Colore
Prima ancora della nascita ufficiale del cinema, fin dalle primissime pellicole di Thomas A. Edison destinate ai cinetoscopi, si delineò l'esigenza di colorare l'immagine fotografica in bianco e nero: la Serpentine dance (citata da Marco Ferreri nel suo Nitrato d'argento, 1996), con i suoi veli in movimento cangianti dal giallo al verde al violetto, risale al 1894. Georges Méliès prevedeva il c. fin dall'inizio della lavorazione dei suoi film, da Cendrillon (1899) a La conquête du Pole (1912), e si serviva di un'intera squadra di artigiane che coloravano a mano, con minuscoli pennelli, la pellicola positiva fotogramma per fotogramma. Più tardi Eric von Stroheim arrivò alla colorazione di un singolo elemento nel fotogramma in bianco e nero: in Greed (1924; Rapacità) volle il letto matrimoniale e la gabbia degli uccelli dipinti d'oro, essendo l'oro il tema centrale del film; e Sergej M. Ejzenštejn fece colorare di rosso la bandiera vittoriosa che sventola sulla Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin). I viraggi e le tinteggiature per imbibizione vennero presto in uso, almeno per le copie destinate alle sale di prestigio, creando immediatamente una convenzione: in giallo erano virate le sequenze diurne, in azzurro quelle notturne, in verde le scene di campagna, in rosso la passione e il pericolo. Il cinema italiano ottenne significativi risultati combinando viraggio e tinteggiatura (per es. in Fabiola, 1918, di Enrico Guazzoni); e creò l'uso di colorare in rosa, rosso, arancione i primi piani delle dive, da Lyda Borelli a Francesca Bertini a Pina Menichelli. Gli anni Dieci furono un continuo susseguirsi di invenzioni e brevetti di colorazione, dai francesi Mélachronoscope e Gaumontcolor all'inglese Kinemacolor; e nel 1915 nacque negli Stati Uniti il Technicolor in bicromia, all'inizio quasi fallimentare, brevettato da Herbert Kalmus, la cui moglie Nathalie divenne poi l'esperta consulente ufficiale di tutte le produzioni che si servirono di questo procedimento. Il Technicolor in tricromia fu lanciato nel 1932 con il cartone animato Flow-ers and trees, che inaugurava la serie delle Silly Sympho-nies di Walt Disney; e venne usato nel lungometraggio tre anni più tardi in Becky Sharp di Ruben Mamoulian (fotografia [poi sempre fot.] Ray Rennahan, art director [poi sempre a.d.] Robert E. Jones).
Che questo film, prodotto dall'indipendente Pioneer, abbia segnato l'entrata ufficiale del colore nel cinema è dovuto non tanto a un fattore tecnico quanto a un fatto espressivo: Mamoulian, grande scenografo e regista teatrale, aveva sufficiente consapevolezza da porsi il problema del colore in senso artistico e lo risolse in modo magistrale (come aveva superato il problema della staticità imposta dal primo sonoro in Dr. Jekyll and Mr. Hyde, 1932, Il dottor Jekyll), ponendo intanto quelle che erano le basi teoriche dell'uso del colore come elemento testuale e portatore di emozione.Anche per Ejzenštejn il c. è portatore di valori drammaturgici, e "senza una concezione drammatica non può esistere [...] nessuna ragionevole opera cinematografica a colori". Oltre che di "respingere senza pietà il variopinto", si tratta dunque di staccare, o dissociare, il c. dai soggetti cui è di norma associato, rendendolo libero e disponibile a una nuova visione (e contro il c. "naturale" e le trappole del naturalismo Ejzenštejn, oltre a fare riferimento ad altri pittori come V.V. Kandinskij e G.