Colonna sonora
«La musica per film ha il gesto del bambino che canta nel buio per proteggersi»
(T.W. Adorno)
Intervista a Ennio Morricone
di
25 febbraio
Nell’annuale cerimonia di consegna dei premi attribuiti dall’Academy of motion picture arts and sciences, Ennio Morricone riceve l’Oscar alla carriera per «il suo contributo magnifico e dai molteplici aspetti all’arte della musica da film». Il compositore non aveva mai ricevuto il prestigioso riconoscimento, pur avendo avuto cinque nominations per le colonne sonore dei film I giorni del cielo (1978), Mission (1986), Gli intoccabili (1987), Bugsy (1991) e Malèna (2000).
Qual è stata la formazione del maestro Ennio Morricone?
La mia carriera ha inizio idealmente al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, dove ho studiato composizione, musica corale, strumentazione per banda e anche tromba: l’arte della composizione con i maestri Carlo Giorgio Garofalo, Alfredo De Ninno e Antonio Ferdinandi, l’‘alta composizione’ con il maestro Goffredo Petrassi. Fu quello l’ambito in cui mi sono formato; tuttavia ben presto a casa ci fu bisogno che lavorassi e così iniziai a fare arrangiamenti. Le composizioni sinfoniche e da camera che avevo scritto mi rendevano veramente pochi soldi. Il mio primo concerto per orchestra, al termine degli studi del Conservatorio, pur essendo stato eseguito a Venezia al Teatro La Fenice, dopo nove mesi di lavoro mi diede solo 60.000 lire di diritti d’autore. A quel punto capii, con grande chiarezza, che non potevo andare avanti così e allora cominciai a comporre gli arrangiamenti per le canzoni e poi per la radio, per la televisione, per i dischi e per il teatro.
Come arrivò al cinema?
Il primo film, Il Federale di Luciano Salce, giunse finalmente nel 1961. Avevo già confidenza con Salce: avevamo lavorato insieme per il teatro, per cui il primo approccio con il cinema mi risultò piuttosto semplice. Tanto più che prima di allora avevo già lavorato nell’ambiente ‘in incognito’, scrivendo delle orchestrazioni, senza firmarle, per film di altri. Questo fu per me un esercizio molto importante, come anche l’aver suonato nelle orchestre che sincronizzavano i film. Così quando realizzai le musiche per Salce avevo raggiunto un buon livello di formazione, ero preparato dal punto di vista compositivo e avevo accumulato delle esperienze importanti anche nella musica per il cinema. Come si suol dire, avevo già le spalle abbastanza forti quando iniziai a lavorare in prima persona con Salce.
Cosa si cela dietro una composizione musicale per il cinema? Quale processo creativo la porta a realizzare le sue musiche per film?
Con il mio primo film iniziai ad aver a che fare con quel processo affascinante che si chiama ricerca dell’idea, ossia il momento in cui il musicista prova a portare avanti delle riflessioni, in cui cerca risposte positive ai propri interrogativi. Le risposte naturalmente devono venire anche dal regista e dal film stesso. Il film è un’opera a sé e la musica è un’opera complementare applicata al film. Elementi che concorrono all’ispirazione del compositore sono la discussione con il regista intorno alla sua idea del film, ma anche la considerazione della storia, degli attori, della loro recitazione, delle storie sottintese, della scenografia e la collocazione storica del film. Tutti questi sono fattori che influenzano la musica. Naturalmente ciascun compositore si serve di questi condizionamenti in maniera differente rispetto agli altri, ognuno ha infatti i suoi stilemi. Ma anche rispetto a questi condizionamenti, il compositore, il vero compositore, ritroverà sempre i suoi stilemi al di sopra di tutto il resto. Lungo il processo di ispirazione c’è poi sicuramente una componente di adattamento al mood del film, nonostante il compositore riesca a esprimere sempre la sua personalità rispetto ai generi che affronta nei vari film a cui lavora. Se si possiede una personalità musicale, si è sempre in grado di imporla comunque. Non è mai possibile scrivere cose che non si sentono, che non fanno parte della propria testa o della propria fantasia. I conti vanno fatti con il film, il regista e tutti gli elementi che lo compongono, ma poi il compositore deve assolutamente cercare di lavorare con i propri stilemi. Sono meccanismi che si attivano in maniera del tutto naturale. È come dire che quando uno scrive non cambia la calligrafia a seconda del tipo di cosa che si trova a dover o voler scrivere. La calligrafia è quella e rimane tale. Così avviene anche con la musica. Il lavoro del compositore è una sorta di elettrocardiogramma della propria tendenza musicale, su cui di volta in volta ci si esercita e si trovano nuove soluzioni compositive.
Dopo l’esperienza iniziale con Salce è stato però l’incontro con Sergio Leone ad averla portata a un livello di grande popolarità.
