COLONIZZAZIONE E DECOLONIZZAZIONE
di David K. Fieldhouse
Lo Shorter Oxford dictionary definisce la colonizzazione come "l'azione del colonizzare o il fatto di essere colonizzati; la fondazione di una o più colonie". Lo stesso termine 'colonia' deriva dal latino colonia, parola indicante una masseria o un insediamento agricolo: coloni, dunque, erano considerati quegli agricoltori che creavano nuovi insediamenti. Una colonia era appunto un insediamento di cittadini dell'antica Roma in un territorio ostile o appena conquistato, abitando il quale essi conservavano nondimeno i loro diritti di cittadinanza. Questi elementi continuarono a essere fondamentali nel moderno concetto di colonizzazione, e infatti molte colonie costituite in epoca moderna erano composte da individui che fondavano comunità agricole in terra straniera continuando a essere cittadini (o sudditi) dello Stato da cui provenivano, la madrepatria. In questi luoghi i coloni portavano con sé la legge e molte delle istituzioni del loro paese d'origine: insediamenti di questo tipo, pur lontanissimi, diventavano vere e proprie estensioni della madrepatria. Ma la parola cominciò a essere utilizzata anche in riferimento a un vasto numero di territori che divennero possedimenti di altri Stati, nonostante fossero pochissimi coloro che vi si trasferivano stabilmente e nonostante tali territori non fossero, da un punto di vista giuridico, possedimenti della madrepatria, di cui non adottavano né le leggi né i costumi. La Nigeria, per esempio, viene convenzionalmente considerata una 'colonia' britannica; di quel vasto paese, tuttavia, soltanto il Lagos era una colonia giuridicamente appartenente alla Gran Bretagna, in cui coloro che vi risiedevano in pianta stabile erano sudditi britannici e in cui, nella maggior parte dei casi, prevaleva la legge britannica. La rimanente parte del territorio - suddivisa a sua volta in due regioni distinte, l'una a nord e l'altra a sud - era giuridicamente un protettorato sul quale la Gran Bretagna esercitava la sua autorità, in virtù di trattati stipulati con i governanti locali e in virtù della sua stessa potenza. Gli abitanti di queste due regioni si trovavano sotto la protezione britannica, senza però essere considerati veri e propri sudditi. Altrove le 'colonie' stavano a indicare degli Stati protetti, delle unità politiche autoctone che mantenevano la propria autonomia e nazionalità, anche se sotto il reale controllo di una potenza imperiale straniera; esempi di questo genere furono il Marocco e i sultanati della Malesia. A creare ulteriore confusione, dopo il 1918 gli alleati vittoriosi si spartirono, con il nome di 'mandati', tutti i possedimenti tedeschi d'oltremare (che erano dei protettorati) e ciò che rimaneva delle conquiste ottomane in Medio Oriente. In pratica, un mandato era alquanto simile a un protettorato, o Stato protetto, ma era governato sotto la supervisione della Società delle Nazioni e successivamente, in quanto territorio soggetto ad amministrazione fiduciaria, sotto quella delle Nazioni Unite.
Queste, tuttavia, sono distinzioni puramente tecniche, e sarebbe ora davvero fuori luogo restringere la trattazione delle vicende coloniali a quei territori che erano pienamente conformi a una qualche rigorosa definizione giuridica. In questo articolo, pertanto, il termine 'colonia' sarà assunto per indicare qualsiasi territorio venutosi a trovare sotto l'effettivo controllo politico di un altro Stato, ma rimasto pur sempre distinto da questo. Insieme la madrepatria e le sue colonie costituivano un 'impero', termine rispecchiante l'autorità e il potere di quel centro intorno a cui ruotava tutto il resto. È chiaro che una definizione così generica potrebbe includere, almeno potenzialmente, molti paesi di solito non considerati colonie: per esempio, i possedimenti balcanici dell'Austria prima del 1918, oppure gli Stati dell'Est europeo, che si trovavano sotto il diretto controllo sovietico. Nella presente trattazione questi casi marginali sono esclusi: il termine 'colonizzazione' verrà assunto nel suo significato più comune di insediamento in, o di controllo su, un territorio chiaramente distinto dalla sua madrepatria per quel che riguarda sia la collocazione geografica sia le caratteristiche climatiche, etniche e culturali. Conseguenza della colonizzazione è il colonialismo, ovvero l'assoggettamento di un territorio o di un popolo.
La parola 'decolonizzazione' è entrata a far parte del vocabolario in epoca più recente: il Supplement del 1972 all'Oxford English dictionary fa risalire la comparsa di questo termine nella lingua inglese al 1938, quando esso fu utilizzato nella frase: "un movimento di decolonizzazione sta dilagando in tutti i continenti". Parola di origine francese e applicata in primo luogo alle colonie della Francia, intorno al 1972 essa giunse a indicare "l'abbandono, da parte di una potenza coloniale, delle colonie precedentemente acquisite: la conquista, da parte di tali colonie, dell'indipendenza politica o economica", ovvero una totale emancipazione. L'espressione originaria inglese era 'trasferimento di potere', espressione che aveva il significato più limitato e specifico di cessazione della sovranità politica e del controllo esercitati dalla madrepatria su un territorio da essa dipendente, cessazione simbolicamente racchiusa nell'atto di ammainare la bandiera imperiale e nel trasferimento delle leve del potere alla classe politica dello Stato in via di formazione. Questa fase di transizione poteva concludersi con una completa emancipazione delle ex colonie dai molteplici aspetti della loro dipendenza, ma poteva anche non giungere a tanto, almeno a breve termine. È forse per questo motivo che 'decolonizzazione' è divenuto attualmente il termine preferito, in un'accezione volutamente generica, per indicare la fine del colonialismo in tutte le sue manifestazioni, e anche noi ci atterremo a quest'uso.
La colonizzazione e la decolonizzazione hanno caratterizzato la storia umana da sempre, o perlomeno da quando vi sono testimonianze storiche pervenute fino a noi. Quasi tutti i territori dell'Europa, dell'Africa, dell'Asia, dell'America centrale e meridionale hanno fatto parte di qualche impero molto tempo prima della moderna colonizzazione europea. Gli Egiziani, i Babilonesi, gli Assiri, i Persiani, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Cinesi, gli Incas e gli Aztechi furono tutti popoli che fondarono altrettanti imperi: si trattava quasi sempre di imperi continentali, edificati attraverso un'espansione militare nelle regioni limitrofe, ma ci sono stati anche imperi marittimi più simili agli imperi europei dell'epoca moderna. Gli indù e i musulmani, partendo rispettivamente dall'India e dall'Arabia, si sono insediati o hanno imposto la loro autorità in molte aree dell'Oceano Indiano, nel Sudest asiatico e nel Mediterraneo; i Cinesi colonizzarono molte isole dell'arcipelago indonesiano; i Veneziani edificarono un impero marittimo nel Mediterraneo; ampie zone del Pacifico meridionale furono colonizzate da popolazioni le cui origini rappresentano ancora argomento di discussione. La trattazione di tutte queste imprese di conquista potrebbe a buon diritto essere inclusa in un saggio sulla colonizzazione; in effetti J. A. Schumpeter sosteneva che non esiste una ben definita linea di demarcazione tra il processo di fondazione degli imperi antichi e quello degli imperi moderni: sono stati tutti, in larghissima misura, il prodotto di quelle che egli ha chiamato "tendenze 'prive di scopo' a un'espansione impetuosa, condotta senza alcuna finalità chiaramente utilitaristica, seguendo piuttosto delle inclinazioni non razionali e irrazionali, puramente istintive, alla guerra e alla conquista". Allo stesso modo, si potrebbero riscontrare analogie molto strette tra le origini della decolonizzazione attuatasi nell'antichità e le origini della decolonizzazione moderna. In questa sede, tuttavia, la colonizzazione verrà esaminata unicamente nel contesto dell'espansione dell'Europa moderna a partire dal XV secolo, e questo perché, tra le altre cose, sarebbe impossibile affrontare esaurientemente, in un breve articolo, il tema della colonizzazione in tutte le epoche storiche: ciò equivarrebbe a ripercorrere la storia di tutto il mondo conosciuto. Ma una ragione più importante sta nel fatto che vi sono fondamentali differenze tipologiche tra le forme di colonizzazione proprie delle varie epoche: gli imperi continentali dell'antichità, per esempio, possono manifestare qualche somiglianza con gli imperi costituitisi entro i confini geografici dell'Europa, ma non ne hanno quasi nessuna con i moderni imperi d'oltremare. Esiste, piuttosto, un'affinità di gran lunga maggiore tra questi ultimi e i più antichi imperi marittimi, o almeno parzialmente tali, come quelli fondati da Atene, Cartagine, Roma, Venezia e dagli Ottomani. In effetti potrebbero essere individuate tra i primi e i secondi molte significative analogie, sebbene, in ultima analisi, si debbano riconoscere tra di essi differenze di genere, non semplicemente di grado. La lontananza dei possedimenti, la loro estensione, le radicali differenze di clima e di cultura, la tecnologia delle comunicazioni, le strategie di controllo politico e i sistemi di sfruttamento economico collocano i moderni imperi d'oltremare su un piano a sé stante. Essi rappresentano un oggetto di studio del tutto particolare e verranno qui esaminati in quanto fenomeni storici speciali se non unici. L'analisi si articola in quattro capitoli principali. Il secondo capitolo descrive le forme di colonizzazione risalenti agli albori dell'Europa moderna, dal XV secolo alla metà del XVIII. Il terzo si occupa della colonizzazione moderna nel periodo compreso tra il 1763 e il 1945. Il quarto analizza le caratteristiche delle moderne società coloniali prodotte dalla colonizzazione. Il quinto esamina le cause e il processo stesso della decolonizzazione, valutando fino a che punto il trasferimento del potere abbia dato luogo a una ristrutturazione radicale della fisionomia delle ex colonie e dei loro legami col mondo esterno.
Sotto molti e importanti punti di vista, la colonizzazione europea attuatasi tra il XV e il XVIII secolo differì da quella posteriore, del XIX secolo e oltre. In primo luogo, in quell'epoca gli Europei non erano, per molti versi, molto più progrediti sul piano tecnologico né molto più civilizzati della maggior parte dei popoli che conquistavano. Ciò era particolarmente vero rispetto ai popoli asiatici i quali, quanto alle tecniche produttive, all'equipaggiamento militare, alla conoscenza dei mari e della tecnologia navale, alle capacità scientifiche, al grado di istruzione e ai presumibili livelli di reddito (tanto per richiamare alcuni ovvi parametri), erano almeno sullo stesso piano dei popoli dell'Europa occidentale. In verità l'Europa stava appena raggiungendo, in alcuni settori, e ricorrendo spesso all'imitazione, il grado di civiltà delle più avanzate società orientali. Ciò era invece meno vero per le Americhe, le cui popolazioni si erano sviluppate in modo diverso rispetto a quelle europee e asiatiche: questo fu uno dei principali motivi per cui l'espansione della colonizzazione europea di questo periodo avvenne prevalentemente verso ovest, verso l'area, cioè, in cui la resistenza era relativamente debole. Le strutture politiche del Messico e del Perù, tuttavia, nonché taluni aspetti delle loro rispettive culture, erano a modo loro notevoli quanto quelli dell'Europa. Gli Europei avevano un largo margine di vantaggio rispetto a molte popolazioni dell'Africa Nera, ma quest'ultima non rappresentò affatto la più importante terra di conquista durante il periodo cui stiamo facendo riferimento. In sostanza, il principale vantaggio che gli Europei possedevano in quest'epoca era una maggiore mobilità, frutto di progressi relativamente recenti nell'ingegneria navale e negli equipaggiamenti di bordo; essa andava a sommarsi al vantaggio di trovarsi nella condizione di chi attacca e non in quella di chi è costretto a difendersi. Si potrebbe persino riscontrare un'analogia tra gli Europei dell'epoca e i Vichinghi dei secoli VIII-XI, i quali furono in grado di assalire, e spesso di occupare stabilmente, intere regioni dell'Europa nordorientale nonché le isole britanniche. I successi ottenuti dai Vichinghi contro società ben più ricche ed evolute della loro non furono dovuti, se non in misura irrilevante, a una loro superiorità tecnologica, ma soprattutto alla determinazione da essi dimostrata e al fatto che le loro strutture politiche e sociali erano appositamente organizzate per la guerra e il saccheggio. Il saccheggio, in effetti, fu il secondo aspetto caratteristico del periodo iniziale della moderna colonizzazione d'oltremare. Karl Marx non era lontano dal vero nella sua descrizione dell'estrema brutalità di questa fase. "La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l'incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell'Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l'aurora dell'era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell'accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l'orbe terracqueo come teatro" (Il capitale, libro I, cap. XXIV).
Le radici di questo saccheggio indiscriminato devono essere cercate nell'atteggiamento che la maggior parte degli Europei presumibilmente aveva, prima della fine del XVIII secolo, nei confronti delle popolazioni di diversa religione e cultura. Nella concezione cristiana tutti i non cristiani erano infedeli (era soprattutto il caso dei musulmani) oppure pagani, che si trovavano al di là dei limiti del mondo civilizzato quale l'Occidente lo concepiva. Oltre a ciò, soprattutto per Portoghesi e Spagnoli, la colonizzazione non rappresentava che la semplice prosecuzione delle guerre di riconquista della penisola iberica combattute contro i musulmani, una continuazione delle crociate. Il rispetto per i diritti delle altre popolazioni era quindi molto scarso e, comunque, veniva tributato ai forti, non ai deboli. Un elemento aggiuntivo era costituito dal fatto che il commercio con i continenti più lontani, inteso nel suo senso moderno, fu, per la maggior parte del periodo in questione, necessariamente limitato. L'Europa poteva offrire ben poco all'Asia in cambio dei generi di lusso che desiderava - e che, nel passato, dovevano essere trasportati esclusivamente attraverso vie di comunicazione terrestri - dal momento che i sistemi produttivi asiatici erano, in molti settori, più avanzati di quelli occidentali. Di qui il ruolo fondamentale giocato dall'esportazione di lingotti d'oro per il pagamento delle merci importate e il ricorso alla forza per istituire monopoli commerciali. Le Americhe, viceversa, producevano inizialmente poche merci che l'Europa avrebbe desiderato importare, a eccezione delle enormi quantità di metalli e di oggetti preziosi. In queste regioni, pertanto, i conquistatori razziarono tutto quello che poterono trovare e portar via, e in un secondo momento impiantarono nuove forme di produzione basate sulla principale risorsa che le Americhe (come del resto l'Africa) possedevano: la manodopera. In breve, è difficile pensare a qualcosa d'importante che la colonizzazione europea avrebbe potuto apportare in questo periodo all'Asia, come pure a qualche contributo di un certo valore che gli Europei avrebbero potuto dare alla civiltà dei popoli asiatici. Alle Americhe, invece, essi apportarono moltissime cose, ma soprattutto posero le fondamenta di quelle che in seguito dovevano diventare importanti società e civiltà; tuttavia, come vedremo più avanti, nel breve termine il loro impatto col continente americano fu largamente distruttivo.
La terza caratteristica principale di questo periodo fu lo squilibrio tra la colonizzazione dei territori oltre Atlantico e quella delle altre parti del globo. Tale squilibrio non fu certamente né voluto né pianificato. L'obiettivo primario del Portogallo e della Spagna, i pionieri della moderna colonizzazione europea, era quello di trovare una rotta marittima verso le favolose ricchezze dell'Oriente, conosciute attraverso i resoconti di Marco Polo e attraverso molti racconti più o meno immaginari, come quelli che riguardavano Prete Gianni, il celebre sovrano cristiano che originariamente si pensava risiedesse in Asia. Navigando lungo tutta la costa occidentale dell'Africa, i Portoghesi giunsero finalmente a doppiare il Capo di Buona Speranza, tra il 1487 e il 1488, ma solo nel 1498 Vasco de Gama raggiunse la costa del Malabar, nell'India meridionale. Questo avvenimento è stato all'origine della colonizzazione europea dell'Asia. In un lasso di tempo particolarmente breve i Portoghesi, avendo già stipulato con la Spagna il trattato di Tordesillas (1494), con il quale avevano ottenuto il monopolio del commercio con tutte le terre scoperte a est di una linea immaginaria che passava 270 leghe (all'incirca 1.760 chilometri) a ovest di Capo Verde, tracciarono i lineamenti essenziali del loro impero asiatico. Questo impero si basava sulla potenza navale e sui porti fortificati e non su un controllo politico-territoriale ad ampio raggio o su una vera e propria opera di colonizzazione. Con una serie di fortezze distribuite su un territorio che si estendeva dall'Africa occidentale a quella orientale, a Ormuz nel Golfo Persico, alle coste dell'India (con Goa come centro operativo strategico), per arrivare poi alla Malacca e infine a Macao, presso Canton, e al Giappone, i Portoghesi riuscirono a ottenere il controllo dei vari sistemi commerciali regionali. Attraverso l'imposizione di dazi sulla navigazione essi si procuravano il denaro necessario all'acquisto delle merci, e attraverso l'instaurazione di monopoli locali potevano acquistare beni a buon mercato. Si ebbe una ridottissima colonizzazione nella forma di una emigrazione costante dal Portogallo, nonostante si celebrassero molti matrimoni misti tra soldati, marinai, funzionari portoghesi e donne del posto; questo fatto, unitamente al ruolo svolto dalla Chiesa cattolica, pose le fondamenta di quell'influenza che i Portoghesi - tranne i casi in cui vennero fisicamente espulsi da altri colonizzatori europei o, come in alcune regioni dell'Africa orientale, dai musulmani - hanno continuato a esercitare fino al XX secolo.
Il modello portoghese di colonizzazione dell'Asia fu praticamente l'unico possibile, tenuto conto della distanza e del rapporto di forze tra Europei e Stati indigeni. Esso, peraltro, si rivelò anche molto vantaggioso, nella misura in cui fu possibile monopolizzare il commercio con determinati territori. Per questi motivi gli altri Stati europei seguirono da vicino l'esempio portoghese. La Spagna fu tenuta fuori dall'Asia con un trattato, ma ciò non le impedì, verso la fine del XVI secolo, di intaccare il monopolio portoghese con l'occupazione delle Filippine. Inghilterra, Olanda e Francia non sottoscrissero quel trattato e non accettarono le bolle pontificie che lo avevano preceduto. Dalla fine del XVI secolo, favorite dall'unificazione delle Corone portoghese e spagnola (1580) e dal fatto di aver combattuto spesso contro la Spagna, anche l'Inghilterra, l'Olanda e la Francia iniziarono a effettuare spedizioni in Asia. Queste nazioni, che sulle prime miravano a intrattenere rapporti commerciali senza acquisire possedimenti territoriali, compresero ben presto che, per ottenere le necessarie garanzie di sicurezza, erano essenziali delle basi fortificate. Di fronte all'atteggiamento ostile dei Portoghesi, le altre potenze europee si videro costrette a occuparne le basi in diversi punti chiave. Fu così che, nei primi anni del XVIII secolo, ognuno di questi Stati europei aveva fondato una propria rete di basi, stipulato trattati con i governanti locali e dato inizio a un'intensa attività commerciale. Inglesi e Francesi rivolsero la propria attenzione soprattutto all'India; gli Olandesi ebbero invece un campo di operazioni più vasto, che comprendeva l'India, Ceylon e l'arcipelago indonesiano. Ognuno di questi paesi imitò i Portoghesi nei loro tentativi di monopolizzare il commercio di determinati prodotti, ma, mentre le attività commerciali dei Portoghesi venivano intraprese dalla Corona e continuavano sotto il suo diretto controllo, gli Stati settentrionali erano rappresentati da compagnie private, ciascuna delle quali gestiva, in regime di monopolio, gli scambi commerciali tra l'Asia e la madrepatria. Soltanto a partire dalla seconda metà del XVIII secolo questi modelli fondamentali di colonizzazione vennero sostanzialmente modificati e la strategia incentrata su un controllo limitato del territorio fu sostituita da una strategia di vera e propria dominazione. La colonizzazione delle Americhe, quindi, era considerata a quel tempo del tutto secondaria rispetto a quella dell'Asia. Naturalmente essa fu anche la conseguenza della ricerca di una rotta marittima per l'Oriente navigando verso Occidente. La storia della scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo, che sbarcò nel 1492 a Hispaniola credendo di trovarsi sulla rotta per l'Asia, nonché la storia della successiva conquista spagnola di altre isole caraibiche e poi, dopo il 1519, del Messico e del Perù, non possono essere qui ripercorse. Il fatto veramente importante è che, nel momento in cui si comprese che quella non era una rotta diretta per l'Oriente e che le Americhe non producevano le spezie e tutti gli altri generi di lusso che gli Spagnoli andavano cercando, nacque e si sviluppò un modello di colonizzazione radicalmente nuovo. A partire da quel momento gli Europei dovettero affidarsi all'improvvisazione, adattando le proprie tecniche al nuovo ambiente. La loro rapidità di adattamento fu davvero notevole: lo dimostra il fatto che la seconda flotta guidata da Colombo nel 1493 non trasportò merci da scambiare, bensì 1.200 uomini tra soldati, preti, notabili, artigiani e agricoltori, nonché l'equipaggiamento necessario a un insediamento permanente. Ci si era già resi conto che il valore dell'America dipendeva dalla sua effettiva occupazione.
I primi due secoli e mezzo di colonizzazione delle Americhe possono essere considerati un periodo di sperimentazione dedicato alla ricerca del modo migliore di sfruttare le risorse del continente e dei Caraibi. Gli Spagnoli furono subito raggiunti dai Portoghesi, i quali scoprirono che il Brasile si trova a est della linea tracciata nel 1494, dai Francesi, dagli Inglesi e dagli Olandesi; tutti i nuovi arrivati si opposero alla pretesa della Spagna di rimanere l'unica nazione occupante, ma poi finirono saggiamente per insediarsi in regioni che si trovavano al di fuori dell'effettiva sfera d'influenza spagnola. Fino alla fine del XVIII secolo la presenza degli Spagnoli rimase la più massiccia. Dai Caraibi, dove sperimentarono varie forme di produzione, come quella della canna da zucchero, nonché lo sfruttamento del lavoro forzato cui sottoposero gli Amerindi (il sistema del repartimiento), essi si diressero verso l'istmo centroamericano, e da lì verso il Messico e il Perù. In ognuna di queste regioni distrussero gli imperi autoctoni in cui s'imbatterono, e istituirono non solo le proprie forme di governo ma anche le proprie imprese commerciali: in Messico, enormi tenute agricole (le haciendas) basate sul lavoro forzato; in Perù, aziende agricole e miniere d'argento. Al di fuori di questi due insediamenti principali, l'occupazione spagnola fu piuttosto limitata, sebbene andasse espandendosi rapidamente in direzione della California, del Venezuela e dell'attuale Argentina già verso la fine del XVIII secolo. Modelli differenti di colonizzazione e di attività economica furono adottati in altre regioni da altri colonizzatori europei. I Portoghesi impiantarono in Brasile una produzione di zucchero su larga scala, che fu imitata da Inglesi, Francesi e Olandesi nei Caraibi. In tutte queste piantagioni il lavoro era svolto da schiavi importati dall'Africa occidentale, e ciò dette origine a sua volta a un enorme traffico di schiavi, che costituì probabilmente il più importante sottoprodotto economico della colonizzazione americana. Nella parte continentale dell'America settentrionale, che già alla fine del XVIII secolo era stata largamente occupata dagli Inglesi e dai Francesi a nord dei possedimenti spagnoli negli attuali Mississippi e Florida, i modelli di occupazione e di produzione variarono a seconda del clima e delle circostanze.