-P. Seurat, cita una frase di V. Van Gogh: "Je m'en suis foutu de la vérité!"); e di arrivare così a una vera e propria drammaturgia del c.: il quale, inteso come costante sottotesto, deve esprimere i valori emozionali delle scene e le reazioni mentali e psicologiche dei protagonisti. Non solo: "L'attivo flusso delle immagini-colore deve slanciarsi […] con la stessa ricchezza di risonanze con cui il flusso sonoro dell'orchestra penetra e costruisce l'andamento e il movimento emozionale del soggetto" (Izbrannye proizvedenija v šesti tomach, 1963-1970, 3° vol.; trad. it. Il colore, a cura di P. Montani, 1982, p. 34 e passim). Dei problemi teorici del c. Ejzenštejn scriveva fra il 1941 e il 1948, ossia prima e dopo la realizzazione di Ivan Groznyj, la cui prima parte venne presentata al pubblico nel 1945 (Ivan il terribile), mentre la seconda, terminata nel 1946, ma uscita solo nel 1958 (La congiura dei boiardi) contiene le uniche sequenze a c. che egli poté realizzare ‒ e che, con la continua metamorfosi della serie rosso-nero-oro-azzurro e il progressivo dilagare del nero man mano che ci si avvicina alla tragedia, rimangono un testo-base del cinema a colori. La fortuna di Mamoulian fu quella di teorizzare a posteriori, finita la realizzazione del suo film, prima nell'articolo Some problems in the direction of color pictures (in "International photographer", July 1935; trad. it. in Il colore nel cinema, 1952, pp. 93 e segg.), e poi in uno del 1956: ovvero di spiegare cosa aveva fatto in Becky Sharp (e poi in Blood and sand, 1941, Sangue e arena, ispirato, secondo il regista, alle immagini di Velázquez, Murillo, El Greco). Anche se i suoi riferimenti epliciti sono non alla musica e insieme alla pittura, come per Ejzenštejn, ma alla sola pittura (e sottolineano comunque la centralità del movimento, sul cui valore insiste anche un teorico puro come Béla Balázs), Mamoulian si pronuncia con pari forza per il valore emozionale del c. e contro l'oggettualità dello stesso. Convinto del suo valore psicologico e drammatico, egli parla della necessità di preparare "una completa sceneggiatura del colore", ovvero un "piano cromatico [...] controllato dall'unico punto di vista del regista" (dunque direttore della fotografia, scenografo e costumista dipendono da lui, e "ognuno di loro deve sapere quello che sta facendo l'altro": precetto che nello studio system divenne normativo). Nello stesso testo Mamoulian si spinge a raccomandare "l'uso del pennello o di spruzzi di vari colori" sulla scenografia finita e persino sugli esterni, perché "anche la natura, quando diventa parte di una creazione artistica, deve essere modificata e resa unica dall'artista", deve rispecchiare un punto di vista. "Lo stile è l'opera d'arte", dice, e "lo stile vero è il risultato inconscio delle più profonde convinzioni e della qualità di un artista". Similmente Ejzenštejn, al di là di ogni possibile teoria, riconosce le "spinte profonde, ingovernabili, che orientano l'attività creativa" (P. Montani, prefazione a Il colore, 1982, p. XVIII).
L'ingovernabilità dell'inconscio finisce, più in generale, per coincidere con un'altra fondamentale 'impossibilità', quella dell'associazione precisa e costante fra un dato c. e una data emozione: se infatti il rosso, c. del sangue, evoca di norma la passione e la violenza prestandosi poi a mille variazioni e creando stimoli diversi, è noto che il giallo può evocare tanto il sole, la prosperità, la gioia quanto la perfidia, il peccato, il tradimento, e il verde, che per cristiani e musulmani è vita, primavera, speranza, indica nel teatro greco e in quello giapponese la disperazione. Tutto rimanda dunque alle tonalità delle tinte (al tono, come in musica), su queste giocando un ruolo fondamentale la luce, e alla loro di-sposizione e movimento. In Becky Sharp la celebre sequenza del ballo che precede la battaglia di Waterloo deriva la sua efficacia drammatica dal fatto che i c. (le toilette chiare delle signore in fuga, poi un gruppo di ufficiali in azzurro, quindi i dragoni inglesi dai mantelli rosso granata) attraversano lo schermo a più riprese e in varie direzioni quasi come in un gioco coreografico, in un continuo alternarsi e variare di luci, usate per la prima volta anche in senso correttivo.
