Vedi COLONNA dell'anno: 1959 - 1994
COLONNA
È nella sua forma più semplice, un elemento di sostegno verticale, di sezione circolare, che può essere sollecitato secondo i casi o da un'azione pure verticale di compressione, se il sistema di cui fa parte è architravato, o da un sistema più complesso, in cui agiscono anche forze in direzione obliqua, se il sistema è arcuato. Nel primo caso la c. può essere danneggiata per schiacciamento del materiale che la compone sottoposto ad un carico superiore a quello compatibile con la sua natura, nel secondo caso la c. potrebbe essere rovesciata, se tali spinte laterali non fossero equilibrate da forze uguali e contrarie. Per conseguenza si usano in genere nella c. materiali aventi un grado di resistenza abbastanza elevato; in caso contrario si rende necessario ampliare la sua sezione. Circa l'origine della c. può ritenersi verosimile quanto fu già affermato da Vitruvio (iv, i), che essa cioè deriva dal tronco dell'albero, usato nelle costruzioni primitive in funzione di sostegno per ambienti troppo vasti, la cui copertura aveva bisogno di un elemento intermedio fra i due appoggi estremi: ed il caso dell'Heraion di Olimpia, in cui Pausania vide ancora una c. lignea, scampata alle progressive sostituzioni, conferma, in certo modo, tale origine, indicando nei tronchi di legno la prima materia dalla quale furono ricavate con poco lavoro le più antiche colonne (v. più innanzi, Egitto).
La c. consta di una base, un fusto ed un capitello che obbediscono a variazioni molteplici e concomitanti secondo l'effetto che dall'insieme si intende ricavare. Proporzioni ed ornati variano quindi secondo le diverse età, costruzioni, ambienti e civiltà.
Oltre che in funzione costruttiva la c. ebbe applicazioni diverse; addossata o alveolata ad una sezione muraria, ridotta a metà o a più della sua sezione per aumentare lo spessore di un pilastro, quindi con una certa compartecipazione alla statica dell'edificio, oppure isolata come puro elemento decorativo.
Egitto. - In Egitto si incontrano assai presto colonne in pietra: già nella "Piramide a scalini" di Saqqārah - la più antica costruzione litica - la colonna ha una funzione assai importante. Ma l'abitudine di costruire a piccoli blocchi rende così dubbiosa la stabilità di colonne costituite di numerosi elementi, che l'architetto si sente obbligato ad appoggiarle a muri: o come semicolonne aggettanti su una facciata, o come termine di pareti che raccordano la colonna che noi immagineremmo isolata con il muro perimetrale. Un corridoio a tre navate risulta, in questa tecnica di costruzione, corridoio su cui si aprono, a destra ed a sinistra, tante nicchie laterali quante sono le colonne. L'esilità del diametro di base rispetto al notevole sviluppo verticale indica chiaramente come siamo qui davanti a una riduzione in pietra di prototipi lignei. E tale origine va immaginata per tutta una serie di colonne che hanno come punto dì partenza il tronco squadrato: a quattro, a otto, a sedici facce. Nel primo caso si avrà propriamente un pilastro; negli altri due si avrà un tipo di supporto che darà un po' l'impressione della colonna dorica. E si suol chiamare, infatti, "protodorica". In qualche caso essa potrà essere lievemente rastremata verso l'alto (così a Benī Ḥasan); ma non avrà mai una èntasis, e mai una vera e propria scanalatura. Il capitello, d'altronde, è un semplice abaco quadrato, che in genere non aggetta e che si allinea con le facce centrali dei quattro lati della colonna: corrisponde evidentemente alla sezione del pilastro quadrato in cui essa è stata ritagliata. Come caso estremo su questa linea, si può arrivare talvolta a colonne cilindriche. Ma la colonna egiziana più tipica ha diversa origine, e si compiace di una decorazione vegetale. Essa è concepita come una semplice unità dalla base al capitello; e anzi, sarebbe più corretto dire, che in genere, il capitello nella colonna egiziana non esiste, ma solo una estremità superiore, e che il valore organico del capitello greco, e la sua individualità rispetto al suo supporto non hanno la possibilità di manifestarsi in questo ambiente. Le colonne floreali possono essere di vario tipo. Ricordiamo le colonne palmiformi, particolarmente in uso nell'Antico Regno, a fusto cilindrico rastremato verso l'alto e che terminano alla sommità con una serie di rami di palma che sorreggono un abaco, e che sono immaginati legati al fusto con una fune sempre rappresentata: la colonna lotiforme consta di un mazzo di semicolonne che raffigurano steli di loto, annodati in alto, sicché al di sopra dell'annodatura portano i boccioli. La colonna papiriforme offre un aspetto assai simile, ed è assai più usata: in basso essa si slarga con una curva marcata presso la base. Alla chiarezza di identificazione dei singoli elementi, che fino alla XVIII dinastia dà un tono nervoso e lineare a questa colonna, con la XIX dinastia si sostituisce l'abitudine di conservare solo il profilo generale, eliminando tutte le divisioni particolari. Si ottengono così larghe curve lisce, su cui si suole stendere una decorazione figurata. Contemporaneamente il fusto tende ad appesantirsi e il rapporto fra diametro ed altezza della colonna a farsi sempre più basso. La colonna campaniforme (impiegata soprattutto nelle travate centrali) ha un capitello di tipo vegetale svasato verso l'alto. Quest'ultimo tipo tende a svilupparsi in bassa epoca con un fastoso arricchimento di elementi vegetali ripetuti torno torno alla campana (v. capitello). Particolarmente usate nei templi di Ḥatḥōr sono le colonne a forma di sistro (lo strumento musicale sacro alla dea), in cui la colonna propriamente detta raffigura il manico, e una testa della dea fa da raccordo con il capitello, che è figurato come la cassa sonora dello strumento.
(S. Donadoni)
Oriente Anteriore. - Nell'Oriente Anteriore la c. è di uso limitato, e si trova adoperata per lo più a scopo decorativo; tuttavia essa compare fin dai tempi più antichi. In Mesopotamia, dove la mancanza di pietra e di legname restringeva il materiale da costruzione al solo mattone di argilla, la c. era costituita da un insieme massiccio di mattoni, per cui il suo diametro raggiungeva dimensioni enormi: circa 3 m nel tempio preistorico di Uruk (seconda metà del IV millennio a. C.); più tardi però il diametro diminuì sensibilmente: nel tempio di Ishtar a Mari (III millennio) esso superava di poco il metro. In genere le colonne mesopotamiche erano rivestite di vario materiale che doveva dar loro un aspetto più vivace: nel ricordato tempio di Uruk le colonne erano ricoperte da chiodi di argilla policroma, disposti in modo tale da formare ornati geometrici; altrove, invece, erano rivestite di bitume con incrostazioni policrome di vari materiali. La c. di mattoni non era limitata esclusivamente alla Mesopotamia; ad Alalakh un edificio del XII strato (II millennio a. C.) era munito di colonne di tipo mesopotamico, ma questo è l'unico esempio, noto finora, di tali colonne in Siria. La regione siriana e anatolica conobbe invece un altro tipo di colonna, lignea, poggiante su una base di pietra; di questo tipo sono le colonne dei palazzi di Alalakh (di Yarim-Lim, XVIII sec. a. C., e di Niqmepa, fine II millennio a. C.), delle città siro-hittite ed aramaiche (KarkamiŞ, Sakçagözü, Zincirli, Tell Ḥalaf) e persino della Mesopotamia in epoca tarda (I millennio a. C.); in quest'ultima regione appare diffuso l'uso di rivestire le colonne di legno con piastre di bronzo lavorato che davano loro l'aspetto di alberi di palma (a Nimrud e a Khorsābād si son trovati frammenti di tali colonne rivestite; inoltre una stele del re babilonese Nabù-apal-iddin, della prima metà del IX sec. a. C., ne offre una chiara raffigurazione). Nell'alta Siria l'interesse degli artisti fu attratto soprattutto dalla base in pietra che doveva sostenere il fusto ligneo della c.; a questa base essi conferirono le forme più svariate, dai leoni alle sfingi affiancate, agli animali fantastici, mentre il capitello (v.) non fu altrettanto elaborato; questo si sviluppò invece in Fenicia e in Palestina, ispirandosi a modelli egiziani.
(Red.)
Irān. - In Persia, nel periodo dei Medi ebbe larga applicazione la c. di legno. Gli annali della ottava campagna di Sargon ricordano il tempio di Muṣaṣir (fondato nell'810 a. C. e distrutto da Sargon nel 714 a. C.) con una fronte a sei colonne (o pilastri ?) portanti un tetto a doppia pendenza. La descrizione di Polibio (x, 27, 6) della capitale Ecbatana, scritta sotto Antioco il Grande (c. 209 a. C.), parla di un palazzo su colonne di cedro e cipresso. Nelle costruzioni achemènidi si fa uso di colonne di legno su basi di pietra, talvolta rivestite di stucco dipinto, ma in genere esse sono di pietra, come nelle vaste sale delle udienze (apadana), che richiamano le sale ipostile egizie, probabilmente conosciute in Persia dopo che Cambise ebbe conquistato la valle del Nilo. A Naqsh-i Rustam e a Persepoli il tipo dei capitello è quello a doppia mensola formata da due protomi di toro addossate (cfr. il capitello dall'apadāna di Susa ora al Louvre, vol. i, fig. 30), ma nella tomba di Dā-u-Dukhtar presso Kurangun, che è anteriore a Ciro, le colonne avevano capitello proto-ionico a volute, uno dei più antichi esempî dell'influsso greco in Persia. Notevolissimi alcuni fusti di colonne di pietra scanalate, alte e sottili, di Persepoli.
La c. persiana è infatti sempre molto sottile, con il fusto che raggiunge o supera i 10 diametri, la base con listelli ed un'alta modanatura rivestita di foglie a curva convessa verso l'imoscapo; il fusto può essere sottilmente striato da innumerevoli scanalature od anche liscio. Del periodo seleucide, in cui è maggiore l'influsso ellenistico, si ricordano le due colonne di Khurkha sulla via da Sultanabad a Qumm: hanno la base formata da due punti sovrapposti e sormontati da un alto toro di diametro superiore al lato del plinto, su cui appoggia; il capitello riproduce un pessimo tipo proto-dorico; il fusto è di circa 11 diametri. Le colonne di Istakhr hanno basi campaniformi di tipo ancora achemènide, ma scolpite rozzamente; nelle semi-colonne ivi rinvenute, il capitello con una sola fascia di acanto ricorda lontanamente il tipo corinzio. In periodo parthico, a Warka (Uruk) due edifici sacri sono adorni di colonne a base attica e a capitello ionico in stucco. Assai intensi sono i contatti dell'arte sassanide con l'Occidente; particolarmente notevole è, in questo senso, il monumento del re Sapore a Nīshāpūr (v.), elevato, secondo l'iscrizione bilingue, nel 266 d. C. È composto di due colonne affiancate, ognuna su una base a gradini: fra le due basi, ma davanti, è collocato un basamento che forse sosteneva la statua del re. Le due colonne sembra che fossero collegate da un architrave, a simiglianza dei monumenti distili di Delfi (VI-V sec. a. C.) e, specialmente, di altri consimili diffusi in Siria nel Il e III sec. d. C. Le pietre del monumento sono contrassegnate con i numeri greci da Ι (10) a Π (80) e quindi gli artefici non dovevano essere persiani.