Le colonie inglesi centromeridionali, che si estendevano verso nord fino al Maryland, somigliavano alle colonie caraibiche, piene com'erano di piantagioni basate sul lavoro degli schiavi e di aziende agricole che producevano zucchero, tabacco e riso. Più a nord l'attività economica prevalente andava dalla produzione di frumento al commercio delle pelli con gli indigeni. Le colonie della Nuova Inghilterra erano invece diverse da tutte le altre, in quanto si trattava principalmente di insediamenti in cui i coloni si sforzavano di riprodurre quella società che avevano abbandonato nella madrepatria, ma entro un contesto economico alquanto sfavorevole che li costringeva a fare affidamento su un'agricoltura di sussistenza, sulla produzione di legname, sulla costruzione di navigli, sulla pesca e sul commercio. Ancora più a nord e a ovest gli insediamenti francesi lungo il fiume San Lorenzo dipendevano quasi interamente dal commercio delle pelli e dalla pesca. Questo processo di colonizzazione e di sperimentazione fu soprattutto opera di coloni europei che agivano seguendo i propri interessi personali, pur ricevendo quasi sempre il sostegno formale dei rispettivi governi. Dal punto di vista dei coloni, tutto ciò che guadagnavano apparteneva loro di diritto, ma i paesi da cui provenivano e di cui invariabilmente conservavano la nazionalità erano di diverso avviso: per Madrid, Lisbona, Parigi, Londra e L'Aia, le colonie esistevano esclusivamente al fine di servire gli interessi della madrepatria. La principale difficoltà che questi Stati si trovarono ad affrontare fu quella di assicurarsi che i coloni si comportassero effettivamente secondo gli interessi del paese d'origine. La soluzione, trovata dopo un lungo periodo e solo successivamente descritta (da Adam Smith nel 1776) come 'sistema mercantilista', fu quella di assicurare alla madrepatria il monopolio del commercio con le sue colonie. Anche in questo caso gli Spagnoli furono i pionieri: fin dalle prime fasi della colonizzazione ogni spedizione commerciale da e per le colonie doveva passare attraverso un solo porto (originariamente Siviglia, in seguito Cadice), doveva essere effettuata per mezzo di flotte spagnole, che partivano una volta all'anno, e poteva essere intrapresa unicamente da mercanti spagnoli. La Corona imponeva dazi su tutte le merci da e per le Indie e incamerava anche un decimo del valore di tutti i metalli preziosi. Più tardi gli altri Stati europei seguirono questo modello in tutti i suoi aspetti, eccettuata la concentrazione dei traffici coloniali in un unico porto. Così le leggi inglesi sulla navigazione, promulgate a partire dal 1651, insistevano sul fatto che: a) tutti i commerci con le colonie dovessero avvenire attraverso navi i cui proprietari e i cui equipaggi fossero sudditi inglesi (in seguito britannici); b) tutte le merci dirette alle colonie dovessero essere di produzione britannica, o almeno trasbordate presso un porto britannico; c) tutte le esportazioni delle colonie, salvo poche eccezioni, dovessero, come prima destinazione, essere inviate direttamente in Gran Bretagna. In questo modo il governo britannico poté essere certo di ottenere cospicue entrate doganali, i manufatti nazionali ebbero un mercato garantito, i commercianti, i carpentieri e gli armatori ebbero un lavoro sicuro e un profitto derivante dalla situazione di monopolio in cui operavano, e la bilancia nazionale dei pagamenti fu sostenuta dalle massicce riesportazioni di prodotti coloniali in Europa. Queste restrizioni furono in seguito denunciate, da Adam Smith e da altri economisti liberali, come grossi ostacoli alla creazione di ricchezza, tanto nelle colonie quanto nella madrepatria.
L'analisi successiva ha messo in dubbio la validità assoluta di questo giudizio, evidenziando tra l'altro che gli effetti del mercantilismo variavano ampiamente a seconda della capacità dello Stato colonizzatore di assistere adeguatamente le proprie colonie. Nel corso del XVIII secolo le colonie spagnole e portoghesi risentirono incontestabilmente del declino economico dei loro padroni europei, i quali si limitavano a raccogliere gran parte dei proventi del commercio coloniale (estorcendo anche denaro con le imposte dove possibile), senza però riuscire a garantire alle proprie colonie i mercati e le esportazioni di cui necessitavano. All'altro estremo, le colonie britanniche beneficiavano del fatto che la Gran Bretagna offriva in ogni caso il miglior mercato e i migliori servizi commerciali disponibili in Europa, anche se il regime monopolistico cui erano sottoposte abbassava i prezzi dei prodotti d'esportazione e innalzava quelli delle merci importate. Il carattere delle economie coloniali, in ogni caso, era ovunque determinato dalla dotazione di fattori produttivi e dalle iniziative imprenditoriali dei coloni, elementi che avrebbero potuto essere ben poco diversi da quello che in realtà furono, anche se si fossero sviluppati in un mondo libero da restrizioni commerciali.
Le forme di governo, le leggi e le istituzioni delle prime colonie americane, contrariamente a quelle di molti paesi caduti più tardi sotto la dominazione europea, erano molto simili a quelle degli Stati fondatori. I coloni conservavano non solo la propria nazionalità e i diritti fondamentali, ma anche il dovere di obbedienza al proprio sovrano. Gli Stati assolutistici - Portogallo, Spagna e Francia - governavano le proprie colonie attraverso istituzioni modellate su quelle della madrepatria, che non permettevano ai coloni di assumere alcuna importante funzione di governo, a meno che non ricoprissero cariche ufficiali. I governatori e i vari consigli detenevano un potere pressoché assoluto, limitato solo dalla legge e dalla supervisione della madrepatria. I possedimenti olandesi erano amministrati autocraticamente da agenti della Compagnia delle Indie Occidentali. Soltanto nelle colonie inglesi vigeva una sorta di autogoverno. In parte perché erano state tutte fondate da società autorizzate o da singoli proprietari, ma soprattutto perché la legge inglese conferiva ai coloni il diritto di stabilire autonomamente le imposte, tutte le colonie avevano assemblee rappresentative e governi locali elettivi. Di conseguenza queste colonie si abituarono subito ad amministrare autonomamente i propri affari, e questa fu la ragione principale per cui, dopo il 1763, si opposero alla crescente interferenza britannica e alla fine combatterono fino a ottenere l'indipendenza.
Nei sessant'anni successivi al 1763 si verificò la prima svolta importante nella colonizzazione europea. Fino a quel momento il processo era sembrato continuo e destinato a protrarsi indefinitamente: le colonie già esistenti sarebbero rimaste nella loro condizione di colonie; i loro confini si sarebbero ampliati; altre parti del globo sarebbero progressivamente cadute sotto il controllo europeo. Eppure già negli anni venti del XIX secolo il quadro era mutato completamente: la maggior parte dell'America era formata da Stati indipendenti e la Gran Bretagna possedeva l'unico grande impero d'oltremare, il cui centro si era spostato in Asia. Il processo di decolonizzazione - o, più precisamente, di trasferimento del potere, poiché le ex colonie rimanevano per molti aspetti sotto l'egemonia culturale ed economica europea - fu per più ragioni sorprendente e imprevedibile. Contrariamente alla maggior parte delle colonie fondate successivamente, nelle quali gli Europei non erano che una minoranza straniera e i cui abitanti avevano pochi legami culturali e storici con la madrepatria, le colonie americane si erano sempre considerate parte integrante della madrepatria: la loro lealtà nei suoi confronti era profonda. È dunque necessario scoprire cosa avvenne, in quegli anni, di così importante da indebolire quei legami e da indurre le colonie a chiedere l'indipendenza. Le colonie britanniche furono le prime a rivendicare l'indipendenza, nel 1776, e le prime a ottenerla dopo sette anni di guerra, nel 1783. La ragione di fondo della loro ribellione fu che dopo il 1763, soprattutto per le conseguenze delle guerre combattute contro Francia e Spagna, gli Inglesi tentarono di imporre negli affari coloniali un grado di controllo senza precedenti. Al fine di reperire i fondi necessari a mantenere un esercito regolare permanente nel Nordamerica, essi imposero nuove tasse, in particolare la stamp tax (tassa di bollo) del 1765. Per ottenere che le leggi sulla navigazione venissero rispettate, fecero ricorso alla flotta e istituirono nuovi tribunali. Alle lamentele avanzate dalle colonie risposero con una combinazione di concessioni e di restrizioni ancora più dure. La politica interna delle colonie giocò un ruolo importante, ma alquanto complesso: alla fine gli Inglesi furono indotti, dai loro oppositori nelle colonie, soprattutto nel Massachusetts, a ricorrere alla forza militare; si trattò di un passo avventato, che consentì alla minoranza di radicali di ottenere il sostegno della maggioranza. Gli Inglesi avrebbero potuto uscire vincitori dalla guerra che ne risultò, se avessero combattuto in modo più intelligente; ma non lo fecero e, con un decisivo aiuto da parte dei Francesi, i coloni riuscirono a spuntarla. Il trattato di pace del 1783 riconobbe l'indipendenza sovrana delle tredici colonie continentali, che si unirono a formare gli Stati Uniti, lasciando alla Gran Bretagna il Quebec (tolto alla Francia nel 1763), le cosiddette province marittime e le sue isole dei Caraibi. Le prime a seguire l'esempio delle colonie inglesi furono le colonie spagnole.
A partire dagli anni sessanta del XVIII secolo, molte di esse si erano sviluppate rapidamente e la Spagna aveva mitigato alcune delle più oppressive restrizioni economiche. Le idee libertarie provenienti dagli Stati Uniti esercitavano una certa influenza, ma la maggioranza dei coloni appariva soddisfatta della dominazione spagnola e così, nel 1806, i tentativi di invasione del Venezuela e di Buenos Aires da parte di elementi nazionalisti appoggiati dalla flotta britannica furono respinti dai lealisti locali. La svolta decisiva avvenne con l'occupazione della Spagna da parte di Napoleone, nel 1808, e con la forzata abdicazione del re Carlo IV in favore di Giuseppe Bonaparte. Le colonie spagnole rimasero fedeli a Carlo, ma fino all'effettiva ascesa al trono, nel 1814, del suo erede, Ferdinando VII, dovettero provvedere a se stesse. L'esperienza di questo periodo di autonomia, unita alla libertà commerciale senza precedenti di cui godettero nei loro traffici con il resto del mondo, provocò la svolta. Anche se tutte le colonie americane della Spagna, eccettuata l'Argentina, acconsentirono a ritornare sotto la giurisdizione imperiale dopo il 1814, esse non erano preparate ad accettare in tutto il suo rigore il controllo che la restaurata monarchia e il Parlamento spagnoli cercarono di imporre. La resistenza, comunque, non fu né uniforme né generalizzata: permaneva ancora un forte spirito lealista. Ma si erano ormai costituiti gruppi di pressione e nuclei di guerriglieri che combattevano per l'indipendenza. Costoro, nel corso del decennio compreso tra il 1814 e il 1824, incoraggiati anche da quanto andavano sostenendo gli Inglesi, e cioè che i Francesi non avrebbero fornito al governo spagnolo alcun aiuto militare o navale, riuscirono infine a sconfiggere l'inadeguato esercito spagnolo e i lealisti locali. Gli Inglesi furono premiati per la solidarietà manifestata: queste colonie divennero estremamente dipendenti dalla Gran Bretagna per quel che riguardava la protezione militare, i traffici commerciali e gli investimenti di capitali. Il trasferimento dei poteri significò, per le colonie spagnole, il passaggio da una subordinazione formale alla Spagna a una dipendenza informale dalla Gran Bretagna e in seguito dagli Stati Uniti.
Il caso del Brasile fu per molti versi analogo a quello delle colonie spagnole. Il Portogallo venne occupato dai Francesi nel 1807 e la famiglia reale portoghese trasferì la capitale a Rio de Janeiro, che pertanto diventò il centro dell'impero portoghese e prosperò grazie a una libertà di commercio con i paesi d'oltremare fino a quel momento sconosciuta. Anzi, persino dopo la liberazione di Lisbona, nel 1811, il reggente, Don Giovanni, preferì rimanere a Rio, cosicché il Portogallo divenne in un certo senso una dipendenza del Brasile. Nel 1815 il Brasile fu dichiarato 'regno fratello' del Portogallo, senza alcuna subordinazione a esso. Dopo la rivoluzione portoghese del 1820, Giovanni, divenuto re nel 1816, dovette tornare a Lisbona lasciando suo figlio Pedro reggente del Brasile. Il resuscitato Parlamento portoghese (Cortes), liberale in patria, si rivelò illiberale oltreoceano: al pari delle Cortes spagnole, tentò di far tornare il Brasile in una posizione subordinata, con la conseguenza che i gruppi repubblicani e lealisti di Rio si coalizzarono, il rapporto privilegiato col Portogallo venne interrotto e Pedro fu incoronato imperatore del Brasile. La separazione formale fu riconosciuta dal Portogallo nel 1825 in seguito all'arbitrato britannico, anche se la famiglia reale non si divise sino al 1828. Il Brasile rimase una monarchia sotto la medesima famiglia dei Braganza sino a quando, nel 1889, non divenne una repubblica. Ma se il periodo successivo al 1763 segnò l'imprevista fine del dominio europeo nell'America continentale, esso vide anche l'inizio di un'opera di colonizzazione su larga scala negli altri continenti, e in particolare lo smisurato ampliamento dei possedimenti britannici. Due processi erano in atto in quegli anni: il trasferimento delle colonie, durante e dopo i periodi di guerra tra le nazioni europee, dalle mani degli Stati sconfitti in quelle degli Stati vincitori e l'allargamento della sfera d'influenza dell'Europa su regioni che prima non si trovavano sotto il suo diretto controllo. Tutto ciò, unitamente alla perdita delle colonie americane, condusse alla creazione di un impero europeo di tipo sostanzialmente nuovo, il cui centro di gravità era situato nell'Oceano Indiano e in cui la maggior parte dei sudditi non erano europei. Il primo di questi due processi fu innescato dalle guerre combattute tra il 1756 e il 1763 e tra il 1793 e il 1815. Come risultato delle prime, la Gran Bretagna tolse i possedimenti nordamericani e alcune isole dei Caraibi alla Francia, nonché la Florida alla Spagna. Le conseguenze delle guerre combattute a partire dal 1793 furono ancora più rilevanti: per quanto riguarda i possedimenti occidentali, la Gran Bretagna tolse la Guiana all'Olanda e Trinidad alla Spagna; tali annessioni, a differenza di altre, non trasformarono però radicalmente il carattere dell'impero.
Nel 1815 la Gran Bretagna acquisì anche i possedimenti olandesi del Capo di Buona Speranza, di Ceylon e della Malacca - rafforzando in tal modo la propria linea di comunicazione con l'Oriente - e tolse l'isola Maurizio alla Francia. Altri territori olandesi e francesi occupati nel corso delle varie guerre dovettero essere restituiti alla firma della pace, ma in un sol colpo la Gran Bretagna aveva trasformato un impero di lingua inglese in un impero poliglotta, che non poteva più essere governato secondo i tradizionali metodi britannici. Ciò condusse all'istituzione del sistema di autogoverno, sistema che divenne prevalente nel corso del XIX secolo. Anche questi eventi, tuttavia, risultano di secondaria importanza a paragone di quelli che si verificarono in India. Verso la metà del XVIII secolo, la Compagnia inglese delle Indie Orientali era ancora una semplice impresa commerciale, assai simile a com'era al momento della sua nascita (risalente al XVII secolo) e alle analoghe compagnie francesi e olandesi. Essa operava da tre basi principali - Calcutta, Madras e Bombay -, ognuna delle quali costituiva una postazione commerciale fortificata, del tipo di quelle portoghesi. Ma intorno al 1820 la Compagnia deteneva il potere in circa la metà del subcontinente indiano e controllava i governanti indigeni della rimanente metà, fino alle frontiere del Punjab. Come e perché si sia verificata questa trasformazione rimane tuttora una questione ardua e dibattuta. Semplificando i termini del problema si possono avanzare due spiegazioni. La prima è la seguente: il declino dell'effettivo controllo esercitato dagli imperatori moghūl sui governanti di quelle che in teoria erano ancora province imperiali, ma che in realtà si stavano rapidamente trasformando in Stati autonomi, si tradusse in un'endemica instabilità politica che rese sempre più rischiose le normali attività commerciali. Per sopravvivere in queste condizioni, la Compagnia doveva essere in grado di difendersi con le proprie forze, il che implicò sia l'ampliamento dei suoi possedimenti territoriali che la stipulazione di alleanze con i governanti indiani. La presenza dei Francesi e degli Olandesi (alleatisi dopo il 1793) complicò ulteriormente la situazione, dal momento che la guerra combattuta in Europa si estese anche all'India. La Compagnia poté quindi conservare la propria posizione in India soltanto sconfiggendo i Francesi e i loro alleati indiani, e resistendo nello stesso tempo ai tentativi compiuti da alcuni governanti locali, come il viceré del Bengala, di ridurre o addirittura annullare le sue prerogative. In base a questa interpretazione, la compagnia britannica fu costretta dalla situazione determinatasi in India nella seconda metà del XVIII secolo ad assumere un atteggiamento di belligeranza e a espandersi territorialmente. La spiegazione alternativa, anche se in assoluto non incompatibile con la precedente, pone l'accento con molta più enfasi sulla cupidigia della Compagnia e dei suoi rappresentanti in India. Il declino del potere dei Moghūl creò sia nuove opportunità sia pericoli. Se la Compagnia fosse riuscita a guadagnare il controllo di territori più vasti, avrebbe potuto riscuotere le tasse che normalmente venivano versate ai governanti locali o all'imperatore; questi nuovi introiti avrebbero potuto, come minimo, coprire le spese generali che gravavano pesantemente sugli utili derivanti dalle sue operazioni commerciali. Nella migliore delle ipotesi, poi, la riscossione delle tasse avrebbe potuto rivelarsi un'attività più remunerativa del commercio. Ai singoli funzionari della Compagnia, molti dei quali si dedicavano a traffici privati e a prestiti monetari, un accresciuto potere politico della Compagnia avrebbe potuto fornire maggiori opportunità di profitti personali: i governanti indiani avrebbero potuto essere indotti a pagare per ottenere favori e i funzionari della Compagnia avrebbero potuto istituire monopoli commerciali. La conquista, per di più, avrebbe arrecato un grande prestigio e aumentato le opportunità di controllo amministrativo. Secondo questa interpretazione l'espansione britannica in India presenta una stretta somiglianza con la conquista spagnola del Messico e del Perù, per il fatto che in entrambi i casi gli attori principali furono individui in cerca di guadagni e di fama e perché il risultato fu il saccheggio di un subcontinente per profitto personale. Di fatto, entrambe le interpretazioni presentano molti aspetti validi. La Compagnia dovette sicuramente combattere per sopravvivere e col passare del tempo finì per acquisire il controllo dapprima del Bengala, poi gradualmente, intorno al 1820, della maggior parte dell'India. Durante questo processo di espansione, i suoi funzionari sfruttarono ogni opportunità per realizzare il proprio tornaconto, e quelli tra loro che ottennero maggior successo, come Robert Clive, il vincitore della decisiva battaglia di Plassey, combattuta nel 1757 contro le truppe del viceré del Bengala, divennero immensamente ricchi e fecero ritorno in patria da 'nababbi'.
Tuttavia, quando la fase della conquista militare e i primi saccheggi ebbero termine, si presentò agli Inglesi il problema di rimpiazzare quei governi che avevano appena spodestato. Negli anni settanta del XVIII secolo la prospettiva era che il nuovo governo sarebbe stato corrotto e sfruttatore, ma la classe politica britannica si dimostrò pronta a farsi carico, per la prima volta nella storia moderna, delle implicazioni morali della conquista: il governo britannico raggiunse a poco a poco un pieno controllo sulle attività svolte dalla Compagnia e si impegnò ad avviare riforme fondamentali. Nel 1820 la Compagnia aveva cessato qualsiasi attività commerciale in India (nonostante conservasse i suoi traffici con la Cina) ed era diventata un ente amministrativo i cui funzionari raggiunsero gradualmente un elevato livello di moralità pubblica. L'India fu divisa in due parti: quella britannica, direttamente amministrata da funzionari inglesi, che governavano attraverso subalterni indiani, e i regni sopravvissuti, cui fu lasciata una larga autonomia, sebbene fossero obbligati, con un trattato, a pagare contributi alla Compagnia e a comportarsi in modo conforme ai suggerimenti dei 'residenti' della Compagnia stessa presso le loro corti. Nel 1820, dunque, il modello del dominio britannico, quale si è poi conservato fino al XX secolo, trovò la sua forma definitiva, anche se venne continuamente modificato nei particolari, e nel 1858 la Compagnia fu sostituita dalla diretta autorità britannica in seguito alla rivolta dell'anno precedente. La creazione, in Asia, di questo impero territoriale britannico, che fu emulata su scala ridotta dalla graduale estensione dell'autorità olandese su Giava, rappresentò l'evento più importante nella storia della colonizzazione europea a partire dal XVI secolo. Ma intorno al 1820 si era verificato un nuovo sviluppo della situazione, che si dimostrò gravido di conseguenze. Nel 1788 gli Inglesi avevano istituito una colonia penale a Botany Bay, nell'Australia sudorientale. Essi si proponevano forse anche altre finalità, ma il loro obiettivo primario era semplicemente quello di trovare un posto che sostituisse le colonie americane come luogo di reclusione lontano dalla madrepatria. Intorno al 1820 questo piccolo insediamento cominciò a evolversi in una versione moderna degli originari insediamenti coloniali americani del XVII secolo: liberi cittadini britannici, ivi immigrati, incominciarono a costituire una vera e propria società coloniale. Con il resto di quell'immenso continente a disposizione per una futura espansione, con la Nuova Zelanda a circa 1.900 chilometri di distanza, anch'essa da conquistare, vi erano tutte le premesse perché avesse inizio una nuova fase di colonizzazione.
Non v'è dubbio che i sessant'anni successivi al 1820 furono il periodo in cui la parola 'colonizzazione' divenne quasi sinonimo di 'impero britannico'. Altri Stati conservarono le proprie colonie, ma nessuno di essi riuscì ad aggiungere qualcosa di significativo a ciò che già possedeva nel 1815, anche se i Francesi acquisirono alcune isole del Pacifico, la Cocincina e alcune basi nell'Africa occidentale, e gli Olandesi continuarono a rafforzare il loro controllo sull'arcipelago indonesiano. Soltanto gli Inglesi prolungarono la fase espansiva vera e propria; eppure lo fecero, in un certo senso, con riluttanza e solo quando si realizzarono delle condizioni particolari. In Gran Bretagna si era diffusa l'opinione che, una volta abbandonato il regime protezionistico e decadute le leggi sulla navigazione - processo che fu completato intorno al 1850 - non si sarebbe tratto più alcun vantaggio particolare dal possesso delle colonie; queste, anzi, avrebbero rappresentato un peso, sarebbero in molti casi diventate troppo dispendiose da difendere e da amministrare e, una volta abilitate al commercio con altri paesi, non avrebbero procurato alcun beneficio particolare all'economia britannica. Questo atteggiamento 'antimperialistico' si rivelò dominante a tal punto che gli Inglesi ignorarono un numero elevatissimo di opportunità di annessioni territoriali in molte zone dell'Africa, del Pacifico e dell'Asia sudorientale. Comunque, questa forma di astensione non fu osservata in tutte le circostanze, e in questo periodo gli Inglesi si orientarono verso tre tipi principali di nuova colonizzazione. In primo luogo, si ebbe un'annessione - giustificata da motivi di sicurezza - di territori confinanti coi possedimenti già acquisiti. Ciò portò al progressivo ampliamento dei confini dell'India britannica finché, intorno alla metà degli anni ottanta del XIX secolo, essa giunse a estendersi da Capo Cormorano, a sud, sino ai confini dell'Afghanistan a nordovest, comprendendo anche la Birmania, a nordest. Per ragioni analoghe, ma più complesse, anche la penisola della Malesia stava a poco a poco passando sotto un'informale influenza britannica tramite trattati stipulati con i suoi sultani. In secondo luogo, alcuni territori molto più piccoli furono annessi per motivi commerciali, per garantire la necessaria sicurezza ai traffici con le contigue regioni indipendenti.