Il 1936 è l'anno che vide l'uscita di un film in Technicolor che non solo non è in costume, genere cardine del colore, ma si pone agli antipodi nel modo d'intenderne l'uso: The trail of the lonesome pine (Il sentiero del pino solitario) diretto da Henry Hathaway, prodotto dalla Paramount e girato in esterni (mentre quello di Mamoulian era stato tutto realizzato rigorosamente in studio in modo da avere condizioni predeterminabili di luce e un clima stilistico unitario), campione di un c. 'naturale' anche in questo caso teorizzato dal regista che sosteneva di aver cercato di girare un dramma attenendosi al vero e quindi lasciando emergere i colori naturali delle cose. Il film venne ritenuto una cospicua collezione di cartoline illustrate del Kentucky ma negli intenti di Hathaway vi era tuttavia un principio importante, secondo il quale il regista deve rigorosamente dimenticare che la produzione è a colori: e sulla strada di questa normalizzazione arrivarono nel 1937 due film in Technicolor di William Wellman prodotti da David O. Selznick, entrambi di ambiente contemporaneo, A star is born (È nata una stella) e Nothing sacred (Nulla sul serio), nei cui aspetti formali non si evidenzia una particolare ricerca di espressività del colore. Nothing sacred, oltre a essere la prima commedia in Technicolor, segna l'entrata nel colore di una diva di grande successo popolare, Carole Lombard (mentre Marlene Dietrich l'aveva accettato in un momento di scarso potere contrattuale: The garden of Allah, 1936, Anime del deserto, noto anche come Il giardino di Allah, di Richard Boleslawski): dei risultati della novità sul fulgore del loro incarnato ‒ cui invece donava moltissimo il bianco e nero ‒ continuarono a lungo a non fidarsi né Greta Garbo né Katharine Hepburn né Joan Crawford, e se nel decennio successivo le dive più popolari sono 'colorate' (come i divi comici Bob Hope e Danny Kaye) siamo comunque lontanissimi dall'importanza formale che può assumere il maquillage come elemento di colore nel cinema contemporaneo, dove una palpebra ombreggiata di verde può distendersi in primissimo piano su metri e metri di schermo.
Sempre alla fine degli anni Trenta vi fu la consacrazione al c. della fiaba e dell'avventura, due generi per i quali sarà poi difficile rinunciarvi. In The wizard of Oz (1939; Il mago di Oz) di Victor Fleming (fot. Harold Rosson, a.d. Cedric Gibbons, William A. Horning) il c. caldo e smagliante, omogeneamente disteso sulle superfici della scenografia, serve alla costruzione del meraviglioso secondo le illustrazioni infantili, ed è elemento narrativo (le scarpette rosse talismano di Dorothy) e psicologico (l'azzurro della fata, il terribile viola cupo della veste e il ghigno verde della strega); in The adventures of Robin Hood (1938; La leggenda di Robin Hood) di Michael Curtiz e William Keighley (fot. Tony Gaudio, Sol Polito, a.d. Carl Jules Weyl) il Technicolor è al limite del 'variopinto' ma con un gusto e una festosità perfettamente in carattere con il film. Ambedue questi titoli rappresentano una svolta in senso tecnico: rispetto alla gamma ancora limitata di Becky Sharp e dei film di Wellman (giudicando dalle copie ristampate negli ultimi vent'anni) il miglioramento è grandissimo, i colori ci sono tutti e sono più caldi, più brillanti, perdono ogni traccia di acidità. Si arriva così, al di là delle finalità espressive, all'innegabile piacere del colore.Il trionfo di Gone with the wind (1939; Via col vento) di V. Fleming (fot. Ernest Haller, Ray Rennahan, Wilfrid Kline, a.d. William Cameron Menzies) è anche un trionfo del cromatismo. Il c. racconta il personaggio e la sua evoluzione (Scarlett è vestita di un bianco