; William Miller, Essays on the Latin Orient, London 1921, pp. 161-176; Raymond Joseph Loenertz, Les Querini, comtes d'Astypalée 1413-1537, "Orientalia Christiana Periodica", 30, 1964, pp. 385-397; Id., Les Querini comtes d'Astypalée et seigneurs d'Amorgos, 1413-1446-1537, ibid., 32, 1966, pp. 372-393; Id., De quelques îles grecques et de leurs seigneurs vénitiens aux XIVe et XVe siècles, "Studi Veneziani", 14, 1972, pp. 3-35; B.J. Slot, Archipelagus turbatus. Les Cyclades entre colonisation latine et occupation ottomane, c. 1500-1718, Istanbul 1982, pp. 35-87; F. Thiriet, La Romanie vénitienne, passim; Walter Haberstumpf, L'isola di Sèrifo e i suoi dinasti (1204-1537): note storiche e prosopograflche, "Thesaurismata", 24, 1994, pp. 7-36.
3. Cf. Diplomatarium veneto-levantinum, a cura di Georg M. Thomas-Riccardo Predelli, II, Venezia 1899, p. 319.
4. Sulle acquisizioni in Grecia v. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, passim. Sui territori veneziani in Albania, Dalmazia e Istria in questo periodo v. [Pietro Doimo Maupas>, Prospetto cronologico della storia della Dalmazia di un anonimo, Zara 1878; Angelo De Benvenuti, Storia di Zara dal 1409 al 1797, I, Milano 1944; Giuseppe Praga, Storia della Dalmazia, Padova 1981, pp. 125-173; Giuseppe Gelcich, La Zedda e la dinastia dei Balsidi. Studi storici e documentati, Spalato 1899; Giuseppe Valentini, Appunti sul regime degli stabilimenti veneti in Albania nel secolo XV, "Studi Veneziani", 8, 1966, pp. 195-265; Id., Dell'amministrazione veneta in Albania, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 843-910; Alain Ducellier, La façade maritime de l'Albanie au Moyen Âge. Durazzo et Valona du XIe au XVe siècle, Salonica 1981, pp. 484 ss.; Gherardo Ortalli, Il ruolo degli statuti tra autonomie e dipendenze: Curzola e il dominio veneziano, "Rivista Storica Italiana", 98, 1986, pp. 195-220.
5. G. Gelcich, La Zedda, pp. 208-237.
6. Su Argo e Nauplia, v. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1855, p. 316; Peter Topping, The Cornaro of Venice and Piscopia (Cyprus) in Argos and Nauplia 1377-1388, in "Φιλία επη ειϚ Γ.Ε. ΜυλωναϚ", Atene 1989, pp. 323-331; Id., Argos and Nauplia in the Rubrics of the Senato Misti 1389-1413, "Thesaurismata", 20, 1990, pp. 170-184. Su Egina, Régestes des délibérations du sénat de Venise concernant la Romanie, a cura di Freddy Thiriet, III, Paris-La Haye 1961, p. 171. Su Zante, Ep. Λoyntzh, Πεϱί τηϚ πολιτιϰήϚ ϰαταστάσεωϚ τηϚ Επτανήσου επί Ευετών, Atene 1856, pp. 72-86; Mapiana KoΛybakaraΛeka, Η ΖάϰηνϑοϚ μεϱταξύ αϕ ϰαι του γϕ βενετοτουϱϰιϰού πολεμού Συμβολή στην πολιτιϰή ιστοϱία ϰαι στην ιστοϱία των ϑεσμών, tesi di dottorato, Università di Atene, a.a. 1989, pp. 26-47.
7. G. Praga, Storia della Dalmazia, pp. 133-135.
8. Giorgio Fedalto, La Chiesa latina in Oriente, III, Verona 1978, nr. 549.
9. George Hill, A History of Cyprus, III, Cambridge 1949, pp. 657-764; Jean Richard, Chypre du protectorat à la domination vénitienne, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, pp. 657-677.
10. Diplomatarium, II, pp. 205-209; Régestes des délibérations du sénat de Venise concernant la Romanie, a cura di Freddy Thiriet, II, Paris-La Haye 1958, p. 229.
11. ΓΕΟΡΓΙΟΣ Σ. ΠΛΟΥΜΙΔΗΣ, ΠϱεσβέιεϚ Κϱητών πϱοϚ τη Βενετία (1487-1558), Ioannina 1986.
12. ΚΩΣΤΑ ΚΑΙΡΟΦΥΛΑ, Ιστοϱιϰαί σελίδεϚ Τηνου Φϱανϰοϰϱατία- βενετοϰϱατία-τουϱϰοϰϱατία 1204-1821, Atene 1930, pp. 38-48; Régestes des délibérations, II, p. 268.
13. Freddy Thiriet, À propos de la seigneurie des Venier sur Cerigo, "Studi Veneziani", 12, 1970, p. 201 (pp. 199-212).
14. I savi di Terraferma vennero istituiti intorno al 1420, in occasione della conquista del Friuli. I savi agli ordini esistevano già nel XIV secolo, ma divennero una componente regolare del collegio solo nel 1403: cf. Giuseppe Maranini, La costituzione di Venezia, II, Firenze 1931, pp. 333, 341.
15. Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, Torino 1982, pp. 217-318; Michael Knapton, Il fisco nello stato veneziano di terraferma tra '300 e '500: la politica delle entrate, in Il sistema fiscale veneto, problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, a cura di Giorgio Borelli - Paola Lanaro Sartori - Francesco Vecchiato, Verona 1982, p. 23 (pp. 15-57).
16. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. I, a cura di Arturo Segre, 1912-1921, p. 136 (1499), e vol. II, a cura di Roberto Cessi, 1933-1937, P- 145 (1501).
17. Marin Sanuto, Itinerario per la Terraferma Veneziana nell'anno MCCCCLXXXIII, a cura di Rawdon Brown, Padova 1847, p. 152.
18. Id., De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero la città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 111.
19. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 61-I. Chioggia veniva normalmente considerata come parte del Dogado, vale a dire dei territori veneziani in laguna e immediatamente adiacenti a essa: cf. M. Sanudo, De origine, pp. 71, 277.
20. Giovanni Botero, Relatione della Republica venetiana, Venezia 1605, p. 17.
21. Marino Berengo, Il governo veneziano a Ravenna, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, p. 39 n. 28 (pp. 31-67).
22. Questa valutazione si basa sulla stima di 170.000 abitanti per Venezia e di circa 1.600.000 per la Terraferma: cf. Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, pp. 57, 68-70; Julius Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, Berlin 1961, pp. 8, 19, 22, 164; Michael Knapton, Tra Dominante e dominio (1517-1630), in Gaetano Cozzi-Michael Knapton-Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 2), pp. 204-208 (pp. 203-549).
23. Su Cipro v. Benjamin Arbel, Cypriot Population under Venetian Rule: a Demographic Study, "Μέλεται ϰαι Υπομνήματα", 1, 1984, pp. 23-40. Per Creta, JoHann Wilhelm Zinkeisen, Die Insel Candia unter der Herrschaft der Signorie von Venedig, in Id., Geschichte des osmanischen Reiches in Europa, IV, Gotha 1856, pp. 710-711 (pp. 582-729), e, sull'epidemia del 1523 a Creta, Marino Sanuto, I diarii, a cura di Federico Stefani et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903: XXIV, coll. 366-367, che parla di 25.000 vittime. Sulla Dalmazia v. G. Praga, Storia della Dalmazia, pp. 167, 174; Alberto Tenenti, The Sense of Space and Time in the Venetian World of the Fifteenth and Sixteenth Centuries, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, p. 29 (pp. 17-46) (trad. it. Il senso dello spazio e del tempo nel mondo veneziano dei secoli XV e XVI, in Id., Credenze, ideologie, libertinismi tra medioevo ed età moderna, Bologna 1978, pp. 75-118), che riferisce di 100.000 anime nel 1558; Michael E. Mallett-John R. Hale, The Military Organisation of a Renaissance State. Venice c. 1400 to 1617, Cambridge 1984, p. 453, ove si dice di 60.778 sudditi dalmati nel 1580. Sulla pestilenza del 1527 a Spalato v. Commissiones et relationes venetae, a cura di Simeon Ljubić, I-III, Zagabriae 1876-1880: II, p. 107. Sulle perdite sofferte durante l'attacco turco su Corfù v. Eugenio Bacchion, Il dominio veneto su Corfù (1386-1797), Venezia 1956, p. 71. Nel 1568 Corfù aveva 24.000 abitanti, stando alla relazione di Lorenzo Bernardo in A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 84, mentre Zante contava, pare, 20.000 anime: Alberto Tenenti, Cristoforo da Canal. La marine vénitienne avant Lépante, Paris 1962, p. 129. Per Cefalonia la cifra di 24.392 abitanti nel 1568 riferita dal governatore Nicolò da Mula (A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 83) sembra più plausibile rispetto ad altri computi superiori riportati altrove; sulla popolazione di Cefalonia si veda anche infra, n. 47. Cerigo aveva circa 3.000 abitanti nel 1570: Chryssa A. Maltezou, A Contribution to the Historical Geography of the Island of Kythira during the Venetian Occupation, in Charanis Studies. Essays in Honor of Pet Charanis, a cura di Angeliki E. Laiou-Thomadakis, New Brunswick, N J. 1980, p. 157 (pp. 151-175). Tino, sulla scorta del rapporto del "sindico" Girolamo Barbarigo, aveva 9.000 anime nel 1563: Κ. ΚΑΙΡΟΦΥΛΑ, Ιστοϱιϰαί σελίδεϚ, p. 76. Per l'Istria v. J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte, III, p. 164 (52.000 abitanti nel 1557).
24. Deborah Howard, Jacopo Sansovino. Architecture and Patronage in Renaissance Venice, New Haven-London 1987, pp. 25-34.
25. Chryssa A. Maltezou, The Historical and Social Context, in Literature and Society in Renaissance Crete, a cura di David Holton, Cambridge 1991, pp. 33-34 (pp. 17-47).
26. Γ.Σ. ΠΛΟΥΜΙΔΗΣ, ΠϱεσβέιεϚ Κϱητών p. 75 (1539).
27. Ibid., pp. 15, 17, 46, 54-55, 112, 136; Σ. ΞΑΝΘΟΥΔΙΔΟΥ, Η Ενετοϰϱατία εν Κϱήτη ϰαι οι ϰατά των Εντών αγώνεϚ των Κϱητών, Atene 1939, p. 189; A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 61, relazione Zane, 1534; Venezia, Museo Correr, Ms. Donà dalle Rose, 41, c. 3v.
28. Σ. ΞΑΝΘΟΥΔΙΔΟΥ, Η Ενετοϰϱατία, pp. 142-149; A. Tenenti, Cristoforo da Canal, p. 134; M. Sanuto, I diarii, XLVI, coll. 425-428 (1527).
29. ΧΡΥΣΑ ΜΑΛΤΕΖΟΥ, Η Κϱήτη στη διαϱϰεία τηϚ πεϱίοδου τηϚ βενετοϰϱατίαϚ (1204-1669), Herakleion 1990, pp. 64, 72; Σ. ΞΑΝΘΟΥΔΙΔΟΥ, Η Ενετοϰϱατία, pp. 132, 166, 168-169; Régestes des délibérations, III, pp. 205-206; A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 83, relazione di Leonardo Loredan, rettore alla Canea, 1554; ibid., b. 81, relazione di Piero Navager, capitano, 1570.
30. Σ. ΞΑΝΘΟΥΔΙΔΟΥ, Η Ενετοϰϱατία, p. 167; A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 61-II, relazione di Francesco Bernardo, duca, 1540; ibid., b. 81, relazione di Gasparo Renier, capitano, 1563; ibid., relazione di Daniel Barbarigo, duca, 1567. Un eccellente ragguaglio sugli studi riguardo a Creta veneziana fino al 1973 è Manoussos I. Manoussacas, L'isola di Creta sotto il dominio veneziano. Problemi e ricerche, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 473-514.
31. B. Arbel, Cypriot Population, pp. 196-198.
32. V. la lista degli immigrati veneziani in Jacques M.J.L. de Mas Latrie, Histoire de l'île de Chypre sous le règne des princes de la maison de Lusignan, III, Paris 1855, p. 498.
33. Ibid., e Benjamin Arbel, Η ΚύπϱοϚ υπο εγετιϰή ϰυϱιαϱχία, in Ιατοϱία τηϚ Κύπϱου, a cura di ΘεοδωϱοϚ ΠαπαδοπουλλοϚ, III, Nicosia, in corso di stampa; Id., Greek Magnates in Venetian Cyprus: the Case of Synglitico Family, "Dumbarton Oaks Papers", in corso di pubblicazione.
34. Maurice Aymard, Venise, Raguse et le commerce du blé pendant la seconde moitié du seizième siècle, Paris 1966, pp. 142-143; B. Arbel, Cypriot Population, p. 214 e n. 193; M. Sanuto, I diarii, LI, col. 445 (relazione di Silvestro Minio, 1529); A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 61-I, relazione Bragadin, 1531, c. 126. Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, II, Voiliers et commerce en Méditerranée 1200-1650, Lille 1979 (trad. it., Il sale e la fortuna di Venezia, Roma 1990), S.V. Chypre.
35. Vladimir Lamansky, Secrets d'État de Venise. Documents, extraits, notices et études servant à éclairer les rapports de la Seigneurie avec les Grecs, les Slaves et la Porte Ottomane à la fin du XVe et au XVIe siècle, I-II, St. Petersbourg 1884: I, p. 563 (1559); v. inoltre Lettres d'un marchand vénitien. Andrea Berengo (1553-1556), a cura di Ugo Tucci, Paris 1957.
36. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Deliberazioni secrete, reg. 10, cc. 119v-120.
37. Johannes Koder, Negroponte. Untersuchungen zur Topographie und Siedlungsgeschichte der Insel Euboia wkhrend der Zeit der Venezianerherrschaft, Wien 1973, p. 58. E, ancora, F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 337-339.
38. Momčilo Spremić, I tributi veneziani nel Levante nel XV secolo, "Studi Veneziani", 13, 1971, p. 244 (pp. 221-251).
39. E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, pp. 51-66; F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 357, 400.
40. E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, pp. 69-97.
41. M. Sanuto, I diarii, X, col. 169.
42. David Jacoby, La féodalité en Grèce médiévale. Les Assises de Romanie: sources, application et diffusion, Paris-La Haye 1971, p. 270. V. anche M. Sanudo, De origine, p. 203, ed E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, pp. 53-54.
43. Μ. ΚΟΛΙΒΑ-ΚΑΡΑΛΕΚΑ, Η ΖάϰηνϑοϚ, pp. 148-153.
44. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 61-II, relazione di Marco Basadonna, provveditor, 1546.
45. Μ. ΚΟΛΙΒΑ-ΚΑΡΑΛΕΚΑ, Η ΖάϰηνϑοϚ, p. 158.
46. Cf. supra, n. 44.
47. M. Sanuto, I diarii, V, col. 987; A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 83 (24.392 nel 1568). Le due stime superiori del 1561 (36.000) e del 1565 (38.000) appaiono esagerate, tenuto conto dell'assenza di informazioni documentate circa un improvviso decremento della popolazione negli anni Sessanta del Cinquecento. Così pure la voce che gli Ottomani si fossero portati via 10-12.000 abitanti di Cefalonia durante la guerra del 1537-1540 (A. Tenenti, Cristoforo da Canal, p. 129) non è confermata da altre fonti. Sull'aumento della popolazione, A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 83, relazione di Alvise Balbi, 1560.
48. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 83, relazione di Alvise Calbo, 1548; ibid., relazione di Nicolò da Mula, 1569.
49. G. Praga, Storia della Dalmazia, p. 160.
50. Commissiones et relationes, I, p. 196 (relazione di Zacharia Valaresso, 1527).
51. Ibid., II, p. 199 (relazione di Giovan Battista Giustinian, 1553). V. inoltre Ivan Pederin, Die venezianische Verwaltung Dalmatiens und ihre Organe, "Studi Veneziani", n. ser., 12, 1986, pp. 117-118 (pp. 99-163); Id., Das venezianische Handelssystem und die Handelspolitik in Dalmatien (1409-1707), ibid., 14, 1987, pp. 96-101 (pp. 91-177).
52. Commissiones et relationes, I, pp. 176-178 (relazione di Moyse Venier, provveditore a Cattaro, 1525); ibid., II, pp. 14-17 (relazione di Leonardo Venier e Hieronimo Contarini, sindici, 1525); ibid., p. 239 (Budua, 1553).
53. I. Pederin, Das venezianische Handelssystem, pp. 91-133; Fernand Braudel, civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino 1976, p. 122.
54. Commissiones et relationes, II, pp. 257 (Arbe), 269 (Cherso e Ossero).
55. Ibid., p. 222 (relazione di Giovan Battista Giustinian, 1553).
56. Ibid., pp. 18 (relazione di Leonardo Venier e Hieronimo Contarini, sindici, 1525), 252 (relazione di Giovan Battista Giustinian, sindico, 1553); Frederic C. Lane, Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965, pp. 106-107, 214.
57. Commissiones et relationes, II, pp. 18-19 (relazione di Leonardo Venier e Hieronimo Contarini, sindici, 1525); ibid., pp. 258-261. Nell'edizione di Ljubić, basata sul codice 197 della Hofbibliothek di Vienna, le entrate provenienti dal sale di Pago ammonterebbero a 3.000 ducati (ibid., p. 11); tuttavia in A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 61-I, c. 36v, si parla chiaramente di 30.000 ducati.
58. G. Praga, Storia della Dalmazia, pp. 152, 178-179; I. Pederin, Das venezianische Handelssystem, pp. 130, 132.
59. Commissiones et relationes, III, p. 185.
60. Κ. ΚΑΙΡΟΦΥΛΑ, Ιστοϱιϰαί σελίδεϚ, pp. 58-85 (Tino); M. Sanuto, I diarii, XXXIII, col. 576; ibid., XXIV, col. 121; ibid., XL, coll. 49, 193 (Marco Zen, rettore di Schiro, 1522-1523). Zen venne prosciolto dalla quarantia nel 1532: ibid., LV, coll. 674-675. Ibid., coll. 519, 522, 537; ibid., LVI, col. 34 (Vincenzo Baffo, rettore di Schiro, 1531); ibid., LV, coll. 476-478, 482, 536 (Marin Malipiero, rettore di Schiato, 1531).
61. Κ. ΚΑΙΡΟΦΥΛΑ, Ιστοϱιϰαί σελίδεϚ, pp. 76-77; G. Botero, Relatione, p. 19.
62. G. Gelcich, La Zedda, pp. 179 ss.
63. G. Praga, Storia della Dalmazia, p. 174.
64. V. le commissioni di Donato Barbaro, comes di Traù, nel 1441 e di Giovanni Balbi, comes di Curzola, nel 1530: Commissiones et relationes, I, p. 16; ibid., II, p. 53.
65. Alberto Tenenti, I corsari in Mediterraneo all'inizio del Cinquecento, "Rivista Storica Italiana", 72, 1960, pp. 234-287.
66. Günther E. Rothenberg, Venice and the Uskoks of Senj: 1537-1618, "Journal of Modern History", 33, 1961, nr. 2, pp. 148-156; A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 61-II, relazione di Alvise Calbo, provveditore a Cefalonia, 1548.
67. Le voyage de la sainte cyté de Hierusalem, a cura di Charles Schefer, Paris 1882, p. 55. V. pure A. Tenenti, I corsari, pp. 255, 263, 281; E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, p. 41; M. Μ. ΚΟΛΙΒΑ-ΚΑΡΑΛΕΚΑ, Η ΖάϰηνϑοϚ, p. 37.
68. Χ. ΜΑΛΤΕΖΟΥ, Η Κϱήτη, p. 118; G. Hill, A History of Cyprus, III, pp. 776, 800; Κ. ΚΑΙΡΟΦΥΛΑ, Ιστοϱιϰαί σελίδεϚ, pp. 51, 69-70.
69. M.E. Mallett-J.R. Hale, The Military Organisation, pp. 73-74, 376-377, 447-451. V. inoltre il ricco repertorio di fonti riguardo agli stradioti in Constantin Sathas, Documents inédits relatifs à l'histoire de la Grèce au Moyen Âge, VII-IX, Paris 1888-1890.
70. M.E. Mallett-J.R. Hale, The Military Organisation, pp. 430-447; G. Praga, Storia della Dalmazia, pp. 164-165; E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, pp. 85-95; Antonio Manno, Politica e architettura militare: le difese di Venezia (1557-1573), "Studi Veneziani", n. ser., 11, 1986, pp. 91-137; Gilles Grivaud, Aux confins de l'empire colonial vénitien: Nicosie et ses fortifications (1567-1568), "Επετηϱίν του Κέντϱου Επιστημονιϰών Εϱευνών Κυπϱου" 13-16, 1984-1987, pp. 269-279.
71. M.E. Mallett-J.R. Hale, The Military Organisation, p. 432.
72. Ibid., p. 439 (Cipro); G. Praga, Storia della Dalmazia, pp. 158-159; A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 32, relazione di Pietro Civran, provveditore a Cerigo, 1561 (che raccomanda la costruzione di tre "ridotti"); ibid., b. 84, relazione di Lorenzo Bernardo, bailo e provveditore a Corfù, 1568.
73. Régestes des délibérations, III, p. 243 (Candia, 1462); Γ.Ε. ΠΛΟΥΜΙΔΗΣ, ΠϱεσβέιεϚ Κϱητών, pp. 31-33, 59-65 (Candia), 41 (Canea), 69-70 (Rettimo); E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, pp. 87-90, 93-94; G. Praga, Storia della Dalmazia, pp. 158-159, 165-168; G. Hill, A History of Cyprus, III, p. 846 n. 1.
74. M.E. Mallett-J.R. Hale, The Military Organisation, pp. 447-456. A Cefalonia nel 1564 erano stanziate due compagnie di venti soldati nella fortezza, nonché duecentododici stradioti: A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 83, relazione di Polo Calbo.
75. M.E. Mallett-J.R. Hale, The Military Organisation, pp. 456-458. Benjamin Arbel, Résistance ou collaboration? Les Chypriotes sous la domination vénitienne, in État et colonisation au Moyen Âge et à la Renaissance, a cura di Michel Balard, Lyon 1989, p. 138 (pp. 131-143). V., per esempio, l'ordine di mobilitazione di quattrocento "archibusieri" tra gli "homeni delle ville" a Zante nel 1543, V. Lamansky, Secrets d'État, I, p. 553.
76. A. Tenenti, Cristoforo da Canal, pp. 63-73; Hippolyte Noiret, Documents inédits pour servir à l'histoire de la domination vénitienne en Crète de 1380 à 1485, Paris 1892, pp. 209 (1411), 413-414 (1445-1446), 503 (1467).
77. V. Lamansky, Secrets d'État, I, pp. 555 (1513), 556 (1524). V. anche ΓΕΟΡΓΙΟΣ Ε. ΠΛΟΥΜΙΔΗΣ, Οι βενετοϰϱατούμεγεϚ ελληνιϰέϚ χωϱέϚ μετζὺ του τϱίτου τουϱϰοβενε τιϰού πολέμου (1503-1537), Ioannina 1974, pp. 35-37.
78. E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, p. 71.
79. V. Lamansky, Secrets d'État, I, p. 557.
80. Régestes des délibérations, III, p. 94.
81. V. Lamansky, Secrets d'Etat, I, p. 560 (1577). V. anche A. Tenenti, Cristoforo da Canal, pp. 130-137; David Jacoby, Les gens de mer dans la marine de guerre vénitienne de la mer Egée aux XIVe et XVe siècles, in Le genti del mare Mediterraneo, a cura di Rosalba Ragosta, Napoli 1981, pp. 169-201.
82. J.M.J.L. de Mas Latrie, Histoire, III, p. 374.
83. D. Jacoby, La féodalité, pp. 95-113, 303-308.
84. G. Hill, A History of Cyprus, III, p. 770 e n. 4.
85. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 227-261.
86. Benjamin Arbel, Urban Assemblies and Town Councils in Frankish and Venetian Cyprus, in Πϱαϰτιϰά του Δευτέϱου ΔιεϑνούϚ ϰύπϱολογιϰού Συνεδϱίου, II, Nicosia 1986, pp. 203-213.
87. C. Sathas, Documents inédits, III, Paris 1882, p. 449 (1439); B. Arbel, H KύπpoϚ.
88. E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, p. 53; F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 400.
89. G. Praga, Storia della Dalmazia, p. 152.
90. I. Pederin, Die venezianische Verwaltung, p. 113; Commissiones et relationes, II, p. 196 (1553).
91. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 190-197.
92. M. Sanudo, De origine, pp. 71-78.
93. Id., Itinerario per la Terraferma, pp. 153-157.
94. Lorenzo Giustinian (figlio di Bernardo), Donato Marcello (figlio di Antonio) e Fantin Michiel (figlio di Girolamo) furono tutti consiglieri dogali prima di essere eletti luogotenenti a Cipro rispettivamente nel 1507, 1514 e 1516. Vincenzo Capello (figlio di Nicolò) era stato provveditore in Armata prima di essere nominato capitano a Famagosta nel 1515: cf. J.M.J.L. de Mas Latrie, Histoire, III, p. 847; M. Sanuto, I diarii, XVII, col. 278; ibid., XXI, coll. 387-388. Il salario del luogotenente e capitano a Cipro fu fissato in un primo tempo a 3.500 ducati annui, per essere poi ridotto, nel 1509, a 2.000 ducati: cf. ibid., XI, coll. 27, 29; G. Hill, A History of Cyprus, III, p. 865. A quanto risulta da una lista contemporanea, i governatori di Cipro e di Creta percepivano i salari più alti dell'intero Stato veneziano, fatta eccezione per i capitani delle flotte di galere da mercato: Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ms. D. 95 inf. (2).
95. B. Arbel, Η ΚύπϱoϚ.
96. Cf. James C. Davis, Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza. I Dona dalle Rose dal '500 al '900, Roma 1980, pp. 50-54.
97. Benjamin Arbel, Sauterelles et mentalités: le cas de la Chypre vénitienne, "Annales E.S.C.", 44, 1989, pp. 1057-1074; M. Sanuto, I diarii, LVIII, col. 720 (Francesco Bernardo, figlio di Dandolo, capitano a Famagosta durante la pestilenza del 1553); A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 83 (Lunardo Loredan riferisce sulla costruzione di un sistema di approvvigionamento idrico per la Canea, 1554).
98. D. Jacoby, La féodalité, p. 103 n. 1; I. Pederin, Die venezianische Verwaltung, pp. 133, 135; B. Arbel, Η ΚύπϱoϚ.
99. M.E. Mallett-J.R. Hale, The Military Organisation, p. 464.
100. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 255-256.
101. M. Sanudo, De origine, pp. III, 115; F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 198.
102. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 198-203.
103. C. Sathas, Documents inédits, IV, pp. 304-306; Κ. ΚΑΙΡΟΦΥΛΑ, Ιστοϱιϰαί σελίδεϚ, pp. 83-85; B.J. Slot, Archipelagus turbatus, p. 86 (Francesco Michiel, Matteo Baffo, Tino, 1561- 1562). C. Sathas, Documents inédits, IV, pp. 248-250, 307-309; G. Hill, A History of Cyprus, III, p. 783 (Troilo Malipiero, capitano a Famagosta, 1502).
104. V. la relazione del sindico Giovan Battista Giustinian (1553) in Commissiones et relationes, II, pp. 191 (Capodistria), 197 (Zara), 205 (Scbcnico), 208 (Traù), 215 (Spalato), 227 (Dulcigno), 231 (Antivari); I. Pederin, Die venezianische Verwaltung, pp. 104-105, 125.
105. B. Arbel, Η ΚύπϱoϚ.
106. Cecil Roth, Venice, Philadelphia 1930, pp. 310-331; Joshua Starr, Jewish Life in Crete under the Rule of Venice, "Proceedings of the American Academy for Jewish Research", 12, 1942, pp. 59-114; Benjamin Arbel, The Jewish in Cyprus: New Evidence from the Venetian Period, "Jewish Social Studies", 41, 1979, pp. 23-40; Zvi Ankori, Jews and the Jewish Community in the History of Medieval Crete, in AA.VV., Πεπϱαγμέγα του β᾿ ΔιεδνούϚ Κϱητολογιϰού Συνέδϱιου, III, Atene 1968, pp. 312-367; Id., Giacomo Foscarini e gli Ebrei in Creta, "Studi Veneziani", n. ser., 9, 1985, pp. 67-185. V. anche i vari studi di David Jacoby raccolti in Recherches sur la Mediterranée orientale du XIIe au XVe siécle, London 1979.
107. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 287-291, 403-405, 429-435.
108. I. Pederin, Die venezianische Verwaltung, p. 143; G. Hill, A History of Cyprus, III, p. 873.
109. Cesare Cenci, Senato veneto. "Probae" ai benefizi ecclesiastici, in Promozioni agli ordini sacri a Bologna e alle dignità ecclesiastiche nel Veneto nei secoli XIV-XV, a cura di Celestino Piana - Cesare Cenci, Quaracchi 1968, p. 325 (pp. 313-432).
110. M. Sanudo, De origine, pp. 196-197.
111. Sanudo omette i vescovi di Arbe, Cefalonia e Zante, di Tino e Mikono, come pure sei dei dieci vescovadi di Creta: cf. Giorgio Fedalto, La Chiesa latina in Oriente, II, Verona 1976, pp. 30, 42, 46, 63, 77, 80, 104, 130, 152, 200, 207, 228; Plus B. Gams, Series episcoporum ecclesiae catholicae, Regensburg 1873-1876, pp. 394-395 (Arbe). Antivari era in realtà un arcivescovado.
112. Paolo Prodi, Strutture and Organization of the Church in Renaissance Venice, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, p. 418 (pp. 409-430); Peter Laven, Renaissance Italy 1464-1543, London 1966, pp. 203-206.
113. J. M. J. L. de Mas Latrie, Histoire, III, p. 502.
114. V. Vittorio Peri, Gaspare Vivian. Un vescovo filelleno nella Creta del XVI secolo, in Πϱαϰτιϰά του Δευτέϱου ΔιεδυούϚ Κϱητολογιϰού Συνεδϱίού, II, Atene 1975, pp. 253-265.
115. Régestes des délibérations, III, pp. 243-244.
116. V. Lamansky, Secrets d'État, II, pp. 65-68.
117. ΜΑΝΟΥΣΑ ΜΑΝΟΥΣΑΚΑ, Η εν Κϱήτη συνωμοσία του Σήφη Βλαστού (1453-1454) ϰαι η νέα συνωμοτιϰή ϰὶνησιϚ του 1460-1462, Atene 1960.
118. V. Lamansky, Secrets d'État, II, pp. 49 (1462), 52-53 (1469-70), 55-56 (1487); Σ. ΞΑΝΘΟΥΔΙΔΟΥ, Η Ενετοϰϱατία, p. 161; Χ. ΜΑΛΤΕΖΟΥ, Η Κϱήτη, pp. 123- 124; B. Arbel, H KὑπpoϚ.
119. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 444; Manoussos I. Manoussacas, La littérature crétoise à l'époque vénitienne, "L'Hellénisme Contemporain", 9, 1955, pp. 95-120; ΝΙΚΟΛΑΟΣ Μ. ΡΑΝΑΓΙΩΤΑΚΗΣ, Ο ποιητήϚ του " Εϱωτοϰϱίτου " ϰαι άλλα βενετοϰϱητιϰά μελετήματα, Herakleion 1989; Literature and Society in Renaissance Crete, a cura di David Holton, Cambridge 1991.
120. Elena Fasano Guarini, Au seizième siècle: comment naviguaient les galères, "Annales E.S.C.", 16, 1961, pp. 295-296 (pp. 279-296).
121. Gilles Sottas, Les messageries maritimes de Venise aux XIVe et XVe siècles, Paris 1938, pp. 209-232.
122. Χ. ΜΑΛΤΕΖΟΥ, Η Κϱήτη, pp. 67-69; ΚΡΙΣΤΑΣ ΠΑΝΑΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ, ΕλλινεϚ ναυτιϰοί ϰαι πλοιοϰτήτεϚ από τα παλαιότεϱα οιϰονομιϰά βιβλία τηϚ ελληνιϰήϚ αδελφότηταϚ ΒενετίαϚ, 1536-1576, "Thesaurismata", 11, 1974, pp. 284-353; I. Pederin, Das venezianische Handelssystem, pp. 113-114; V. Lamansky, Secrets d'État, I, p. 563.
123. E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù, p. 71; Ugo TuccI, Sur la pratique vénitienne de la navigation au XVle siècle, "Annales E.S.C.", 13, 1958, p. 74 (pp. 72-86). V. inoltre la lista dei marinai greci in Γ.Ε. ΠΛΟΥΜΙΔΗΣ, Οι βενετοϰϱατούμεγεϚ ελληνιϰέϚ χωϱέϚ, pp. 117-121.
124. J.-C. Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, II, p. 387.
125. Ibid., I, Production et monopole, Lille 1978, pp. 318-321; Commissiones et relationes, II, pp. 205-206, relazione di Giovan Battista Giustinian, 1553.
126. Régestes des délibérations, III, pp. 110, 112, 138; Commissiones et relationes, II, p. 197.
127. Nel 1553 il sindico riferisce che le entrate annuali della camera fiscale di Pago ammontavano a 740 ducati: cf. Commissiones et relationes, II, p. 261. Le somme cospicue - valutate in 30.000 ducati - che Venezia ricavava dalla produzione di sale dell'isola evidentemente non furono prese in considerazione dal visitatore metropolitano.
128. Alan Stahl, The Venetian Tornesello, a Medieval
Colonial Coinage, New York 1985, pp. 51, 68.
129. V. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino
1978, p. 280.
130. Cf. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 444.
131. Ho adottato l'espressione "età imperiale" mutuandola da David C. Chambers, The Imperial
Age of Venice 1380-1580, London 1970.