I tre principali territori di questo tipo sono Hong Kong, un'isola di pescatori primitivi, annessa nel 1842, dopo le cosiddette guerre dell'oppio con la Cina, per dare ai mercanti britannici una sicurezza maggiore di quella che poteva garantire loro la vicina Canton, che nel passato era stata il loro più importante centro commerciale nella regione; Singapore, un'altra isola di pescatori al largo di Johore, presa nel 1819 come base per commerciare da un capo all'altro dell'arcipelago indonesiano; Lagos, annessa nel 1861 per un insieme di ragioni ma soprattutto per facilitare i traffici. Il terzo tipo di nuova colonizzazione, ovvero la creazione o l'estensione di insediamenti di coloni britannici, fu il più caratteristico di questo periodo. Negli anni settanta del XIX secolo la Gran Bretagna aveva annesso tutta l'Australia e la Nuova Zelanda; le colonie nordamericane dell'est erano state unite alla Columbia britannica, a ovest, a formare il Dominion del Canada, estendentesi da una costa all'altra; nell'Africa meridionale il piccolo insediamento di Città del Capo si era allargato nell'entroterra e lungo la costa fino al Natal, mentre più a nord vi erano alcuni Stati semindipendenti abitati dai Boeri. Questi nuovi insediamenti di coloni costituirono un fatto unico nel XIX secolo, in quanto rappresentarono un revival della spinta alla colonizzazione tipica del XVI e XVII secolo. Essi rispecchiavano l'incremento della popolazione britannica (benché la maggior parte degli emigranti andasse negli Stati Uniti), ma anche la ricchezza di una Gran Bretagna in via di industrializzazione, che forniva il capitale necessario al rapido sviluppo di queste nuove colonie. Un importante elemento di novità fu dato dal fatto che intorno agli anni sessanta del XIX secolo quasi tutti questi nuovi insediamenti erano pervenuti a un grado di autogoverno (conosciuto come 'governo responsabile') senza precedenti nella storia della colonizzazione moderna; essi gestivano autonomamente quasi tutti i propri affari interni, pur rimanendo sotto la sovranità e la protezione britanniche. In questo modo furono poste le basi per la successiva formazione del Commonwealth.
Nei primi anni settanta del XIX secolo, la maggioranza degli Europei riteneva probabilmente che l'età della colonizzazione fosse ormai conclusa. La maggior parte dell'Africa e del Pacifico nonché alcune regioni dell'Asia non avevano mai conosciuto la dominazione europea ed erano in un certo senso aperte alla colonizzazione; ma, in un periodo in cui il libero scambio sembrava essere ancora in fase ascendente e questi territori indipendenti sembravano aprirsi sempre di più al traffico commerciale, agli investimenti e all'attività missionaria, non si vedevano molte ragioni per una nuova ondata di colonizzazioni. Ecco perché gli storici dell'epoca e quelli successivi trovarono così sorprendente la virtuale divisione del mondo tra le potenze europee, gli Stati Uniti e il Giappone, pattuita dopo il 1880 circa (un po' come se oggi si ricolonizzasse l'Africa). Di qui il concetto di 'nuovo imperialismo', introdotto per spiegare ciò che accadde. Non è stato ancora raggiunto un consenso unanime sulle ragioni che hanno portato a questa nuova fase di colonizzazione, e in effetti non esiste una spiegazione unica o semplice. Tutti i tentativi di interpretazione devono individuare uno o più elementi nuovi che, emersi negli anni successivi al 1880, rovesciarono le tendenze allora in atto. In generale questi elementi rientrano in tre categorie: mutamenti di carattere economico, mutamenti di carattere politico, in Europa e in Nordamerica, e mutamenti nella situazione dei territori appena annessi. La spiegazione in termini economici viene formulata in modi differenti, a seconda delle diverse opinioni sullo sviluppo economico e sociale dell'Europa; ma essa poggia invariabilmente sull'affermazione che, nel momento in cui l'Occidente si è industrializzato, si è trovato a dipendere sempre di più da altre parti del mondo. La sovrapproduzione di prodotti industriali richiedeva l'apertura di nuovi mercati, i capitali eccedenti dovevano essere investiti con profitto, le industrie in espansione necessitavano di materie prime a basso costo, che non erano disponibili nelle regioni temperate del globo. Poiché i territori che avrebbero potuto soddisfare questi bisogni non erano molti, ognuna delle maggiori potenze temeva che le altre potessero rompere gli indugi e rivendicare l'esclusivo possesso di regioni fino a quel momento aperte a tutti. Il risultato fu lo scatenarsi di una lotta per accaparrarsi i territori migliori.
La seconda spiegazione di carattere generale della nuova situazione pone più l'accento sulle condizioni politiche esistenti verso la fine del XIX secolo. La nascita di nuovi Stati molto potenti, come la Germania, e l'emergere di altri, come l'Italia e il Giappone, stavano a indicare che la situazione internazionale era ben più complessa e aperta alla competizione di quella in atto dal 1815 al 1880. Gli Stati nazionali erano ansiosi di difendere la propria reputazione e timorosi di perdere prestigio; di conseguenza problemi di scarsa importanza, nati da conflitti o competizioni in altri continenti, venivano trattati alla stregua di importantissime questioni diplomatiche, potenziali cause di guerra. L'opinione pubblica poteva essere facilmente infiammata su tali questioni attraverso i nuovi giornali popolari; i politici e gli ambienti militari potevano sfruttare questo 'sciovinismo'. Il 'nuovo imperialismo', dunque, fu l'espressione - per ciò che riguardava i territori d'oltremare - di quella stessa forma aggressiva di nazionalismo che condusse alla prima guerra mondiale. Non vi è alcun dubbio che entrambe queste spiegazioni contengano una parte di verità; il lato debole comune a entrambe è che non spiegano nei particolari la cronologia o la configurazione geografica della colonizzazione. Per questo motivo, tali spiegazioni 'eurocentriche' hanno bisogno di essere affiancate da spiegazioni 'periferiche', incentrate cioè sulle circostanze e sugli eventi verificatisi nei territori colonizzati in quel periodo. La chiave di tale impostazione 'periferica' sta nel fatto che, durante gli anni ottanta del XIX secolo, l'intrusione degli Europei e degli Americani nelle regioni meno sviluppate del mondo ne mise in crisi la stabilità economico-politica. Alcuni Stati, come la Tunisia, l'Egitto e il Marocco, si erano indebitati oltre misura; altri, nell'Africa occidentale e nel Pacifico, non riuscirono a mantenere la propria autorità di fronte ai numerosi mercanti, cercatori d'oro, missionari e coloni stranieri sopraggiunti. La competizione tra stranieri rivali non fece che peggiorare le cose. I vari Stati europei, pertanto, si videro costretti a intervenire per ristabilire l'ordine o proteggere i propri interessi, e il timore che uno Stato potesse ottenere troppi benefici a spese degli altri portò ovunque allo stesso tipo di soluzione. In breve, l'Africa, alcune zone dell'Asia sudorientale e alcune zone del Pacifico furono colonizzate dopo il 1880 sia al fine di renderle sicure per le imprese commerciali europee, sia al fine di garantire un certo equilibrio tra le opportunità offerte ai cittadini di ciascuna delle grandi potenze. Forse l'aspetto più sorprendente dell'intero processo fu il fatto che la spartizione di questi territori ebbe luogo senza alcun conflitto militare tra le potenze, ma anzi con relativa facilità. Uno dei motivi per cui ciò avvenne fu che i negoziati, condotti nel periodo critico della fine degli anni ottanta, furono dominati da due diplomatici di grande esperienza e buonsenso: lord Salisbury per la Gran Bretagna e il cancelliere Bismarck per la Germania. Dopo la destituzione di quest'ultimo, avvenuta nel 1890, l'imperialismo tedesco divenne pericolosamente aggressivo. Un'altra, e probabilmente più importante ragione, fu che in questa prima fase gli Europei avevano una conoscenza molto approssimativa delle regioni che ambivano controllare, soprattutto di quelle africane; in un certo senso essi non stavano facendo molto di più che tracciare delle linee sulle carte geografiche per indicare le zone in cui i cittadini di ciascuno Stato europeo avrebbero ricevuto un trattamento preferenziale nel caso avessero deciso di impiantarvi un'attività commerciale, di dedicarsi a ricerche minerarie, ecc.
Il fatto che tutti i nuovi possedimenti tedeschi e la maggior parte di quelli britannici fossero protettorati piuttosto che vere e proprie colonie rispecchiava la grande incertezza intorno al loro futuro a più lungo termine: un protettorato poteva essere abbandonato o scambiato abbastanza facilmente. Né fu chiaro, ancora per un lungo periodo, quale valore effettivo avessero i vari territori, o quali problemi la loro occupazione avrebbe causato alle potenze imperiali. È alquanto paradossale che l'entusiasmo per i nuovi possedimenti sia andato aumentando col tempo, anche se ci si rese ben presto conto che il valore economico di molti di essi era scarso e che i costi e le difficoltà inerenti alla loro amministrazione erano molto grandi. Comunque il processo di colonizzazione attuato dopo il 1880 completò la formazione dei moderni imperi coloniali, conferendo loro l'aspetto che, salvo piccole modifiche, mantennero fino all'era della decolonizzazione. Tali imperi furono in parte rimaneggiati, vi si aggiunsero nuove colonie dopo il 1914, e questa divisione del mondo produsse un nuovo ordinamento mondiale. Precedentemente le sole colonie in cui gli Europei controllavano i destini di un gran numero di extraeuropei erano l'India e Giava. Ora, invece, la maggior parte dei possedimenti era di questo tipo, e ciò segnò la nascita di quel colonialismo che si è protratto fino alla prima metà del XX secolo: 'colonizzazione' divenne sinonimo di 'subordinazione'. Pertanto il processo di decolonizzazione, quando ebbe luogo, significò il rifiuto di questa subordinazione da parte dei popoli dell'Africa, dell'Asia e del Pacifico da poco assoggettati.
Prima della decolonizzazione, dunque, si ebbe un ultimo periodo di colonizzazione, la quale assunse due forme: una parziale redistribuzione delle dipendenze imperiali già esistenti e l'annessione di nuove colonie da parte di quei paesi che si erano lasciati sfuggire l'occasione di partecipare alla precedente spartizione. La redistribuzione delle colonie fu il risultato della prima guerra mondiale. Gli alleati occidentali avevano occupato tutte le colonie tedesche d'oltremare ed erano decisi a non restituirle; esse vennero spartite tra Gran Bretagna, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Belgio e Giappone, ma in qualità di mandati avuti in affidamento dalla Società delle Nazioni (che manteneva un ruolo di controllo), non come possedimenti a pieno titolo. La Gran Bretagna e la Francia avevano anche occupato ciò che rimaneva dei territori ottomani in Arabia, mentre, nel 1914, sempre la Gran Bretagna aveva ufficialmente dichiarato suo protettorato l'Egitto, che formalmente era ancora un possedimento ottomano nonostante fosse stato occupato dagli Inglesi sin dal 1882. Dopo lunghe contrattazioni, alla Francia andarono la Siria e il Libano, alla Gran Bretagna l'Iraq, la Transgiordania e la Palestina, tutti come mandati, mentre, nel 1922, l'Egitto cessò di essere un protettorato britannico e divenne formalmente uno Stato sovrano, pur concedendo alla Gran Bretagna, tramite un trattato, ampie servitù militari e diritti d'altro genere. Per le principali potenze coloniali questo periodo segnò l'acme del processo di colonizzazione, superato il quale il clima morale dell'Europa occidentale divenne sempre più ostile all'idea di un'ulteriore espansione territoriale e, anche se non ci si preoccupava ancora seriamente di trovare una giustificazione etica al possesso delle colonie, si fece in modo di amministrarle onestamente. Ma vi erano almeno due altri Stati (Italia e Giappone) i quali, pervenuti al rango di potenze di prim'ordine troppo tardi per partecipare alla precedente spartizione, ritenevano di avere anch'essi il diritto a un proprio impero coloniale.
L'Italia aveva cercato, dopo il 1880, di costituire un impero nell'Africa settentrionale e nordorientale, era riuscita a occupare la Tripolitania e la Cirenaica nel 1912 e nel corso degli anni trenta aveva compiuto grandi sforzi - a un costo altissimo - per insediare in questi territori coloni italiani. Ma nel 1896 le forze italiane erano state sconfitte presso Adua, mentre cercavano di occupare militarmente l'Abissinia; tra il 1935 e il 1936 ritentarono l'impresa, questa volta con successo. L'Abissinia era membro della Società delle Nazioni, la quale però si rivelò incapace di assumere iniziative concrete. La pubblicità data alla campagna d'Africa e soprattutto l'uso dell'aviazione contro obiettivi civili contribuirono in larga misura a sollevare la coscienza liberale dell'Europa occidentale contro il colonialismo.Tutto ciò non ebbe alcun effetto sul Giappone, che aveva cominciato a darsi da fare per fondare un proprio impero sin dall'ultimo decennio del XIX secolo e non capiva il motivo per cui avrebbe dovuto rinunciarvi solo perché le potenze europee erano sazie di colonie. L'ambizione militare, i problemi economici degli anni trenta e il disordine politico in cui versava la Cina spinsero il Giappone a occupare la Manciuria, nel 1931, e a iniziare nel 1937 un violento attacco globale alla Cina, che sfociò in un'offensiva di proporzioni ancora più vaste verso il Sudest asiatico e il Pacifico. Tra il 1942 e il 1945, all'apice della sua espansione, l'impero giapponese comprendeva la Birmania, la Malesia, l'Indocina, gran parte della Cina, l'Indonesia, le Filippine e molte isole del Pacifico. La sua caduta nel 1945, per ironia della storia, annunciò la dissoluzione degli imperi di quegli Stati europei che reclamavano la restituzione dei propri territori da parte del Giappone. La metà degli anni quaranta segnò la fine di cinque secoli di colonizzazione europea. Nonostante fossero assai pochi coloro che in quegli anni seppero prevederlo, entro un paio di decenni il colonialismo occidentale poté dirsi virtualmente concluso. Perché l'opera compiuta in un periodo così lungo sia andata distrutta in un lasso di tempo così breve rappresenta uno dei principali problemi della storiografia moderna, che verrà affrontato in seguito (v. cap. 5).
L'effetto fondamentale del processo di colonizzazione sulle regioni e sulle società che lo subirono fu che venne loro sottratta la possibilità di decidere autonomamente il proprio destino. Ogni Stato sovrano possiede un suo centro direttivo e una sua volontà, incarnati dal governo centrale, dal complesso delle leggi, dalle consuetudini e dalle istituzioni. Entro i limiti fissati dalla sua estensione territoriale e dalla sua capacità di formulare e di realizzare scelte politiche, lo Stato è un agente libero. La caratteristica essenziale del colonialismo fu appunto quella di distruggere tale libertà di scelta. La sovranità - il fondamentale potere decisionale - veniva trasferita dal paese appena colonizzato alla capitale della madrepatria. Londra diventò l'effettiva capitale dell'India, Parigi dell'Algeria, L'Aia dell'Indonesia. La madrepatria poteva concedere un'ampia libertà di scelta e di azione alle colonie, interferendo raramente con la vita quotidiana dei suoi sudditi, ma si trattava soltanto di libertà elargite a delle province, concessioni e non diritti. Colonizzazione voleva dire subordinazione alla volontà e, fin dove era possibile, agli interessi dello Stato imperiale. Un allontanamento così drastico da quello che è comunemente considerato il naturale diritto dei popoli all'autodeterminazione era destinato ad avere, sulle società coloniali, ripercussioni profonde sia positive che negative; il dibattito circa il carattere del colonialismo moderno ruota intorno alla questione se siano stati di maggiore portata gli effetti benefici o quelli nocivi. Sarebbe impossibile in questa sede formulare un verdetto, anche soltanto provvisorio. Ci proponiamo invece di esaminare per sommi capi gli effetti della dominazione straniera in tre settori principali - governo, economia e società - e di considerare in ognuno di questi ambiti la sua portata per il futuro delle colonie dopo che queste divennero indipendenti.
Per una potenza imperiale il problema fondamentale nel governare un impero era quello di mantenere nel modo migliore il controllo sui territori conquistati, senza al tempo stesso assumersi il peso delle minuzie dell'amministrazione locale. Essa doveva anche valutare quale fosse la maniera migliore per ottenere l'obbedienza dei suoi sudditi coloniali, poiché la stabilità dell'impero dipendeva, in ultima analisi, più dal consenso di questi che dalla potenza militare della madrepatria. La fisionomia del governo imperiale, dunque, presentava sempre due aspetti paralleli e potenzialmente incompatibili: l'accentramento nella madrepatria dell'autorità suprema, da un lato, e un certo grado di autonomia locale, dall'altro. Il diverso rapporto fra questi due aspetti distinse l'uno dall'altro i vari sistemi imperiali e influenzò pesantemente le capacità delle colonie di amministrare con successo i propri affari una volta conseguita l'indipendenza.
Sui centri decisionali nella madrepatria c'è poco da dire. In ogni impero moderno l'autorità suprema era nelle mani del parlamento imperiale o di un'istituzione analoga deputata a emanare leggi vincolanti per tutte le colonie. All'atto pratico, queste assemblee delegavano gran parte del loro potere a un ministro appositamente nominato e al suo dicastero coloniale, i cui funzionari civili seguivano attentamente gli affari coloniali decidendo giorno per giorno il da farsi. Col passare del tempo, il modo in cui questi ministri concepivano la propria funzione si modificò radicalmente. Sino alla fine degli anni trenta tale funzione era soprattutto di supervisione; i ministri controllavano ciò che accadeva oltreoceano, verificavano lo stato delle finanze coloniali e passavano al vaglio le leggi promulgate dai consigli e dai corpi legislativi locali, ma raramente assumevano l'iniziativa di proporre essi stessi determinate politiche. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, invece, influenzati dall'enorme aumento dell'intervento statale nelle questioni sociali ed economiche interne, questi ministri iniziarono ad assumere un ruolo molto più attivo nella gestione delle colonie, soprattutto nel campo dello sviluppo economico-sociale. Paradossalmente, l'intervento della madrepatria nella vita coloniale fu di gran lunga maggiore durante il ventennio che precedette la decolonizzazione di quanto non fosse mai stato prima. In effetti le due cose potrebbero essere collegate, poiché quella che è stata definita 'seconda occupazione coloniale', una volta che i sudditi delle colonie divennero più consapevoli dell'oppressione esercitata dall'autorità imperiale, potrebbe aver avuto l'effetto di stimolare in essi il desiderio di indipendenza.
È molto più difficile operare generalizzazioni circa il tipo di governo nelle colonie, dal momento che ogni Stato imperiale adottò tecniche differenti, variandole a seconda delle diverse colonie. Molto in generale, gli Inglesi possono essere distinti da tutti gli altri per il fatto che la loro tradizione li portava a concedere la massima autonomia a ogni colonia e per il fatto che alcune di queste ebbero un governo pienamente rappresentativo; viceversa tutte le altre potenze imperiali trattarono le colonie come semplici province della madrepatria, concedendo loro una ridottissima libertà d'azione. Vi fu, tuttavia, una significativa somiglianza fra la condotta britannica nella maggior parte delle colonie tropicali e quella di altri imperi in territori dalle caratteristiche analoghe. La chiave del dominio coloniale britannico in epoca moderna sta nel fatto che la tradizione dell'autogoverno delle colonie attraverso assemblee liberamente elette, vigente in tutte le colonie inglesi d'America prima del 1763, continuò dopo la Rivoluzione americana e poté essere rivendicata dai coloni britannici come un diritto. A partire dagli anni quaranta del XIX secolo, questa tradizione ebbe un'ulteriore evoluzione dando luogo al 'governo responsabile'; ciò significava che nelle colonie nordamericane, come pure in Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda, tutti gli affari interni venivano amministrati da un gabinetto responsabile nei confronti dell'assemblea rappresentativa locale. Nel 1919 questo criterio fu applicato anche alle relazioni internazionali e dal 1931 queste colonie (note sin dal 1907 come dominion) ottennero il diritto di dichiarare la loro indipendenza in qualità di Stati sovrani, anche se all'interno di quello che da allora fu chiamato il 'Commonwealth dell'impero britannico'.
La peculiarità di questi dominion era ovviamente quella di essere abitati - o, almeno nel caso del Sudafrica, dominati - da coloni europei, e fu per questo motivo che essi vennero considerati aventi diritto a una forma così ampia di autogoverno: fino agli inizi del XX secolo si riteneva generalmente che i popoli extraeuropei assoggettati non dovessero rivendicare questi diritti e inoltre che non fossero in grado di amministrare i propri affari. Nonostante ciò, questo modello di autogoverno esercitò una notevole influenza su tutti gli altri possedimenti britannici. A un determinato livello, in ogni epoca, tutti i governi coloniali ebbero il pieno potere di emanare leggi locali (soggette alla supervisione imperiale) attraverso proprie assemblee legislative. Queste assemblee, inoltre, sebbene per lungo tempo dominate dal governatore e dai funzionari britannici più anziani, comprendevano di solito un certo numero di dignitari locali, europei o indigeni. Oltre a ciò, i sudditi coloniali consideravano il sistema del 'governo responsabile', e in seguito lo status di dominion, come loro legittimo obiettivo. Così, anche le colonie della Corona britannica non popolate prevalentemente da coloni della madrepatria erano aperte a una potenziale evoluzione del proprio ordinamento politico.