Certamente. Uno dei registi con cui ho avuto un ottimo rapporto e che mi ha permesso di affermarmi a livello internazionale è senza dubbio Sergio Leone. Può sembrare incredibile, ma eravamo stati compagni di classe in terza elementare. Ci rincontrammo però solo nel 1964, quando venne a cercarmi a casa per propormi di comporre la musica di Per un pugno di dollari. Aveva già ascoltato la musica che avevo scritto per due western, uno italiano e l’altro spagnolo, gli era piaciuta e voleva lavorare con me. Io lo riconobbi subito, gli ricordai della scuola e, una volta ritrovatici, decidemmo di andare a cena insieme in un ristorante di proprietà di un terzo compagno della stessa classe, dove alle pareti erano appese le fotografie di quegli anni. La scuola era l’Istituto dei Fratelli delle scuole cristiane e si trovava a Viale Trastevere, che all’epoca si chiamava Viale del Re. Erano altri tempi. Prima di lavorare con Sergio devo ammettere che non mi aspettavo che le mie musiche sarebbero diventate così celebri. Mi aspettavo semmai di riuscire a guadagnare meglio e di continuare la mia carriera di compositore di musica assoluta. Cosa che comunque sono riuscito a fare, nonostante il lavoro per il cinema: infatti ho composto, fino ad oggi, cento opere di musica sinfonica, corale e da camera. Pensavo molto semplicemente di continuare in quest’ambito, che poi era quello che affollava i miei ideali giovanili. Poi il cinema mi ha preso molto e mi ha in parte allontanato dai miei propositi iniziali, facendomi percorrere nuove strade. Nei film realizzati con Sergio un elemento che ebbe un grande peso fu senza dubbio l’impronta ironica dei suoi lavori: lui è stato in grado di creare dei personaggi caricaturali, picareschi, tra il burlone e il severo, tra lo scherzoso e il drammatico. Tali caratteri presenti nei suoi film ho cercato di farli rivivere nelle musiche che ho scritto per lui, che erano pertanto fortemente connotate in senso grottesco e umoristico, ma senza mai dimenticare l’aspetto drammatico. Anche qui tutto è nato da una attenta riflessione, che ha poi portato all’idea e successivamente al momento in cui si riesce a sviluppare tutto scrivendo. In Il buono, il brutto e il cattivo mi sono divertito a lavorare su aspetti curiosi come il suono degli animali, rielaborando per esempio l’urlo del coyote. La frusta, la campana e altri suoni della vita quotidiana sono invece entrati a far parte delle percussioni. Un compositore deve saper utilizzare tutti questi strumenti timbrici ed espressivi; gli deve venire solo l’idea di poterli applicare in un film che li accetti.
Il 1966, l’anno di Il buono, il brutto e il cattivo, è stato anche quello di altri due capolavori del cinema italiano a cui lei ha avuto modo di lavorare.
L’anno di Il buono, il brutto e il cattivo è stato molto importante per me. In quello stesso 1966 ho scritto anche le colonne sonore di Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini e La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. La musica scaturì da tre riflessioni, tre idee diverse, tre climi differenti da inventare. Con Pasolini l’incontro fu inizialmente brutto, perché voleva che io applicassi al suo film delle musiche di altri, in special modo di compositori classici. Allora gli dissi che forse aveva sbagliato nel coinvolgermi nel progetto, perché io ero uno che scriveva musica e si divertiva a scriverla. A quel punto mi disse molto gentilmente di fare come credevo. Naturalmente, in questo modo mi caricò di una grande responsabilità. Non sono mai molto d’accordo quando un regista ti dice di fare di testa tua, perché vorrei sempre che l’autore del film condividesse le mie idee. Quindi per me è stato un grande sforzo cercare di fargli capire quello che volevo scrivere, anche se poi insieme siamo riusciti a fare delle cose belle, come la filastrocca dei titoli di testa, quella cantata da Domenico Modugno, con parole di Pasolini e musiche scritte da me. Con Pasolini comunque alla fine è andata così ed è andata bene. La musica di La battaglia di Algeri, invece, ha una storia molto curiosa. È firmata da Gillo Pontecorvo e da me, perché lui prima di conoscermi aveva sottoscritto un contratto con un produttore per realizzare anche le musiche. Io accettai di partecipare lo stesso a questo progetto in coppia, cosa che non ho più fatto in seguito, tranne che recentemente con mio figlio Andrea. Pontecorvo non scriveva musica, ma mi portava un suo magnetofono, ‘il Geloso’, e mi faceva ascoltare le sue composizioni, che registrava fischiettando. Di solito gli bocciavo tutto. Poi però un giorno mi diede una bellissima idea, su cui decisi di realizzare diverse variazioni lungo il corso del film. Oltretutto quello di fare variazioni è uno dei compiti più importanti del compositore, fa proprio parte di uno dei quattro tipi di esami compositivi che l’aspirante compositore deve affrontare in vista del diploma. Comunque su quest’idea di Pontecorvo, che era un’idea minima minima, apparentemente nulla ma in realtà importantissima, sono riuscito a costruire la musica del film.
Ha mai incontrato difficoltà nel rapporto con i registi?
Fra i registi ci sono stati alcuni che, forse esagerando, pretendevano di sentire da me la musica che avevano già ascoltato. I registi, del resto, non possono immaginare davvero una musica, possono solo consigliare qualcosa che è loro familiare. Quando questa situazione si verifica e la faccenda si fa troppo pressante, io devo abbandonare il film. Non posso mai rinunciare a scrivere quello che penso per collaborare in maniera positiva. Se il regista impone certe cose, non va bene. Forse potevo farlo quando ero giovane e disoccupato, ma ormai sono parecchi anni che amo ragionare solo ed esclusivamente in una maniera pienamente collaborativa.
È stato invece mai ispirato da un attore nella composizione delle sue musiche?
Non c’è mai stato nessun attore che mi abbia ispirato quanto il personaggio da lui interpretato. L’attore, almeno così si dice, è la persona più falsa che esista, perché entra in un personaggio e diventa un’altra persona. Non è più lui, in questo senso uso il termine ‘falso’. Per questo non ho mai composto una musica su un attore ma sul personaggio da questi interpretato.
Un incontro molto particolare della sua carriera è stato quello con la celebre folksinger statunitense Joan Baez.
L’incontro con Joan Baez, che avrebbe dato origine alla canzone Here’s to you, non fu una mia idea. Il produttore di Sacco e Vanzetti e il regista Giuliano Montaldo mi chiesero di comporre innanzitutto delle musiche traendo l’ispirazione dalle immagini delle manifestazioni indette negli Stati Uniti contro la pena di morte e contro la condanna di Sacco e Vanzetti. Volevano poi che alla fine ci fosse una canzone per Sacco e Vanzetti, una sorta di epitaffio dedicato ai due anarchici. Così scrissi Here’s to you e successivamente accadde che, trovandomi a Saint-Tropez, dove alloggiava Joan Baez, le feci ascoltare le tre ballate che avevo composto per il film. Alla Baez piacquero molto e successivamente, a Ferragosto, venne a Roma per incidere Here’s to you. Preparai una base con una piccola orchestra per permetterle di cantare e poi sovrapponemmo alla voce della cantante un’orchestra più articolata e più adatta, a quel punto, a far ‘risuonare’ ancor meglio il pezzo.