(G. Matthiae)
India. - L'architettura indiana presenta agli inizî colonne poligonali senza basi o capitelli. In seguito, con il periodo Maurya, la costruzione di sale simili all'apadāna achemènide (Pataliputra, sec. III a. C.) porta parimenti all'adozione di colonne assai sottili, senza base con fusto liscio, con doppio ordine di foglie volte all'ingiù e all'insù come nel capitello di Persepoli e sormontate da emblemi.
In questo periodo assumono grande importanza i monumenti a forma di c. (lat) eretti in memoria della missione terrena di Buddha da Ashoka (272-231 a. C.). Sono alti sino a 15-20 m, rastremati in alto, sormontati da capitello a campana lotiforme e sorreggono la statua di un animale simbolico. Colonne simili, ma poligonali, si ritrovano a Karli (v.) dinanzi al chaitya, nel quale trova pieno sviluppo (I sec. a. C.), e una funzione estetica preminente nell'insieme dell'edificio, la tipica c. indiana, con base a gradini e ampio rigonfiamento, fusto ottagono con campana o bulbo, un abaco piuttosto alto e stretto e tratto di cornice che ha gradini rovesci.
L'architettura del Gandhāra, che nelle piante riprende talvolta schemi ellenistico-romani, nell'alzato usa largamente c. di tale origine stilistica. Sulla facciata del santuario, "dell'aquila bicipite" a Taxila si dispongono semicolonne alternate a pilastri con capitelli compositi (sempre a Taxila, il cosiddetto Tempio del Fuoco periptero in antis) a Jandial ha capitelli ionici che ricordano tardi esempî provinciali greci. Questo monumento appartiene al periodo del predominio parthico; nel periodo dei Kuṣāṇa prevale il tipo corinzio, con capitelli molto elaborati.
Nell'architettura più tipicamente indiana, generalmente la sezione dei sostegni verticali è tale da far parlare piuttosto di pilastri che di colonne. A tale risultato conducono anche la traduzione in pietra di strutture lignee, l'architettura rupestre e, in senso più generale, la strettissima affinità di architettura e scaltura nell'arte indiana. Una delle grotte di Bāmiyān (III-IV sec. d. C.), che sulla cupola riprende "letteralmente" il tipo di una struttura lignea, ha scolpito lungo le pareti delle sottili colonne abbinate con capitello unico, alternate a pilastri poligonali. Il periodo Gupta sviluppa ulteriormente il tipo di c. già notato a Karli dandogli un lungo capitello a turbante con solchi verticali e traversi; fasce, ornati e bulbi vengono poi inseriti su un fusto sempre più limitato, mentre la cornice a gradini si trasforma in una specie di sopracapitello a stampella pure con ornato. Nella grotta XIX di Ajanta, un chaitya che ricorda direttamente quello di Karli, il "pronao", all'esterno, presenta colonne divise dalla decorazione in quattro zone, l'ultima delle quali improvvisamente si restringe a tronco di cono prima del capitello; all'interno le colonne, che si levano su altissime basi, sono anche divise in più zone da fasce ma, tra una fascia e l'altra, presentano scanalature che riecheggiano quelle delle colonne tortili ellenistiche; inoltre manca la rastremazione notata all'esterno.
(G. Matthiae)
Creta, Grecia, Roma. - La c. delle costruzioni cretesi-micenee (Festo; Micene, tesoro di Atreo; Cnosso, affresco nella cappella del palazzo) ha la base, il fusto è liscio e il capitello è a cuscino: caratteristica la rastremazione del fusto in basso per offrire un più ampio piano d'appoggio a ciò che la c. sosteneva. È stato da tempo dimostrato che nella civiltà cretese-micenea non esisteva un culto particolare della c., come la frequente riproduzione di questa membratura architettonica in rilievi e in pitture aveva fatto ritenere. Tuttavia la rappresentazione della singola c. è allusiva alla facciata del santuario in cui la divinità è presente. Così si spiega il significato di rilievi come quello celeberrimo della Porta dei Leoni a Micene, dove i due animali sono, appunto, espressione del potere della divinità.
Spetta alla Grecia classica l'aver fissato per ciascun ordine, in rapporto ad un criterio espressivo, la forma di c. definitiva per quasi tutta la civiltà europea. Questa forma tiene in particolare conto la funzione costruttiva della c. e schematizza i ricordi naturalistici della sua origine. La c. dorica nella sua forma definitiva, tramandata da Vitruvio (iv, 3) è senza base, con il fusto alto sei diametri, con venti scanalature a vivo, rastremazione in alto e rigonfiamento (èntasis, v.) di 1/48 del diametro a circa un terzo d'altezza. In pratica le proporzioni sono alquanto variabili; nel tempio d'Apollo a Corinto la c. è alta m 7,215 con un diametro inferiore di m 1,70 e 20 scanalature; nella cosiddetta Basilica di Paestum, altezza m 6,48, diametro inf. m 1,46, sup. m 0,96 quindi fortemente rastremate ed èntasis accentuata; nel cosiddetto tempio di Posidone, pure a Paestum, l'altezza è di m 8,90, i diametri m 2,07 e 1,46 e le scanalature 24; nel Partenone altezza m 10,43, i diametri m 1,90 e 1,48. È dunque evidente la tendenza a rendere più sottile e slanciato il fusto nell'evoluzione della colonna.
Per la c. ionica i canoni tramandati da Vitruvio (iii, 5) si fissarono ancora più lentamente perché grande fu inizialmente la diversità delle forme, specie fra la Ionia e la Grecia. L'Artemision di Efeso aveva colonne piuttosto tozze con notevole differenza fra i diametri, e le scanalature non estese al rocchio inferiore istoriato. Il fusto, scarsamente rastremato, porta di regola 24 scanalature con listello intermedio con terminazione stondata. Nell'Eretteo, dove l'altezza è di m 6,50, lo scarto del diametro superiore è di 1/9 rispetto all'inferiore.
La c. corinzia ha il fusto analogo a quella ionica ma le proporzioni si snelliscono ancora ed essa raggiunge anche 8 volte il suo diametro; come nella ionica, spesso le scanalature sono riempite nell'ultimo tratto da un bastone (rudentate). La c. composita varia soltanto nel tipo del capitello.
Singolare in Delfi il fusto di c. simile ad uno di acanto con fasciature di foglie, coronato dalle danzatrici, e sostenente il tripode, o l'altra c., pure isolata, che serviva da sostegno all'Apollo Liceo di Prassitele.
L'architettura romana riprese i motivi e le forme delle colonne fissati in Grecia, ma l'uso prevalente di esse addossate a pilastri o variamente impiegate con senso decorativo nel loro sistema arcuato portò ad un'alterazione notevole delle proporzioni e all'abbandono degli ordini meno ricchi, anche nel caso di costruzioni che mantenevano, come il tempio, il sistema statico greco. Si hanno così colonne dal fusto a bozze, collegate alla parete da tratti trabeati, o disposte all'esterno o all'interno di un'abside. Le semicolonne addossate al pilastro divengono di uso comune e le proporzioni si alterano ancor più per adattarsi all'altezza voluta; i fusti divengono lisci. In altri casi l'uso di edicole con colonne su mensole ne snatura del tutto la funzione costruttiva. Notevole l'uso di colonne isolate anche interamente decorate (v. c. coclide); nonché quello di colonne rivestite di fogliami o di mosaico (Pompei).
Nell'architettura paleocristiana, mantenendosi pressappoco le proporzioni della c. romana, prevale il fusto liscio, ma non mancano esempî di c. tortili come nel battistero di Henshir Deheb o di altre a spirale come nella Confessione vaticana. Si perde ogni senso di distinzione fra i diversi ordini per quanto riguarda le proporzioni fra il diametro e l'altezza del fusto. Infine si fa sempre più frequente l'uso di reimpiegare nelle nuove costruzioni colonne e altri elementi architettonici tolti da edifici più antichi senza alcun riguardo alla originaria coerenza stilistica tra loro.
(G. Matthiae)
Bibl.: Jéquier, Manuel d'arch. ég. Les éléments de l'Architecture, Parigi 1924, p. 187 ss.; P. S. P. Handcock, Mesopotamian Archaeology, Londra 1912, pp. 160-168; W. Andrae, das Gotteshaus und die Urformen des Bauens im alten Orient, Berlino 1930, pp. 48-55; id., Die Jonische Säule, Berlino 1933; G. Contenau, Manuel d'arch. orientale, I-IV, Parigi 1927-1947, passim; R. Naumann, in Jahrbuch für Kleinasiatische Forschung, II, 1953, pp. 246-261; A. K. Coomaras wamy, History of Indian Art, Londra 1927; P. K. Acharya, Indian Architecture, Oxford s. d.; B. Rowland, Art and Architecture of India2, Harmonsdworth 1956; L. Pernier, Il palazzo minoico di Festos, Roma 1935-1951; O. Puchstein, Die Säule in der griechischen Architektur, Berlino 1892; A. Della Seta, Italia antica, Bergamo 1928; Dict. Ant., III, s. v. Colonne; Atti del IV Congresso d'Archeologia Cristiana, Roma 1940; W. Haufmann, Das italien. Säulenmonument, Lipsia 1939.
(S. Donadoni - G. Matthiae)
Colonna coclide istoriata. - Un singolare monumento dell'arte imperiale romana è costituito dalla colonna coclide centenaria (v. c. di traiano) istoriata con un fregio spiraliforme, creato per la prima volta nella Roma di Traiano con quella eretta nel suo Foro e che servirà di modello per tutte le altre, e cioè quella di Marco Aurelio e le due che sorsero a Costantinopoli ad opera di Teodosio I e di Arcadio.