Il governo coloniale britannico moderno presentava anche un altro aspetto caratteristico: preferiva impiegare, ovunque fosse possibile, i dignitari indigeni tradizionali come agenti e intermediari. Questa tendenza, approssimativamente espressa nel concetto di 'governo indiretto', si sviluppò soprattutto in India, i cui regni continuarono a essere governati - sebbene sotto la stretta sorveglianza britannica - dai maragià ereditari, fino al conseguimento dell'indipendenza. In forme differenti il governo indiretto fu adottato anche nell'Africa tropicale e nel Pacifico. Dal punto di vista dell'autorità imperiale, il suo grande pregio era quello di permettere ai governanti della madrepatria di servirsi del capo tradizionale, la cui autorità si aggiungeva alla loro, come di un 'cuscinetto' fra loro stessi e la massa della popolazione. Il suo limite principale, viceversa, consisteva nel fatto che questi 'collaboratori' tradizionali tendevano a essere conservatori piuttosto che progressisti: col trascorrere del tempo, aumentando il numero dei sudditi indigeni istruiti, il risentimento verso questi sistemi arcaici di governo crebbe con estrema rapidità. Nel 1947 gli Inglesi annunciarono formalmente che il governo indiretto sarebbe stato rimpiazzato da un governo elettivo locale: questo fu un importante passo avanti verso l'autogoverno democratico, soprattutto in Africa, e coincise con un rapido aumento del numero dei membri delle assemblee legislative eletti pur senza essere dei funzionari pubblici, al punto che tali assemblee divennero parlamenti veri e propri. Contrariamente alla Gran Bretagna, nessun'altra potenza imperiale fece affidamento sull'autonomia o sull'autogoverno delle colonie, benché molte di loro, in particolare l'Olanda, si servissero del governo indiretto ovunque potesse risultare conveniente. Tutte le colonie europee erano di fatto governate da un apparato burocratico straniero: le assemblee legislative, se istituite, avevano poteri assai ridotti. I Francesi permisero a pochissimi rappresentanti eletti nelle colonie fondate prima del 1789 di sedere nel parlamento della madrepatria, ma per tutte le colonie non britanniche l'introduzione di una rappresentanza generale, durante e dopo gli anni cinquanta del nostro secolo, equivalse a una vera e propria rivoluzione. L'importanza di questi sistemi di governo per il futuro politico delle colonie dopo la decolonizzazione fu enorme. A parte i dominion britannici, che, assieme all'India e a Ceylon, a cominciare dalla fine del XIX secolo fecero una lunga pratica di governo rappresentativo, nessuna colonia europea ebbe una vera esperienza di politica elettorale prima degli anni quaranta del nostro secolo: in molte di esse un regime pienamente democratico fu instaurato soltanto uno o due anni prima dell'indipendenza. Le conseguenze di questa mancata democratizzazione hanno segnato le vicende postcoloniali del Terzo Mondo. La politica è stata usata in primo luogo per allontanare le potenze imperiali e quindi per mettere in grado i primi uomini politici locali di utilizzare con successo le elezioni nazionali al fine di perpetuare il proprio potere personale; i partiti politici si sono configurati come coalizioni di gruppi regionali o etnici, preoccupati soprattutto di perseguire interessi di parte piuttosto che quelli generali del paese. La tradizione dominante ereditata dal passato coloniale è stata invece la burocrazia autocratica. Non è dunque sorprendente che, pochi anni dopo l'indipendenza, la grande maggioranza delle ex colonie africane, insieme a molte del Sudest asiatico, fosse governata da regimi monopartitici o militari; solo quegli Stati che, come l'India, la Malesia, Ceylon e la maggior parte delle Indie occidentali, avevano fatto una ragionevole esperienza di governi rappresentativi prima della decolonizzazione, sono poi riusciti a conservare un governo democratico parlamentare. Il fatto che le potenze imperiali non abbiano cercato seriamente di preparare all'autogoverno le proprie colonie quando avevano ancora il potere di farlo, costituisce probabilmente la colpa più seria del colonialismo.
Si è sempre pensato che una ragione fondamentale dell'esistenza degli imperi coloniali consistesse nel fatto che la madrepatria poteva ricavare particolari vantaggi economici dal possesso delle colonie. Questo è stato il cavallo di battaglia di tutti coloro che, interessati all'acquisizione di nuovi territori, cercavano di giustificare i costi che l'operazione comportava. In epoca recente i critici del capitalismo imperialistico occidentale hanno sviluppato elaborate argomentazioni per dimostrare che il colonialismo condusse a una radicale modificazione della vita economica delle colonie. In ogni caso l'asserzione fondamentale è che le potenze imperiali, essendo relativamente più sviluppate (soprattutto in campo industriale), avevano bisogno delle colonie in quanto mercati per le loro esportazioni, fonti di materie prime e di prodotti alimentari a basso costo, e aree in cui investire i loro capitali eccedenti. Una volta raggiunta la supremazia politica, gli Stati imperialistici furono in grado di procedere alla ristrutturazione delle economie coloniali per andare incontro a queste esigenze. Il risultato complessivo fu che le colonie del Terzo Mondo divennero parte di una 'periferia' rispetto al 'centro' costituito dagli Stati occidentali. Poiché questi ultimi erano industrializzati, le colonie furono costrette a rimanere ferme a un'economia puramente agricola e le loro industrie vennero distrutte dalla forzata esposizione alla concorrenza estera. Dato che le potenze imperiali avevano bisogno di alcuni tipi di prodotti agricoli e di minerali, le economie coloniali furono obbligate a specializzarsi in questi settori, a prescindere dai loro effettivi interessi. Nello stesso tempo i capitalisti occidentali riuscirono a fare investimenti in ogni campo in cui intravedevano ampi margini di profitto, con il risultato che, al momento dell'indipendenza, le 'leve del comando' dell'economia coloniale erano nelle mani di multinazionali estere. Il colonialismo, dunque, fu soprattutto responsabile dell'eccesso di specializzazione e della povertà di quasi tutte le ex colonie, e la decolonizzazione giunse solo quando, e in quanto, il capitalismo occidentale si convinse che il processo di ristrutturazione delle economie coloniali in base ai suoi interessi era giunto a un punto così avanzato che persino l'indipendenza non avrebbe più potuto invertirlo. Queste affermazioni suggeriscono due interrogativi: con quali strumenti le potenze imperiali orientarono la vita economica delle colonie in base ai propri interessi? quanta parte di vero c'è nell'asserzione che la povertà del Terzo Mondo è soprattutto conseguenza del colonialismo? Le potenze imperiali fecero ricorso a due metodi alternativi per assicurarsi che la madrepatria ricavasse i massimi benefici dalle colonie. Il primo sostanzialmente riprendeva le tecniche già adottate nella prima fase della colonizzazione moderna, era cioè una sorta di mercantilismo.
Sebbene dopo la metà del XIX secolo nessun impero mantenesse in tutto il suo rigore il monopolio commerciale instaurato nel XVIII secolo, i Francesi tentarono in ogni epoca, seguiti in questo dagli Spagnoli, dai Portoghesi, dagli Americani, dai Tedeschi (prima del 1918) e dagli Italiani, di escludere la concorrenza straniera dalle rispettive colonie, ricorrendo a un sistema di dazi preferenziali sull'importazione, sostenuto da controlli amministrativi, da sussidi alle compagnie di navigazione nazionali e da altri mezzi di questo genere. Gli stessi metodi furono usati dagli Inglesi a partire dal 1932 e anche dal Belgio e dall'Olanda, sempre a partire dagli anni trenta, soprattutto come risposta alla recessione internazionale. Gli effetti globali di queste misure furono alquanto complessi. Innanzitutto si ebbe una percentuale artificiosamente elevata di esportazioni e di importazioni tra la madrepatria e le colonie, che in alcuni casi raggiunse il 90% dell'intero volume di scambi. In secondo luogo questo regime protezionistico fece lievitare i prezzi sia nella madrepatria sia nelle colonie, rendendo entrambe le economie meno competitive sul piano internazionale. D'altro canto, alcune industrie europee e altre attività produttive delle colonie riuscirono a tirare avanti con un certo profitto laddove, in assenza di barriere protezionistiche, avrebbero potuto soccombere alla concorrenza internazionale. Il modello alternativo di economia imperiale fu il libero scambio, adottato dagli Inglesi verso la metà del XIX secolo, da essi mantenuto sino al 1932 e copiato dall'Olanda e dal Belgio. Dal punto di vista della madrepatria il libero scambio - che implicava la rimozione dai mercati nazionali e coloniali di ogni vincolo protezionistico - era auspicabile in quanto mezzo per aprirsi l'accesso ai mercati di tutto il mondo, ma solo nel caso in cui i prodotti e i servizi offerti dalla madrepatria fossero competitivi su scala mondiale. È certo significativo il fatto che gli Inglesi abbiano adottato una politica liberoscambista nel momento in cui erano i leaders dell'industria e della finanza mondiali, e l'abbiano abbandonata dopo aver perduto tale posizione di preminenza. Analogamente nel 1932 gli Americani, tradizionalmente protezionisti, cominciarono a intravedere i vantaggi del libero scambio per la loro economia; di conseguenza iniziarono a esercitare una forte pressione sulle potenze imperiali affinché queste ritirassero i provvedimenti protezionistici, pressione che condusse all'accordo GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), nel 1948. Dal punto di vista delle colonie il libero scambio sortì due effetti contraddittori. Da un lato, attraverso l'apertura del territorio alle importazioni provenienti da ogni parte del mondo, esso minacciò e in molti casi distrusse la produzione manifatturiera indigena, scoraggiando inoltre i capitalisti locali e quelli stranieri dall'investire nell'industria moderna. Il libero scambio fu quindi una delle ragioni per cui nel mondo coloniale prima degli anni cinquanta vi fu una produzione manifatturiera assai scarsa. Dall'altro lato, però, il libero scambio assicurò alle colonie la possibilità di acquistare prodotti d'importazione in ogni parte del mondo al più basso prezzo possibile, e ciò costituì un grande vantaggio per quegli agricoltori che, a loro volta, dovevano vendere i loro prodotti ai prezzi del mercato libero d'oltreoceano. Il libero scambio assicurò inoltre la competitività sui mercati mondiali ai prodotti principali delle varie colonie, laddove, in un regime protezionistico come quello instaurato dalla Francia, i prezzi dei prodotti coloniali d'esportazione tendevano a essere troppo alti per risultare competitivi. Comunque, in regime protezionistico o di libero scambio, la tipica colonia tropicale moderna produceva ed esportava materie prime o semilavorati, importando la maggior parte dei manufatti di cui necessitava. Ciò la rendeva complementare alla sua madrepatria industrializzata e la metteva in condizione di sfruttare al massimo la sua dotazione di fattori produttivi e il principio del vantaggio comparato. Tale specializzazione, tuttavia, lasciava la colonia pericolosamente vulnerabile alle fluttuazioni del mercato internazionale, come avvenne nel corso degli anni trenta; inoltre le impediva di realizzare un rapido sviluppo economico attraverso l'industrializzazione. Queste erano le accuse abitualmente avanzate dai nazionalisti delle colonie durante la prima metà del XX secolo, accuse che condussero - dopo il conseguimento dell'indipendenza - a una quasi universale adozione del protezionismo e a un'industrializzazione artificialmente stimolata. In alcuni paesi questa nuova strategia ha prodotto effetti positivi, ma nella maggior parte degli Stati africani il risultato principale è stato un apparato industriale inefficiente che produceva beni di consumo a prezzi ben al di sopra di quelli del mercato internazionale. Un altro risultato comune a molti paesi è stato un enorme debito con l'estero, contratto per finanziare il nuovo sistema industriale. Non è ancora chiaro se tali sviluppi siano avvenuti all'insegna degli autentici interessi a lungo termine della massa della popolazione e se questi nuovi sistemi economici abbiano rappresentato un effettivo progresso rispetto al sistema economico coloniale.
L'aspetto più controverso del processo di colonizzazione e del regime coloniale che ne derivò è probabilmente l'effetto che esercitarono sulla coscienza delle popolazioni assoggettate. Due ordini di giudizi, in netto contrasto tra loro, sono a tal proposito possibili: la colonizzazione ebbe un effetto benefico sulle società coloniali, poiché le inserì nelle grandi correnti del progresso umano; oppure, essa fu controproducente, poiché il dominio straniero distrusse le culture indigene e ingenerò nelle popolazioni assoggettate un senso d'inferiorità. Fino all'inizio del XX secolo quasi tutti gli Europei ritenevano che la loro influenza sulle altre società fosse oltremodo benefica. Il cristianesimo era ritenuto superiore a tutte le altre religioni, la cultura e la scienza occidentali migliori di tutte le altre. Gli Europei dunque non esitavano troppo a distruggere ciò che trovavano, sostituendolo con ciò che portavano con sé. La portata e la crudeltà di queste azioni distruttive furono molto diverse a seconda delle epoche e delle zone conquistate. La forma più distruttiva di imperialismo culturale fu quella praticata dagli Spagnoli in Messico e in Perù nel XVI secolo. In quel caso fu la tradizione cristiana delle crociate, riesumata in occasione della reconquista della penisola iberica contro l'Islam, a provocare la soppressione violenta di quasi tutti gli aspetti della religione e della cultura indigene e l'imposizione del cattolicesimo attraverso il ricorso ai metodi più brutali. A una brutalità paragonabile a questa, sebbene motivata più da obiettivi di espansione territoriale che da una precisa ideologia, ricorsero i colonizzatori del Nordamerica fino al XIX secolo. In nessun'altra parte del mondo l'impatto degli Europei con le culture autoctone fu altrettanto devastante, sia perché le società nordeuropee erano meno imbevute dello spirito delle crociate, sia perché essi incontrarono una resistenza di gran lunga più agguerrita da parte delle religioni e delle società asiatiche. E infatti gli Inglesi compirono pochi tentativi per imporre il cristianesimo in India, limitando la loro 'missione civilizzatrice' principalmente a educare un'élite ai valori intellettuali e culturali dell'Occidente. Nel corso del XIX secolo essi si dimostrarono relativamente tolleranti anche verso i valori e le tradizioni indigene dell'Africa tropicale e del Pacifico, sebbene le missioni protestanti esercitassero una forte influenza su queste colonie. Anche gli Olandesi, in Indonesia, furono abbastanza moderati; i Francesi, invece, furono fortemente influenzati da due tradizioni che li spingevano a un atteggiamento interventista in campo religioso e culturale: il cattolicesimo e l'ideologia universalistica della Rivoluzione. Per tutto il XIX secolo, fino ai primi anni del XX, sulle popolazioni dei possedimenti francesi vennero esercitate forti pressioni perché adottassero i valori culturali e la lingua francesi e il cattolicesimo: per diventare a tutti gli effetti un cittadino (condizione ben diversa da quella di suddito coloniale) un individuo doveva di solito rinunciare alle usanze e alle credenze religiose tradizionali, e superare dei test linguistici e culturali. Anche i Portoghesi e gli Italiani (ma non i Belgi) adottarono comportamenti affini a quelli dei Francesi. Data una gamma così ampia di politiche e di situazioni specifiche, variabili a seconda delle epoche e dei luoghi, è impossibile fornire una definizione generale delle conseguenze sociali della colonizzazione. Tutte le società colonizzate furono afflitte in una certa misura dalla presenza straniera, ma non vi è alcuna somiglianza significativa tra gli effetti di tale presenza, poniamo, sull'America Latina e sull'India. Per di più, persino all'interno delle singole società coloniali l'impatto della colonizzazione subì ampie oscillazioni. In molti paesi esso fu avvertito in maniera più forte da coloro che si trovavano ai livelli più alti della società, da coloro, cioè, che più probabilmente avevano ricevuto un'educazione di tipo occidentale e la usavano a proprio vantaggio, per esempio in qualità di agenti dell'amministrazione coloniale o come operatori autonomi nei settori occidentalizzati dell'economia: commercianti, banchieri o avvocati. Molti individui appartenenti a questa classe si trovarono a essere compiacenti collaboratori delle potenze coloniali, non ravvisando alcuna incompatibilità intrinseca tra la situazione della colonia e i propri interessi. Generalmente fu solo a uno stadio avanzato del processo di ricostruzione sociale che i membri di queste élites giunsero alla conclusione che, a lungo andare, le opportunità loro accessibili sarebbero state alquanto limitate dalla dominazione straniera: a questo punto essi tendevano naturalmente a divenire leaders di partiti nazionalisti, pur conservando ancora la fede in gran parte dei valori culturali stranieri che avevano abbracciato. Inoltre, era soprattutto tra le file di queste élites che si diffondevano atteggiamenti di frustrazione e di insoddisfazione nei confronti delle conseguenze sociali della colonizzazione; il risentimento più forte, in altre parole, nasceva proprio in coloro che erano più influenzati dalle idee straniere, piuttosto che nella massa della popolazione, la quale nella maggior parte dei casi ne era a stento consapevole.
Tutto ciò dev'essere tenuto presente quando si affronta la vasta letteratura prodotta da alcuni intellettuali, nel corso degli ultimi decenni dell'epoca coloniale, per illustrare le ragioni del loro malcontento. La gamma di idee e di argomentazioni presenti in tale letteratura è, ovviamente, vastissima, ma l'elemento ricorrente con maggior frequenza - riscontrabile tanto nel pensiero di Gandhi, in India, quanto tra i sostenitori della 'negritudine', come Leopold Senghor, in Senegal - è l'opinione che gli Europei abbiano quasi sempre cercato di persuadere i propri sudditi coloniali che il loro passato 'precoloniale' non aveva alcun valore e che avrebbero dovuto adottare integralmente le tradizioni culturali e intellettuali dei loro dominatori occidentali. La formulazione più conosciuta di quest'accusa è probabilmente quella espressa da un medico di colore della Martinica, Frantz Fanon, durante gli anni in cui militava a fianco delle forze rivoluzionarie algerine, nel suo libro I dannati della terra pubblicato per la prima volta nel 1961: "Il colonialismo non trae soddisfazione semplicemente dal mantenere un popolo sotto il suo giogo e dal riempire il cervello dei nativi con ogni sorta di idee. In base a una logica perversa, esso si volge al passato dei popoli oppressi e lo distorce, lo trasfigura, lo distrugge [...]. Il risultato consapevolmente perseguito dal colonialismo è stato quello d'introdurre nelle teste dei nativi la convinzione che, se i colonizzatori li avessero abbandonati, essi sarebbero subito ripiombati nella barbarie, nella degradazione, nella bestialità [...]. La madre coloniale protegge il proprio figlio da se stesso, dal suo ego, dalla sua fisiologia, dalla sua biologia e dalla sua infelicità, che costituisce la sua vera essenza". Questa è una forma estrema della protesta contro gli effetti prodotti dalla colonizzazione sulle culture autoctone; essa non è certamente applicabile a ogni epoca e a tutte le situazioni coloniali, e ignora il contributo positivo che l'esposizione a un più vasto mondo di idee ha fornito allo sviluppo intellettuale e sociale dei popoli colonizzati. Tuttavia essa contiene una parte di verità che è sufficiente a spiegare perché, una volta compiuto il processo di decolonizzazione, la maggior parte delle società del Terzo Mondo abbia cercato consapevolmente di ritrovare, e se necessario di costruirsi, una propria identità. Se si tenta, a questo punto, di riassumere il carattere del colonialismo moderno nei suoi tre aspetti principali - politico, economico e culturale - appare chiaro che ciò che lo contraddistinse maggiormente fu il proposito di superare l'isolamento e l'autonomia dei territori coloniali e di incorporarli in un unico sistema mondiale incentrato nel mondo occidentale. Questo tentativo non raggiunse mai pienamente lo scopo. I suoi effetti furono maggiori dove le colonie erano costituite, o comunque dominate, da società di coloni europei che vi risiedevano stabilmente, come negli Stati Uniti, in Australia, in Nuova Zelanda o in Sudafrica. Il suo successo dipese inoltre dalla durata del periodo coloniale: fu massimo nelle Americhe, che erano state colonizzate nel XVI secolo, fu invece minimo nella maggior parte dei territori dell'Africa Nera, dove la dominazione coloniale era durata meno di un secolo. Un altro importante fattore che condizionò questo successo fu il grado di evoluzione - e quindi di capacità di recupero - delle forme politiche, sociali e culturali indigene: molto elevato in Asia, debole in gran parte dell'Africa Nera e del Pacifico. Ma l'esperienza della colonizzazione fu ovunque incancellabile ed ebbe in ogni caso effetti irreversibili. Paradossalmente, tuttavia, fu proprio questa esperienza che rese possibile il processo di decolonizzazione avvenuto verso la metà del XX secolo. La decolonizzazione poté realizzarsi solo quando i coloni divennero sufficientemente insofferenti della loro posizione di sudditanza in un sistema mondiale dominato dai paesi occidentali, da desiderare di liberarsi del ruolo di emarginati. E, infine, quando le potenze imperiali d'Occidente si convinsero che i loro possedimenti coloniali sarebbero stati più redditizi, e avrebbero creato meno problemi, come Stati indipendenti che come colonie. Fu la colonizzazione a creare l'insieme di queste condizioni che, più tardi, ne determinarono la fine.
Le varie tappe del processo di decolonizzazione possono essere riassunte molto in breve. Nel 1945 gli imperi coloniali raggiunsero la loro massima estensione, arrivando a comprendere quasi tutta l'Africa, l'Asia meridionale e sudorientale, il Pacifico e gran parte dei Caraibi. Nel 1965 tutta l'Asia, comprese le regioni sudorientali, aveva raggiunto l'indipendenza insieme alla maggior parte dell'Africa (eccettuati i territori portoghesi) e delle isole caraibiche. Nel 1985 soltanto alcuni piccoli territori si trovavano ancora soggetti a un'autorità imperiale: Hong Kong era in attesa di essere restituita alla Cina nel 1997 e la maggior parte degli altri o erano troppo piccoli per reggersi da soli o - come nel caso di Gibilterra e delle Falkland - divennero oggetto di disputa tra la potenza imperiale, i coloni e un altro Stato. Un'inversione così rapida e totale di un processo di colonizzazione che era andato inarrestabilmente progredendo lungo un arco di tempo così lungo richiede una spiegazione, come la richiede anche il fatto che il processo di decolonizzazione si sia sviluppato dopo il 1945. Fondamentalmente le spiegazioni possibili sono due. In base alla prima, gli Stati imperiali decisero che le colonie non erano più convenienti e preferirono smembrare i propri imperi. In base alla seconda, furono le popolazioni delle colonie a sbarazzarsi del dominio imperiale o comunque a rendere il suo protrarsi talmente difficoltoso e problematico che gli Stati colonizzatori preferirono cedere loro l'esercizio del potere politico. All'atto pratico, naturalmente, nessuna di queste due spiegazioni è in grado di reggersi da sola: è più verosimile una loro combinazione. Nel 1776, nella sua Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Adam Smith dichiarò con estrema franchezza: "Supporre che la Gran Bretagna rinunci volontariamente a tutta la propria autorità sulle colonie [...] significherebbe attribuirle una decisione che mai fu e mai sarà adottata da nessuna nazione al mondo". Almeno sino alla metà del XX secolo la storia gli ha dato ragione: gli Stati Uniti, Haiti, le colonie spagnole e il Brasile acquistarono tutti la propria indipendenza facendo ricorso alle armi, o comunque contro la volontà della madrepatria, non per un venir meno dell'impulso alla colonizzazione. C'è allora da chiedersi quando questo impulso abbia perso la sua forza, ammesso che ciò sia avvenuto, e per quali motivi. Il periodo-chiave fu la prima metà del nostro secolo. Prima del 1900, nei vari Stati europei si criticavano spesso determinate imprese coloniali; tali critiche, tuttavia, riguardavano quasi sempre l'eccessivo costo dell'impresa o la possibilità che essa suscitasse gravi questioni diplomatiche, o lo scarso valore dei territori acquisiti. In Europa non si sviluppò, di fatto, alcun dibattito intorno alla questione morale della legittimità della colonizzazione (sebbene si discutesse, talvolta, in merito al trattamento da riservare alle popolazioni indigene) o ai vantaggi più generali che il possesso delle colonie avrebbe potuto fornire. In realtà, era generalmente accettato il fatto che i popoli non europei, a meno di non essere privati del godimento dei diritti umani fondamentali, avessero tutto da guadagnare dalla colonizzazione a opera di quelle che erano normalmente considerate le razze 'superiori'; le colonie, inoltre, erano considerate di vitale importanza dagli Stati relativamente piccoli, nella loro competizione con paesi di enormi dimensioni come gli Stati Uniti e la Russia. La seconda di queste convinzioni si è mantenuta a lungo, probabilmente sino agli anni cinquanta, mentre alcuni dubbi sulla legittimità morale della colonizzazione nacquero sin dai primi anni del nostro secolo, per effetto, soprattutto, di due movimenti intellettuali convergenti. Il primo di questi era il socialismo: Marx, come abbiamo già visto, descrisse la fase iniziale della colonizzazione come un processo di distruzione e di saccheggio, sebbene egli ritenesse anche che l'avvento del capitalismo avrebbe rappresentato il mezzo essenziale attraverso cui società statiche dal marcato aspetto feudale avrebbero potuto diventare dinamiche e giungere, superata la fase capitalistica, al socialismo. I suoi seguaci svilupparono una critica dell'imperialismo che ne enfatizzava, come aspetto peculiare, lo sfruttamento dei popoli assoggettati. In base a tale concezione, le colonie sarebbero state conquistate per soddisfare i bisogni economici del capitalismo avanzato e la colonizzazione avrebbe causato l'impoverimento e la proletarizzazione delle popolazioni indigene, inducendole così a unirsi al proletariato dei paesi industrializzati. Il loro stato di estrema indigenza avrebbe alla fine provocato movimenti di resistenza e di indipendenza, i quali però difficilmente avrebbero avuto successo se prima non fossero scoppiate nella stessa Europa le rivoluzioni socialiste. I socialisti, dunque, assunsero una posizione critica nei confronti del colonialismo già prima del 1914, ma essi erano tutt'altro che numerosi e non rappresentavano il punto di vista della maggioranza degli Europei. Ben più importante, sotto questo aspetto, fu il sorgere di una critica di estrazione liberale alla colonizzazione, critica suscitata, in larga misura, dall'osservazione, nei decenni successivi al 1890, delle conseguenze della spartizione dell'Africa.