Successivamente ha avuto modo di lavorare con due registi molto diversi fra loro come il ‘politico’ Elio Petri e il ‘comico’ Carlo Verdone.
Quello con Elio Petri fu un altro incontro importante. Gli feci ascoltare il progetto musicale che avevo per il film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). Lo ascoltò con attenzione e lo accettò subito. In quel film ci sono soltanto due temi, non c’è altro, e ciò nonostante è senza dubbio uno dei film musicalmente più celebri a cui io abbia lavorato. C’è poi stata la mia esperienza nella commedia con i primi film di Carlo Verdone. Li ho musicati in quanto Carlo aveva come produttore Sergio Leone, quindi il discorso relativo alle musiche venne affrontato con lui ma anche con Leone stesso, che supervisionava le decisioni musicali. L’incontro andò molto bene, senza traumi, senza difficoltà. Carlo era alle prime esperienze, quindi era portato ad accettare i suggerimenti di Leone sia riguardo al film sia riguardo alla musica.
Un capitolo a parte va poi dedicato alla sua straordinaria esperienza con il cinema americano, quello dei grandi maestri di Hollywood.
L’esperienza hollywoodiana è andata tanto bene quanto quella italiana, nel senso che quando i registi sono di alto livello agiscono tutti allo stesso modo. Ci sono particolari curiosi, come quando nel 1978 mi trovai a lavorare a I giorni del cielo di Terrence Malick. Mi ricordo una grande fatica durante le registrazioni perché Malick chiedeva cose che non si potevano eseguire. Quando glielo dicevo, non mi credeva e voleva ascoltare ugualmente le sue correzioni. Una volta ascoltate però le scartava puntualmente in quanto contenevano delle sciocchezze musicali. I registi infatti a volte sentono e vogliono ascoltare cose che spesso non sono applicabili. Il film andò benissimo e lui rimase contentissimo del lavoro fatto insieme. Da quel momento con lui ho avuto un lungo rapporto epistolare che è durato molti anni. Una storia particolare legata a un film a cui sono molto affezionato è quella di Mission (1986). Quando andai a vederlo a Londra ero ancora libero di rifiutarlo e infatti lo rifiutai davvero dicendo al regista Roland Joffe e al coproduttore, l’amico Fernando Ghia, che il film era bellissimo anche senza musiche. Ero convinto che aggiungendo le musiche avrei potuto solo fargli del male. Avevo finito di assistere alla proiezione del film piangendo per la strage e allora pensai che se il film era così commovente la musica non avrebbe fatto altro che distrarre lo spettatore. Loro invece insistettero tantissimo e alla fine composi le musiche. Penso in definitiva di aver scelto per il meglio. Un altro rapporto hollywoodiano a cui sono legato è quello con Brian De Palma. Il nostro primo film insieme fu Gli intoccabili del 1987. Lo incontrai a New York, dove gli feci sentire quattro o cinque idee tematiche che gli piacquero molto. Poco prima che tornassi a Roma però mi disse che gli mancava qualcosa per il trionfo della polizia. Lì per lì rimasi un po’ spiazzato, ma cercò subito di spiegarmi cosa volesse. Questa novità mi mise addosso una certa preoccupazione. Rimanemmo d’accordo che gli avrei inviato, una volta tornato in Italia, tre proposte da vagliare. Gliele mandai ma non gliene andò bene nessuna, come poi accadde anche con altre sei. Nessuna riusciva a convincerlo. Ogni mio pezzo era accompagnato da una lettera in cui spiegavo le ragioni di ciascuna composizione. Nell’ultima lettera lo invitai a riascoltarle tutte e nove e lo sollecitai a non scegliere la numero sei. Ovviamente alla fine il tema prescelto fu proprio il numero sei.
Nel cuore dei tantissimi amanti della sua musica c’è poi senza dubbio la ‘parentesi’ americana di C’era una volta in America di Sergio Leone, alla cui riuscita lei contribuì con le sue musiche in maniera fondamentale.
Sì, ci fu poi l’esperienza americana con Sergio Leone per C’era una volta in America (1984). La particolarità in quel caso è legata al fatto che il tema di Deborah, quello della povertà e quello del film stesso preesistevano al film. I tre temi principali, insomma, vennero registrati prima dell’inizio delle riprese, e probabilmente furono per Sergio fonte di ispirazione.
Altra collaborazione speciale della sua carriera è stata quella con Giuseppe Tornatore.
Con Peppuccio Tornatore ho lavorato a otto film, trovandomi sempre molto bene. Siamo diventati amici e con lui è sempre stato possibile parlare di musica senza timori. C’è una grande intesa tra di noi, rafforzata forse anche dal fatto che in Tornatore sono presenti una grande musicalità, una notevole capacità di capire e una rara tendenza a sorprendersi positivamente per le cose che gli vengono proposte. A livello di affinità e scambio la mia collaborazione con lui supera addirittura quella con Sergio Leone.
Non c’è solo cinema ma anche televisione di alta qualità nel suo lungo e fortunato percorso artistico, un cammino che quest’anno l’ha portata alla celebrazione più importante, quella di Los Angeles, quella degli Oscar.