Si è a lungo discusso sull'origine di questo tipo formulando le più diverse ipotesi. Si è visto negli obelischi assiri decorati con scene storiche svolgentisi in fasce orizzontali parallele a rilievo, come quelli di Assurnasirpal o di Salmanassar III del IX sec. a. C., una fonte di ispirazione che avrebbe influito nella creazione della c. c. sia attraverso la diffusione dell'arte assira, sia attraverso i contatti con la trasformazione in provincia romana, sia tramite la personalità di Apollodoros di Damasco (v.) l'architetto del Foro Traianeo, attribuendogli anche la concezione della Colonna. Altri ha pensato che la Colonna eretta in onore di Nerone a Magonza, decorata con fasce parallele a rilievo con figure di divinità e sormontata dalla statua di Giove, potesse costituire un precedente della c. c., ammettendo una trasformazione del fregio a zone parallele in una fascia continua spiraliforme. Si sono chiamati a confronto per lo stile narrativo del fregio i bassorilievi indiani con scene della vita del Buddha e infine si è cercato un modello della rappresentazione continuata nei rotuli illustrati come quello di Giosuè. L'idea di un papiro illustrato immaginato avvolto intorno al fusto della colonna e tradotto in pietra era anche suggerita dall'ubicazione della Colonna di Traiano al centro del cortile fra le due Biblioteche greca e latina, dove negli armadî erano appunto conservati i volumina, come se un grandioso volumen celebrante le imprese di Traiano fosse stato svolto e trasformato in un monumentale bassorilievo.
Possiamo comunque notare che, anche se Apollodoros ideò la Colonna traianea insieme a tutto il complesso del Foro, non aveva bisogno di ispirarsi agli obelischi assiri lontani nel tempo, nello spazio, nella concezione, perché trovava nella tradizione romana della colonna onoraria con statua-ritratto fino dai primi tempi repubblicani una serie di esempî che potevano suggerire la formulazione di questa Colonna, trasportando il motivo in un metro monumentale degno di un imperatore, facendo la c. centenaria, cioè alta 100 piedi, e decorando il fusto con il fregio esaltante le imprese daciche. Plinio (Nat. hist., xxxiv, 19, 27) dichiara, infatti, che la colonna onoraria era uno dei più antichi monumenti romani rispondenti al concetto di sollevare materialmente e idealmente il cittadino benemerito sopra agli altri: columnarum ratio erat attolli super ceteros mortales. La c. c. va infatti distinta dalla tradizione della colonna votiva e ricollegata a quella della c. onoraria, che trovò più limitato sviluppo in Grecia, mentre ebbe antiche origini e ininterrotta esemplificazione in Roma.
Se il tipo di colonna sormontata dalla statua-ritratto del personaggio onorato aveva una precisa e costante tradizione romana, a cui il creatore di quella traianea poteva riallacciarsi, nuovo e originale era invece il motivo del fregio spiraliforme, e non sembra probabile che l'artista avesse trovato per esso modelli e ispirazione nei rotuli illustrati, come qualcuno aveva supposto. Il Weitzmann ha dimostrato infatti che nei primi secoli dell'Impero il rotulo illustrato non aveva una narrazione continuata, bensì suddivisa in scene separate dalle colonne del testo e che quello di Giosuè, che presenta un fregio continuo, è una creazione di ambiente costantinopolitano del X secolo e non può pertanto costituire una fonte di ispirazione per la colonna coclide istoriata ideata sotto Traiano. Può invece a sua volta essere stato ispirato dal fregio continuo delle Colonne di Teodosio e di Arcadio, che il miniatore del rotulo ben poteva ammirare e studiare a Costantinopoli. L'idea di un volumen svolto e avvolto intorno al fusto della colonna può aver in realtà suggerito la struttura spiraliforme del fregio, e sembrerebbe che l'artista creatore avesse avuto in mente questo concetto, perché al sommoscapo ha rappresentato le scanalature del fusto, come se volesse suggerire che tutta la parte restante è coperta dal fregio che si sovrappone ad esso nascondendole. E questa idea può altresì esser nata dall'uso reale di avvolgere intorno alle colonne tenie e ghirlande in occasioni festive, oltre che dal tipo della colonna tortile o vitinea. Ma per la narrazione continuata del fregio l'artista trovava non già nel rotulo illustrato bensì nella lunga tradizione artistica greca e romana gli elementi sostanziali per questa originale formulazione. Da un lato l'esperienza ellenica gli forniva i presupposti sintattici, poiché in Grecia si era già elaborata una narrazione continuata con i varî episodi di un mito o delle fatiche di Eracle o delle imprese di Teseo, giungendo nell'ellenismo al racconto complesso e unitario intimamente articolato con elementi paesistici di raccordo spaziale, tanto in pittura come in scultura, e di cui il fregio con la vita di Telefo sull'Ara di Pergamo può costituire un esempio significativo. Da un altro lato la tradizione romana della pittura trionfale e del rilievo storico offriva un preciso e ricco repertorio di motivi iconografici, una larga tematica che aveva già assimilato gli elementi figurativi paesistici, colti, pittorici, di ritmi complessi, di scorci audaci maturati nell'ambiente greco.
Dalla antica tradizione romana della colonna onoraria con statua-ritratto, dall'esperienza ellenica del racconto continuato paesistico, pittorico e spaziale, dall'iconografia romana delle scene di guerra nella pittura trionfale e nel rilievo storico, dal suggerimento di un volumen avvolto intorno al fusto scanalato nasce dunque la concezione di questa colonna monumentale. L'artista ideatore riuscì pienamente ad annullare l'impressione di una colonna avulsa da un'architettura, differenziandola in tutti gli elementi struttivi e decorativi da un membro di un ordine architettonico, diversificandola come monumento in sé compiuto, dando alla base l'aspetto di una ghirlanda, all'echino quello di un plastico kymàtion di ovoli, elevando il fusto su una grandiosa base ad ara. L'artista ha anche accentuato la funzione di sostegno della statua imperiale: il fregio, attraverso la spirale ascensionale e ininterrotta, conduce l'occhio verso la statua onoraria, collegando il basamento che reca l'iscrizione dedicatoria, all'immagine imperiale alla sommità.
La creazione di questo tipo di monumentale c. c. centenaria istoriata si deve dunque a un artista del tempo di Traiano e le altre tre colonne che seguiranno negli elementi struttivi e architettonici riveleranno l'intenzionale imitazione del modello traianeo, mentre nelle differenze rispetto a questo rifletteranno i nuovi ideali artistici e la diversa concezione celebrativa del tempo in cui sono create (v. anche continua, rappresentazione).
Bibl.: Per il problema della genesi della colonna istoriata: A. Ippel, Indische Kunst und Triumphalbild, in Morgenland, XX, 1929, tav. V, figg. 10-11, confronti con monumenti indiani: L. Schnitzler, Die Trajanssäule und die Mesopotamischen Bildannalen, in Jahrbuch, LXVII, 1952, pp. 43-77, confronti con monumenti assiri; T. Birt, Buchrolle in der Kunst, Lipsia 1907, p. 269 ss. ispirazione ad un volumen illustrato; H. Bethe, Buch und Bild im Altertum, Lipsia 1945, derivazione dal rotulo illustrato; K. Weitzmann, The Joshua Roll, Princeton 1948, p. 100 ss. datazione del rotulo di Giosuè al X sec. e sua ispirazione alle colonne di Costantinopoli; R. Bianchi Bandinelli, Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad, Olten 1955, passim. Per le fonti sulle colonne onorarie repubblicane: O. Vessberg, Studien zur Kunstgeschichte der Römischen Republik, Upsala 1941.
(G. Becatti)
1. Colonna di Traiano. - Fu eretta nel 113 d. C. per commemorare le vittorie riportate da Traiano in Dacia dal 101 al 1o6 d. C.
La colonna si inserì organicamente nel piano generale del Foro Traianeo ideato da Apollodoros di Damasco (v.) e fu eretta al centro del cortile fra le due Biblioteche, la greca e la latina, limitato negli altri lati dalla Basilica Ulpia e dal tempio del Divo Traiano.
L'altezza totale della colonna (senza la statua) è di m 39,86; essa poggia su uno zoccolo composto di otto blocchi in quattro filari, alto m 5,37; il plinto in un sol blocco è alto m 1,68; il fusto, composto di 17 colossali rocchi di marmo di Carrara è alto m 26,62; segue il capitello dorico di m 1,48 e la base cilindrica della statua di m 4,66. Toro, fusto e capitello misurano esattamente cento piedi (m 29,78), donde il nome di centenaria dato alla colonna nell'antichità. Il basamento è ornato di trofei d'armi barbariche scolpite a rilievo molto basso; segue poi un grande toro, formato da una corona di alloro, sopra il quale si inizia la narrazione della guerra che sale a spirale da sinistra verso destra per tutto il fusto della colonna, per ben 23 giri (200 m), svolgendo una striscia la cui altezza, di m 0,89 all'inizio, cresce, per motivi di prospettiva, man mano fino a m 1,25, portando con sé un ingrandimento di tutte le figure da cm 60 a cm 8o. A due terzi dell'imoscapo il fusto presenta un'èntasis e ciò a causa della notevole altezza che ha costretto a forzare le proporzioni per un migliore effetto ottico.
Il Lehmann ha pensato che il monumento abbia avuto una doppia destinazione: sarebbe stato dapprima una colonna votiva commemorante le vittorie dell'imperatore e come tale sormontato da un'aquila imperiale come apparirebbe in figurazioni su monete; più tardi Traiano ne avrebbe fatto il mausoleo nel quale furono poi sepolti lui e Plotina: soltanto allora sarebbe stata ricavata la cella sepolcrale dentro lo zoccolo, la cui porta è sul lato S-E al disotto dell'iscrizione (Cass. Dio, lxix, 2; Eutrop., 8, 5; Aur. Vict., Epist., 13) e si sarebbe sostituita all'aquila la statua dell'imperatore, che più tardi dovette crollare e che nel 1587 fu sostituita da Sisto V con la statua di S. Pietro modellata da G. della Porta. All'interno del fusto è ricavata la scala interna, a chiocciola illuminata da strette feritoie, che ha dato la denominazione di coclide a questa colonna. Il modo col quale dette feritoie vengono a cadere sulla composizione dimostra che esse in un primo tempo non erano state previste e che sono state inserite in un disegno già perfezionato. La descrizione della prima guerra (101-102) ha inizio con una visione delle rive del Danubio la cui personificazione, come vecchio barbato, si vede in una caverna; l'esercito traversa il fiume su un ponte di barche. Seguono una scena di marcia, un consiglio di guerra alla presenza di Traiano e una splendida scena di lustratio. Poi l'imperatore arringa le truppe e lascia il campo per ispezionare la vallata del fiume nella quale fervono i lavori: un soldato attinge acqua, altri preparano in un bosco di querce il legname che servirà per alzare la palizzata che vediamo costruire sotto gli occhi di Traiano. L'esercito si mette in marcia verso il nemico che lo assale di sorpresa in una foresta (battaglia di Tapsae: Cass. Dio, lxviii, 8). Durante la mischia appare in aiuto dei Romani Giove che scaglia i fulmini contro i nemici: verso il centro della scena è un soldato romano che tiene con i denti la testa di un nemico; a sinistra un gruppo di soldati porta a Traiano le teste dei caduti, mentre a destra alcuni Daci aiutano i compagni feriti. Volti in fuga i Daci, l'esercito romano guada il fiume e giunge in un vasto accampamento all'interno del quale Traiano riceve un'ambasceria degli avversarî, molti dei quali sono a cavallo. Poi è rappresentata la scena della punizione dei Daci; un gruppo di soldati barbari tenta di attraversare il Danubio per assalire l'accampamento romano, ma viene respinto dai giavellotti che i soldati romani tirano dai bastioni.