In un primo momento la maggior parte dei liberali e dei filantropi sostenne l'occupazione dell'Africa e del Pacifico, ritenendo che essa avrebbe apportato in quei territori civiltà, religiosità cristiana e prosperità economica. Ma col passare del tempo divenne sempre più evidente che l'opera di colonizzazione si attuava troppo spesso con il ricorso alla violenza brutale e alla negazione dei più elementari diritti umani, come del resto veniva denunciato dalla stampa, da molti libri e da vari gruppi di pressione. I resoconti delle atrocità commesse nello Stato libero del Congo, fondato nel 1885 sotto Leopoldo II del Belgio con la pretesa di perseguire scopi umanitari, provocarono una tale ondata di indignazione che nel 1908 il governo belga, per quanto riluttante, dovette acconsentire ad assumersi la responsabilità di governare il Congo come una vera e propria colonia. Anche i metodi adottati dai Tedeschi per annientare la resistenza delle popolazioni dell'Africa sudoccidentale e del Tanganica provocarono un grande scalpore presso i circoli liberali, compresi quelli tedeschi. In molti altri casi - dall'intervento americano nelle Filippine a quello inglese in Rhodesia - la brutalità di quella che, con un eufemismo, veniva chiamata la 'pacificazione' di sudditi riluttanti nelle colonie di recente acquisizione scosse la parte più sensibile dell'opinione pubblica di svariati paesi. Alla vigilia della prima guerra mondiale la colonizzazione delle regioni tropicali cominciò a essere sottoposta allo stesso genere di esame critico che agli inizi del XIX secolo era stato riservato alla tratta degli schiavi e all'istituzione stessa della schiavitù. La maggior parte di tali critiche, tuttavia, era ben lontana dal proporre apertamente la decolonizzazione. Vi era la consapevolezza del fatto che, nella migliore delle ipotesi, solo pochissimi tra i paesi di recente colonizzazione sarebbero riusciti ad amministrare i propri affari come Stati sovrani di tipo occidentale, ed era ormai troppo tardi per tornare indietro e permettere loro di ripristinare le istituzioni precoloniali. La soluzione liberale, nel periodo che arriva sino agli anni quaranta, fu dunque quella di avviare riforme, ma non rivoluzioni: le potenze imperiali avrebbero dovuto agire in qualità di amministratori degli interessi dei popoli coloniali, non come conquistatori e sfruttatori. Proprio sulla base del presupposto - in gran parte falso - secondo cui i Tedeschi avevano dimostrato, prima del 1914, un'assoluta incapacità di agire in questo modo, venne giustificato lo smembramento delle loro colonie dopo il 1918. C'erano alcuni che non credevano nella capacità degli altri Stati imperiali di comportarsi con le proprie colonie in modo così benevolo, e ciò dette origine al proposito, ventilato nei circoli liberali britannici prima del 1914 ed esplicitamente formulato dal presidente degli Stati Uniti Wilson nel 1919, di porre tutte le colonie sotto la supervisione della Società delle Nazioni, da poco istituita. Un'interferenza così pesante nella propria sovranità nazionale fu però considerata inaccettabile dagli Stati europei, anche se si giunse al risultato, peraltro limitato, di creare il sistema dei mandati per tutti i territori nemici occupati dai paesi vincitori.
La fiducia dei paesi occidentali nella legittimità morale della colonizzazione rimase dunque più o meno inalterata durante il ventennio intercorso tra le due guerre mondiali. Purché le potenze occupanti si attenessero al dovere di agire nell'interesse dei popoli soggetti, si considerava giusto che il regime coloniale si protraesse finché tali popoli non fossero stati maturi per l'indipendenza (la maggior parte degli Europei pensava che ciò non si sarebbe verificato nel corso del XX secolo). In effetti, l'entusiasmo dell'opinione pubblica per l'impero, soprattutto in conseguenza delle avverse condizioni economiche, probabilmente aumentò in quegli anni; la prolungata crisi economica condusse a un elevatissimo tasso di disoccupazione che - come argomentavano i sostenitori dell'impero - avrebbe potuto essere ridotto riorganizzando adeguatamente le risorse degli imperi: le colonie avrebbero fornito nuovi mercati a un capitale altrimenti non investibile e a beni di consumo altrimenti non vendibili, nonché materie prime a prezzi più bassi di quelli del libero mercato. Ma esse avrebbero potuto svolgere pienamente questo ruolo solo attraverso un ulteriore sviluppo economico, il quale richiedeva investimenti di ben più ampia portata da parte dei paesi colonizzatori: donde i progetti, approntati dalla Gran Bretagna e dalla Francia, di offrire alle proprie colonie sovvenzioni e prestiti. Tale sviluppo dei territori dipendenti avrebbe a sua volta soddisfatto le condizioni dell'amministrazione fiduciaria e giustificato il permanere del colonialismo. La ferma intenzione di mantenere i propri imperi, dunque, sopravvisse intatta almeno sino al 1939. Ma vi fu anche qualche avvisaglia di un parziale cambiamento d'opinione, soprattutto all'interno dei circoli liberali britannici e americani, i quali reagirono duramente alla colonizzazione dell'Abissinia da parte dell'Italia e all'espansione giapponese in Cina, considerandole illegittime. Di maggiore rilevanza fu probabilmente il fatto che cominciava a farsi largo l'idea che lo scopo primario della colonizzazione fosse quello di preparare le colonie all'autogoverno, in vista dell'indipendenza. Questa era da sempre la politica perseguita dagli Americani, politica che affondava storicamente le sue radici nella nascita degli Stati Uniti - avvenuta attraverso una rivoluzione - e che non era stata modificata dall'annessione delle Filippine, delle Hawaii e di Portorico nel 1898. Alle Filippine fu promessa l'indipendenza nel 1933, alle Hawaii e a Portorico fu concessa la possibilità di scegliere tra l'indipendenza e il diventare Stati dell'Unione. Il modello prevalente seguito dalla Gran Bretagna fu la concessione dell'autogoverno agli insediamenti di coloni provenienti dalla madrepatria, chiamati dominion sin dal 1907: Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica (con l'aggiunta dell'Irlanda nel 1922). Questi territori, che avevano a lungo goduto di un'ampia autonomia interna, ottennero un riconoscimento internazionale allorché firmarono i trattati di pace del 1919; dal 1931 fu legalmente sancito il loro diritto di diventare Stati sovrani. Questo tipo di evoluzione forniva un modello per le altre colonie, nel momento in cui anch'esse avessero raggiunto manifestamente la capacità di autogovernarsi; il problema era quando tale capacità sarebbe stata loro riconosciuta. Il 1917 rappresentò, simbolicamente, il punto di svolta. In quell'anno gli Inglesi promisero all'India "il graduale sviluppo delle istituzioni necessarie all'autogoverno, nella prospettiva di realizzare progressivamente in India un governo rappresentativo come parte integrante dell'impero britannico".
Nel 1929 il viceré interpretò queste parole come se conferissero anche all'India lo status di dominion. Provvedimenti più importanti ai fini del rafforzamento dell'autogoverno indiano erano stati presi nel 1919 e altri furono presi nel 1935. Nel 1939 lo status di dominion quale era stato attribuito al Canada e agli altri paesi già menzionati era superato per alcuni aspetti, ma il principio che anche un possedimento non abitato in prevalenza da coloni della madrepatria potesse muoversi verso l'indipendenza nell'ambito del Commonwealth (così veniva chiamato sempre più spesso l'impero, a indicare lo status speciale dei dominion) era d'importanza fondamentale. Nel 1938 alcuni membri di spicco del Partito Laburista inglese si impegnarono a riconoscere all'India, una volta che essi fossero al governo, la condizione di dominion a tutti gli effetti. Nessun'altra colonia britannica, se si eccettua forse Ceylon, era altrettanto avanzata politicamente e tenuta in considerazione dalla Gran Bretagna, quanto l'India nel 1939. Ma la parte progressista di alcuni ambienti governativi stava giungendo alla conclusione che tutte le colonie avrebbero alla fine seguito la stessa strada, e che i preparativi dovessero esser fatti con un certo anticipo. Sotto questo aspetto la Gran Bretagna rappresentò un'eccezione tra le potenze coloniali: nessun'altra adottò un modello paragonabile a quello dei dominion britannici. I Francesi, che mancavano persino di termini equivalenti ad 'autogoverno' e usavano pertanto l'espressione inglese, erano ancora saldi nella convinzione che il futuro ultimo delle loro colonie sarebbe stato l'incorporazione nella Repubblica attraverso la progressiva estensione del diritto di cittadinanza, sebbene si sforzassero assai poco per promuovere tale estensione. I Portoghesi adottarono lo stesso atteggiamento, contrariamente agli Olandesi e ai Belgi, che però non presero iniziative concrete per incoraggiare l'autogoverno nelle loro colonie. Nel 1939, dunque, soltanto il comportamento degli Inglesi dimostrava che la decolonizzazione poteva essere, alla fine, il risultato del riconoscimento da parte delle potenze imperiali del diritto delle colonie alla libertà. La seconda guerra mondiale esercitò un forte e al tempo stesso paradossale influsso sugli atteggiamenti delle potenze imperiali: essa rese la decolonizzazione un problema pressante proprio mentre offriva incentivi di carattere emotivo e pratico a ostacolarla o a posticiparla.
La decolonizzazione s'impose come un problema urgente poiché gli alleati occidentali stavano dichiaratamente combattendo una guerra contro la tirannide e a sostegno dei diritti dei popoli oppressi. Secondo il presidente degli Stati Uniti Roosevelt ciò valeva non solo per i territori europei occupati dai Tedeschi e per quelli asiatici invasi dal Giappone, ma anche per le colonie, ed egli intendeva usare la sua autorità per indurre la Gran Bretagna a impegnarsi in questo senso nella Carta Atlantica del 1941. Roosevelt si scontrò, su questo punto, con la ferma opposizione di Winston Churchill, ma la pressione americana sulla Gran Bretagna per spingerla a dichiarare ufficialmente la sua intenzione di promuovere il futuro autogoverno delle colonie e a intraprendere iniziative concrete per migliorarne le condizioni sortì un notevole effetto. Nel corso della guerra alcuni circoli governativi britannici cominciarono a pensare seriamente al futuro e fecero propria l'esigenza di accelerare il movimento verso l'autogoverno delle colonie, pur senza stabilire ancora delle scadenze precise per la concessione dell'indipendenza; solo all'India fu promesso, nel 1942, che avrebbe ottenuto lo status di dominion dopo la fine della guerra. Soltanto a partire dal 1947 il Ministero delle Colonie britannico preparò un piano per il graduale trasferimento del potere dalla madrepatria alle varie dipendenze territoriali, un piano basato, però, sul presupposto che il processo avrebbe potuto richiedere una generazione o più. Si stavano, inoltre, verificando eventi importanti, capaci di far slittare qualsiasi cambiamento di fondo nell'atteggiamento degli Europei. In primo luogo, le altre potenze imperiali, a esclusione della Spagna e del Portogallo, vennero occupate dai Tedeschi nel periodo compreso tra il 1940 e il 1945, e quindi non si aprirono alle nuove correnti del pensiero anticolonialista. In secondo luogo, per tutti gli Stati imperiali compresa la Gran Bretagna, uno tra i più importanti obiettivi militari diventò proprio quello di tornare in possesso delle colonie che erano state occupate dalle potenze nemiche, in particolare dei territori del Sudest asiatico e del Pacifico. In terzo luogo, e si tratta dell'elemento più importante, le condizioni dell'economia postbellica resero le colonie di vitale interesse per i loro possessori, in misura maggiore di quanto non fosse mai accaduto in passato. Tutti gli Stati europei dovettero intraprendere una radicale ricostruzione dell'economia nazionale; il loro fabbisogno di capitali e di beni di consumo, importati soprattutto dalle Americhe, era molto elevato, ma la possibilità di pagare le importazioni era stata drasticamente ridotta dalla disorganizzazione in cui versavano le loro economie e, nel caso della Gran Bretagna, dagli enormi debiti con l'estero accumulati durante la guerra. In tali circostanze, le colonie che producevano beni che potevano essere venduti all'estero in cambio di valuta pregiata furono considerate una risorsa vitale della nazione, perduta la quale sarebbe stata seriamente compromessa la possibilità di un'effettiva ripresa economica. Il risultato fu che dal 1945 sino a buona parte degli anni cinquanta lo slancio del pensiero europeo in direzione della decolonizzazione subì un arresto. Anche la pressione americana fu fortemente ridotta dalla nuova strategia imposta dalla guerra fredda, che faceva apparire la stabilità politica dell'Africa e dell'Asia più importante della lotta per l'affermazione dei principî liberali. L'India dovette essere abbandonata nel 1947, poiché non poteva più essere tenuta sotto controllo; la Birmania lo fu nel 1948, ma essa non era mai stata effettivamente riconquistata dalle truppe britanniche; Ceylon fu anch'essa abbandonata nel 1948, poiché non si poteva continuare a negarle ciò che era stato concesso all'India.
Ma gli artefici della politica estera britannica erano ora maggiormente interessati a trovare una formula che soddisfacesse l'opinione pubblica liberale - sia in Gran Bretagna che all'interno del sempre più influente foro internazionale costituito dalle Nazioni Unite -, rimandando al tempo stesso il trasferimento effettivo del potere. Tale formula constava di due elementi: il processo di liberalizzazione politica sarebbe stato accelerato, iniziando dalla base, con una riforma dei governi locali e, per convincere i popoli assoggettati delle sue buone intenzioni, la Gran Bretagna avrebbe promosso un più sostenuto sviluppo economico e sociale, accollandosene i costi. I Francesi non parlavano ancora di autogoverno, ma intervennero per eliminare alcuni dei più macroscopici abusi del sistema coloniale prebellico - in primo luogo l'obbligo di prestare lavoro nelle imprese pubbliche - e promisero anch'essi grandi miglioramenti economico-sociali. Gli Olandesi erano troppo occupati dai loro tentativi, rivelatisi alla fine del tutto vani, di riguadagnare il controllo dell'Indonesia (che furono costretti dagli Americani a evacuare definitivamente nel 1949) per trovare il tempo di formulare progetti di questo tipo. I Belgi in Congo e i Portoghesi nei loro territori africani ignorarono le istanze di decolonizzazione, ma fecero sforzi senza precedenti per incentivare lo sviluppo economico. In conclusione, l'atteggiamento invalso nell'immediato dopoguerra presso l'opinione pubblica europea, e nella maggioranza della sinistra moderata, fu piuttosto riformista che realmente favorevole alla decolonizzazione. Il punto di svolta per tutti gli Stati europei, eccettuato il Portogallo, si ebbe tra il 1949 e il 1960, quando per la prima volta si registrò la contemporanea influenza degli eventi che si svolgevano nelle colonie e delle considerazioni suggerite dalla situazione in cui versavano gli Stati colonizzatori. Da una parte, il rapido diffondersi nelle colonie di movimenti nazionalisti - che saranno descritti in seguito - sollevò questioni concernenti sia la convenienza che la moralità di una loro repressione: gli anni cinquanta, in effetti, videro la nascita, in Gran Bretagna e in Francia, di potenti movimenti antimperialisti che per la prima volta misero in discussione la colonizzazione come fatto in sé. Il trasferimento del potere divenne così un argomento da sbandierare nella competizione elettorale di fronte a tutte le componenti dell'elettorato. Dall'altra parte, l'importanza economica delle colonie per i loro possessori declinò rapidamente, all'incirca a partire dal 1951, a mano a mano che la ricostruzione europea procedeva con successo e che il prezzo dei prodotti di esportazione coloniali andava calando in seguito alla guerra di Corea, conclusasi nel 1952. L'Europa non aveva più bisogno di mantenere sulle colonie lo stesso grado di controllo che aveva esercitato in passato; al contrario, alla fine degli anni cinquanta il prevedibile peso del sostegno economico promesso ai territori coloniali cominciò a farsi sentire: si comprese che, qualora essi avessero ottenuto la libertà, avrebbe potuto esser posto qualche limite al deflusso di capitali dall'Europa. Il risultato della combinazione di questi fattori fu che, piuttosto inaspettatamente, verso la fine degli anni cinquanta tutte le principali potenze coloniali adottarono una politica di decolonizzazione che prevedeva il trasferimento del potere a tutte le colonie, da attuare in tempi brevi e senza le molte riserve espresse in passato sulla loro capacità di amministrare efficientemente i propri affari. Gli Inglesi si mossero con grande rapidità dopo il 1959; la Francia di de Gaulle pose fine nel 1960 al controllo politico sui propri possedimenti africani. Nello stesso anno i Belgi, senza aver compiuto alcun preparativo, evacuarono improvvisamente il Congo. L'Italia non aveva più recuperato le sue colonie africane dopo la fine della guerra. Così, soltanto la Spagna e il Portogallo rimanevano nella posizione di colonialisti convinti: la Spagna abbandonò le sue piccole colonie africane dopo il 1969, il Portogallo rinunciò al suo impero tra il 1974 e il 1975, in seguito a una rivoluzione interna.
La decolonizzazione può dunque essere spiegata, entro certi limiti, con un mutamento radicale nell'atteggiamento degli Europei. Tuttavia il momento in cui tale mutamento è avvenuto e la velocità con cui si è attuato sono stati condizionati in ultima analisi dal grado di resistenza che le potenze coloniali hanno incontrato nei rispettivi possedimenti. È quindi necessario analizzare brevemente il sorgere del nazionalismo coloniale e il significato che esso ha avuto nel processo di decolonizzazione. Che cosa esattamente abbia costituito e alimentato l'idea di indipendenza nazionale nelle colonie, in quanto distinta dalla resistenza inizialmente opposta all'invasione straniera, rimane un argomento controverso. Assumendo una definizione-tipo di ciò che in Europa si considera una nazione, e cioè un popolo ben preciso, caratterizzato da un'origine, da una lingua o da una storia comuni, organizzato di solito come uno Stato politico distinto che occupa un territorio chiaramente delimitato, e intendendo il nazionalismo come fedeltà alla propria nazione, è allora ovvio che erano assai pochi i territori coloniali che rientravano sotto tale definizione. Numerosissime, soprattutto nell'Africa Nera, erano le commistioni tra popoli e tra entità geografiche improvvisate dalle potenze imperiali in base ai propri interessi. Le unità territoriali che si venivano così a creare ospitavano popolazioni che non avevano origini, lingua, storia o religione in comune. Nel periodo precoloniale l'unica forma di fedeltà conosciuta da queste popolazioni era circoscritta e personale, nel senso che si trattava di fedeltà alla persona del capo piuttosto che al territorio da lui governato. Il concetto idealizzato di nazione elaborato da alcuni filosofi europei, come Hegel, risultava completamente estraneo ai loro modelli di pensiero. Molte società precoloniali, inoltre, si erano abituate ad accettare governanti stranieri: così i Moghūl dell'India erano di origine persiana e religione musulmana, ma questo non aveva affatto diminuito l'autorità da essi esercitata sui propri sudditi, che erano in maggioranza indù. Naturalmente vi erano delle eccezioni, ovvero territori che già prima dell'epoca coloniale costituivano Stati più o meno integrati, con una precisa fisionomia linguistica, culturale e religiosa: era questo il caso del Marocco, della Tunisia, dell'Egitto, della Birmania, dei territori che fecero poi parte dell'Indocina francese, e, infine, di alcune unità politiche relativamente piccole dell'Africa Nera. È alquanto significativo che l'intensità della resistenza opposta all'iniziale invasione degli Europei - o comunque alla loro influenza politica, economica e culturale -, nonché, spesso, alla vera e propria occupazione coloniale, fu in genere direttamente proporzionale all'intensità con cui tali società percepivano se stesse come entità omogenee. È anche vero, tuttavia, che persino in quelle società che inizialmente cercarono di opporsi alla dominazione coloniale o che lo fecero qualche tempo dopo la prima occupazione - come nel caso della rivolta indiana del 1857 -, quando era ormai evidente la profonda portata del dominio straniero, la resistenza fu generalmente seguita da un periodo che vide, in misura maggiore o minore, la docile accettazione della realtà di tale dominio. Questa accettazione a volte fu passiva e risentita, ma spesso rifletteva un rispetto crescente per alcuni aspetti dei modelli di pensiero e dei metodi organizzativi della potenza coloniale. In ogni possedimento, infatti, finirono per formarsi dei gruppi consapevoli della necessità di acquisire, date le nuove circostanze, proprio quelle capacità che garantivano ai governanti stranieri la loro preminenza. Si comprese che la chiave del successo risiedeva nell'istruzione, che da quel momento fu tenacemente coltivata, spesso nelle scuole e nelle università della madrepatria. Il risultato di tale processo fu la formazione di una nuova élite, di solito socialmente inferiore alla classe dirigente indigena, che si attribuiva capacità identiche a quelle di chi governava la colonia e ne controllava la vita economica.
Fu proprio da questa nuova élite, e dalla sua convinzione di dover occupare un posto adeguato nella società e nel governo, che si sviluppò la maggior parte dei movimenti nazionalisti. La sua ostilità nei confronti del colonialismo aveva due origini principali. In primo luogo, in molti territori i rappresentanti di questa élite erano esclusi per vari motivi da posizioni di rilievo in campo politico, amministrativo e spesso anche economico. L'ambizione personale, quindi, li indusse a rivendicare opportunità uguali a quelle degli Europei che controllavano la vita coloniale. In secondo luogo, in quanto rappresentanti della società coloniale nel suo complesso, essi giunsero a vedere il potere straniero come una violazione dei diritti umani; attraverso la loro educazione europea avevano assorbito i concetti di libertà e di uguaglianza, e molti di loro avevano osservato dal vivo il funzionamento delle democrazie d'oltremare; essi avevano anche assimilato e fatto propria l'idea di nazione sovrana come la più alta forma di organizzazione politica. Osservato con questi occhi, lo Stato coloniale, autoritario e per di più straniero, appariva loro come una negazione di quei valori in cui i loro maestri europei asserivano di credere. La conclusione non poté essere che la volontà di trasformare la colonia in uno Stato nazionale, il che significava la fine dell'autorità imperiale, cioè la decolonizzazione. Lo sviluppo del nazionalismo, dunque, costituì l'elemento essenziale che concorse, accanto ai crescenti dubbi degli Europei sulla moralità e sulla convenienza del mantenimento del dominio imperiale, a provocare la decolonizzazione. Senza questo impulso proveniente dalle colonie, la volontà della madrepatria di procedere realmente alla decolonizzazione sarebbe stata sicuramente più debole, anzi avrebbe potuto non svilupparsi affatto, dal momento che il colonialismo fu considerato immorale soprattutto perché fu avversato nelle colonie e divenne scomodo solo quando tale resistenza si rivelò sufficientemente forte. Pertanto la cronologia della decolonizzazione, almeno fino alla fine degli anni cinquanta, risultò strettamente connessa allo sviluppo di una resistenza nazionalistica nelle singole colonie, che ebbe luogo in momenti diversi, a seconda dei casi, principalmente in funzione di due fattori: l'epoca della colonizzazione europea e il carattere della società coloniale. In generale, ci si sarebbe potuti attendere che il nazionalismo si sviluppasse in epoca moderna prima di tutto nelle colonie acquisite da più tempo e in cui il processo di istruzione e l'adozione di modelli culturali occidentali avessero avuto il tempo di consolidarsi. D'altro canto, per diventare efficaci, i movimenti nazionalisti dovevano estendersi ben oltre i limiti delle nuove, ristrette élites e fare proseliti tra la massa della popolazione. Questo processo si rivelò sempre difficoltoso, ma lo fu maggiormente in alcune società coloniali che in altre.
Il primo movimento nazionalista 'moderno' che si sviluppò in un paese extraeuropeo fu quello fondato nel 1885 dal Congresso Nazionale Indiano; ma l'India non raggiunse l'indipendenza prima del 1947, e fu solo nel corso degli anni venti che i leaders del movimento nazionalista riuscirono a coagulare intorno ai loro obiettivi l'insostituibile sostegno delle masse. Nell'Indonesia olandese e nell'Indocina francese piccoli movimenti nazionalisti, diffusi soprattutto presso l'intelligencija urbana, conobbero un certo sviluppo nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, ma furono poi soppressi con relativa facilità. Fu l'occupazione di questi territori a opera dei Giapponesi, dopo il 1941, che, paradossalmente, permise ai nazionalisti locali di conquistare una posizione stabile. I Giapponesi sostenevano che il loro obiettivo era quello di garantire una definitiva indipendenza a queste colonie, e in Indonesia e in Birmania utilizzarono i leaders nazionalisti locali come collaboratori, consentendo persino la formazione di forze militari 'nazionali' sotto il loro effettivo controllo. Nell'Indocina, d'altra parte, la resistenza contro le truppe giapponesi permise al movimento nazionalista, sotto la guida di Ho Chi Minh, di raggiungere una solida posizione nelle campagne. Nel Sudest asiatico, eccettuata la penisola di Malacca, il nazionalismo era quindi molto più forte nel 1945 di quanto non fosse mai stato prima; il fatto che intercorresse un certo tempo tra la capitolazione giapponese e l'arrivo delle truppe alleate in queste regioni, permise ai nazionalisti di dichiararne l'indipendenza, mettendo così le potenze coloniali di fronte alla prospettiva di una loro riconquista violenta. Le cose andarono molto diversamente nella maggior parte delle colonie dell'Africa, del Pacifico e dei Caraibi, fatta eccezione per l'Africa settentrionale islamica. Formalmente Marocco e Tunisia erano ancora governate dai loro capi tradizionali, ma ciò avveniva sotto la supervisione e l'effettivo controllo dei Francesi, e la volontà di liberarsi da tale controllo si era mantenuta intatta sin dall'inizio dell'occupazione straniera. L'Algeria era a tutti gli effetti un possedimento francese, un dipartimento della Repubblica, abitato da circa un milione di coloni provenienti dalla madrepatria. L'ostilità nei confronti della Francia non era però mai venuta meno, e la formazione del Front de Libération Nationale (FLN) nel 1954 rappresentò soltanto l'ultimo stadio della resistenza tenacemente opposta ai Francesi da Arabi e Berberi. Analogamente gli Italiani avevano sempre incontrato resistenza in Libia e gli Inglesi erano stati costretti a interrompere sin dal 1922 l'occupazione formale dell'Egitto. Il nazionalismo nordafricano, basato prevalentemente sull'Islam, ma rafforzato dal fatto che tutti questi Stati, fatta eccezione per la Libia, prima dell'occupazione europea erano autonomi, aveva senza dubbio profonde radici e aspettava soltanto un cambiamento di orientamenti e di circostanze in Europa per ottenere con la forza la decolonizzazione. Nel caso dell'Africa subsahariana, delle isole del Pacifico e (per motivi diversi) delle isole caraibiche, la situazione era differente. Nonostante la forte resistenza iniziale spesso opposta all'occupazione europea, una volta che questa resistenza fu vinta la maggior parte di tali società sembrò accettare il dominio straniero; di tanto in tanto si ebbero dei disordini circoscritti ad alcune zone, ma nel 1945 non esisteva in pratica, in nessuno di questi possedimenti, un solo partito organizzato il cui obiettivo primario fosse quello di far cessare l'occupazione straniera. Il sorgere del nazionalismo in queste colonie fu dunque, in larga parte, un fenomeno posteriore al 1945, sulle cui cause si è molto dibattuto. Il sovvertimento dell'ordine stabilito e la maggiore esposizione alle influenze esterne provocati dalla seconda guerra mondiale risultarono in molti casi decisivi. Le notizie sul movimento di decolonizzazione in atto nelle regioni meridionali e sudorientali dell'Asia esercitarono un effetto stimolante sulle minoranze informate sul decorso degli eventi. Gli effetti economici legati alla penuria di beni di consumo del periodo bellico e postbellico, uniti a una caduta dei redditi reali e all'inflazione, suscitarono una forte ondata di risentimento popolare. Le politiche genuinamente riformiste adottate dagli Inglesi e dai Francesi dopo il 1945, nella speranza di scoraggiare l'ostilità delle colonie nei loro confronti, sortirono paradossalmente l'effetto opposto. Le maggiori opportunità di ricevere un'istruzione fecero salire il numero degli intellettuali e aumentarono la consapevolezza degli aspetti umilianti del colonialismo. Ma, soprattutto, l'adozione del regime elettorale, anch'esso introdotto nella speranza di assicurare il sostegno popolare alle potenze coloniali, non solo permise agli Africani e ad altri popoli di esprimere il loro punto di vista attraverso il ricorso alle urne, ma spinse i primi leaders locali a utilizzare le rivendicazioni indipendentiste come arma elettorale. In effetti, una volta che questi sistemi politici furono istituiti e che le potenze coloniali ebbero dichiarato che il loro fine ultimo era quello di preparare queste colonie all'indipendenza, la posizione delle potenze imperiali divenne sempre più precaria; esse furono considerate semplici 'guardiani' della situazione, moralmente obbligate a cedere il proprio potere in un futuro assai prossimo. L'iniziativa, a questo punto, passò decisamente nelle mani dei movimenti nazionalisti, anche se nella maggior parte dei casi essi erano deboli da un punto di vista sia numerico che organizzativo. A tale situazione si giunse in momenti diversi in diverse parti dell'Africa, del Pacifico e dei Caraibi. In generale veri e propri partiti politici si svilupparono dapprima, verso la fine degli anni quaranta, nei possedimenti britannici nell'Africa occidentale e nelle isole caraibiche, successivamente, verso la metà degli anni cinquanta, nei possedimenti francesi dell'Africa occidentale ed equatoriale nonché in quelli britannici dell'Africa orientale e centrale.
Nel Congo Belga non si costituì alcuna organizzazione politica fino al 1959, cioè sino a un anno prima dell'indipendenza; nei territori portoghesi ciò non si verificò sino agli anni sessanta, e anche nelle piccole isole del Pacifico i movimenti nazionalisti si svilupparono soltanto nel corso di quel decennio. Quanto siano stati importanti tali movimenti nell'indurre le potenze imperiali a procedere alla decolonizzazione è ancora incerto. Per la Gran Bretagna, per la Francia e probabilmente per il Belgio, sarebbe stato certo possibile reprimerli a tempo indefinito ricorrendo alla forza militare, come fu evidenziato dal successo britannico in Kenya nei confronti dei Mau Mau, tra il 1952 e il 1956, e anche nei confronti della guerriglia alimentata dai comunisti cinesi nella penisola di Malacca durante gli anni cinquanta. Persino in Algeria l'esercito francese aveva virtualmente vinto la guerra contro l'FLN intorno al 1960. D'altro canto, il costo di queste operazioni era assai elevato e, dato che si sarebbero rivelate necessarie in molti territori coloniali, il peso gravante sugli apparati militari e sulle disponibilità finanziarie della madrepatria avrebbe rischiato di diventare inaccettabile, come avvenne per il Portogallo a metà degli anni settanta. In ogni caso, altri ordini di considerazioni risultarono probabilmente più importanti nello spingere le potenze imperiali a venire incontro alle richieste dei nazionalisti. Nei regimi democratici le forze di orientamento progressista si indignavano a sentire le cronache delle misure repressive adottate dalle autorità coloniali; nella Gran Bretagna e nella Francia degli anni cinquanta si registrò senza dubbio un notevole acuirsi dei sentimenti anticolonialisti. Inoltre, in quei paesi come la Francia e il Portogallo, dove venivano utilizzati soldati di leva per mantenere l'ordine nelle colonie, aumentarono sensibilmente le critiche dell'opinione pubblica per il dispendio di vite umane. Viceversa, una volta accettata in maniera definitiva l'inevitabilità della decolonizzazione, gli Stati imperiali ritennero opportuno preparare il terreno per amichevoli e vantaggiose relazioni postcoloniali con i futuri governanti dei territori liberati. La linea di condotta consapevolmente perseguita dalla Gran Bretagna, a partire dalla fine degli anni quaranta, e dalla Francia, a partire dalla fine degli anni cinquanta, fu la seguente: meglio procedere rapidamente alla decolonizzazione, anche nel caso di colonie non ancora giudicate mature per l'indipendenza, piuttosto che accrescere l'ostilità dei leaders nazionalisti. Soltanto i Portoghesi rifiutarono di accettare la logica di questo ragionamento, con il risultato che le loro colonie africane divennero profondamente ostili nei confronti del Portogallo e dell'Occidente intero, e caddero nella sfera d'influenza dell'Unione Sovietica e di Cuba.
Analizzata in generale, dunque, la decolonizzazione dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico si realizzò tra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta, perché in quel torno di tempo una serie di elementi importanti contribuì a far apparire più vantaggioso, agli occhi delle potenze imperiali, abbandonare rapidamente le colonie piuttosto che ostinarsi a resistere il più a lungo possibile, come avevano fatto la Gran Bretagna in India e la Francia in Indocina. Adottando questo comportamento, le tre principali potenze interessate - Gran Bretagna, Francia e Belgio - riuscirono a ritirarsi con una certa dignità. A parte i loro possedimenti mediterranei, il potere fu in ogni caso trasferito a un governo eletto democraticamente; purtroppo le istituzioni propriamente democratiche erano così recenti e così debolmente radicate che solo in pochi casi sopravvissero a lungo all'indipendenza. La ricompensa ricavata dall'Europa per questa sua rapida smobilitazione fu che, almeno virtualmente, tutti questi Stati di recente formazione scelsero di rimanere entro l'orbita politica dell'Occidente democratico, mantenendo stretti legami economici col mondo capitalistico. Persino lo Zimbabwe, giunto infine all'indipendenza nel 1979 (dopo una debilitante guerriglia e dopo che il governo della Rhodesia meridionale aveva tentato di evitare il trasferimento del potere alla maggioranza nera, dichiarando nel 1965 la propria indipendenza senza il consenso della Gran Bretagna), fu presentato con tutta la pompa del rituale britannico come un regime democratico, anche se le fasi conclusive del processo somigliarono più a uno spettacolo teatrale che a un'effettiva e prolungata lotta per la libertà. Appare chiaro, quindi, che la decolonizzazione non è stata solo la diretta conseguenza né del convincimento, da parte delle potenze imperiali, che le colonie non erano più vantaggiose come in passato, né di un'irresistibile pressione esercitata su tali potenze dai movimenti nazionalisti autoctoni. L'Indocina fu probabilmente l'unico territorio coloniale da cui la madrepatria venne effettivamente espulsa in seguito a una sconfitta militare. In Birmania, dopo il 1945, gli Inglesi non cercarono seriamente di procedere a una totale rioccupazione, pur essendo in grado di farlo. In tutti gli altri possedimenti, il maggior potenziale bellico degli Stati occidentali offriva loro la possibilità di scegliere tra il rimanere, per un periodo più o meno lungo, e lo smobilitare entro breve tempo. La composizione dei fattori che determinarono il corso degli eventi fu diversa da caso a caso. Probabilmente tutte le potenze imperiali avrebbero prolungato ulteriormente la fase di preparazione delle colonie all'indipendenza qualora non fossero insorti i problemi causati dai movimenti nazionalisti; ma la velocità e la generalità del trasferimento del potere, dopo la metà degli anni cinquanta, dovettero anche moltissimo al cambiamento insorto nelle inclinazioni etiche degli Europei, a una nuova situazione economica internazionale, che fece apparire le colonie molto meno appetibili di prima, e a una valutazione realistica del futuro postcoloniale. Alla fine la decolonizzazione ebbe luogo principalmente perché gli Stati imperiali decisero che, tutto sommato, per il futuro avrebbero potuto ottenere di più lasciando le rispettive colonie da amici piuttosto che da nemici, per quanto impreparate fossero molte di esse all'indipendenza. La storia di molti paesi del Terzo Mondo è stata da allora dominata e segnata dai risultati di questa decisione. (V. anche Africanismo; Imperi; Imperialismo; Sottosviluppo).
Betts, R. F. (a cura di), The ideology of blackness, Lexington, Mass., 1971.
Boxer, C. R., The Dutch seaborne empire, London 1965.
Boxer, C. R., The Portuguese seaborne empire, New York 1969.
Brown, J. M., Modern India, Oxford 1985.
Cambridge economic history of India (a cura di T. Raychaudhuri e altri), 2 voll., Cambridge 1982-1983.
Cambridge history of Africa (a cura di J.D. Fage e altri), voll. IV-VIII, Cambridge 1976-1986.
Cambridge history of the British empire (a cura di J.H. Rose e altri), 8 voll., Cambridge 1929-1959.
Chaudhuri, K. N., The trading world of Asia and the English East India Company: 1660-1760, Cambridge 1978.
Christie, I. R., Crisis of empire: Great Britain and the American colonies, 1754-1783, London 1966.
Clarence-Smith, G., The third Portuguese empire, Manchester 1985.
Davies, R., The rise of the Atlantic economies, London 1973.
Elliott, J. H., The old world and the new: 1492-1650, Cambridge 1970 (tr. it.: Il vecchio e il nuovo mondo: 1492-1650, Milano 1985).
Fanon, F., Les damnés de la terre, Paris 1961 (tr. it.: I dannati della terra, Torino 1962).
Fieldhouse, D. K., The colonial empires, London 1966 (tr. it.: Gli imperi coloniali del XVIII secolo, Milano 1967).
Fieldhouse, D. K., Economics and empire: 1830-1914, London 1973 (tr. it.: L'età dell'imperialismo: 1830-1914, Bari 1975).
Fieldhouse, D. K., Black Africa: 1945-1980, London 1986.
Gallagher, J., The decline, revival and fall of the British empire, Cambridge 1982.
Gifford, P., Louis, W. R. (a cura di), Britain and Germany in Africa, New Haven, Conn., 1967.
Gifford, P., Louis, W. R. (a cura di), France and Britain in Africa, New Haven, Conn., 1971.
Gifford, P., Louis, W. R. (a cura di), The transfer of power in Africa, New Haven, Conn., 1982.
Girardet, R., L'idée coloniale en France de 1871 à 1942, Paris 1972.
Holland, R. F., European decolonization: 1918-1981, London 1985.
Lynch, J., The Spanish American revolutions: 1808-1826, London 1973.
Marseille, J., Empire colonial et capitalisme français: histoire d'un divorce, Paris 1984.
Marx, K., Das Kapital, 3 voll., Hamburg 1867-1894 (tr. it.: Il capitale, 3 voll., Roma 1974⁸).
Parry, J. H., The Spanish seaborne empire, London 1966.
Parry, J. H., Sherlock, P. M., A short history of the West Indies, London 1956.
Pearce, R. D., The turning point in Africa, London 1982.
Ricklefs, M. C., A history of modern Indonesia, London 1981.
Robinson, R. E., Gallagher, J., Denny, A., Africa and the Victorians, London 1961.
Simmons, R. G., The American colonies: from settlement to independence, London 1976.
Smith, A., An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), in Works and correspondence, vol. II (ed. critica a cura di R.H. Campbell, A.S. Skinner e W.B. Todd), Oxford 1976 (tr. it.: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973).
Tomlinson, B. R., The political economy of the Raj, Cambridge 1979.
di Lawrence Rosen
1. Introduzione
Nel corso della storia le potenze coloniali hanno sempre adoperato il diritto come strumento di controllo politico e di accentramento dei poteri. L'impiego particolare che esse hanno fatto della legge riflette da un lato la teoria e la pratica del diritto vigente nella madrepatria e dall'altro l'immagine che avevano dei popoli indigeni nei confronti dei quali la politica coloniale era stata modellata e rivista. È fuor di dubbio, come affermato da un commentatore, che "il diritto è stato la spada del colonialismo" (v. Chanock, 1985, p. 4). È anche vero, tuttavia, che, come le colonie divennero il banco di prova su cui saggiare le nuove teorie sulle relazioni economiche, così spesso le sperimentazioni nell'organizzazione giuridica hanno a loro volta avuto effetti sulla nazione colonizzatrice stessa. Perciò se adesso, nel periodo della decolonizzazione e della nascita di nuovi Stati indipendenti, esaminiamo l'impatto generale del colonialismo sullo sviluppo del diritto, vediamo delinearsi un quadro complesso di sistemi particolari di pratiche giuridiche che hanno avuto ripercussioni previste e impreviste. Da questo quadro emergono in particolare due aspetti del ruolo esercitato dal diritto nel colonialismo. In primo luogo, il diritto ha rappresentato nella maggior parte dei casi un efficace strumento per consolidare il controllo del paese colonizzatore. Sebbene la resistenza iniziale da parte delle popolazioni indigene abbia spesso richiesto l'uso della forza, è stata la creazione di una dipendenza economica a favorire il controllo delle colonie ed è stato il diritto a fungere da meccanismo regolatore di questa dipendenza. Tale controllo si è rivelato così efficace che nel momento di massimo rigoglio del colonialismo africano, per esempio, meno di 4.500 funzionari coloniali controllavano 18 milioni di sudditi nell'Africa francese, 2.500 funzionari controllavano i 9 milioni di abitanti del Congo Belga e meno di 1.400 governavano una popolazione di 20 milioni di Nigeriani. Un tale impiego del diritto, per la dominazione politica dei pochi sui molti, creò notevoli problemi cui le potenze coloniali dovettero costantemente far fronte: problemi di organizzazione dei tribunali, di pluralità degli ordinamenti giuridici, di creazione di una legittimità attraverso strumenti apparentemente oggettivi quali codici, carte costituzionali e procedure burocratiche. Un secondo elemento riguarda l'uso che in epoca coloniale è stato fatto del diritto come veicolo di riforma sociale e culturale. Le leggi riguardanti il possesso della terra, la successione ereditaria, il matrimonio e il contratto divennero strumenti attraverso i quali le forze che nella madrepatria erano contrarie ai sistemi religiosi, sociali ed economici delle popolazioni colonizzate tentarono di modificarli. Quando poi le potenze coloniali non furono più in grado di conservare i loro imperi d'oltremare, fu l'utilizzazione del diritto quale strumento di controllo sullo sviluppo della società indigena a costituire una delle eredità più durature della loro presenza e uno dei legami più significativi tra paese colonizzato e potenza colonizzatrice.
2. Strategie giuridiche adottate durante la dominazione coloniale
L'utilizzazione del diritto come mezzo di controllo e di sviluppo era, naturalmente, profondamente correlata alla teoria generale della colonizzazione adottata dal paese colonizzatore. Sebbene si possano riscontrare analogie con quanto si è verificato sin dalle epoche più antiche e in ogni parte del mondo, ci concentreremo prevalentemente sugli sforzi di colonizzazione delle potenze europee nel XIX e nel XX secolo e sullo smantellamento dei loro possedimenti in epoca recente. All'interno di questo schema generale si riscontrano delle notevoli differenze nel modo di concepire il diritto e il colonialismo.
L'orientamento britannico è stato spesso definito 'dominio indiretto', in quanto si utilizzavano funzionari indigeni, la cui posizione era riconosciuta e inserita in una gerarchia controllata dall'alto da funzionari coloniali, per esercitare il controllo a livello locale. È importante ricordare che questo modello, che descrive abbastanza bene la politica inglese, corrisponde perfettamente alla storia giuridica delle stesse Isole Britanniche: infatti, per lungo tempo il governo di Westminster si è avvalso di diversi strumenti giudiziari e legislativi (ad esempio jury of indictment, jury of presentment, jury of trial, circuit-riding judges, writ system) per ottenere che l'attività giurisprudenziale della Corona venisse esercitata a livello locale, ma ha mantenuto sotto controllo i vertici della struttura giudiziaria e di quella legislativa. Nelle colonie la storia del controllo indiretto è passata attraverso numerose fasi di sviluppo. Nel corso dell'epoca coloniale è stata proprio l'esperienza in India a rendere evidente la politica giuridica generale inglese. In seguito alla perdita della maggior parte dei suoi possedimenti nell'emisfero occidentale, tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX, la Gran Bretagna rivolse la sua attenzione principalmente al subcontinente indiano. Ritenendo l'India da lungo tempo assuefatta al dominio dispotico e arbitrario dei Moghūl, in un primo periodo la politica inglese legittimò un ampio controllo giuridico da parte della Compagnia delle Indie Orientali. Tuttavia il crescente apprezzamento per la struttura giuridica classica indù e musulmana portò a limitare la giurisdizione della Compagnia e a introdurre leggi e giudici inglesi di grado più elevato per trasformare il 'vantaggioso', ma 'corrotto', regime indigeno in un sistema indiretto di applicazione del diritto inglese. A tale sistema fu data efficace articolazione nel 1861 allorché sir Henry Maine, nel suo saggio Ancient law in cui attingeva ampiamente a esempi indiani, sostenne che il diritto era andato evolvendosi da un sistema in cui la proprietà pubblica era dominante a un sistema in cui era dominante la proprietà privata, e dall'assorbimento dell'identità giuridica dell'individuo in un gruppo solidale alla comparsa della figura del contraente individuale - una teoria che ha rafforzato la convinzione britannica che era essenziale al progresso economico elaborare istituti di proprietà privata e di status personale simili ai propri.