Le esperienze televisive di Mosé (1974), Marco Polo (1982), La piovra (1985, 1986, 1989), I promessi sposi (1989) hanno arricchito ulteriormente il mio percorso artistico, un percorso che quest’anno è stato suggellato dalla grande emozione e dall’enorme soddisfazione che ho provato a Los Angeles quando ho ricevuto l’Oscar alla carriera. A ripensarci, mi sembra tutta una grande avventura, cominciata il giorno prima della cerimonia quando mi sono trovato sul palco a fare le prove. Sempre quel giorno ho scritto le cinque cose che avrei voluto dire durante la serata. Ciascun premiato in genere deve rispettare dei limiti di tempo di 30 o 40 secondi, al termine dei quali una ‘mano luminosa’ segnala inequivocabilmente che bisogna interrompersi e allo stesso tempo suggerisce all’orchestra di iniziare immediatamente a suonare. A me, invece, non hanno dato limiti di tempo in quanto sarei stato premiato con l’Oscar alla carriera. Le mie cinque riflessioni erano rivolte all’Academy che aveva deciso di darmi il premio, ai registi con cui avevo lavorato, a tutti coloro che in passato avevano ottenuto nominations ma non avevano vinto, con l’augurio di vincere il premio in futuro, alla consapevolezza che quel premio avrebbe costituito per me un punto di partenza per migliorare le idee estetiche sulla musica applicata al cinema, e dulcis in fundo a mia moglie. Queste mie riflessioni sono state tradotte in inglese per Clint Eastwood, che avrebbe dovuto leggere il ‘gobbo’ luminoso, raccontando così al pubblico quello che io stavo dicendo in italiano. Il problema è stato il nodo alla gola che mi è venuto quando sono salito sul palcoscenico e ho visto tutte quelle persone in piedi ad applaudirmi. Avevo difficoltà a dire tutto quello che avevo scritto, ma mi sono fatto forza e ho raccontato le mie sensazioni senza però leggere il ‘gobbo’, parlando assolutamente a braccio. Il povero Clint a quel punto si è trovato a leggere i vari punti precedentemente tradotti, che non corrispondevano più a quello che stavo dicendo. Chi se ne è accorto ha iniziato a ridacchiare, ma la cosa davvero importante è stata la bellissima emozione che ho provato in quel momento.
Quali sono i programmi futuri del maestro Morricone?
L’anno prossimo, a novembre, compirò 80 anni e credo proprio che – anche dopo questo riconoscimento così prestigioso – continuerò a comporre per il cinema, specie per gli amici come Tornatore, Montaldo, Alberto Negrin, Giacomo Battiato e pochi altri. Oltretutto l’attività concertistica si è intensificata ulteriormente, togliendomi materialmente il tempo di scrivere come una volta non solo per il cinema, ma anche quella musica assoluta, che senza dubbio voglio continuare a comporre.
repertorio
La tecnica
Tecnicamente per colonna sonora non si intende solo la musica ma tutta la parte audio di un film, composta da parola (dialogo), rumori (effetti sonori) e musica, ottenuta tramite impressione di segnali luminosi su un lato della pellicola cinematografica che, letti da un apposito apparato del proiettore, si trasformano in suoni. Il dialogo (il cosiddetto parlato) può consistere nelle battute degli attori o in una voce fuori scena. I rumori possono essere legati alle immagini, sia che provengano da ‘presa diretta’ (captati dal microfono durante le riprese), sia che vengano prodotti artificialmente in laboratorio in fase di postproduzione, oppure possono essere indipendenti dall’aspetto visivo. Così accade per la musica, che può essere legata a fonti presenti nell’inquadratura (uno strumento, un cantante in azione, un’orchestra, la radio, un disco ecc.) oppure slegata dall’immagine. La definizione, la realizzazione e l’inserimento della musica in un film possono avvenire attraverso modalità diverse, riferibili principalmente alla prassi produttiva hollywoodiana e a quella europea. Negli Stati Uniti il compositore si limita, salvo rare eccezioni, a fornire degli abbozzi compositivi detti sketches, che altri orchestreranno. Tutto fa capo a un dipartimento musicale – dotato di proprie attrezzature – dal complesso e rigido organigramma, in cui operano un music supervisor (responsabile generale e anello di congiunzione fra regista, compositore e produzione), un music consultant (chiamato a gestire l’uso di eventuali canzoni e più in genere di musica preesistente), uno o più orchestrators (coloro che di fatto realizzano le partiture definitive), i copysts (che assumono il lavoro degli orchestratori e trascrivono la score e le parti orchestrali), un music librarian (organizzatore delle partiture in vista delle sessioni di registrazione), un film studio music executive (responsabile dei complessi aspetti tecnici legati alla registrazione) e un music editor (a cui è affidato il montaggio delle musiche sulla pellicola), senza contare il consistente numero di collaboratori con specifiche mansioni amministrative, logistiche e tecniche ricavabile dai lunghi titoli di coda delle produzioni più ambiziose. In Europa persistono invece una concezione più artigianale e una prassi molto meno dispendiosa. Il compositore, soprattutto se si tratta di uno specialista affermato, può essere l’artefice unico della colonna musicale, per cui apparirà nei titoli di testa la dicitura «musiche composte, orchestrate e dirette da…», mentre nel caso di musica ‘firmata’ da un cantante di musica leggera o rock gli orchestratori o arrangiatori resteranno generalmente anonimi. Stando all’Italia un processo tipico coinvolge il direttore di produzione, a cui spetta la designazione del compositore nel caso in cui il regista non abbia prestigio e forza contrattuale sufficienti per imporre la propria scelta. L’editore musicale assume invece gli oneri di esecuzione e di registrazione; il copista è un collaboratore autonomo e abituale del compositore, mentre l’ingegnere del suono è l’esecutore materiale del pre-missaggio, ovvero della registrazione delle musiche, realizzata in uno studio indipendente noleggiato allo scopo dall’editore musicale. Infine il tecnico del montaggio-musica stabilisce sotto la guida del regista, non necessariamente alla presenza del compositore, l’equilibrio fra dialoghi, effetti (rumori) e musica, detto missaggio finale. Sulla base dei ruoli definiti, le tappe principali della realizzazione della colonna sonora consistono in: collocazione e definizione delle presenze musicali, composizione delle partiture, registrazione e pre-missaggio, montaggio delle musiche sulla colonna sonora e missaggio finale. Un caso a parte è rappresentato dal cosiddetto playback in cui un attore danza o finge di suonare uno strumento; la musica dovrà essere composta e registrata in precedenza (prescore) e su quella il regista girerà la scena, ma non sono infrequenti i casi in cui il regista ha già realizzato la scena usando un brano preesistente, che per motivi diversi (spesso di copyright) non può essere mantenuto nel film, per cui il compositore dovrà fornire un equivalente dell’originale.