Segue un'ampia veduta di città sulle rive del Danubio, con templi, archi e teatro: Traiano s'imbarca e nella scena successiva, l'imperatore sbarca in una città romana di cui appaiono i templi al di là delle mura. Dopo una ricognizione nei boschi vicini con due sentinelle, nottetempo (la personificazione della Notte come busto femminile velato emerge dietro le rupi) viene attaccato il campo dacio, in cui si vedono molti dormienti. Seguono scene di fortificazione di accampamenti, soldati romani che curano i feriti e altre grandi scene panoramiche di battaglie, cui fanno seguito una rappresentazione di Traiano che ricompensa i soldati, e di donne che torturano prigionieri romani. Un'altra città romana si trova agli inizî della descrizione della terza parte della campagna: l'esercito romano esce dalle mura ed attraversa il ponte di barche gettato sul Danubio mentre Traiano, uscito da un valico roccioso, saluta con le mani levate l'esercito. Nell'accampamento avviene la lustratio, poi Traiano arringa l'esercito; scene di apertura di strade in regioni boscose e di costruzioni di ponti precedono scene di guerra: l'imperatore si dirige verso una fortezza alla sommità di una collina, mentre un manipolo di Daci si tiene nascosto dietro un riparo e alcuni soldati romani incendiano un villaggio. Il quadro successivo mostra Traiano che nell'accampamento riceve la sottomissione di un capo dacio che s'inginocchia. Segue una scena di marcia con buoi e muli che trasportano salmerie in una regione boscosa. Traiano alla testa delle legioni, fermo sulla sporgenza di una roccia, osserva l'abile manovra della cavalleria africana di Lusio Quieto: i Mori cavalcano senza briglie, a bisdosso, i capelli sono raccolti in lunghe trecce (Strab., xvii, 828). Seguono scene di battaglia, di fortificazioni e alla fine di questa prima guerra una complessa scena: Traiano seduto ha dinanzi a sé le figure dei capi daci seguiti da una lunga schiera di prigionieri in ginocchio, su uno sfondo di accampamento quasi vuoto. La fine della prima guerra è indicata da una Vittoria in atto di scrivere sopra uno scudo, fiancheggiata da due trofei.
Ha quindi inizio la seconda guerra (105-107), che presenta scene marinare alternate a grandiosi quadri di guerra o a cerimonie solenni svolgentisi sullo sfondo architettonico di tre distinti porti di mare: il porto di Ancona, con alle spalle, sull'altura, il tempio di Venere e sul davanti l'arco di Traiano. Le navi partono per approdare ad un altro porto da cui la folla saluta l'imperatore che, sbarcato, si prepara ad una grandiosa scena di sacrificio in cui vengono immolati grossi tori. In un terzo porto, che mostra in lontananza anche le mura di una città con varî edifici, assistiamo a una nuova processione sacrificale. Le scene successive ci portano in Dacia: nei boschi l'esercito incontra i Daci che tendon le mani in segno di saluto; si passa poi davanti ad una città e viene compiuto un grande sacrificio su sei are: in primo piano, presso il primo altare, sta Traiano che versa libagioni sulle fiamme, più lontano sono quattro assistenti al sacrificio, ciascuno dei quali tiene un toro; in basso è la folla festante. Dopo questa solenne scena è raffigurata la costruzione di strade da parte di soldati romani. Compare poi un forte romano attaccato e in gran difficoltà nella difesa fino all'arrivo di Traiano che porta la vittoria. Sullo sfondo della successiva scena di sacrificio appare il famoso ponte sul Danubio progettato da Apollodoros di Damasco, l'architetto del Foro. Una scena pittoresca è quella che segue, in cui Traiano riceve i rappresentanti dei popoli barbari, cinque dei quali indossanti lunghi costumi. Dopo scene di battaglie e di costruzioni di fortini si arriva all'episodio più drammatico di tutta la narrazione; la presa di Sarmizegetusa, capitale della Dacia: i capi daci in preda alla disperazione dànno alle fiamme un quartiere della città assediata e poi si uccidono con veleno. Toccante è la scena dell'ultima distribuzione d'acqua: due Daci, caratterizzati nei loro costumi, stanno presso un recipiente, uno di essi versa il liquido nella tazza che un compagno gli presenta e verso la quale gli altri tendono la mano. Alcuni assediati sono già morti, altri si dànno la morte; altri ancora lasciano la città fuggendo per consegnarsi a Traiano che, vittorioso, accompagnato da due generali e seguito dai signiferi, sta alla testa dell'esercito che si abbandona al saccheggio.
Gli episodî successivi sono visti isolatamente e non con una stretta successione: rappresentano il progressivo sgretolamento dell'esercito barbarico. Su tutta quest'ultima parte domina la figura di Decebalo, capo dei Daci, che fugge attraverso i boschi seguito da una scorta molto esigua, dopo aver nascosto il proprio tesoro. La raffigurazione di soldati romani che conducono a mano cavalli i cui basti sono carichi di vasellame d'ogni genere ci svela il tradimento di Bikelis, che svelò ai Romani il luogo del nascondiglio del tesoro reale (Cass. Dio, lxviii, 14). Le scene che seguono concentrano l'attenzione sulla morte di Decebalo che, ingannato ed abbandonato, si aggira per località boscose e deserte nei pressi della città. Egli parla agli ultimi fidi, alcuni dei quali si uccidono: la cavalleria romana incalza, il re fugge a briglia sciolta con pochissimi fedeli, ma i cavalieri romani lo raggiungono e il re, scivolato giù da cavallo, si dà la morte sotto un grande albero per evitare di essere fatto prigioniero. Segue un duello con la scorta reale e nella scena successiva la testa di Decebalo, esposta in un piatto, viene portata fra le truppe. Dopo altre scaramucce, nell'ultima scena i Romani guidano i Daci ormai pacificati alle dimore loro assegnate: il popolo vinto e deportato spinge innanzi a sé le greggi.
Il fregio della colonna è stilisticamente collegato al grande rilievo che decorava il Foro Traianeo, ora smembrato nell'Arco di Costantino e si rivela creazione di un unico e grande artista, che il Bianchi Bandinelli ha chiamato Maestro delle imprese di Traiano.
Più scultori hanno tradotto nel marmo i cartoni originari, ma arrivando a una sostanziale unità di linguaggio e di modellato. Il rilievo è piuttosto basso, ma con ricchi trapassi di piani con uno stile pittorico, intensamente chiaroscurale, pur raggiungendo anche particolari effetti di vivo plasticismo. La scene si susseguono in un racconto continuato con varie prospettive, che permettono di svolgere le composizioni più complesse e ardite con diverse soluzioni sintattiche, anche con vedute convenzionali; sfondi architettonici, rocciosi, boscosi, visioni di accampamenti, di palizzate, di fortini, di villaggi, danno organicità e varietà alla narrazione, collegando e raccordando le scene, e ambientandole paesisticamente con senso spaziale e realistico. Traiano compare sempre in ogni scena, in atto di arringare le truppe, di far sacrifici, di ricevere ambascerie e sottomissioni, di sorvegliare le costruzioni, di aprire la marcia, di passare in rassegna le truppe. Nell'adlocutio si usa generalmente lo schema antitetico aderente alla visione narrativa e illustrativa, che impronta tutto il fregio. I costumi dei barbari sono riprodotti con senso realistico fino ai singolari aspetti delle lunghe tuniche nel gruppo degli araldi e delle armature a scaglie dei cataphracti.
Una nota particolare del contenuto è costituito dal senso di simpatia verso i barbari, un sentimento nuovo che conferisce nobiltà e umanità al bellum Dacicum. Il rilievo storico traianeo, che aveva avuto significative attuazioni in fregi e in pannelli, trova qui la formulazione più originale e più grandiosa, creando un nuovo stile narrativo.
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(L. Rocchetti*)
2. Colonna di Marco Aurelio - Dedicata all'imperatore dopo la sua morte (17 marzo del 18o d. C.) dal Senato e dal Popolo per onorarne la memoria e per celebrare le sue vittorie contro i Germani e i Sarmati.
Fu terminata prima del 193, perché in quest'anno parte del legname dell'incastellatura fu data al custode della Colonna, Adrasto, per costruirsi una casetta nelle adiacenze. Sorgeva al centro di una piazza, forse circondata da portici a N e a 5 e chiusa a O dal tempio del divo Marco, costituita oggi dall'attuale Piazza Colonna, il cui livello è più alto di circa m 3,86 rispetto all'antico, cosicché la parte inferiore del basamento della Colonna non è più visibile e la parte sovrastante è stata alterata dai restauri di Domenico Fontana, che nel 1589 per ordine di Sisto V la rivestì di nuove lastre di marmo con le iscrizioni pontificie, scalpellando i blocchi originari, e procedendo anche all'inserzione nelle lacune o nei punti più deteriorati del fregio di alcuni pezzi figurati eseguiti da Silla Longhi e Matteo Castello e da altri scultori e ponendo sull'alto del fusto la statua bronzea di San Paolo. Il piano di base della Colonna si trova a m 3 sopra al livello antico della via Flaminia, onde è probabile che tutta la piazza fosse sopraelevata rispetto alla strada. La fondazione è costituita da una platea di blocchi di travertino spessa cm 72, di m2 360, e da uno strato superiore di blocchi di marmo spesso cm 9,5, di m 9,50 di lato, Il basamento è costituito da una parte inferiore di 4 filari di blocchi di marmo, alta m 6,136, e da una superiore di 3 filari, alta m 4,380; il fusto con base e capitello è di 19 blocchi di marmo lunense, e un ventesimo blocco costituisce l'attico cilindrico arrotondato in alto, che serviva di base alla statua bronzea di Marco Aurelio. Il fusto misura m 29,601 pari a 100 piedi romani onde la Colonna fu detta centenaria; l'altezza complessiva oggi è di m 41,951 e siccome i Cataloghi Regionarî danno la cifra di clxxv piedi e mezzo, pari a m 51,95, i 10 m che mancano devono probabilmente riferirsi alla platea e alla statua. Il diam. inferiore del fusto è di m 3,80, il superiore di m 3,66, senza entasi. Una porta sul lato S, oggi interrata per m 2,65, dà accesso alla scala interna a chiocciola con 203 scalini, illuminata da 56 feritoie. Il fusto con la corona di alloro di base, la spirale, la fascia di scanalature al summoscapo, il capitello con echino a ovoli, ripetono esattamente la struttura della Colonna di Traiano, mentre diversa è quella del basamento che non è ad ara, ma, come si rileva da incisioni di Enea VicQ del 1540 circa e del Du Perac del 1575, era molto più alto e decorato non su tutta la superficie come nella Colonna Traiana, bensì soltanto in un fregio che correva circa a metà dell'altezza, con Vittorie che sostenevano festoni su tre lati e una scena di sottomissione di barbari in quello E verso la via Flaminia. Due capi barbari inginocchiati con dietro un signifero e due legionarî si aggruppavano da un lato ed erano presentati da un ufficiale con corazza e paludamentum, forse Commodo, a Marco Aurelio in analogo costume, che occupava il lato opposto, seguito da legionarî e dal cavallo con gualdrappa; questi due gruppi contrapposti avevano il loro centro nella coppia imperiale, fra cui compariva un ufficiale nel fondo, forse Pompeiano.