Il modello indiano implicava l'imposizione della procedura giudiziaria e del diritto sostanziale inglese. In luogo dei tribunali di pace, i quali davano rilievo alle differenze sociali come fattore essenziale per il raggiungimento di risultati equi, i tribunali britannici nel XIX secolo, eliminando l'affiliazione sociale in nome della neutralità giudiziale, finivano per favorire le controversie e la falsa testimonianza. Alla fine del XIX secolo e di nuovo negli anni venti furono fatti tentativi - come accadde in India dopo l'indipendenza - per far rivivere le strutture giudiziarie di villaggio (panchayat), poiché la struttura giudiziaria britannica di primo grado sembrava incapace di eliminare completamente quelli che erano ritenuti ostacoli al raggiungimento del pieno sviluppo. In realtà l'alternanza tra il dar rilievo al diritto indigeno e l'imporre modelli britannici era un sintomo della profonda contraddizione che caratterizzava la politica inglese - quella, cioè, tra la volontà dichiarata di promuovere l'evoluzione morale di una società 'arretrata', in virtù dell'effetto benefico esercitato dalla giustizia inglese, e il mantenimento di interessi che favorivano i colonizzatori ben più dei colonizzati.
Questa contraddizione era evidente anche nel diritto sostanziale britannico. Sin dall'inizio del XIX secolo - e nonostante gli sforzi per tradurre e pubblicare il diritto musulmano e indù - il diritto a cui la Gran Bretagna faceva riferimento era, naturalmente, la common law inglese. Un aspetto fondamentale di tale sistema giuridico - in Inghilterra non meno che nelle colonie - è dato dal fatto che esso formula proposizioni generali a cui può in parte venir fatta eccezione tramite atti legislativi specifici. Il risultato dell'applicazione di questo sistema alle colonie fu duplice: in primo luogo, le regole generali della common law ineluttabilmente travolsero le leggi indigene; queste, d'altro canto, erano ammesse come eccezioni, ma solo se non contravvenivano ai principî specifici di moralità e di organizzazione economica che, in realtà, erano alla base delle proposizioni cosiddette 'generali' della common law. Così, ad esempio, col pretesto di proibire leggi locali considerate "ripugnanti alla giustizia, all'equità e alla coscienza", gli Inglesi riuscirono, di fatto, a vietare il lavoro di corvée allo scopo di rendere disponibile sul libero mercato del lavoro manodopera che veniva poi assorbita nelle piantagioni britanniche. Allo stesso tempo, con altre misure la Gran Bretagna sosteneva quei meccanismi di possesso della terra che vincolavano gli indigeni ai proprietari terrieri, in quanto i colonizzatori avevano paura che altrimenti troppi indigeni si sarebbero riversati nelle città in via di espansione. Gradualmente, attraverso l'uso delle corti di appello, i principî della common law inglese eliminarono la maggior parte dei principî giuridici indigeni, pur non risultando, almeno in apparenza, specificamente inglesi. Scopo della politica giuridica inglese era quello di mantenere il controllo e guidare lo sviluppo, e ciò risulta ancor più chiaramente dal diritto penale. Intorno al 1830, quando le riforme penali erano appena in corso di attuazione in Gran Bretagna, Thomas Babington Macauley fu incaricato di redigere un codice penale per l'India. Il documento che egli elaborò andava ben oltre il riconoscimento che tutte le leggi penali esistenti in India erano di origine straniera e che la codificazione avrebbe indicato quel che era lecito e quel che era illecito: esso era altamente innovativo in quanto riconosceva alle donne il diritto alla proprietà (cosa che non accadde in Inghilterra fino al 1882), ammetteva il risarcimento per danni provocati da delitti e distingueva diverse forme di omicidio in base all'intenzionalità. Questo rappresenta un esempio di come nella colonia il cambiamento sociale fosse guidato attraverso l'individuazione di nuove forme di reati e di nuove procedure, e di come la libertà di sperimentazione nelle colonie si ripercuotesse sul pensiero giuridico della madrepatria stessa.
I processi che la Gran Bretagna aveva messo in moto in India furono attivati, in misura differente, anche in altre parti del suo Impero: alcuni tratti caratteristici del diritto britannico si ritrovavano ovunque, anche se con variazioni locali, dagli Stabilimenti dello Stretto alla Malesia, dall'Africa Orientale alle Isole caraibiche. Ad esempio, se in Kenya o in Tanganica vi era necessità di manodopera per imprese coloniali, tutte le terre venivano dichiarate pubbliche, cosicché gli abitanti di quelle terre potevano essere considerati occupanti abusivi di suolo pubblico: si rendeva così disponibile una quantità di forza lavoro per le compagnie straniere alle quali erano state concesse locazioni a lungo termine nelle stesse terre prima occupate dai lavoratori. Se in Zambia o in Malawi la stessa forza lavoro doveva essere convertita in merce, le autorità coloniali potevano far passare come diritto consuetudinario accettabile ciò che era in realtà un insieme fortemente selettivo di diritti di proprietà o di vincoli obbligatori, che guadagnavano in tal modo un'apparenza di legittimità. Questa selettività e il costante rimaneggiamento di ciò che era 'tradizionale' dovevano necessariamente avere significative ripercussioni nell'epoca postcoloniale.
L'orientamento giuridico coloniale francese, diversamente da quello britannico, ha sempre dimostrato in modo più o meno evidente di essere fondato sul diritto codificato e non sulla common law, e di perseguire una politica coloniale generale volta all'integrazione di un'élite indigena istruita nel novero delle persone 'civili'. Allo stesso tempo i Francesi hanno continuato a utilizzare il diritto come uno strumento per la realizzazione dei fini politici del governo centrale piuttosto che come un sistema che poteva operare con una sua propria autonomia. Le conseguenze di queste caratteristiche furono naturalmente diverse nel corso del tempo e in ciascuna colonia. Fino al 1881 tutte le colonie francesi erano governate da militari. Ne derivava un'immagine di integrità territoriale e di difesa unificata che si adattava bene alla teoria giuridica generale dei Francesi, secondo cui un unico regime giuridico doveva essere in vigore in un dato territorio e pertanto tutti coloro che risiedevano in questo territorio dovevano sottostare alle medesime leggi. L'attività legislativa - piuttosto che il meccanismo di 'incorporazione' caratteristico della common law - divenne il principale veicolo di trasformazione giuridica e, poiché l'obiettivo da raggiungere era che tutte le colonie si evolvessero fino a un punto di potenziale assimilazione, tale uniformità giuridica era funzionale a più ampie finalità politiche. Di fatto, tale teoria finì spesso col divergere dalla prassi.
Ad esempio in Algeria, che fu colonizzata nel 1830, si insediarono come agricoltori e piccoli commercianti molti Francesi. Ben presto i Francesi decisero di assimilare la proprietà privata terriera degli indigeni a una forma di proprietà collettiva o demaniale, soggetta come tale a controllo ed esproprio statale. Quando nel 1916 fu redatto un Codice di diritto islamico che, sebbene mai applicato, servì da esempio a molti codici che avevano applicazione a livello regionale, i Francesi mostrarono di essere pronti a riscrivere anche il diritto religioso indigeno in modo che risultasse conforme agli orientamenti statali. I tribunali del diritto consuetudinario berbero, inizialmente riconosciuti idonei a giudicare su questioni inerenti allo status personale, furono sostituiti alla fine del XIX secolo da tribunali francesi. Per ovviare al problema rappresentato da questa graduale sostituzione del diritto e della consuetudine musulmana in Algeria, in Marocco il generale Lyautey tentò di mantenere una maggiore segregazione tra Francesi e musulmani. Ne risultò una minore interferenza del diritto francese nelle questioni marocchine di ordinamento familiare, mentre il sistema Torrens di registrazione delle terre, inizialmente applicato in modo da rendere discutibile la maggior parte delle rivendicazioni indigene delle terre, riuscì alla fine a unificare i criteri coloniali e indigeni relativi alla proprietà terriera. Simili tensioni tra assimilazione e separazione erano evidenti anche in altre parti dell'Impero coloniale francese. In Senegal, in Africa Equatoriale Francese e in Guinea il Codice civile francese fu applicato integralmente, mentre fino al 1946, quando la cittadinanza francese fu estesa a tutti i sudditi dei territori d'oltremare, erano ancora in vigore le norme relative allo status personale proprie di ciascuna religione o gruppo etnico. In Indocina, dove il governo indiretto si rivelò la strada che da un punto di vista politico aveva maggiori probabilità di successo, il diritto penale francese dimostrò di avere applicazione limitata, mentre il diritto civile riuscì a imporsi sul diritto indigeno grazie alla sua relativa semplicità, sebbene in Indocina i Francesi non avessero attuato una colonizzazione su larga scala. Così l'eredità lasciata dai Francesi, cioè l'utilizzazione dei codici come strumenti per ottenere la sovranità territoriale e del diritto per ottenere l'assimilazione culturale, ha dato origine a un modello che è rimasto alla base di gran parte della storia giuridica delle colonie francesi.
Mentre gli Inglesi, facendo leva sulla procedura, miravano alla graduale integrazione nel sistema della common law e tenevano a distanza la popolazione indigena attraverso il diritto, mentre i Francesi consideravano la legge come uno strumento dello Stato che poteva essere impiegato, a seconda delle necessità politiche, per assimilare o per soggiogare, gli Olandesi si proposero di formalizzare regimi giuridici diversi per ogni gruppo religioso o razziale. Questa politica, chiaramente riscontrabile sin dai primi tempi della colonizzazione olandese in Indonesia e teorizzata negli scritti di Snouck Hurgronje alla fine del XIX secolo, raggiunse il suo apice negli anni tra le due guerre: in quel periodo infatti i positivisti giuridici che si erano schierati a favore dell'imposizione di un unico regime giuridico, emanato e controllato dallo Stato, subirono una sconfitta ad opera dei sostenitori di ordinamenti giuridici indigeni separati, i quali ritenevano che il pluralismo giuridico fosse un aspetto imprescindibile della cultura indonesiana e le leggi indigene (adat) fossero le più appropriate per raggiungere una serie di obiettivi socialmente auspicabili. Lo Stato, essi affermavano, dovrebbe garantire che questi diversi adat siano corretti ed esaurienti, piuttosto che imporre codici e procedure stranieri. Nel 1870 la massima Corte delle colonie giunse fino a stabilire che i tribunali civili non avevano potere di revisione sulle decisioni dei tribunali islamici, che potevano essere costituiti da un qualunque gruppo formato da tre musulmani che sceglievano di decidere su un caso qualsiasi. Un regio decreto del 1882, comunque, stabilì una normativa sulla formazione dei tribunali islamici, i cui membri dovevano essere nominati dal governatore generale. Ciò nonostante, gli Olandesi non si adoperarono a sufficienza per sostenere i tribunali di diritto islamico, e la loro politica di pluralismo giuridico può aver contribuito al sorgere delle difficoltà con cui più tardi i nazionalisti indonesiani dovettero confrontarsi per risolvere i problemi dell'unificazione nazionale.
3. Temi comuni del diritto coloniale
Le versioni inglese, francese e olandese del diritto coloniale non sono, naturalmente, le uniche degne di considerazione. Si potrebbe ad esempio ricordare l'atteggiamento statunitense nei confronti delle tribù indiane: si tratta di una lunga serie di politiche confuse e contraddittorie, che va dalla convinzione di Thomas Jefferson - secondo il quale i nativi dovevano essere considerati una sorta di piccoli proprietari (yeomen) e pertanto doveva essere loro permesso di continuare il proprio processo di adattamento al continente americano con il solo aiuto della tecnologia europea - alla convinzione del Chief Justice della Corte Suprema I. Marshall, secondo cui la conquista e la scoperta, che avevano conferito al governo federale il diritto esclusivo di estinguere i diritti di proprietà degli aborigeni, comportavano però i correlativi obblighi fiduciari; dall'assimilazione forzata sancita dall'Allotment act nel 1887 al recupero di strutture tribali stabilito negli anni trenta durante il New Deal. Oppure si potrebbe far riferimento all'Impero ottomano, che prese a modello molti codici europei per le sue tardive riforme del XIX secolo, e ha lasciato la sua eredità nel majalla, applicato in parte ai giorni nostri solo in Giordania, che legittimava l'amalgama dei codici occidentali con la legge islamica in gran parte dell'attuale Medio Oriente. O, ancora, si potrebbe prendere in considerazione la Russia sovietica, che durante la colonizzazione dell'Asia centrale tentò, a un certo punto, di valersi di leggi che garantissero maggiore libertà alle donne musulmane, per creare ciò che Gregory Massel (v., 1974) ha chiamato un "surrogato di proletariato", il quale sarebbe servito da elemento catalizzatore per il cambiamento sociale nel cuore dell'Islam sovietico. Insieme agli esempi citati all'inizio, queste varie forme di diritto coloniale indicano come i problemi che tutte le grandi potenze coloniali del XIX secolo hanno dovuto affrontare fossero fondamentalmente gli stessi.
Uno dei problemi comuni era quello del pluralismo giuridico. Le potenze coloniali dovettero incorporare nel proprio sistema giuridico gli innumerevoli sistemi locali basati su criteri territoriali, tribali o religiosi. Molte potenze coloniali, infatti, nonostante differissero tra loro per molteplici aspetti, ebbero in comune un grande rispetto nei confronti del diritto indigeno, sia nella fase iniziale che in quella finale del loro dominio: nel primo caso perché il loro potere era ancora relativamente debole e si potevano meglio cooptare le autorità locali se non erano messe del tutto in discussione le loro competenze, nel secondo perché i colonialisti avevano compreso quanto potesse essere malleabile il diritto consuetudinario e quanto utile per legittimare i radicali cambiamenti che essi stessi avevano voluto. Così in Uganda inizialmente gli Inglesi utilizzarono le leggi del regno di Buganda per ottenere lavoro di corvée che la legge inglese non permetteva, mentre nella sua ultima fase il regime coloniale curò la codificazione del diritto consuetudinario tribale per includervi solo quegli aspetti che riteneva convenienti. Anche i colonizzatori francesi e tedeschi decisero di non adottare un duplice sistema di diritto, ma stabilirono quale parte di quello 'tradizionale' poteva rimanere in vigore. Anzi, come sottolineava James Read, il riconoscimento del diritto consuetudinario non era un segno di deferenza da parte dei colonizzatori, ma era dovuto all'aver compreso che "l'imprecisione e l'adattabilità delle norme del diritto consuetudinario le rendevano utili strumenti per conservare il controllo amministrativo e per sostenere le autorità africane da essi riconosciute" (v. Morris e Read, 1972, pp. 167-170). Grazie all'eliminazione degli aspetti del diritto consuetudinario che non volevano mantenere in vigore le potenze coloniali riuscirono, come Sally Falk Moore ha dimostrato per il caso della Tanzania, a costringere il diritto tradizionale nell'ambito di strutture politiche ed economiche completamente diverse (v. Moore, 1989, p. 289). Si può pertanto concludere che la pluralità dei diritti istituiti dai regimi coloniali, grazie all'adattabilità delle fonti di legittimazione e dei funzionari impiegati, riuscì a soddisfare le esigenze dei colonizzatori.
Questa molteplicità di sistemi giuridici poteva, tuttavia, far sorgere gravi problemi di conflitto tra leggi. Ciò si verificò soprattutto nelle colonie olandesi, dove vennero accordate ampie facoltà a regimi basati su status personali di matrice religiosa o etnica. Le potenze coloniali dovettero decidere se fosse più vantaggioso creare una legislazione unificata, che avrebbe potuto favorire la libertà di circolazione della manodopera, oppure permettere ai singoli di mantenere le proprie leggi dovunque si trasferissero. Nel complesso la soluzione adottata, e rimasta in vigore anche nell'era postcoloniale, fu quella di permettere un certo grado di giurisdizione ad personam in materia di matrimonio, eredità, divorzio e filiazione, ma di basarsi su un diritto uniforme in materia di atti illeciti, contratti, delitti e (in taluni casi) passaggi di proprietà. Così i sudditi coloniali della Francia potevano, mediante un processo affine alla naturalizzazione, essere sottoposti alle leggi civili francesi, o i musulmani della Somalia italiana potevano essere sottoposti al diritto italiano qualora la causa della loro azione legale non fosse contemplata dal diritto islamico. Ancora una volta questa differenziazione mette in luce come il principale interesse dei colonizzatori fosse quello di mantenere il controllo economico e politico.
Analogamente ogni potenza coloniale dovette stabilire su quale fondamento basare la propria giurisdizione: codice, common law o costituzione. Sebbene ogni potenza tendesse a esportare il modello giuridico vigente nella madrepatria, fu spesso ritenuto conveniente utilizzare come fonti di diritto modelli meno diffusi nella propria cultura giuridica. Gli Inglesi, che pure erano avversi alla codificazione del diritto nel loro paese, nelle colonie utilizzarono frequentemente i codici come strumento per legittimare la recezione del diritto inglese e per definire i loro progetti di sviluppo economico per ciascuna colonia. Analogamente, durante la colonizzazione delle Filippine, gli Stati Uniti ricorsero all'impiego dei codici in una maniera ben più ampia di quella in uso in America. Perfino il diritto consuetudinario finì per essere codificato, fondamentalmente sulla base di una selezione operata da funzionari coloniali locali o dai loro consiglieri indigeni. Questa tendenza verso l'emanazione di testi legislativi fondamentali ebbe significative conseguenze quando cominciarono i primi veri e propri movimenti di indipendenza nazionale.
4. Decolonizzazione e diritto
Paradossalmente le politiche giuridiche coloniali hanno contribuito sia al sorgere di sentimenti nazionalistici contro le potenze coloniali, sia a far nascere nelle stesse potenze coloniali la volontà di rinunciare ai loro possedimenti. La discrepanza, chiaramente percepita dalla società indigena, tra la dichiarata neutralità delle leggi e dei tribunali coloniali e l'evidente parzialità che questi in realtà dimostravano nei confronti dei contendenti e degli interessi coloniali, favorì la nascita del nazionalismo. Inoltre il pluralismo del diritto coloniale era spesso apparso, secondo la definizione di Mauro Cappelletti, come un "pluralismo statico", una forma cioè che comportava limitati conflitti al di là dei confini dei gruppi originari di appartenenza (cit. in Bush, 1979, p. 277). Questa stasi può aver ostacolato l'interscambio e lo sviluppo di nuove forme giuridiche, ma l'impossibilità di passare oltre tali confini ha anche facilitato il riconoscimento della separazione dal regime coloniale dominante. In taluni casi il diritto indigeno può addirittura aver avuto la funzione di "giurisprudenza della rivolta" (v. Tigar e Levy, 1978, pp. 310-330), cioè di contrappeso al potere dello Stato e punto di riferimento per i sentimenti nazionalisti. Così, quando i Francesi nel 1934 tentarono di porre i Berberi del Marocco sotto la legge berbera e soltanto gli Arabi sotto la legge islamica, Berberi e Arabi si coalizzarono nel loro sforzo nazionalista di sottrarsi a questa politica giuridica del divide et impera. Anche altrove, come in Indonesia, la persistenza del diritto islamico divenne un punto di riferimento simbolico per l'indipendenza. Persino in quelle colonie dell'Africa in cui il diritto consuetudinario era stato interamente incorporato in quello dei colonizzatori, la totale incapacità del diritto europeo di acquisire legittimità agli occhi delle popolazioni indigene indeboliva le istanze colonialiste.
Allo stesso tempo le potenze coloniali vedevano nei codici che avevano promulgato e nel personale che avevano formato una opportunità per continuare a esercitare la loro influenza nella colonia anche dopo che questa avesse raggiunto l'indipendenza. Gandhi, per il fatto di essere un avvocato di cultura inglese, rappresentava, nonostante la sua 'stranezza' secondo il punto di vista inglese, un interlocutore col quale si sarebbe potuto realizzare un commonwealth. Molti altri leaders nazionalisti si erano formati nella metropoli come giuristi. Il fatto stesso che molti partiti politici nazionalisti avessero redatto carte e costituzioni conferiva loro prevedibilità e legittimità agli occhi di coloro che erano favorevoli alla decolonizzazione e indeboliva ulteriormente le argomentazioni di chi voleva il mantenimento del regime coloniale. La maggior parte delle colonie britanniche raggiunse l'indipendenza tra il 1957, con il riconoscimento della sovranità del Ghana, e il 1964, allorché anche Malawi e Zambia ottennero la piena autonomia. Nel momento in cui si apprestava a lasciare le colonie la Gran Bretagna, al pari di altre potenze coloniali, si preoccupò di lasciare una qualche carta fondamentale che permettesse di regolarizzare il periodo di transizione del potere e di mantenere dei saldi legami con la madrepatria. Sebbene la Gran Bretagna non possedesse una costituzione scritta, fu fatto il possibile per creare quella che è stata chiamata una costituzione 'modello esportazione', che avrebbe potuto fungere da modello per i nuovi Stati. Essa prevedeva un capo di Stato meramente rappresentativo, il quale avrebbe agito in nome della regina per formare e sciogliere i governi sulla base dei risultati elettorali, e un apparato amministrativo composto da un primo ministro e dal governo da lui formato, che sarebbero stati i responsabili diretti di fronte al parlamento nazionale. Fu proprio questa idea di un governo limitato dal diritto che, nell'ultima fase del colonialismo, portò gli Inglesi a ritenere di essere effettivamente riusciti a rimpiazzare il dispotismo con un ordinamento civile, e che potevano abbandonare le colonie avendo ormai raggiunto i risultati che si erano prefissi. Anche i Francesi avevano dato vita a un loro modello per i nuovi Stati che si stavano formando dalle colonie. Secondo tale modello - che fu il risultato degli sforzi fatti dalla Quinta Repubblica per eliminare i fattori di instabilità che avevano caratterizzato i periodi precedenti - il potere veniva conferito a un primo ministro che avrebbe risposto solo al presidente, il quale, a sua volta, era tenuto a rispondere non al parlamento, ma all'elettorato stesso. Questo modello, fondato sulla teoria detta del parlamentarisme rationalisé, fu applicato nei possedimenti francesi dell'Africa (come la Costa d'Avorio e il Senegal), mentre i sanguinosi conflitti per l'indipendenza lo resero inattuabile in Algeria e in Indocina.
5. L'eredità del diritto coloniale nei paesi in via di sviluppo
I commentatori hanno spesso notato che, nei primi tempi dopo la decolonizzazione e l'indipendenza, le colonie francesi e inglesi dell'Africa hanno attraversato prima un breve periodo di 'imitazione giuridica', poi un periodo intermedio di sperimentazione, mentre in seguito si è manifestata una costante tendenza verso una centralizzazione sempre maggiore, con fasi di profonda insicurezza. È certo vero che i modelli costituzionali di molti paesi non conferivano adeguati poteri all'esecutivo e, per quanto le ex colonie francesi possano aver addirittura superato de Gaulle nella loro corsa verso la centralizzazione, il vuoto lasciato dalle potenze coloniali non poteva essere facilmente colmato con il lascito di un unico documento. Già nel 1964 il Kenya abbandonò il 'modello esportazione' a favore di una Costituzione che prevedeva maggiori poteri presidenziali e, in ultima analisi, la possibilità per gli elettori di scegliere solo da un unico partito politico. Per quanto la successione di colpi di Stato in paesi come il Ghana sia stata interpretata da alcuni come un modo legittimo e tradizionale di rimuovere dal potere coloro che non erano risultati all'altezza dei loro compiti di amministratori fiduciari (v. Owusu, 1986), è indubbio che in molti dei nuovi Stati i detentori del potere consideravano il sistema giuridico uno strumento del governo centrale e non volevano perciò riconoscergli un margine troppo ampio di autonomia. Tuttavia il fatto che i tribunali della Nigeria o dell'India abbiano avuto in alcuni momenti il coraggio di tener testa ai militari o a Indira Ghandi dimostra, nonostante tutto, come il mantenimento dell'indipendenza del potere giudiziario fosse ancora un elemento di considerevole importanza nella lotta politica successiva all'indipendenza.
Un problema particolare che dovette essere affrontato fu quello dell'eredità del pluralismo e del dualismo. Come rilevato in precedenza, durante il periodo coloniale tutti i paesi colonizzatori o avevano mantenuto in vigore, specificamente o indirettamente, una molteplicità di regimi giuridici indigeni, oppure, mediante la manipolazione della tradizione e della consuetudine, avevano lasciato aperta la possibilità che le parti avverse cercassero un sostegno alle proprie posizioni ricorrendo a sistemi preesistenti di leggi e procedure - reali o presunti tali. In una conferenza sulle corti locali e il diritto consuetudinario, tenuta a Dakar nel 1963, molti paesi sostennero che l''integrazione' era preferibile al 'pluralismo' e che in questo primo periodo dopo l'indipendenza era naturale che il pluralismo giuridico fosse da molti considerato una minaccia diretta all'unità nazionale. Molti si resero conto che, per usare le parole di S. F. Moore, "in Africa il richiamo alla tradizione può essere tanto un modo per opporsi al governo, quanto un modo per imbrogliare anche il proprio fratello" (v. Moore, 1989, p. 277). Ma ben presto i nuovi governi si trovarono a dover far fronte allo stesso problema che avevano incontrato i colonialisti: le consuetudini locali non potevano essere del tutto ignorate, anzi in alcuni casi il governo centrale poteva ritenere conveniente ricorrere a esse. I risultati ripetono ed estendono l'esperienza coloniale. Ad esempio, in Malawi i tribunali indigeni furono istituiti nel 1933 come parte del programma di governo indiretto ma, poiché tali tribunali, che applicavano sia il diritto 'consuetudinario' che il codice penale, erano dominati dal potere coloniale, il Malawi Congress Party nella fase di decolonizzazione cercò di separare maggiormente gli strumenti giudiziali e quelli amministrativi del governo. Ciò nonostante, raggiunta l'indipendenza nel 1964, fu deciso di favorire ciò che Y. P. Ghai e J. McAuslan (v., 1970, p. 139) hanno chiamato "una visione amministrativa del diritto": un Libro Bianco pubblicato in Malawi nel 1965 sosteneva specificamente che "la funzione del giudice non è mettere in discussione od ostacolare la politica dell'esecutivo, ma individuare le finalità di questa politica in relazione alle leggi emanate dal parlamento e, in modo equo e imparziale, rendere effettive tali finalità nelle corti". Ne conseguì non soltanto il mantenimento della duplice struttura del sistema di amministrazione della giustizia del periodo coloniale ma, nel 1969, le corti locali vennero denominate 'corti tradizionali', venne concessa loro una più ampia giurisdizione penale e furono impiegate dal governo per esercitare un maggiore controllo a livello locale. I tentativi fatti in India di far rivivere il diritto classico indù e le corti di villaggio (panchayat) come strumenti nelle mani del governo e del potere giudiziario locale si rivelarono sostanzialmente fallimentari. L'ordinamento giuridico indigeno era stato quasi totalmente accantonato durante il lungo periodo della colonizzazione e anche le poche consuetudini indigene rimaste in vigore si erano modificate uniformandosi alla legge nazionale. Inoltre i giuristi che avevano ricevuto un'educazione basata sul diritto moderno si opponevano al cambiamento, così come molti indigeni che consideravano questi tribunali di villaggio poco più che uno strumento nelle mani di un particolare settore della popolazione. Altrove il problema del pluralismo finì col rientrare nel problema del controllo religioso. In Indonesia, dove, come abbiamo visto, gli Olandesi favorirono il pluralismo giuridico, il controllo sui tribunali divenne uno degli strumenti di controllo dell'orientamento religioso dello Stato. Gli integralisti musulmani tentarono di acquisire il controllo del Ministero della Religione e quindi di ampliare la loro influenza nel paese estendendo la legislazione inerente al matrimonio e al divorzio e ponendo i tribunali islamici sotto la loro autorità piuttosto che sotto quella del Ministero della Giustizia. La politica giuridica in Indonesia si complicò ulteriormente quando, negli anni successivi alla presa di potere del generale Suharto nel 1965, il governo tentò di sottrarre alla burocrazia islamica il controllo della situazione promulgando leggi nazionali uniformi. Una di queste leggi, presentata in Parlamento nel 1973, era volta alla creazione di un diritto matrimoniale uniforme e, quando l'opposizione dei musulmani ne bloccò l'entrata in vigore, il governo intraprese un fortunato programma per ottenere il controllo dei tribunali musulmani attraverso il procedimento d'appello e una graduale attività legislativa. Il pericolo insito in questo successo burocratico, tuttavia, risiede nel fatto che la rigidità di procedimenti uniformi e del controllo centralizzato può generare l'ostilità della popolazione rurale e del proletariato urbano, i quali chiedono maggiore flessibilità di quanta possano essere disposti a offrire magistrati il cui operato è soggetto a revisione in fase d'appello e il cui avanzamento di carriera dipende dal Ministero.
È indubbio che il processo di decolonizzazione abbia sollevato gravi problemi di accesso all'apparato decisionale giudiziario. Le potenze coloniali avevano dichiarato che i loro tribunali sarebbero stati aperti a tutti e che avrebbero eliminato i costi e i ritardi dovuti a procedimenti indigeni viziati o corrotti. Malgrado la scarsa disponibilità di dati, sembra che siano stati portati davanti ai tribunali coloniali molti reclami che non avrebbero potuto altrimenti essere avanzati a causa delle pressioni economiche e sociali che potevano essere esercitate sulle parti da parenti o da vicini. E proprio come le potenze coloniali avevano visto in questo l'opportunità di rinsaldare i vincoli con i gruppi che intendevano favorire, allo stesso modo anche i paesi di nuova indipendenza si resero conto che il moderno procedimento giudiziario poteva sia accrescere il numero di ricorsi alle corti, sia essere utilizzato per favorire taluni gruppi piuttosto che altri. È stato rilevato che l'accesso alla giustizia in Africa, ad esempio, è divenuto più difficile per i singoli contendenti da quando gli organi giudiziari di livello più basso sono diventati estremamente professionalizzati e costosi e si occupano in prevalenza di reati amministrativi, tanto da poter essere considerati "meri esecutori di decisioni prese altrove" (v. Abel, 1979, p. 197). Sono stati riscontrati casi in cui i crescenti costi giudiziari hanno spinto le parti a rinsaldare i propri legami sociali, in modo da ottenere un sostegno alle proprie rivendicazioni da parte della collettività; infatti, i tribunali governativi possono essere considerati solo uno dei vari mezzi per ottenere soddisfazione. La popolarità delle corti, nel senso della piena accettazione della legittimità dei tribunali e del ricorso alla giustizia, non è necessariamente correlata alla propensione a ricorrervi - come è risultato ben chiaro nell'era della colonizzazione.
Il processo di decolonizzazione, come abbiamo visto, ha implicato spesso la promulgazione di una sorta di carta costituzionale. Ma le costituzioni emanate alla nascita dei nuovi Stati in molti casi non durarono a lungo. In Africa i partiti politici che si erano formati nel corso della lotta per l'indipendenza si trovarono sempre più spesso a essere gli unici partiti legalmente riconosciuti e anche meri strumenti nelle mani dei loro leaders. A dieci anni dall'indipendenza solo tre paesi dell'Africa subsahariana - Botswana, Gambia e Zimbabwe - ancora mantenevano una qualche forma di processo democratico. È possibile, come alcuni hanno affermato, che la decolonizzazione abbia portato alla formazione di Stati la cui sovranità non poggiava su solide condizioni politiche, sociali ed economiche, ed era accettata dalla comunità internazionale quale aspirazione morale all'autodeterminazione (v. Jackson e Rosberg, 1986). Ma può essere erroneo ritenere che le carte costituzionali di queste nazioni non contengano gli elementi basilari per elaborare la struttura del potere acquisito di recente. Così, il fatto che molte costituzioni dell'America Latina sanciscano il diritto del popolo a rivoltarsi contro i propri leaders, riflette la convinzione che è meglio garantire ampi poteri a un leader fidandosi del fatto che egli eserciti i suoi compiti di amministratore fiduciario, e rendere legittima la sua deposizione qualora egli venga meno alla fiducia conferitagli, piuttosto che fare affidamento sulle leggi che possono dissimulare il fatto d'essere manipolate. Proprio come nel periodo coloniale la scelta di una teoria del diritto piuttosto che di un'altra, come pure dei termini adoperati per descriverla, ebbe vaste ripercussioni sull'intero sistema, allo stesso modo i termini in cui la discussione sul diritto viene oggi portata avanti - sia nella costituzione che negli atti legislativi che da questa derivano - possono definire una tendenza le cui esatte implicazioni possono andare ben oltre i confini dello stretto ambito giuridico.
Il diritto in quanto strumento di cambiamento economico e sociale si è dimostrato essenziale nel processo di transizione all'indipendenza e alla sovranità nazionale. Nel loro tentativo di controllare lo sviluppo economico le potenze coloniali hanno spesso fatto uso di concessioni. Quando queste concessioni divennero sempre più burocratizzate e vincolate a sistemi di favoritismi e tassazione, si crearono delle strutture che in seguito furono ereditate dagli Stati di nuova indipendenza. In paesi distanti come la Papuasia-Nuova Guinea e la Repubblica Centrafricana, le concessioni assorbirono ogni innovazione incorporandola nella struttura burocratica e facendo sì che prevalessero gli interessi ora dell'uno, ora dell'altro settore dell'economia nazionale. Analoga sorte ha avuto la disciplina relativa al possesso delle terre. Spesso, durante il periodo coloniale, lo Stato possedeva vaste distese di terra. Le terre tolte ai coloni - come in Algeria, Kenya e parte della Malesia - passarono sotto il controllo dello Stato. Quei paesi che per un certo periodo adottarono un sistema socialista (Algeria, Tanzania, Mali) cercarono, con più o meno successo, di imporre forme collettive di proprietà, di coltivazione e di commercializzazione. La Tanzania nel 1963 abolì completamente il libero possesso della terra, sostituendolo con un diritto di occupazione nel caso fosse effettivamente coltivata. Ne risultarono la creazione di nuove forme di locazione, coltivazioni fantasma e un'ulteriore tendenza all'urbanizzazione. Con l'incremento nelle ex colonie della percentuale della popolazione urbana, fu spesso necessario regolarizzare il titolo di proprietà dei terreni in area urbana allo scopo di adattarlo allo stato reale degli affari nel settore, oppure, come in molti paesi dell'America Latina, per permettere l'esistenza di un sistema sommerso del passaggio di proprietà dei terreni al di fuori del raggio d'azione del sistema giuridico formale.
In realtà in America Latina le forme di possesso della terra hanno rappresentato la causa di molte agitazioni sociali. Con il 60% del terreno coltivabile del Brasile in mano al 2% della popolazione, oppure con l'85% degli abitanti delle campagne del Guatemala privo o quasi di terra, è da ritenere che l'eredità delle proprietà coloniali costituisca la base giuridica della situazione politica ed economica attuale. Anche in presenza di forme di possesso comune della terra i diritti individuali d'uso erano raramente del tutto assenti e, quando i terreni cominciarono a scarseggiare, la rivendicazione di questi diritti individuali ha rappresentato uno dei maggiori oneri per il sistema giudiziario e un sintomo evidente della sfiducia nutrita dalla popolazione nei confronti di tale sistema. Le potenze coloniali cercarono di salvaguardare i propri interessi e di guidare il processo di trasformazione dichiarando illecite alcune attività o vietando la formazione di gruppi precedentemente autorizzati. Analoghe misure furono prese dopo la decolonizzazione. In Guinea il presidente Sékou Touré giunse fino a bandire i commercianti dal suo partito politico per timore che i loro interessi capitalistici potessero dominare il paese. Alcuni giuristi occidentali, convinti che la trasformazione del sistema giuridico potesse produrre benessere economico, tentarono di aiutare i paesi in via di sviluppo nella stesura di altri codici di diritto commerciale e processuale, solo per scoprire di aver mal interpretato il pensiero di Max Weber, e che il diritto non poteva da solo garantire un progresso economico (v. Trubek, 1972). I tentativi di regolare le questioni relative allo status personale hanno avuto esiti diversi. Mentre la Tunisia bandì del tutto la poligamia e altri paesi (Siria, Marocco, Indonesia) la resero soggetta all'approvazione del tribunale, alcuni Stati (Gabon, Costa d'Avorio, Repubblica Centrafricana) cercarono di eliminare completamente le forme di pagamento della sposa oppure, come il Mali, di fissarne la somma. Il miglioramento dello status giuridico della donna è stato la condizione preliminare posta in certi casi, ad esempio dagli Stati Uniti per concedere aiuti economici, dai programmi della Banca Mondiale e dalle convenzioni delle Nazioni Unite.
Tuttavia, come frequentemente accade quando si ha a che fare con la legislazione economica, ci si è spesso trovati a dover fronteggiare il problema che A. N. Allott ha definito della "legislazione fantasma [...], espressione non di potere, ma dell'impotenza del potere" (v. Allott, 1968, p. 51). Con quest'affermazione non si vuol sostenere che questa legislazione sia stata completamente senza effetto, ma piuttosto suggerire che le condizioni sociali ed economiche possono privare degli effetti previsti una legislazione nata con intenti positivi. Se il colonialismo ha messo in evidenza la malleabilità della 'tradizione' e la necessità di cercare una soluzione ad alcuni problemi giuridici al di fuori della pura e semplice adozione di modelli occidentali, l'indipendenza è stata per molti paesi un periodo di continua sperimentazione giuridica di istituzioni straniere. Uno dei casi più interessanti è stato l'introduzione del difensore civico (ombudsman), specialmente nell'Africa subsahariana (v. Hatchard, 1986). La funzione dell'ombudsman, analogamente a quanto accade nei Paesi Scandinavi che l'hanno per primi istituita, è quella di esercitare un controllo sui possibili abusi della pubblica amministrazione - un mezzo per obbligare un burocrate a render conto dei propri atti non attraverso un'azione privata diretta, ma attraverso il potere di una parte 'neutrale' che ha l'autorità di rettificare l'abuso. Tuttavia in tutti i paesi africani (eccetto il Sudan) che hanno adottato tale istituto, l'ombudsman dipende dall'esecutivo piuttosto che, come in Scandinavia, dal parlamento. In Zambia e in Ghana l'ombudsman deve essere un avvocato, mentre nelle Isole Maurizio lo è sempre stato di fatto. Paradossalmente, la maggior parte dei ricorsi in Zambia viene dagli stessi dipendenti pubblici, i quali contestano i termini e le condizioni del loro impiego. Pare che la Nigeria e la Tanzania provvedano con adeguati fondi all'istituzione dell'ombudsman, minacciata altrove (ad esempio in Zambia) dalla scarsezza dei finanziamenti. Anche le ineguaglianze sociali, che furono inasprite oppure ignorate dalle potenze coloniali, sono state oggetto di sperimentazione giuridica. In India, per citare l'esempio più eloquente, il problema della cosiddetta 'discriminazione compensatoria' ha stimolato (così come il suo equivalente americano, la affirmative action) una notevole attività giudiziale e legislativa. La Costituzione indiana (artt. 15.4 e 16.4) stabilisce che sia riservato un certo numero di posti nell'amministrazione pubblica e negli istituti di istruzione agli appartenenti a caste e tribù precedentemente soggette a trattamento discriminatorio. Dopo che la Commissione per le classi arretrate (Backward classes commission), istituita nel 1953, si era rivelata incapace di decidere quali gruppi includere in questo trattamento compensatorio, la questione passò in mano ai tribunali. Nel 1963 la Corte Suprema dichiarò incostituzionale una legge basata sulla valutazione di un comitato governativo che adottava come unico criterio di scelta il livello di istruzione: la Corte sostenne che doveva essere preso in considerazione l'ambiente sociale (che si riteneva non limitato alla sola casta) e anche l'occupazione, la residenza e la situazione economica. Nel corso degli anni settanta i tribunali continuarono a estendere i criteri, fino a quando, nel 1976, nel caso Kerala vs. Thomas, fu confermata l'applicazione dell'istituto della preferenza compensatoria anche in casi non esplicitamente previsti dalla Costituzione. Ecco dunque uno schema giuridico che, qualunque possa essere il successo che riuscirà a ottenere, rappresenta un esempio di strumento giuridico adottato e previsto per finalità conformi a quelle della Carta costituzionale. E poiché le finalità hanno acquisito una sempre maggiore legittimazione, è il diritto, probabilmente, che ha ricevuto legittimazione da esse piuttosto che il contrario. La decolonizzazione ha portato anche una maggiore integrazione attraverso la stipulazione di accordi giuridici intergovernativi. Nel 1981, ad esempio, l'Organizzazione per l'Unità Africana ha adottato una Carta dei diritti degli uomini e dei popoli; essa si differenzia da altri trattati internazionali per il suo impegno in favore dell'eliminazione del colonialismo e del neocolonialismo, e proclama di volersi attenere a principî che sono propriamente africani, precisando non solo i diritti dei cittadini, ma anche i loro doveri specifici nei confronti dei rispettivi Stati (v. Gittleman, 1982). Altrove i ministri della Giustizia di diversi paesi musulmani si sono impegnati nella redazione di codici uniformi di diritto penale e di diritto di famiglia perché fossero adottati dai rispettivi paesi, o almeno costituissero una guida per raggiungere una maggiore uniformità in materia. Le carte dei diritti umani e l'uniformità dei codici sono atti politici piuttosto che giuridici, ma, stabilendo i termini della discussione, esse possono avere conseguenze che trascendono i limiti del loro ambito specifico di applicazione.
Il colonialismo, sia nella sua forma di controllo politico diretto sia in quella indiretta fondata sulla dipendenza economica, non è ancora giunto alla fine. La Gran Bretagna mantiene possedimenti a Gibilterra, nelle Falkland e nei Caraibi, le cosiddette 'figlie nubili' che sono o troppo piccole per conseguire l'indipendenza, o troppo legate emotivamente con la madrepatria per poter essere affidate ai loro 'sposi promessi' (v. Chamberlain, 1985, p. 51). I possedimenti francesi nel Pacifico sono in una situazione analoga. Tuttavia il processo di decolonizzazione è in gran parte giunto a termine. Ma proprio come permangono i legami con la metropoli - che possono rappresentare un reale vincolo affettivo, o una base sulla quale stabilire la propria sovranità in qualità di legittimi eredi politici secondo le norme del diritto internazionale, o un obiettivo contro il quale affermare le caratteristiche peculiari della nazione - allo stesso modo la struttura del diritto e delle procedure giudiziarie delle ex colonie continua a trovarsi di fronte molti degli stessi problemi organizzativi che hanno dovuto essere affrontati nel periodo coloniale. (V. anche Sistemi giuridici).
Abel, R. L., Western courts in non-Western settings: patterns of court use in colonial and neo-colonial Africa, in The imposition of law (a cura di S. B. Burman e B. E. Harrell-Bond), New York 1979, pp. 167-200.
Allott, A. N., The unification of laws in Africa, in "The American journal of comparative law", 1968, XVI, pp. 51-87.
Ault, D. E., Rutman, G. L., The development of individual rights to property in tribal Africa, in "The journal of law and economics", 1979, XXII, pp. 163-182.
Benda-Beckmann, F. von, Rechtspluralismus in Malawi: geschichtliche Entwicklung und heutige Problematik, München 1970.
Bush, R. A., A pluralistic understanding of access to justice, in Access to justice (a cura di M. Cappelletti e B. Garth), vol. III, Milano-Alphen aan den Rijn 1979, pp. 259-310.
Cammack, M., Islamic law in Indonesia's new order, in "International and comparative law quarterly", 1989, XXXVIII, pp. 53-73.
Cappelletti, M. e altri (a cura di), Access to justice, 4 voll., Milano-Alphen aan den Rijn 1978-1979.
Chamberlain, M. E., Decolonization: the fall of the European empires, Oxford 1985.
Chanock, M., Law, custom and social order: the colonial experience in Malawi and Zambia, Cambridge 1985.
Folsom, V. C., Constitutional development in the countries of the Americas, in "Lawyer of the Americas", 1977, IX, pp. 1-15.
Galanter, M., Competing equalities: law and the backward classes in India, Los Angeles 1984.
Ghai, Y. P., McAuslan, J. P., Public law and political change in Kenya, London 1970.
Gittleman, R., The African Charter on human and people's rights: a legal analysis, in "Virginia journal of international law", 1982, XXII, pp. 667-713.
Hatchard, J., The institution of the ombudsman in Africa with special reference to Zimbabwe, in "International and comparative law quarterly", 1986, XXXV, pp. 255-270.
Hooker, M. B., Legal pluralism: an introduction to colonial and neo-colonial laws, Oxford 1975.
Hooker, M. B., A concise history of South-Eastern Asian law, Oxford 1978.
Jackson, R. H., Rosberg, C. G. jr., Sovereignty and underdevelopment: juridical statehood in the African crisis, in "The journal of modern African studies", 1986, XXIV, pp. 1-31.
Killingray, D., The maintenance of law and order in British colonial Africa, in "African affairs", 1986, LXXXV, pp. 411-437.
Masaji, C. (a cura di), Asian indigenous law in interaction with received law, London 1986.
Massell, G., The surrogate proletariat: Moslem women and revolutionary strategies in Central Asia, 1919-1929, Princeton 1974.
Miège, J.-L., Expansion européenne et décolonisation de 1870 à nos jours, Paris 1973 (tr. it.: Espansione europea e decolonizzazione dal 1870 ai nostri giorni, Milano 1976).
Moore, S. F., Social facts and fabrications: 'customary' law on Kilimanjaro, 1880-1980, Cambridge 1986.
Moore, S. F., History and the redefinition of custom on Kilimanjaro, in History and power in the study of law (a cura di J. Starr e J. F. Collier), Ithaca, N.Y., 1989, pp. 277-301.
Morris, H. F., Read, J. S., Indirect rule and the search for justice, Oxford 1972.
Mwalimu, C., A bibliographic essay of selected secondary sources on the common-law and customary law of English-speaking sub-Saharan Africa, in "Law library journal", 1988, LXXX, pp. 241-289.
Ojwang, J. B., Legislative control of executive power in English-and French-speaking Africa, in "Public law", 1981, pp. 511-544.
Owusu, M., Custom and coups: a juridical interpretation of civil order and disorder in Ghana, in "The journal of modern African studies", 1986, XXIV, pp. 69-99.
Rosen, L., Law and social change in the new nations, in "Comparative studies in society and history", 1978, XX, pp. 3-28.
Shivji, I. G., Law in independent Africa: some reflections on the role of legal ideology, in "Ohio State law journal", 1985, XLVI, pp. 689-695.
Tigar, M., Levy, M., Law and the rise of capitalism, New York 1978.
Trubek, D. M., Toward a social theory of law: an essay on the study of law and development, in "Yale law journal", 1972, LXXXII, pp. 1-50.
Vincent, J., Contours of change: agrarian law in colonial Uganda, in History and power in the study of law (a cura di J. Starr e J. F. Collier), Ithaca, N.Y., 1989, pp. 153-167.
Whitten, S., 'Compensatory discrimination' in India: affirmative action as a means of combatting class inequality, in "Columbia journal of transnational law", 1983, XXI, pp. 353-387.