repertorio
La storia
La musica nel cinema muto
Nella fase iniziale del cinema (1895-1915 circa) le proiezioni erano itineranti, in forma autonoma o associate al circo e alla fiera, oppure facevano parte degli spettacoli dei caffè-concerto. In ciascuno di questi casi la presenza della musica, prodotta in forme diverse, anche meccanizzate, è tanto certa quanto scarsamente documentata, ma è presumibile che non si facesse ricorso al contributo di un compositore, attingendo piuttosto a quanto già utilizzato nel contesto. Le presenze musicali erano legate al gusto popolare – ballabili, canzoni, marcette, musiche e danze di tradizione – ma vi si alternavano frammenti tratti dal più ampio repertorio operistico e sinfonico, con una particolare predilezione per l’Ottocento.
La musica aveva una funzione ‘pratica’ in quanto serviva a coprire il rumore del proiettore, tuttavia l’accompagnamento musicale rafforzava il ritmo del film e l’emozione. Così nel 1909 la casa cinematografica Edison pubblicò un catalogo intitolato Suggestion for music, in cui a ciascun tipo di azione o emozione era associata una o più melodie del repertorio classico, e negli anni successivi furono stampate numerose altre antologie su questo modello. I musicisti che suonavano durante la proiezione di un film avevano però molti problemi dovuti alle fluttuazioni di velocità nello scorrimento della pellicola, che rendevano difficile la sincronizzazione tra suono e immagini. Ne derivò il trionfo degli stereotipi, programmati dai responsabili musicali delle case di produzione nei cue sheets, indicazioni musicali riferite a ciascun rullo e distribuite insieme alla pellicola.
L’emancipazione parziale o totale da questa prassi, consistente nell’affidare a un compositore la realizzazione di una partitura ad hoc, coincise in Russia con il fenomeno dei lungometraggi a soggetto, di cui è esempio già nel 1908 Sten’ka Razin di A. Drankov, con musiche di I.M. Ippolitov-Ivanòv. Nello stesso anno il concetto tutto europeo di film d’arte trovò in Francia una singolare anticipazione con L’assassinat du duc de Guise di Ch.-G.-A. Le Bargy e A. Calmettes su sceneggiatura di H. Lavedan e con interpreti della Comédie Française, per il quale si chiese e ottenne il contributo musicale di C. Saint-Saëns. La piena realizzazione si ebbe nel 1914 con Cabiria di G. Pastrone (didascalie di G. D’Annunzio), che ebbe un sofferto contributo originale di I. Pizzetti. Il compositore mostrò imbarazzo, scetticismo e disprezzo tangibili (documentati dal carteggio intercorso con D’Annunzio e Pastrone) e onorò l’incarico lautamente compensato in modo parziale, scrivendo un solo pezzo, la Sinfonia del fuoco, e affidando il resto all’allievo M. Mazza. Il film, di fatto il primo kolossal della storia del cinema, ottenne uno straordinario successo in tutto il mondo e in particolare negli Stati Uniti. In questo paese, tuttavia, le musiche della versione originale furono scartate – secondo una consuetudine di localizzazioni musicali in base al gusto delle diverse platee che interessò tutto il cinema muto – e una nuova compilazione venne affidata a J.C. Breil. Lo stesso Breil fu l’autore del commento musicale di La nascita di una nazione di D.W. Griffith, proiettato nel 1915 a Los Angeles, che segnò l’avvento delle grandi produzioni hollywoodiane, ovvero l’esaltazione del cinema come grande spettacolo. La peculiarità del film fu anche dovuta al fatto che il commento musicale, realizzato da Breil ma con la supervisione del regista in parte su materiale originale e in parte su compilazioni di motivi, fu organizzato secondo un sistema più unitario rispetto alla prassi, con ricorrenze tematiche ispirate al Leitmotiv wagneriano.