ancora fanciullesco all'inizio, poi via via arriva al nero del lutto fra i c. del ballo, al verde cupo nel momento della miseria, al più prezioso e fatale scarlatto nella resa a Rhett), lo contestualizza (il cielo sanguigno dopo la battaglia di Atlanta, il tramonto purpureo durante il giuramento), richiama altri momenti della vicenda (lo scalone lungo cui precipita Scarlett è dello stesso scarlatto dell'abito appena citato: un costume-colore che è poi tornato a glorificare Nastassia Kinski in Tess, 1979, di Roman Polanski, Julia Roberts in Pretty woman, 1990, Pretty woman ‒ Una ragazza deliziosa, di Garry Marshall, e Michelle Pfeiffer in The age of innocence, 1993, L'età dell'innocenza, di Martin Scorsese). Il Technicolor stava intanto raggiungendo un altissimo livello tecnico anche in Inghilterra. In particolare alla London Films di Alexander Korda venne usato con gusto sontuoso in The four feathers (1939; Le quattro piume) di Zoltan Korda (fot. Georges Périnal, Osmond Borradaile, Jack Cardiff, a.d. Vincent Korda); e in The thief of Bagdad (1940; Il ladro di Bagdad) di Ludwig Berger, Michael Powell, Tim Whelan (fot. G. Périnal, O. Borradaile, a.d. V. Korda) dove, insieme ai sorprendenti effetti speciali, la magia è strettamente legata al c. (il bianco cavallo alato che spicca il volo tra cupolette d'oro nel cielo azzurro, la dea dalle molte braccia che trascolora nell'ombra). Così non è sorprendente che proprio il cinema inglese arrivi tra guerra e dopoguerra a grandi esiti formali. In Henry V (1945; Enrico V; fot. Robert Krasker, a.d. Paul Sheriff) Laurence Olivier scelse la strada di una stilizzazione in cui il c. è parte ineliminabile: nelle scene alla corte di Francia con gli ambienti, rosa giallo ocra avorio in prospettive sbagliate e senza ombre, ispirati ai codici miniati e alla pittura di J. Van Eyck; nel rischioso passaggio agli esterni della battaglia di Azincourt, esterni realistici ritoccati e truccati dove il cielo e le molte gradazioni di verde dei campi e degli alberi richiamano i toni irreali di fondali scenografici; e in senso puramente drammatico nella notte che precede la battaglia, quando il re monologante avvolto in un mantello scuro si aggira per l'accampamento e l'unica nota chiara del quadro è il suo pallore: apparenza oggettiva di un elemento interno che è uno dei culmini an-che di Black Narcissus (1947; Narciso nero) di M. Powell ed Emeric Pressburger (fot. Jack Cardiff, a.d. Alfred Junge), quando in un'elettrica notte nera e blu la faccia di sorella Ruth, che ha deciso di lasciare il convento, appare improvvisamente scoperta e con le labbra tinte di rosso. Questa scena è preceduta da un'apparizione dello stesso personaggio in una luce d'interno che riflette fra le ombre delle pareti e delle grate un tramonto rosa arancio e rosso, specchio della sua passione; e non è che uno dei punti d'arrivo di un film i cui due schemi di c., bianco-turchino-rosso, rosa-arancio-blu-nero, sono insieme bellezza figurativa, atmosfera e azione drammatica. Black Narcissus è uno dei trionfi di J. Cardiff, eccelso direttore della fotografia che amava cogliere le forme-colore nella luce-ombra della tradizione di Tiziano e Rembrandt. Impossibile non citare la sequenza del lungo colloquio notturno fra Ava Gardner e Humphrey Bogart in The barefoot contessa (1954; La contessa scalza) di Joseph L. Mankiewicz, che Cardiff risolve in un continuum di appassionati ritratti dell'attrice, mossa e studiata in diverse situazioni di luce-colore. C'è in queste esperienze, soprattutto, il definitivo superamento di un limite, quello dell'appiattimento dell'immagine nella pura ricerca cromatica senza chiaroscuri, senza profondità.