Il fregio comprende 21 giri della spirale continua figurata, dove si sono distinte 116 scene del racconto che ha per tema il bellum Germanicurn et Sarmaticum combattuto da Marco Aurelio; non vi compaiono né il fratello Lucio Vero, morto ad Altino nel 169, né il figlio Commodo, che fu chiamato al fronte danubiano nel maggio del 175, quando Marco Aurelio dovette accorrere in Oriente per la rivolta del generale Avidio Cassio. Nonostante che il Morris ed altri abbiano voluto riconoscere Commodo in alcune scene della seconda parte del fregio, gli argomenti addotti non sembrano persuasivi e manca una sicura testimonianza della presenza di Commodo nel fregio, mentre era forse raffigurato nella scena conclusiva e simbolica della sottomissione dei barbari sul basamento. Molto discordanti sono le opinioni sulla cronologia e sulle fasi della guerra e sul rapporto fra realtà storica e narrazione figurata, ma attraverso la varia elaborazione critica si possono accettare alcuni punti fermi.
Il fregio si apre con la veduta di case, di palizzate e di un abitato con porto fluviale sul Danubio, personificato dal busto di un dio barbato emergente dalle onde, imitando fedelmente l'inizio del fregio traianeo. L'esercito passa un ponte sul Danubio, forse a Carnuntum, episodio riportato all'a. 172 in base alle monete che lo celebrano. La campagna si sviluppa con adlocutio dell'imperatore, contatti con capi barbari, scontri, e con l'episodio miracoloso del fulmine che incendia una macchina bellica del nemico assediante un fortino romano, con un riferimento all'avvenimento ricordato nella Vita Marci, xxiv: fulmen de coelo precibus suis (cioè di M. Aurelio) contra hostium machinamentum extorsit, datato nel 172. Segue poco dopo un altro miracolo, quello della pioggia torrenziale che travolse i Quadi dissetando invece i Romani, per il quale nelle fonti si hanno varie date tra il 171 e il 174; la pioggia è personificata da un dio alato, tutto ruscellante acqua dal corpo, con le braccia aperte. Dopo queste due scene più caratteristiche ed episodiche il racconto continua con quelle più generiche e comuni al linguaggio del rilievo storico con adlocutiones, marce, passaggi di fiumi su barche (scaphae), vedute di accampamenti, fortini, costruzioni, scontri con soldati e cavalieri, sacrifici, razzie di bestiame, sottomissioni. Un accento più particolare si riscontra nelle scene di distruzione di villaggi nemici con le capanne germaniche fatte di pali, fra le scarmigliate donne urlanti che cercano di proteggere i loro figli, i barbari trafitti dalle spade o condotti prigionieri, e una intensa nota di tragico pathos risuona nella scena della decapitazione di Germani che curvano la testa dinanzi agli esecutori, che sono barbari delle truppe ausiliarie, e nella scena di Sarmati disarmati gettati in un baratro e finiti a colpi di lancia da soldati romani che li serrano dall'alto. Una nota caratteristica costituisce anche l'assalto da parte di soldati romani nella formazione detta testudo, coperti sotto gli scudi semicilindrici che formano tetto sulle loro teste, a un fortino barbarico fatto di palizzate lignee. Sappiamo che furon dapprima sconfitti i Quadi, ai quali furon imposte dure condizioni, e poi i Marcomanni, e alla fine del 173 Marco Aurelio prese il titolo di Germanicus. La felice conclusione di questa prima parte della campagna è segnata nella metà del fregio da una figura di Vittoria che scrive sullo scudo, fra due trofei, come nel fregio della Colonna di Traiano, ma con torso nudo e in una composizione più plastica e addensata. La seconda parte del fregio rappresenta probabilmente la campagna degli anni 174-175, mentre alcuni studiosi voglion far rientrare gli avvenimenti del 174 nella prima parte e quelli del 175 nella seconda, e altri riferiscono invece la prima parte agli anni 172-175 e la seconda agli anni 177-180, presupponendovi, poco verisimilmente, la presenza di Commodo. Nel 174 Marco Aurelio piegò i Quadi ribelli, che si erano alleati con gli Iazigi, imponendo dure condizioni di pace ma dovette interrompere la lotta contro questi ultimi per accorrere in Oriente nel 175, chiamando il quattordicenne Commodo e concludendo poi la pace prematura con gli Iazigi, celebrando il trionfo nel 176 al ritorno dall'Oriente e prendendo il titolo di Sarmaticus. La guerra si riaccenderà nel 178 contro i barbari danubiani, ma è probabile che il fregio si limiti alle campagne condotte dal solo Marco Aurelio fino al 175, senza del resto che il fregio, intessuto necessariamente di scene e di motivi generici, potesse e pretendesse dare una precisazione cronologica e storica entro limiti assoluti del bellum Germanicum et Sarmaticum, tranne i due episodi miracolosi, e avendo come scopo una celebrazione evocativa delle res gestae di Marco Aurelio, raffigurato sempre in tutte le scene in mezzo ai suoi soldati, fra il suo stato maggiore e con a fianco spesso il fedele generale siriano Pompeiano, suo genero, che appare barbato, con l'alta fronte corrugata, in un efficace ritratto. L'artista ha comunque cercato di caratterizzare i tipi dei barbari rappresentando nella prima parte i Germani dai volti barbati, non privi di una certa nobiltà, e nella seconda parte introducendo anche il tipo dei Sarmati dai volti più rozzi con barbe a folto pizzo ricurvo, con zazzere ispide; riproducendo i costumi del nemico con tuniche manicate, brache, mantelli frangiati, berretti a punta, a cono, a turbante; capanne e fortini barbarici.
Pur ispirandosi intenzionalmente al modello della Colonna Traianea questo fregio, a circa settant'anni di distanza, rivela una profonda trasformazione nella visione artistica. Si riduce il numero delle figure, le scene si fanno più distaccate, la narrazione diviene più concisa, più rare sono le costruzioni di accampamenti, più sommarî gli sfondi paesistici di edifici e di alberi; tre spighe simboleggiano un campo di grano, due alberi un bosco; più schematica è la rappresentazione dei fiumi, di tipo cartografico; il vallum o il muro di un accampamento visto convenzionalmente a volo d'uccello diventano una linea circolare sul piano; al vivo pittoricismo del fregio traianeo ricco di scorci subentra una tendenza alla frontalità e alla centralizzazione particolarmente tipiche nel gruppo imperiale e nelle adlocutiones; il modellato si fa più volumetrico e netto con una vigorosa sintesi plastica; al delicato chiaroscuro traianeo si sostituisce un forte contrasto di luci e di ombre; le figure si staccano con un solco di contorno dal fondo, il trapano diviene un fondamentale mezzo espressivo che scava il marmo disegnando poche linee essenziali nel panneggio e sinusoidi rabeschi nelle onde dei fiumi, forando barbe e capelli, occhi, corazze, creando forti sottosquadri e scuri profondi e densi da cui emergono le immagini con vivo plasticismo. La struttura si disorganizza, i ritmi si accentuano, creando ora insistenti sequenze sintattiche, ora acute note esasperate; l'intonazione passa dal pathos traianeo a una violenta drammaticità; il senso di umana e nobile comprensione che spira dalla Colonna di Traiano si muta in quadro di spietato e tragico annientamento del barbaro; è un linguaggio incisivo, espressionistico, di efficace evidenza, che forse aderisce alla funzione di chiara leggibilità meglio del più raffinato stile traianeo. Per questi principî di ricerca espressiva, di simmetria, di frontalità, di prospettiva convenzionale, di proporzione gerarchica si può considerare questo fregio continuo come l'inizio della nuova visione artistica tardo-antica.
Nel fregio si distinguono varie mani di esecutori, ma il progetto creativo sembra doversi attribuire a un solo maestro per la sostanziale unità, per la sorvegliata distribuzione delle scene riportando quelle principali sul lato verso la via Flaminia considerato come la facciata del monumento, tenendo conto spesso dell'inserzione delle feritoie nella composizione, dando un unico tono al racconto.
Si è voluto vedere in un frammento proveniente da Montecitorio, ora al Museo Naz. Romano, con due figure di barbari, una parte del fregio sul basamento scalpellato dal Fontana, attribuzione che rimane incerta per qualche sconcordanza con le incisioni che abbiamo della scena, pur non potendo considerarle di assoluta e precisa fedeltà in tutti i particolari. Se si accetta l'attribuzione di questo frammento, dovremmo vedervi la mano di uno scultore diverso da quelli del fregio spiraliforme, con un modellato più morbido e classicheggiante, senza effetti di trapano, che sarebbe se mai da mettere in relazione con la più bassa ubicazione della scena e con la particolare importanza del soggetto, che riassumeva simbolicamente la vittoria sui barbari.