L’avvento del sonoro
Nel 1926 la presentazione di un nuovo procedimento chiamato vitaphone – che utilizzava un collegamento elettrico per il sincronismo tra le immagini della macchina da proiezione e il suono del grammofono – fu un vero e proprio trionfo. Il primo esperimento fu realizzato dalla Warner Brothers con Don Juan, film sonoro ma non parlato di A. Crosland, cui seguì l’anno seguente The jazz singer, sonoro e parzialmente parlato dello stesso regista, con la colonna sonora incisa sul bordo della copia (sistema Western Electric) e un sistema di sincronizzazione meccanico. Le prime partiture scritte specificamente per il cinema avevano generalmente lo stesso carattere dei pezzi del repertorio che si proponevano di sostituire, restando vincolate, sostanzialmente, alla magniloquenza del sinfonismo di matrice ottocentesca e alle commistioni stilistiche. La seconda generazione della ‘scuola’ hollywoodiana nasce pressappoco con l’avvento del sonoro e s’identifica con la figura del viennese M. Steiner (1888-1971), sostenitore dell’opportunità di fornire a ogni film uno score espressamente composto. Le sue musiche per King Kong (E.B. Schoedsack e M.C. Cooper, 1933), La pattuglia sperduta e soprattutto Il traditore (J. Ford, 1934 e 1935) racchiudono nel bene e nel male l’intera concezione hollywoodiana, segnata da un esplicito motivo caratterizzante – capace di polarizzare l’attenzione dello spettatore, rassicurato dalla presenza ricorrente di un tema riconoscibile – ma anche da una magniloquenza e, spesso, da una onnipresenza musicale che va ben oltre la mera ridondanza. A questa tendenza, talvolta ingentilita e alleggerita dall’influsso delle musiche nate a Broadway, jazz compreso, soggiacque anche A. Newman (1901-1970), che proprio da Broadway aveva preso le mosse, da Scena di strada (K. Vidor, 1931) a La fossa dei serpenti (A. Litvak, 1948), da Eva contro Eva (J. Mankiewicz, 1950) a L’amore è una cosa meravigliosa (H. King, 1955). Gli sviluppi successivi riguardanti i non pochi protagonisti statunitensi, considerati qui per necessità di sintesi in un arco di vent’anni, dal 1930 al 1950, possono trovare una distinzione fra i compositori d’origine mitteleuropea e quelli americani. La prima è una schiera davvero nutrita e conta, fra gli altri, E.W. Korngold (1897-1957), D. Tiomkin (1894-1979), Adolph Deutsch (1897-1980), Hugo Friedhofer (1902-1981), Franz Waxman (1906-1967), Miklós Rózsa (1907-1995). Della seconda basterà ricordare H. Stothart (1885-1949), F. Skinner (1897-1968), V. Young (1900-1956), G. Duning (1908-2000) e D. Raksin (1912-2004). A riprova di una professionalità e di una standardizzazione senza paragone con le altre cinematografie, se da una parte Korngold, ex suddito dell’Impero austro-ungarico e allievo di A. von Zemlinsky, trasporta e conserva nel cinema americano buona parte di un patrimonio musicale derivato da G. Mahler e R. Strauss (nei film di M. Curtiz dal 1935 al 1941 e con altri registi fino al 1947), l’ucraino Tiomkin non ha nulla da invidiare ai colleghi americani allorché assume ed epicizza, da maestro, i modi country e western (Duello al sole, K. Vidor, 1946; Fiume rosso, H. Hawks, 1948; Mezzogiorno di fuoco, F. Zinnemann, 1952; Sfida all’O.K. Corral, J. Sturgess, 1957; Rio Bravo, H. Hawks, 1959). In Europa, dal 1915 al 1935, si assiste invece a una diversificazione di tendenze, riconducibile grosso modo a un filone spettacolare, orientato verso le grandi platee ma progressivamente alla ricerca di un linguaggio filmico-musicale specifico, finalmente emancipato dai modi del teatro filmato, e un filone sperimentale, legato o scaturito direttamente dai movimenti delle avanguardie artistiche. In realtà, soprattutto in Francia e in Germania, la separazione tra i due indirizzi non è assolutamente netta, ma in ogni caso è rilevante il modo in cui i cinéastes – A. Gance, L. Delluc, G. Dulac, M. l’Herbier, J. Epstein, J. Renoir –, alla ricerca di un registro nobile ma al tempo stesso spettacolare e quindi popolare, trovino la giusta misura tra solennità e levità di scrittura in compositori d’area colta come A. Honegger (La rosa sulle rotaie e Napoléon di Gance, 1923 e 1926) e D. Milhaud (L’inhumaine di l’Herbier, 1923, sebbene come compilatore; Madame Bovary di Renoir, 1933; La cittadella del silenzio di Gance, 1937, in collaborazione con Honegger), mentre G. Auric persevererà a lungo in un registro più ironico e disincantato (Le sang d’un poète, J. Cocteau, 1930; A me la libertà, R. Clair, 1933) di cui faranno tesoro i compositori delle generazioni successive. Ciò si spiega, almeno in parte, considerando il clima di rottura con le tradizioni instaurato in ogni ambito artistico dalle manifestazioni futuriste, dadaiste e surrealiste. Qualche più equilibrata anticipazione ‘neoclassica’ si trova in quegli stessi anni nei raffinati contributi di J. Ibert (Un cappello di paglia di Firenze, R. Clair, 1927; Don Chisciotte, W. Pabst, 1933). Sempre in Francia le realizzazioni più emblematiche del rapporto musica-cinema nel clima delle avanguardie si trovano in Entr’acte di R. Clair su scenario di F. Picabia e con musica di E. Satie (come intermezzo cinematografico del balletto Rêlache) e nel Ballet mécanique di F. Léger con musica di G. Antheil (come tentativo di trasferire l’esperienza cubista nel cinema), entrambi del 1924.