Legato alle regole del realismo ancora meno dell'avventura (genere che offrì grandi risultati fino agli anni Cinquanta), e grazie alla possibilità di lanciarsi nel regno dell'astratto con i numeri coreografici, il musical degli anni Quaranta è visione cromatica, c. che trasmette pure sensazioni fisiche, fremiti e piaceri visivi che s'imprimono nella retina. Nella produzione vi era da una parte una corsa sfrenata alla decorazione in sé, ma spesso una libertà fantastica e una felicità di variazioni e soluzioni visive attraverso il c. (che è qui in modo particolare colore-movimento) da fare del musical un genere privilegiato. Nel 1943, in The gang's all here (Banana split) di Busby Berkeley, appare sulla testa di una minuscola Carmen Miranda in campo lungo un delirante casco di banane, smisurato cono dipinto in giallo e nero che si allarga oltre il limite dello schermo contro due spicchi di cielo, ai lati due filari di enormi fragoloni rossi arabescati di verde: la primitiva e forse più geniale immagine di una pop art ancora in fieri, dove Berkeley dà forma grafica al c. come aveva fatto con il bianco e nero; e immagine limite del Technicolor dovizioso e brillante usato nei musical 20th Century-Fox che, insieme a quello della Disney, trovava Ejzenštejn fra i suoi più caldi estimatori. Alla Metro Goldwyn Mayer, dove tutti i musical più belli nacquero nell'unità di produzione di Arthur Freed (scenografi Jack Martin Smith e Preston Ames), ebbero modo di convivere due stili molto diversi. Quello rappresentato da Vincente Minnelli, levigato, lussuoso ma anche spericolato particolarmente nella predilezione di una gamma cromatica ricchissima e ipnotica, tendente comunque alla fascinazione dello spettatore e sempre fortemente espressiva: un crescendo di sogni e derive psicoanalitiche (in questo campo va almeno ricordato Lady in the dark, 1944, Le schiave della città, di Mitchell Leisen, affascinante tentativo di evocare i colori del sogno). Da Meet me in St. Louis (1944; Incontriamoci a Saint Louis), con i neri, i verdi e le luci lontane di una notte di Halloween da incubo infantile, si passa all'incanto dei rossi che danzano fra le ombre, perfetti e quasi allarmanti, in uno dei numeri indimenticabili di Fred Astaire (Limehouse blues in Ziegfeld follies, 1945); ai fumoni vermigli e viola della féerie caribica The pirate (1948; Il pirata); per approdare in An American in Paris (1951; Un americano a Parigi) a tutti i piaceri del c. degli impressionisti (con un momento in 'giallo Van Gogh' che anticipa il film sul pittore, Lust for life, 1956, Brama di vivere); alla féerie scozzese Brigadoon (1954), in cui le combinazioni di colore dei kilt e dei tartan si muovono e corrono tra distese violette di erica in una natura da utopia scenografica; al soggiorno in rosso ciliegia, fatto per scaldare i sensi dell'uomo più blasé, dove riceve la giovanissima vergine Gigi (1958; fot. Joseph Ruttemberg, a.d. Cecil Beaton). L'altra tendenza MGM è quella rappresentata dal duo Stanley Donen-Gene Kelly, dal dinamismo più diretto e jazzy (le corse e le danze dei bianchi e dei c. primari in On the town, 1949, Un giorno a New York; fot. Harold Rosson), all'insegna di un ritmo scatenato che diventa languido in una memorabile creazione a vista della luce-colore del set, con la progressiva accensione dei riflettori, l'azzurro pallido, il giallo, il violetto, un po' di rosa (You were meant for me, in Singin' in the rain, 1952, Cantando sotto la pioggia; fot. Harold Rosson, a.d. Randall Duell, Cedric Gibbons). Alla Paramount un altro musical di Donen, Funny face (1957; Cenerentola a Parigi; fot. Ray June, a.d. Hal Pereira), ispirato all'attività del fotografo di moda Richard Avedon, vede la trasformazione della protagonista da cenerentola in tweed grigio-marrone-nero a cover girl in chiffon rosso su scalone bianco; e contiene un numero-manifesto sulla necessità elementare e assoluta di c., Think pink!.