Bibl.: La prima riproduzione del fregio in incisioni è di G. P. Bellori e P. S. Bartoli, Columna Antoniniana Marci Aurelii Antonini Augusti... nunc primum a Petro Sancti Bartolo iuxta delineationes in Bibliotheca Barberina asservatas, a se cum antiquis ipsius columnae signis collatas, aere incisa et in lucem edita, cum notis excerptis ex declarationibus Io. Petri Bellori, Romae s. a., di cui una seconda edizione uscì nel 1704, sub Faustissimis Auspiciis Sanctis D. N. Papae Clementis XI. Nel Thesaurus del Grevius, IV, 1732, coll. 1937-1954, apparve di I. C. Castalio, De columna triumphali imp. Antonini commentarius. Due tavole dedicò alla colonna G. B. Piranesi, Trofeo o sia magnifica colonna coclide di marmo composta di grossi macigni ove si veggono scolpite le due geurre daciche fatte da Traiano..., Roma 1776, e incisioni furono pubblicate da D. Magnan, Calcografia della colonna Antonina divisa in CL tavole, ovvero la veduta, l'elevazione, lo spaccato ed i belli bassorilievi..., Roma 1779, e dallo stesso La città di Roma, II, 1779, Tavv. A-K, 1-149. La prima riproduzione fotografica con uno studio monografico fu quella di E. Petersen, A. v. Domaszewski, G. Calderini, Die Marcussäule auf Piazza Colonna in Rom, Monaco 1896. Fotografie eseguite dall'Istituto L. U. C. E. in occasione dei lavori di protezione antiaerea furono pubblicate in un fascicolo a cura della Direzione Gen. AA. BB. AA. da P. Romanelli, La colonna Antonina, Roma 1942, mentre quelle fatte dal fotografo M. V. Calderisi per conto del Museo della Civiltà Romana sono state ultimamente pubblicate con un commento architettonico, topografico, storico, antiquario e stilistico da G. Gatti, A. M. Colini, M. Pallottino, P. Romanelli, C. Caprino, La Colonna di Marco Aurelio illustrata a cura del Comune di Roma, Roma 1955; G. Becatti, Colonna di M. Aurelio, Milano 1957. Per la storia delle guerre in rapporto alla colonna si veda soprattutto W. Zwikker, studien zur Markussäule, I, Amsterdam 1941 e per lo studio della monetazione contemporanea C. H. Dodd, Chronology of the Danubian Wars of the Emperor Marcus Antoninus, in Numismatic Chronicle, IV, 1913, pp. 162-199, 276-321; J. Dobias, Le monnayage de l'empereur Marc-Aurel et le bas-relief historiques contemporaines, in Revue Numismatique, 1932, pp. 127-172, Tavv. V-VI. Per l'episodio della pioggia miracolosa A. v. Domaszewski, Das Regenwunder der Marc Aurel-Säule, in Rheinisches Museum für Philologie, n. f. XLIX, 1894, pp. 616-619; A. Harnack, Die Quelle der Berichte über das Regenwunder im Feldzuge Marc Aurel's gegen die Quaden, in Sitzungsberichte Preuss. Akad. Berlin, II, 1894, pp. 835-882; E. Petersen, Das Wunder an der Columna M. Aurelii, in Röm. Mitt., IX, 1894, pp. 78-89; Th. Mommsen, Das Regenwunder der Marcus-Säule, in Hermes, XXX, 1895, pp. 99-106; E. Petersen, Blitz und Regenwunder an der Marcus-Säule, in Rheinisches Museum für Philologie, n. f. L, 1895, pp. 453-474; J. Geffken, Das Regenwunder in Quaderlande, in Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, III, 1899, pp. 253-269; A. G. Roos, Het regenwonder of de zuil van Marcus Aurelius, in Mededeelingen der Nederlandsche Akademie van Wetenschappen, Amterdam 1943, p. 32, tav. 7; J. Guey, Encore la pluie miraculeuse, mage et dieu, in Revue de Philologie, XXII, 1948, pp. 16-62; id., La date de la pluie miraculeuse (172 après J. C.) et la colonne Aurélienne, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, LX, 1948, pp. 105-127; LXI, 1949, pp. 93-118. Per la cronologia delle guerre e la supposta presenza di Commodo sul fregio: J. Morris, The Dating of the Column of Marcus Aurelius, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XV, 1952, pp. 33-47. Una sintetica monografia storica è quella di F. Th. Carrata, Il regno di Marco Aurelio, Torino 1953. I tipi di capanne barbariche nel fregio sono stati studiati da R. Mielke, Die angeblich germanischen Rundbauten an der Marcussäule in Rom, in Zeitschrift für Ethnologie, XLVII, 1915, pp. 75-91; F. Drexel, Die germanischen Hütten auf der Marcussäule, in Germania, II, 1918, pp. 114-118; F. Behn, Die Markomannenhütten auf der Macussäule, in Germania, III, 1919, pp. 52-55, 83-84; F. Drexel, in Germania, III, 1919, pp. 55-56; R. Pagenstecher, Zu den Germanenhütten in der Macussäule, in Germania, III, 1919, pp. 56-57. Per la rappresentazione cartografica del paesaggio: A. Gnirs, Zum kartographischen Beiwerk in der Bilderchronik der Marcus-Säule, in Epitymbion für Swoboda, 1927, pp. 28-40.
Per lo studio stilistico del fregio oltre alle opere più generali sull'arte romana si vedano soprattutto: H. S. Jones, Notes on Roman Historical Sculptures, in Papers of British School at Rome, III, 1906, pp. 254 ss., che nega una fedeltà storica e cronologica ai rilievi; E. Strong, La scultura romana da Augusto a Costantino, Firenze 1926, pp. 263-278, che ammette ugualmente una debole connessione con gli avvenimenti storici; M. Wegner, Die kunstgeschichtliche Stellung der Marcussäule, in Jahrbuch, XLVI, 1931, pagine 61-174, fondamentale analisi stilistica della suddivisione e composizione delle scene, delle differenze di esecutori, del confronto con la colonna traiana; e dello stesso lo studio dei rilievi storici provenienti dai varî archi trionfali del regno di Marco Aurelio e di Commodo: Bemerkungen zu den Ehrendenkmälern des Marcus Aurelius, in Archaeologische Anzeiger, in Jahrbuch des Instituts, LIII, 1938, cc. 155-195; H. P. Hamberg, Studies in Roman Imperial Art, Upsala 1945, con ampio esame dei rilievi e della colonna.
Il problema della trasformazione stilistica nel periodo antoniniano è stato impostato da G. Rodenwaldt, Ueber den Stilwandel in der antoninischen Kunst, in Berlin, Abhandlungen, 1935, 3, Berlino 1935 e per la corrente artistica del tardo Impero si vedano dello stesso Zur Kunstgeschichte der Jahre 220 bis 270, in Jahrbuch, LI, 1936, pp. 82-113; id., Römische Reliefs, Vorstufen zur Spätantike, ibid., LV, 1940, pp. 12-43; M. Pallottino, L'orientamento stilistico della scultura Aureilana, Studi sull'arte romana, in Le Arti, I, 1938-39, pp. 32-36.
Per i ritratti di Marco Aurelio: M. Wegner, Die Herrscherbildnisse in Antoninischer Zeit, Berlino 1939.
(G. Becatti)
3. Colonna di Teodosio I. - Sorse nel Forum Tauri, costruito da Teodosio I nell'VIII regione di Costantinopoli, e fu votata nel 386 d. C. (Theophan., i, 70). Il Kollwitz pensa che sia stata compiuta e inaugurata nel 394, in base alla notizia del Chron. Pasch., 565 (P. G., xcii, 776 B) che più probabilmente riguarda la statua equestre di Teodosio I nello stesso Foro, e può darsi che la Colonna sia stata inaugurata invece nel 393 insieme a tutto il complesso del Forum Tauri (v. costantinopoli). La Notitia ricorda la Colonna nella VIII regione dicendola intrinsecus usque ad summitatem perviam, come nota anche Cedreno (i, 566 Bonn; P. G., cxxi, 616 B). La statua di Teodosio che sormontava la Colonna cadde per un terremoto nel 480 (Marcell. comes, P. G., li, 932 D), finché nel 506 l'imperatore Anastasio fece fondere molte statue costantiniane e modellare la propria che collocò sul fusto (Marcell. comes, P. G., li, 936 D; Theophan., i, 126), e che fu forse distrutta nel 512 con la damnatio memoriae che subì questo imperatore. La colonna fu demolita da Bayazit II nei primi anni del XVI sec. per far posto ai Bagni da lui costruiti nell'area del Forum Tauri, e che ancor oggi in parte sussistono; in questi Bagni sono stati ritrovati messi in opera alcuni frammenti del fusto con il fregio scolpito, oggi in parte al Museo Arch. di Istanbul, in parte ancora sul posto. La notizia della distruzione ad opera di Bayazit II fu raccolta dalla viva voce di vecchi del luogo da P. Gyllius.
Teodosio I, compatriota di Traiano, volle certamente imitare il caratteristico monumento celebrante il bellum Dacicum, così come aveva voluto creare con il Forum Tauri un contrapposto al Foro Traianeo di Roma; è probabile quindi che gli elementi struttivi della Colonna coclide istoriata richiamassero quelli della Colonna di Traiano, e poiché le fonti ci dicono che questa teodosiana era in tutto simile a quella di Arcadio, di cui abbiamo disegni, possiamo attribuire questi stessi elementi anche alla Colonna del Forum Tauri. Dal modello traianeo derivavano infatti il basamento ad ara con aquile angolari e festoni, la base a ghirlanda del fusto, il fregio spiraliforme, il capitello ad ovoli, che dobbiamo ricostruire anche in questa Colonna di Teodosio I. Costantino Rodio dice che il fregio raffigurava le guerre e i trionfi sugli Sciti e su altri barbari, come ci conferma Cedreno (i, 566 Bonn; P. G., cxxi, 616 B) e una tarda tradizione vedeva in questi rilievi descritta profeticamente la storia futura della città (Preger, ii, 176-177). È probabile che le scene si riferissero alle guerre combattute da Teodosio I contro i Grutungi o Ostrogoti, disfatti per opera soprattutto del valoroso magister militum per Thracias Promoto nel 386 lungo il basso Danubio, e per cui dopo la pace Teodosio I ritornò a Costantinopoli il 12 ottobre cum victoria et triumpho.
I frammenti superstiti mostrano combattimenti fra soldati con corazza anatomica, lancia, scudo, elmo; alcuni nemici sono a terra morti e feriti; altri soldati appaiono in marcia in più file e in un frammento rimane all'estremità sinistra parte di una torre rotonda; un altro frammento mostra una barca bassa e piccola con due soldati a bordo seduti di prospetto e conserva il nastro a rilievo che segnava il bordo della spirale, confermando l'attribuzione dei frammenti alla Colonna. Il modellato di questi frammenti è corporeo ma con superfici contenute, piuttosto unitario ma senza durezze; i volti sono di tipo giovanile classicheggiante; non ci sono giochi di trapano; le figure sono su piani diversi; lo stile è di grande chiarezza e di netto plasticismo e richiama il gusto della base dell'obelisco di Teodosio I nell'Ippodromo (v. costantinopoli), di qualità più fine e più morbida.