Nell’ottica delle relazioni fra evoluzione dello spettacolo borghese e sperimentazione d’élite un processo analogo riguarda la Germania, dove G. Becce (L’ultima risata e Tartuff di W. Murnau, 1924 e 1926), G. Huppertz (I Nibelunghi e Metropolis di F. Lang, 1923 e 1927), W. Zeller (La melodia del mondo di W. Ruttmann, 1929; Vampyr di C.Th. Dreyer, 1931), P. Hindemith (Sfida alla montagna, A. Fanck, 1921; Fantasmi del mattino, H. Richter, 1928) ed E. Meisel (La montagna sacra di A. Fanck, 1925; Berlino, Sinfonia di una grande città di W. Ruttmann, 1927) applicano dapprima un metodo di elaborazione consapevole di materiali musicali preesistenti per passare infine alla composizione interamente originale. Le principali tappe cine-musicali nell’Unione Sovietica sono tutte all’insegna di un’ideale e solenne unione fra le arti, a partire da La corazzata Potëmkin di S. Ejzenstejn (con musiche di N. Krjukov nel 1925, ingiustamente oscurate da quelle composte da Meisel per la distribuzione in Germania nel 1926), mentre nel 1929 D. Sostakovic debutta nel cinema in modo memorabile con La nuova Babilonia di G. Kozincev e L. Trauberg. La modernità delle soluzioni adottate – rinuncia alla centralità del melodismo, contrappunto audiovisivo, trasfigurazione delle citazioni musicali, netta diversificazione tra musica di livello interno ed esterno – contribuisce forse all’insuccesso del film, ancora muto, ma lo colloca tra i casi di indissolubilità delle componenti visive e sonore, preparando sia pure indirettamente la strada a una delle realizzazioni più emblematiche non solo del cinema sovietico ma dell’intera epoca del sonoro: Aleksandr Nevskij di S. Ejzenstejn e S. Prokof’ev (1938). Estraneo a qualsiasi limitazione produttiva, Aleksandr Nevskij fa ricorso a tutte le procedure consuete e ne inaugura di nuove, giacché la musica nasce prima, durante e dopo le tappe fondamentali della lavorazione, mantenendo così una propria singolare autonomia di linguaggio anche in sede concertistica. Per questo è portata a modello, anche se, a rigore, non avendo dovuto soggiacere alla prassi produttiva, paradossalmente non è considerata musica per film come s’intende di norma.
La svolta degli anni Quaranta
Se è vero che la rigida impostazione hollywoodiana non permette deviazioni dai clichés ben collaudati, a maggior ragione la figura di B. Herrmann (1911-1975) è degna della massima considerazione per la svolta che determina dagli anni Quaranta in poi. I film Quarto potere (O. Welles, 1941), L’uomo che sapeva troppo (1956), La donna che visse due volte (1958), Intrigo internazionale (1959), Psycho (1960), Marnie (1964), tutti di A. Hitchcock, sono alcune fra le tappe più rilevanti di un processo di attualizzazione del linguaggio musicale – nelle inusitate soluzioni timbriche, nella concisione tematica, nelle caratterizzazioni ritmiche e nei relativi ostinati – considerato ancora oggi un modello insuperato, in sé ma soprattutto come esempio di stretta interazione fra componenti visive e sonore. La diffusione del rock comporta un fenomeno underground o di nicchia (definito, appunto, il rock-film), ma in concomitanza con il predominio dei media contribuisce, sia pure indirettamente, alla detronizzazione dei modelli musicali ottocenteschi. La musica per film, in special modo quella americana, ‘scopre’ la musica contemporanea e divulga quelle contaminazioni che il Novecento d’area colta aveva già acquisito: ragtime, blues, jazz, danze afromericane e stilemi orientali, la riduzione degli organici, il rumorismo e perfino l’uso espressivo del silenzio, che per Hollywood rappresenta forse la conquista più insperata. Ne deriva una sorta di linguaggio cosmopolita dal quale i caratteri distintivi affiorano a seconda del contesto narrativo o del genere cinematografico. Compositori come A. North (1910-1991), E. Bernstein (1922-2004), H. Mancini (1924-1994), J. Goldsmith (1929-2004), J. Williams (n. 1932), J. Barry (n. 1933) sono dotati di una personalità distinguibile in alcune circostanze irripetibili (Un tram chiamato desiderio di E. Kazan e North, 1951; L’uomo dal braccio d’oro di O. Preminger e Bernstein, 1955; Il pianeta delle scimmie di F. Schaffner e Goldsmith, 1968) e soprattutto nelle collaborazioni ricorrenti (Mancini con B. Edwards; Williams con S. Spielberg e G. Lucas). In Francia la nascita dello specialismo e il periodo di più felice fusione tra stilemi colti e popolari, ancora riconoscibili nel loro insieme come tipicamente francesi, portano il nome di M. Jaubert (1900-1940). Il cinema di poesia di J. Vigo – Zero de conduit, 1932; L’Atalante, 1934 – trova in Jaubert un interprete sensibilissimo, la cui dote consiste anche nell’inaugurare un linguaggio essenziale e a tratti intimista, comunque ‘per sottrazione’, sempre garbatamente aderente al narrato, che sarà riscoperto più o meno consapevolmente da molti compositori dell’ultimo trentennio e recuperato come ‘musica preesistente’ da F. Truffaut nei suoi film degli anni Settanta. Di una scuola francese si può ancora parlare a proposito dell’ungherese J. Kosma (La grande illusione di J. Renoir, 1937; Mentre Parigi dorme di M. Carné, 1946) e di G. van Parys (a partire da Sotto i tetti di Parigi di Clair del 1931), in cui è avvertibile il rifugio in una gergalità tutta parigina, incline al couplet affidato al bandoneon e simili, mentre G. Delerue, F. Lai, M. Legrand e soprattutto M. Jarre tendono progressivamente, seppure in misura differente, verso un funzionale sdoppiamento di personalità. Secondo una prassi ben nota oltreoceano, essi nascondono i connotati d’origine rivelandosi adatti tanto a un film di J.