Nello stesso periodo, dopo A song is born (1948; Venere e il professore), Howard Hawks tornò al colore per un musical, e abbandonò per sempre il bianco e nero: Gentlemen prefer blondes (1953; Gli uomini preferiscono le bionde; fot. Harry J. Wild, a.d. Lyle Wheeler, Joseph C. Wright) è un tripudio del Technicolor Fox reso elegante e lineare anche nell'affollamento dello schermo; e almeno in un numero di Marilyn Monroe, il celebre Diamonds are a girl's best friends, vince la sfida degli accostamenti più audaci (il movimento dirompente del costume fucsia sull'arancione del fondale) e più nell'aria del tempo: come a proclamare che la classicità non ha niente a che vedere con la severità. Lo stesso anno, in Niagara (un noir ancora della Fox, lo studio da cui era uscito il primo mélo-noir a colori, Leave her to heaven, 1946, Femmina folle, diretto da John M. Stahl), Marilyn Monroe fugge dal marito assassino su per l'oscurità di una scala senza fine in una spettacolosa sequenza in nero giallo e rosso (che al di là dei richiami simbolici si fanno pulsazione, ritmo) in equilibrio fra realismo e espressionismo. L'autore è il primo sostenitore ufficiale del colore naturale, Henry Hathaway. Intanto il c. si stava imponendo su scala sempre più larga, e negli esterni il cinema degli anni Cinquanta trovò una delle sue maggiori attrattive spettacolari. Fu il momento di massimo splendore del western, che con l'aiuto del c. si aprì sui grandi paesaggi, su un territorio che sembrava ancora vergine, trasmettendone il senso di scoperta, l'asprezza e la meraviglia: gli spazi sconfinati, le sabbie, le rocce rosse, i picchi nevosi, i boschi, i fiumi, i cieli in movimento o di un azzurro da deserto sono elementi narrativi quanto i conflitti fra gli uomini nei film di Anthony Mann, da Bend of the river (1952; Là dove scende il fiume) a The naked spur (1953; Lo sperone nudo) a The man from Laramie (1955; L'uomo di Laramie); così come il verde delle immense praterie e le distese di neve di The last hunt (1956; L'ultima caccia) di Richard Brooks, le terre gialle e polverose di The tall men (1955; Gli implacabili) di Raoul Walsh, le rocce rosa rosse e ruggine della Monument Valley a cui John Ford ritorna per The searchers (1956; Sentieri selvaggi). Cominciò a cedere al c. il genere più legato alla sua matrice documentaria in bianco e nero, il film di guerra (per es., in due film di Walsh, Battle cry, 1955, Prima dell'uragano, e The naked and the dead, 1958, Il nudo e il morto); la Fox impose il suo c. De Luxe e il cinemascope in alcuni noir e thriller (per es., con notevoli risultati cromatici e d'atmosfera, in 23 paces to Baker Street, 1956, 23 passi dal delitto, di H. Hathaway). Si convertirono anche i generi che sembravano più refrattari in quanto in larga misura non realistici, o bisognosi di una forte stilizzazione dentro il quadro realistico: il mélo, nel quale Douglas Sirk riuscì a trovare l'equilibrio fra credibilità e artificio usando un c. morbido ed evocativo (Magnificent obsession, 1954, Magnifica ossessione) o più decisamente espressionista (Written on the wind, 1956, Come le foglie al vento); e infine, dopo il definitivo cedimento, senza particolari problemi di linguaggio, del film comico (non a caso per una storia ispirata al mondo dei fumetti, Artists and models, 1955, Artisti e modelle di Frank Tashlin), si arrese la commedia, per la quale il colore, con la sua possibilità di assecondare il naturalismo già presente in diverse messe in scena del dopoguerra, rappresentava un'arma pericolosa, ma che nel trattamento classico, né naturalistico né antirealistico, di alcuni maestri, Billy Wilder per The seven year itch (1955; Quando la moglie è in vacanza), e più tardi Howard Hawks per Man's favorite sport (1964; Lo sport preferito dall'uomo), aggiunge piacere al piacere e forza alle situazioni. Questa grande lezione di classicità, che lo stesso Wilder rinnovò con un traboccare di tinte vivaci in Irma la Douce (1963; Irma la dolce), e poi con i chiaroscuri caldi e ingannevoli della sua versione di The front page (1974; Prima pagina), venne ripresa da Blake Edwards, i cui film passano dal colore smagliante e morbido di Breakfast at Tiffany's (1961; Colazione da Tiffany) agli incanti cromatici della scenografica Parigi anni Trenta di Victor/Victoria (1982; Victor Victoria). Ma parlando di generi bisogna ricordare che la particolare qualità fotografica e gli impasti cromatici dipendono in buona parte dagli studios che li produssero, e dal diverso modo di intervenire sui negativi e di stampare: per quanto riguarda in particolare il tono cromatico, si possono trovare più punti di contatto fra un western e un mélo della Universal che fra un western della Columbia e uno della Fox. L'uso espressivo del colore torna così a dipendere dai singoli autori.
Per un realista come John Ford il c. diventa, quando lo sceglie, essenziale: per l'osservazione della natura e insieme per la rappresentazione delle emozioni. Vanno ricordati almeno due momenti di She wore a Yellow Ribbon (1949; I cavalieri del Nord-Ovest), il cielo grigio e viola gonfio di temporale (girato dal vero) che minaccia i carri in viaggio, e la visita del protagonista alla tomba della moglie teneramente amata in una sera (ricreata in studio) ancora palpitante di rosso; e The quiet man (1952; Un uomo tranquillo), racconto immerso nel verde di una natura idillica che si trasforma in vento notturno e luce di fuoco al divampare di una fulgida passione amorosa. Qualcosa di molto simile fa Elia Kazan in East of Eden (1955; La valle dell'Eden), dove a uno splendido quadro dal vero dei campi di raccolta, un immenso e smagliante verde tenero in cui il protagonista trova gli unici momenti di requie, alterna i c. e i tagli di luce espressionisti di altri momenti, come la visita allucinata al bordello della madre.Nel cinema di Alfred Hitchcock il c. è tempo, durata (il lento trascolorare della sera in Rope, 1948, Nodo alla gola o Cocktail per un cadavere, e delle diverse sere in Rear window, 1954, La finestra sul cortile), natura ironicamente bella e impassibile (l'autunno rosso e dorato di The trouble with Harry, 1955, La congiura degli innocenti), ossessione e mistero (i capelli biondi e poi bruni, il tailleur grigio e il vestito verde di Madeleine-Judy, il rubino del ritratto, i fiori nell'acqua, il bianco accecante del convento di Vertigo, 1958, La donna che visse due volte). Un ruolo fondamentale, narrativo prima che di suggestione e d'atmosfera, ha nei film a c. di George Cukor la luce: basti citare, in A star is born (1954; È nata una stella), la sequenza in cui Norman Maine si inoltra nel buio del locale in fondo al quale brilla il palco su cui Esther sta cantando The man that got away, e la macchina da presa si avvicina lentamente a quel punto caldo; e, in Bhowani junction (1956; Sangue misto), il momento del drammatico confronto amoroso in cui la tormentata protagonista (ancora Ava Gardner, la cui bellezza evidentemente era d'ispirazione) svela e nega la sua passione in un vorticoso gioco di lampi nel buio di un treno in corsa, esattamente come in un film in bianco e nero. Va citato, fra le esperienze degli anni Cinquanta, lo splendido insieme cromatico dei film diretti da Richard Brooks, da The last time I saw Paris (1954; L'ultima volta che vidi Parigi) a Cat on a hot tin roof (1958; La gatta sul tetto che scotta) e Sweet bird of youth (1962; La dolce ala della giovinezza), dove la definizione quasi tridimensionale dell'immagine dà luogo a un non comune risalto dei personaggi e a un'autentica vibrazione delle notti. Nel cinema di John Huston l'impasto di colore si adatta ogni volta in modo nuovo alle esigenze del genere e del racconto: realistico, con appena il tocco della nostalgia, in The African queen (1951; La regina d'Africa); perfettamente impressionista in Moulin Rouge (1953); inciso dalla severa luce settentrionale come in antichi inchiostri colorati, ruggine neri ferrigni e blu oltremare, in Moby Dick (1956; Moby Dick, la balena bianca). Questa perfetta sintonia fra racconto e colore (va citata l'irreperibile copia 'dorata' di Reflections in a golden eye, 1967, