colonie
Non hanno riscosso l’attenzione che meritano le pagine dedicate da M. alle colonie. Il loro interesse è tanto maggiore se si pensa che furono scritte negli anni in cui prendeva vigore il processo della cosiddetta espansione europea, guidato allora dalle corone di Portogallo e Spagna, alle cui conquiste ultramarine M. non accenna. Non mancano, però, collegamenti con altri episodi coevi, come le spedizioni francesi in Italia tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, o l’assoggettamento del sultanato mamelucco d’Egitto da parte dell’impero ottomano (1516-17).
Una dottrina coloniale in Machiavelli? Benché sparsi all’interno dei suoi scritti, è possibile cogliere un filo che unisce i riferimenti di M. alle c., come emerge in Discorsi II i 29, dove, evocando «il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle provincie d’altrui», si rinvia al «nostro trattato de’ principati», in cui «questa materia è diffusamente trattata». In effetti, proprio a Principe iii 14-23 occorre rivolgersi per un sunto della visione generale delle c., antiche e moderne. La materia è affrontata in rapporto a quei «principati misti», così chiamati per essersi ingranditi mediante un «nuovo acquisto». Nel caso in cui la provincia conquistata sia «disforme di lingua, di costumi e di ordini» dallo Stato antico del conquistatore, questi, osserva M., ha due possibilità per non perdere i nuovi possedimenti: o stabilirvisi fisicamente, «come ha fatto il Turco di Grecia: il quale […] se non vi fussi ito ad abitare non era possibile che lo tenessi», oppure «mandare colonie in uno o dua luoghi, che siano quasi compedes di quello stato: perché è necessario o fare questo o tenervi assai gente d’arme e fanti».
M. non ha dubbi su quale scelta fare tra un sistema coloniale leggero e un dominio fondato sulla presenza di guarnigioni militari nelle terre assoggettate. Lo chiarisce esponendo quale sia la «vera via a fare grande una repubblica e ad acquistare imperio» in Discorsi II xix 8:
accrescere la città sua di abitatori, farsi compagni e non sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fare capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie e con le giornate e non con le ossidioni, tenere ricco il publico, povero il privato, mantenere con sommo studio gli esercizi militari.
Come conviene affrontare subito il nemico in battaglia per sconfiggerlo, senza impantanarsi in guerre lunghe e logoranti, così è preferibile stabilire nel territorio conquistato c., anziché truppe che esercitino un controllo costante. La ragione, sinteticamente espressa in Discorsi II vi 4 («È necessario […], e nello acquistare e nel mantenere, pensare di non spendere, anzi fare ogni cosa con utilità del publico suo»), si trova già analiticamente esposta nel Principe:
nelle colonie non si spende molto; e sanza sua spesa, o poca, ve le manda e tiene, e solamente offende coloro a chi toglie e’ campi e le case per darle a’ nuovi abitatori, che sono una minima parte di quello stato; e quegli che gli offende, rimanendo dispersi e poveri, non gli possono mai nuocere; e tutti li altri rimangono da un canto inoffesi, – e per questo doverebbono quietarsi, – da l’altro paurosi di non errare, per timore che non intervenissi a loro come a quelli che sono stati spogliati. Concludo che queste colonie non costono, sono più fedeli, offendono meno, e li offesi non possono nuocere, sendo poveri e dispersi (iii 15-17).
M. nega invece l’utilità delle guarnigioni, perché «il principe spende più assai, avendo a consumare nella guardia tutte le intrate di quello stato, in modo che l’acquisto gli torna perdita». La presenza di un esercito occupante, infatti, «nuoce a tutto quello stato», «del quale disagio ognuno ne sente e ciascuno gli diventa nimico» (iii 19). La diffidenza verso questa strategia si collega alla preferenza di M. per la ricerca di «appoggi» nelle terre da assoggettare, di alleati interni che ne agevolino la conquista: «Il che quegli popoli che osserveranno, vedranno avere meno bisogno della fortuna che quelli che ne saranno non buoni osservatori» (Discorsi II i 31-32).