Il Menestrier pubblicò come appartenente alla Colonna di Teodosio I un grande disegno, lungo m 14,65 alto 0,43, conservato al Louvre, già nella Collezione Accard, di cui era stata fatta una copia a metà grandezza alla fine del sec. XVII dal Paillet, passata alla Biblioteca dell'École Nationale des Beaux Arts. Il Menestrier pubblicò in tavole questa copia che fu incisa da Girolamo Vallet iunior. È un disegno di un manierista del tardo '500 e riproduce la sezione di un fregio con una complessa scena di un trionfo, nel quale sfilano carri con famiglie di prigionieri, muli carichi di scudi e di lance, cammelli con il bottino, fra prigionieri a piedi e file di soldati che fiancheggiano le colonne di barbari e di prede di guerra; alla testa di ciascuna colonna avanzano ufficiali a cavallo in ricche armature, e i cavalli sono sontuosamente bardati con gualdrappe decorate. Il corteo si snoda dapprima dinanzi ad edifici monumentali con facciate ornate di nicchie con statue, di colonne e di arcate, poi lungo una strada fiancheggiata da alberi, su cui si assiepano cittadini, con qualche contadino e anche con una mandria di cavalli pascenti. Una colonna di capi barbari prigionieri seduti rigidamente sul dorso di dromedari, comandata da due ufficiali a cavallo, sta passando attraverso un arco isolato, e dopo le colonne di prigionieri, di soldati, di cavalieri avanzano in un abitato dove appaiono in un tratto, mura, edifici ad arcate e una doppia porta ad arco e, successivamente, fra quinte triangolari decorate con trofei di prigionieri. Una porta a doppio fornice attraverso cui passano i prigionieri si apre in vicinanza del mare che è rappresentato poi nell'ultimo tratto del disegno con una nave carica di soldati, che sfila parallelamente alla riva sulla quale avanzano i prigionieri.
Il Kollwitz e il Giglioli hanno invece riferito questo disegno alla Colonna di Arcadio, considerandolo parte della decorazione dal terzo al sesto giro e vedendovi concordanze precise con i disegni conservati di questa seconda Colonna di Costantinopoli, eretta dal figlio di Teodosio, che volle imitare il monumento del padre.
I frammenti superstiti non trovano una sicura corrispondenza con parti di questo disegno del Louvre, e dovremmo riferire allora quest'ultimo a un tratto del fregio diverso da quello dei frammenti. Il disegno manieristico passava un tempo come opera di Gentile Bellini senza alcun possibile riferimento stilistico diretto a questo maestro, con un'attribuzione suggerita unicamente dall'attività del Bellini alla corte di Maometto II. Frammenti e disegno ci attesterebbero allora un fregio composto di scene di guerra per terra e sull'acqua, non sappiamo se su un fiume o sul mare, e scene di un trionfo.
Bibl.: P. Gyllius, De topographia Constantinopoleos, Lione 1561, III, p. 6; C. F. Menestrier, Columna Theodosiana quam vulgo historiatam vocant ab Arcadio imepratore Constantinopoli erecta in honorem imperatoris Theodosii iunioris a Gentile Bellino delineata nunc primum aere sculpta et in XVIII tabulas distributa; ed. francese Parigi 1702; ed. italiana Venezia 1765; F. W. Unger, Über die vier Kolossalsäulen in Konstantinopel, in Rep., II, 1879, p. 118 ss.; E. Münz, La colonne théodosienne de Constantinople d'après les prétendus dessins de Gentile Bellini, in Rev. Étud. Grec., I, 1888, pp. 318-325; A. D. Mordtmann, Esquisse topographique de Constantinople, Lilla 1892, p. 69 ss.; Th. Reinach, in Rev. Étud. Grec., IX, 1896, p. 74 ss.; O. Wulff, in Byzant. Zeitschr., VII, 1898, p. 320; C. Gurlitt, Antike Denkmalsäulen in Konstantinopel, s. d.; A. M. Schneider, Byzanz, Berlino 1936, p. 85 ss.; J. Kollwitz, Oströmische Plastik der Theodosianischen Zeit, Berlino 1941, pp. 3-16; R. Janin, Constantinople byzantine, Parigi 1950, pp. 84-85; G. Q. Giglioli, La colonna di Arcadio a Costantinopoli, Napoli 1952, in Mem. Accad. Napoli, II.
(G. Becatti)
4. Colonna di Arcadio. - Fu eretta nel Foro di Arcadio in Costantinopoli (v.) nel 402 d. C. (Theophan., i, 77), ma la statua dell'imperatore fu collocata sul fusto dopo la sua morte e fu dedicata dal figlio Teodosio II il 10 luglio del 421 (Chron. Pasch., i, 579 Bonn; P. G., xcii, 796-797). Un terremoto fece cadere il 16 agosto 543 la mano destra della statua di Arcadio (Theophan., i, 222) e un fulmine danneggiò il capitello e la parte superiore del fusto della Colonna il 24 giugno del 550, come sappiamo da Teofane (loc. cit.), che ci informa anche sulla definitiva caduta della statua dell'imperatore in seguito al terremoto del 26 ottobre del 740 (1, 226). La Colonna si era fortemente lesionata lungo tutto il fusto con profonde fenditure, come testimoniano i disegni fatti nel XVI sec.; i viaggiatori ci informano dello stato di rovina in cui si trovava la Colonna con la scala interna rotta, e con cerchiature di ferro che erano state poste nella parte più bassa del fusto; la base era ormai in gran parte soffocata e nascosta dalle case turche che vi si erano addossate all'intorno e il sultano Ahmet I decise di abbattere tutto il fusto che minacciava di rovinare sul quartiere circostante, demolendolo nel 1717. Restò il solo basamento con alcune casette addossate, così come lo disegnò il pittore francese L. F. Cassas nel 1784, e rimane tuttora in situ tutto calcinato dagli incendî e con i rilievi delle facce ormai quasi del tutto scomparsi.
La Notitia dice la Colonna identica a quella di Teodosio I e con scala interna (columnam identidem intra se gradibus perviam), come ci conferma anche Costantino Rodio. P. Gyllius che la vide alla metà del sec. XVI ne descrisse accuratamente la struttura, dando le misure delle varie parti, ma limitandosi a dire che il fregio raffigurava scene di guerra. Il pittore olandese Melchior Lorichs disegnò la Colonna verso la metà del sec. XVI, ma abbiamo soltanto un disegno con gli ultimi due giri della spirale; la Colonna intiera, appare invece sia in un disegno della Bibliothèque Nationale di Parigi di un anonimo del sec. XVII per l'ambasciatore Nointel e in disegni che facevano parte della Collezione inglese Freshfield e che riproducono solo i tre lati E, S, O, sicché non conosciamo il lato N. Il Kollwitz e il Giglioli hanno voluto attribuire al fregio di questa Colonna di Arcadio il grande disegno lungo m 14,65 conservato al Louvre, che il Menestrier aveva pubblicato come appartenente a quella di Teodosio I (v. colonna di teodosio I) e che non sembra concordare con le scene note dai disegni sicuramente riferibili a questa Colonna di Arcadio.
Il basamento misura circa m 9 di altezza e m 6 di lato, il fusto si componeva di 21 rocchi di marmo e misurava m 35 circa di altezza, era sormontato da un capitello con echino a grandi ovoli, il cui abaco costituiva il ripiano della terrazza accessibile da una porta aperta sulla base superiore, coronata anch'essa da un capitello con echino decorato a scanalature, che sosteneva la statua dell'imperatore. La scala a chiocciola all'interno aveva 233 scalini, illuminata da feritoie. La Colonna come quella di Teodosio, che le fonti dicono identica, si ispirava al modello di quella di Traiano, ripetendo il motivo delle aquile angolari che reggono festoni sul coronamento del basamento, la ghirlanda che decora la base, il fregio spiraliforme del fusto, le scanalature al sommoscapo, il capitello, ma le proporzioni erano molto cambiate elevandosi maggiormente in altezza, aggiungendo un secondo capitello e riducendo invece a tredici giri la spirale. La porta di accesso alla scala interna si apriva sul lato N e nel basamento era ricavato un ingresso, il cui soffitto è decorato con un monogramma cristiano in bassorilievo; altri più semplici monogrammi decoravano anche i quattro angoli della faccia inferiore dei due capitelli, come mostrano i disegni Freshfield. Le tre facce E, S, O del basamento avevano una decorazione distribuita in tre registri sovrapposti, dove in alto dominava la glorificazione della nuova religione cristiana attraverso il monogramma entro una corona o una tabula retta da figure alate, e nei campi sottostanti appariva prima il gruppo dei due imperatori d'Oriente e d'Occidente, Arcadio e Onorio, in mezzo ai dignitari della corte e alle guardie del corpo, con simboli del potere e di vittoria, e sotto o l'omaggio di figure turrite, personificazioni di città e di province dell'Impero, o di barbari, mentre nel campo più basso si ammucchiavano i trofei, le armi e i prigionieri, in una vasta composizione allegorica e in un ordine gerarchico celebrante la maestà dell'Impero, la vittoria degli imperatori sempre trionfanti e della fede cristiana in un cosmico inquadramento fra i carri del Sole, secondo una concezione simbolistica del tardo Impero.