-L. Godard quanto a una grande produzione firmata da D. Lean, per cui le musiche composte da Jarre per Lawrence d’Arabia (1962) e Dottor Zivago (1966) potrebbero essere state scritte da qualsiasi specialista americano. In Italia il deludente coinvolgimento dei compositori d’area colta inaugurato con Cabiria – a eccezione dello straordinario contributo di P. Mascagni per Rapsodia satanica (N. Oxilia, 1925) – e prolungatosi negativamente nel cinema fascista (Acciaio di W. Ruttmann e G.F. Malipiero, 1933), non solo non produsse una scuola specifica ma comportò per oltre un decennio l’invasione nel cinema di musicisti spesso mediocri, provenienti in prevalenza dall’area della musica leggera. I giovani Zavattini, Rossellini e De Sica crebbero al suono di un cinema che nulla pretendeva dalla musica e solo così si può spiegare l’inadeguatezza dei contributi musicali che essi accettarono nei film più rappresentativi del neorealismo; né la situazione migliorò nell’immediato dopoguerra, quando la Lux Film decise di rivolgersi a compositori blasonati, poiché se si determinò com’è ovvio un enorme salto di qualità dal punto di vista strettamente musicale, nella maggior parte dei casi mancò, o risultò ancora più compromessa, una coerente drammaturgia filmico-musicale, essendo questa del tutto estranea alla formazione e agli interessi di compositori come A. Veretti, V. Bucchi, M. Zafred e G. Petrassi. Per assistere alla nascita dello specialismo bisogna attendere i contributi di compositori come A.F. Lavagnino (Othello di O. Welles, 1950), C. Rustichelli – forse il più ‘neorealista’ e genuino dei compositori italiani, si pensi al sodalizio con P. Germi – G. Fusco (legato a M. Antonioni), M. Nascimbene e P. Piccioni, ai quali va il merito di avere contribuito alla sprovincializzazione della musica per film. In estrema sintesi, il cinema d’autore degli anni Cinquanta e Sessanta di L. Visconti, F. Fellini, M. Antonioni e quello immediatamente successivo di E. Petri, P. Germi, G. Pontecorvo, S. Leone, P. P. Pasolini e molti altri risulta tutto affidato a una ristretta schiera di prolifici artigiani sui quali prevalgono però N. Rota (1911-1979) ed E. Morricone (n. 1928). La svolta del cinema italiano dagli anni Settanta in poi impose un’autoriduzione dei mezzi espressivi e un maggiore distacco critico; in tal senso prevalsero i risultati iniziali di N. Piovani (attivo dal 1971 con M. Bellocchio) e di F. Piersanti, segnatamente con N. Moretti, dal 1977 al 1984, e nel sodalizio con G. Amelio, dal 1982.
La ‘globalizzazione’ del linguaggio
Per rintracciare l’origine dell’internazionalizzazione del linguaggio cinematografico che si manifesta a partire dagli anni 1970-1980 occorre ritornare alla metà degli anni 1950, quando il pubblico aveva ormai imparato a prestare attenzione alla musica per il cinema. I produttori, decisi a sfruttare subito questa evoluzione, spinsero i compositori a comporre temi musicali che, sotto forma di canzoni, potessero essere venduti anche come dischi. Uno dei primi successi fu la canzone Moon River, scritta da J. Mercer e H. Mancini per Colazione da Tiffany (1961) di B. Edwards, che vendette più di un milione di copie. I produttori furono anche prontissimi a riconoscere il potere d’immagine della musica leggera e iniziarono a scritturare celebri cantanti, come per es. E. Presley, perché interpretassero parti da protagonista in commedie leggere incentrate sul loro personaggio. Vennero anche sfruttati i miglioramenti nelle tecniche di registrazione sonora, accorgimenti che emergono in particolare nei grandi film storici degli anni Cinquanta e Sessanta come La tunica (1953), Ben Hur (1959) e Barabba (1962). In questi fenomeni commerciali può essere rintracciata in parte l’origine dell’uniformarsi del linguaggio internazionale delle colonne sonore, che ha però anche radici musicali.
Un distacco decisivo dai caratteri delle scuole nazionali e dalla prassi dello specialismo si deve al contributo dei minimalisti Ph. Glass (Koyaanisqatsi, 1983; Powaqqatsi, 1998, entrambi documentari di G. Reggio; Mishima. Una vita in quattro capitoli di P. Schrader, 1985) e M. Nyman, di cui occorre segnalare almeno il sodalizio con P. Greenaway (da I misteri del giardino di Compton house del 1982 in poi) e le musiche per Lezioni di piano di Jane Campion, 1993. Glass porta nel cinema un meccanicismo ossessivamente ripetitivo, sempre invadente e come tale adattabile ad alcune produzioni particolari, mentre Nyman, sia pure nel segno del linguaggio minimalista, ma al tempo stesso ben consapevole della lezione di H. Purcell e del cosiddetto stile ‘a terrazze’, opera in modo più elegante e ammiccante, con blocchi tematici in veste di siparietti di chiara ascendenza teatrale. Su un versante diametralmente opposto, ovvero nella scia di quell’internazionalismo su basi hollywoodiane di cui si è già detto a proposito di Jarre, merita citare H. Zimmer (1957), che in Un mondo a parte (Ch. Menges, 1987), Black rain (R. Scott, 1989) e soprattutto in La sottile linea rossa (T. Malick, 1998) si mostra capace di risolvere in modo molto convincente ogni genere cinematografico, fondendo in uno stile contaminato ma paradossalmente personale quanto di meglio è stato prodotto negli anni 1980-1990 (dal Morricone di Mission, R. Joffé, 1986, al Barry di Balla con i lupi, K. Costner, 1990). Le cifre stilistiche intese come grado di riconoscibilità individuale – riferite tanto al regista quanto al compositore – appaiono dagli anni 1980 a oggi di sempre più ardua individuazione, tanto che un’indagine storica condotta secondo scuole o aree produttive non avrebbe più senso, semmai ne abbia avuto. Compositori come il giapponese T. Takemitsu (1930-1996), il canadese H. Shore (n. 1946), l’italiano F. Piersanti (n. 1950), l’inglese P. Doyle (n. 1953), oltre ai già citati Nyman e Zimmer – per ricordare alcuni fra i nomi più rappresentativi del cinema contemporaneo – hanno ben poco in comune, eppure molti di essi, lavorando nei contesti produttivi più differenziati, che vanno da Hollywood alle piccole produzioni indipendenti, hanno portato alle estreme conseguenze quella tendenza al poliformismo cosmopolita di cui si è detto, probabilmente come conseguenza di un livellamento linguistico che è di natura cinematografica prima ancora che musicale.