L’esempio cui guarda M., naturalmente, è quello dei Romani. Nei Discorsi si sostiene che il loro straordinario successo derivasse dal fatto che, sin dalle origini, Roma fu «ordinata a potere acquistare» (II i 5-6). Del resto, la stessa fondazione della città ebbe caratteristiche opposte a quella delle c.,
mandate o da una repubblica o da uno principe per isgravare le loro terre d’abitatori, o per difesa di quel paese che di nuovo acquistato vogliono sicuramente e senza ispesa mantenersi […]. E per non avere queste cittadi la loro origine, rade volte occorre che le facciano processi grandi e possinsi intra i capi dei regni numerare (I i 8-9).
Il pensiero correva immediatamente a Firenze. Al contrario,
chi esaminerà […] la edificazione di Roma […] la vedrà avere principio libero sanza dependere da alcuno; vedrà ancora […] a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa e gli altri la costringessono, talmente che la fertilità del sito, la commodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza dello imperio, non la potero per molti secoli corrompere, e la mantennero piena di tanta virtù, di quanta mai fusse alcun’altra città o repubblica ornata (I i 22).
E se Roma dovette parte della sua «grandezza» proprio alle c. («ne edificò assai e per tutto l’imperio suo»: I i 8), la strategia che seguì inizialmente con le città vicine rappresentava l’esatto contrario di una dominazione coloniale, di cui pure poneva così le basi:
Quegli che disegnono che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori; perché sanza questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare grande una città. Questo si fa in due modi: per amore e per forza. Per amore, tenendo le vie aperte e sicure a’ forestieri che disegnassono venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri; per forza, disfacendo le città vicine, e mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu in tanto osservato da Roma che nel tempo del sesto re in Roma abitavano ottantamila uomini da portare arme (II iii 3-5).
In M. si trovano elementi di una riflessione organica e coerente sulle c., ma è quasi sempre ai Romani che egli fa riferimento quando fornisce esempi concreti, a cominciare da Principe iii 24-26, dove se ne riassume la condotta «nelle province che pigliorno»: «e’ mandarono le colonie, intrattennono e’ meno potenti, e non vi lasciorno prendere riputazione a’ potenti e forestieri». Così operarono in Grecia, dove strinsero un’intesa vantaggiosa con i più deboli Achei ed Etoli, ridimensionarono il regno di Macedonia e respinsero Antioco, re di Siria, osservando «quello che tutti e’ principi savi debbono fare».
Nei Discorsi la questione è approfondita nei diversi aspetti, dal modo in cui i Romani penetravano nelle province da colonizzare alle alleanze che stabilivano per proprio vantaggio, fino alla redistribuzione delle terre tra i coloni. I Romani «sempre s’ingegnarono avere nelle provincie nuove qualche amico che fussi scala o porta per salirvi o entrarvi, o mezzo a tenerla» (II i 30). Come si chiarisce più avanti, si tratta del migliore dei «tre modi circa lo ampliare», «ossia farsi compagni, non tanto però che non ti rimanga il grado di comandare, la sedia dello imperio e il titolo delle imprese» (II iv 10): così fece Roma, che
avendosi lei fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in dimolte cose con equali leggi vivevano seco, e dall’altro canto […] sendosi riserbata sempre la sedia dello imperio e il titolo del comandare, questi suoi compagni venivano, che non se ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a soggiogare se stessi. […] E quando ei s’avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi, tanta autorità aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza si trovava in senso, avendo la sua città grossissima e armatissima (II iv 18, 20).