Il fregio del fusto illustrava invece la campagna contro il goto Gainas raffigurando l'abbandonò di Costantinopoli da parte delle truppe gote, la loro marcia attraverso la Tracia e gli scontri con le truppe imperiali per mare e per terra, concludentisi con l'apoteosi dell'imperatore, che appare in alto coronato dalla Vittoria fra i clamidati, i dignitarî e le guardie del corpo, come si ricava dall'esame dei disegni. Questi ci danno un ricordo un po' schematico delle scene attraverso la varia interpretazione stilistica dei diversi disegnatori, più ingenuo e rozzo quello della Collezione Freshfield, più fine quello della Bibliothèque Nationale di Parigi e molto manierato quello del Lorichs. Dal confronto tra queste varie redazioni grafiche è possibile peraltro ricostruire gli elementi essenziali del racconto e comprendere come l'artista aveva dato forma al fatto storico della lotta contro l'esercito goto di Gainas, che aveva occupato Costantinopoli creandovi un'atmosfera di incubo e di terrore e che fu costretto a fuggire in seguito a una sanguinosa rivolta popolare che portò all'annientamento di molti Goti, mentre il resto dell'esercito, fuggito con Gainas, fu prima sconfitto da quello imperiale e poi dalle truppe gote di Uldino, che uccise lo stesso Gainas mandandone la testa ad Arcadio, che la fece sfilare issata su una lancia per le vie della città nel gennaio del 401. Il fregio nei disegni conservati appare intessuto di scene vivaci, di marce con animali someggiati, carri e schiere di soldati guidati da ufficiali a cavallo, con un accampamento di tende in un paesaggio collinoso con greggi e pastori, a cui seguono complessi quadri di battaglie marittime con varî tipi di navi rostrate, a remi, a vela, e piccole imbarcazioni sempre in prossimità delle coste, e poi altre scene di scontri terrestri, in cui si riconoscono i motivi compositivi proprî della tradizione ellenistica e del rilievo storico romano con combattenti a piedi e a cavallo, caduti, feriti in un ricco insieme sintattico. Con la vivacità di questi quadri di battaglie contrastano invece la simmetria e la solenne stasi delle tre scene in cui compare il gruppo imperiale o dentro il ciborium ad arco, o dinanzi a uno sfondo architettonico di un palazzo con archi, dimostrando i varî accenti di questo linguaggio che sa trovare varî toni aderenti ai diversi soggetti. Ma dalla tradizione grafica superstite possiamo soltanto avere un'idea generale degli schemi compositivi e tematici e non abbiamo nessun elemento per giudicare del modellato e dello stile, non essendosi conservato alcun frammento originale del fregio tranne un pezzo ripescato nel mare e ora al museo di Istanbul con soldati in marcia, profondamente corroso, oltre all'inizio della spirale sulla base in situ, con figure troppo consunte e danneggiate per poter permetterne un adeguato apprezzamento stilistico. Notevole interesse ha il primo giro della spirale dove appare una veduta della città con edifici e statue, colonne e altri monumenti, e dove si è voluto vedere, poco verisimilmente, anche l'ippodromo, in base a una figura di Scilla che le fonti attestano esistente appunto in quell'edificio monumentale, centro della vita della città e di tanti avvenimenti. Non sembra infatti che lo sfondo con portico a colonne possa riferirsi a qualche parte dell'Ippodromo. Il tipo di rappresentazione dei varî edifici e monumenti richiama i mosaici topografici del tardo Impero, come ad esempio quello di Yakto da Antiochia.
Bibl.: P. Gyllius, De topographia Constantinopoleos, Lione 1561, IV, p. 7; A. D. Mordtmann, Esquisse topographique de Constantinople, Lilla 1892, p. 76; A. Michaelis, in Jahrbuch, VII, 1892, p. 91 disegno di M. Lorichs; J. Strzygowski, Die Säule des Arcadius, in Jahrbuch, VIII, 1893, p. 230; A. Geffroy, La colomne d'Arcadius à Constantinople, in Mon. Piot, II, 1895, p. 99 ss.; Th. Reinach, in Rev. Étud. Grec., IX, 1896, p. 78 ss.; C. Gurlitt, Antike Denkmalsäulen in Konstantinopel, s. d.; E. H. Freshfield, in Archaeologia, 2a ser., XXII, 1922, pp. 87-104, tavv. XV-XXXIII; A. M. Schneider, Byzanz, Istanbuler Forschungen, Berlino 1936, p. 79 ss.; J. Kollwitz, Die Arkadiussäule, in Ber. VI Arch. Kongress, Berlino 1940, pp. 594-596; id., Oströmische Plastik der Theodosianischen Zeit, Berlino 1941, pp. 17-68; R. Janin, Constantinople byzantine, Parigi 1950, p. 86 ss.; G. Q. Giglioli, La colonna di Arcadio a Costantinopoli, Napoli 1952, in Mem. Accad. di Napoli, II; id., La Scilla di bronzo e le altre statue della spina dell'ippodromo di Costantinopoli, in Arch. Class., VI, 1954, pp. 100-112.
(G. Becatti)
Colonne di Giove e dei Giganti (Juppiter-Gigantensäulen). - È un tipo particolare di monumento diffuso in tutta la valle del Reno e nel territorio dell'antica Gallia. È costituito da un parallelepipedo a sezione quadrata con rilievi sulle quattro facce - Giunone, Minerva, Ercole, Mercurio per lo più; ma anche, sporadicamente, Marte, Apollo, Vulcano, Fortuna, Venere, Diana, Silvano. Su questo zoccolo poggia spesso un secondo dado poliedrico con 6-7-8 facce più piccole e gli dèi della settimana (Sole, Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere e qualche altra divinità per completare il numero). Infine la colonna vera e propria, spesso squamata, talora con la raffigurazione di qualche divinità lungo il fusto; poi il capitello, di tipo ellenistico, spesso con quattro facce o busti sui quattro lati; e infine il gruppo plastico costituito da Giove a cavallo (raramente in piedi o seduto o in atto di salire sulla biga) in atto di colpire un gigante anguipede a terra sotto il cavallo. La dedica è costantemente I(ovi) O(ptimo) M(aximo); il paludamento del dio è però quello, per lo più, di un generale romano.
Nella loro varietà queste colonne sono abbastanza numerose; se ne conoscevano 268 nel 1910 (Hertlein-Hang), ma sono in continuo aumento (Heichelheim) per nuove scoperte. L'epoca va dal I sec. d. C. al IV, ma con un'apparente lacuna nel II sec.; la grande massa dei monumenti è da collocarsi nel III-IV sec. d. C.
Come primo esemplare di tutta la lunga serie è generalmente considerata la Colonna dedicata da Priscus e Auctus a Magonza nel 65 d. C., durante il regno di Nerone. Trattasi di una colonna con cinque tamburi ornati di figure a rilievo, con capitello, e la statua bronzea di Giove in piedi e senza gigante - statua ora perduta; con la grande serie delle colonne essa ha pertanto solo la concordanza della dedica a Giove. Il dio è invece, in seguito, rappresentato a cavallo in galoppo mentre colla sinistra (talvolta ornata di una ruota) tiene le redini, e colla destra alzata è in atto di scagliare il fulmine contro il gigante anguipede sotto la pancia del cavallo. La disposizione di questo gigante, nella grande varietà dei casi, è caratteristica; talora è un semplice e docile paredro del dio, talora è ostile e cerca di morderne i piedi; talora l'espressione del suo viso è amichevole, talora demonicamente nemica: sempre però, dal punto di vista strutturale, il gigante, qualunque sia la sua situazione psicologica, sostiene il cavallo e la biga del dio. Questa funzione tettonica del gigante rivela subito, dal punto di vista storico-artistico, l'origine del gruppo da modelli disegnativi. Solo in composizioni disegnate, e quindi in rilievi, si manifesta per necessità funzionale la convenzionale relazione del vincitore che sta "sopra" (per il fatto materiale che è il vincitore) e del vinto che sta sotto per analoga contraria ragione. Nella traduzione poi a tutto tondo di questo motivo succede che il vinto sottostante è il sostegno naturale del vincitore (come la Chimera, in una notissima terracotta arcaica greca, sostiene Pegaso e Bellerofonte che la colpisce (Jacobstahl, n. 19-20); onde in un'arte senza tradizione e senza leggi mitiche come l'arte provinciale dell'Impero romano, gli artefici possono apparire perplessi quando si tratti di stabilire le relazioni psicologiche tra le due figure, se amiche o nemiche.
Varie e controverse sono l'esegesi e la valutazione artistica del gruppo.
Anzitutto il gruppo sembra necessariamente collegato col celtismo. A parte il fatto che talvolta Giove porta la ruota (Taranis-Giove celtico), noi riscontriamo infatti l'esistenza di gruppi simili nella tarda epoca ellenistica, sempre coll'evidente equivalenza dei Giganti coi Celti, e nelle urne etrusche e nei famosi rilievi attalici dell'Asia Minore. Il dio vuol simboleggiare la superiorità, italica, greca e attalica, sul barbaro invasore; il quale cede non per viltà o mancanza di mezzi, ma perché il suo grado di civiltà e di cultura è troppo inferiore a quello delle popolazioni invase. A ogni modo, tanto nell'arte etrusca come nella greca e nella attalica gli artisti ellenistici, gia essi per primi, non hanno infierito colla loro perfezionata tecnica, a far convergere sul barbaro o sul gigante, vinti, il disprezzo o l'odio del vincitore: già nell'arte ellenistica compaiono giganti buoni e giganti cattivi, Celti buoni e infelici accanto a Celti rabbiosamente ostili. Quest'alternativa era già insita forse nei canoni così complicati di quell'epoca; o fors'anco gli stessi Etruschi, gli stessi Greci e gli stessi Attalici sentivano l'imminente e inevitabile consolidamento del dominio armato romano su tutto il Mediterraneo e assimilavano la loro sorte futura a quella già in atto dei Celti e dei giganti, nel loro cieco e inutile valore di fronte all'ineluttabile destino. Le esegesi presentate dal 1890 in poi sono molte. Anzitutto abbiamo una interpretazione puramente storica (Giove = imperatore romano: Haug, Zangemeister); una germanica (colonna di Irmin: Hertlein); una celtica (Dragendorff); una celtico-germanica (Drexel e poi Heichelheim, che la trasporta nella protostoria); una sismica (Quilling); una magica (Reinach).
Comunque si voglia pensare, noi dobbiamo limitarci a mettere in evidenza due coefficienti costanti del fenomeno: il coefficiente etnografico celtico (dio tendenzialmente celtico; gigante che simboleggia un eroe soccombente; le tre zone dove si manifestano monumenti simili hanno infatti visto contatti tra greco-italici vincitori da un lato e celti vinti dall'altro: quindi il monumento scaturisce dal contatto dei celti "barbari" con popoli che si ritengono non barbari), e il coefficiente artistico dei "motivi migranti". Infatti nella valle del Reno abbiamo una lacuna di un secolo almeno tra la colonna di Magonza e la fioritura del gruppo; fenomeno che sarebbe difficilmente spiegabile, se non si pensasse che solo alla fine del II e nel III e IV sec. si stabiliscono per ovvie ragioni strategiche le linee di movimento trasversale dalla Gallia all'Asia, all'infuori della penisola italiana, sicché i motivi già creati nel prossimo Oriente ellenistico hanno potuto emigrare sui cartoni e i repertorî fino nella Gallia, lasciando qua e là nella penisola Illirica e nelle regioni scitiche, tracce del loro passaggio.
Dal punto di vista formale i gruppi di Giove e gigante presentano le caratteristiche dell'arte provinciale della Gallia; una certa pesantezza e consistenza volumetrica, una ricerca della espressività dei visi che devono esprimere un ethos quale che sia; una indifferenza già "medievale" per le proporzioni dei corpi e delle loro parti; la scissione ormai definitiva tra corpo e vestito.
Bibl.: Esperandieu, Recueil des bas-reliefs de la Gaule Romaine; Hertlein, Die Juppitergigantensäulen, 1910; S. Ferri, Arte romana sul Reno, 1931, pp. 79, 157, 216; Haug, in Pauly-Wissowa, Suppl. IV, 1924, c. 689 ss., s. v. Gigantensäulen; Heichelheim, in Pauly-Wissowa, Suppl. VII, 1950, c. 220 ss.
(S. Ferri)