Del resto, le c. si trovavano al centro del sistema sia offensivo sia difensivo romano. Sconfitti i nemici in battaglia, «i Romani gli condannavano in terreni», convertendoli in «privati commodi» o in una c., «la quale, posta in su le frontiere di coloro, veniva a essere guardia de’ confini romani con utile di essi coloni, che avevano quegli campi, e con utile del pubblico di Roma, che sanza spesa teneva quella guardia». Si trattava del
modo […] più sicuro o più forte o più utile: perché mentre che i nimici non erano in su i campi quella guardia bastava; come e’ fossono usciti fuori grossi per opprimere quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi e venivano a giornata con quegli; e fatta e vinta la giornata, imponendo loro più grave condizione, si tornavano in casa» (II vi 8-9).
M. interviene anche sulla redistribuzione delle terre fra coloni, osservando come non si seguisse un criterio unitario («credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e’ mandavano colonie»: II vii 2), pur rispondendo al principio generale di concedere piccoli appezzamenti,
prima per potere mandare più uomini, sendo quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi, perché vivendo loro poveri a casa, non era ragionevole che volessono che i loro uomini abbondassino troppo fuora (II vii 3).
Tale modello rischiò di essere stravolto dall’«ambizione» della plebe, osserva M., che dopo aver ottenuto la creazione dei tribuni (494 a.C.) cercò di imporre una legge agraria che limitasse la quantità di terra che un Romano poteva possedere e stabilisse che i campi sottratti ai nemici si dividessero tra il popolo. Ne sorse subito un contrasto:
i nobili con pazienza e industria temporeggiavano, o con trarre fuora uno esercito, o che a quel tribuno che la proponeva si opponesse un altro tribuno, o talvolta cederne in parte, ovvero mandare una colonia in quel luogo che si avesse a distribuire (I xxxvii 12).
La posizione di M. emerge chiaramente quando, a commento di questa strategia, richiama l’esempio del contado di Anzio,
per il quale surgendo questa disputa della legge, si mandò in quel luogo una colonia tratta di Roma, alla quale si consegnasse detto contado. Dove Tito Livio usa un termine notabile, dicendo che con difficultà si trovò in Roma chi desse il nome per ire in detta colonia; tanto era quella plebe più pronta a volere desiderare le cose in Roma che a possederle in Anzio (I xxxvii 12).
In definitiva, comunque, la rete delle c. si era rivelata un efficace sistema non soltanto per consolidare acquisizioni territoriali, ma anche per difendere Roma, come mostrava il drammatico episodio dell’invasione di Annibale, che «quanto più […] s’appressava a Roma, tanto più trovava potente quella città a resistergli»,
perché il fondamento dello stato suo era il popolo di Roma, il nome latino, le altre terre compagne in Italia e le loro colonie; donde ei traevano tanti soldati che furono sufficienti con quegli a combattere e a tenere il mondo (II xxx 25 e 28).
Resta ancora tutta da studiare la fortuna della riflessione di M. sulle colonie. Francesco Guicciardini le dedicò alcuni rilievi nelle Considerazioni intorno ai Discorsi (1529), criticando l’idea che una città fondata come colonia fosse destinata a restare dipendente dalla madrepatria e affermando che tra le cause per cui i Romani non avevano costruito molte fortezze vi era proprio il loro sistema di espansione imperniato sulle colonie. Un’adesione convinta alle posizioni di M. si coglie nel panegirico del re Giovanni III di Portogallo composto e recitato a corte nel 1533 dall’umanista João de Barros, che riprendeva alla lettera Discorsi II xix 8, laddove indicava al sovrano «i cammini per conquistare» (Ao mui alto e muito poderoso Rey de Portugal, cod. 3060, c. 101v).
Bibliografia: Fonti: J. de Barros, Ao mui alto e muito poderoso Rey de Portugal D. João 3.° deste nome Panegirico, Lisbona, Biblioteca Nacional de Portugal, cod. 3060.
Per gli studi storici si vedano: M. Hornqvist, Machiavelli and Empire, Cambridge-New York 2004; G. Marcocci, Machiavelli, la religione dei romani e l’impero portoghese, «Storica», 2008, 14, 41-42, pp. 35-68.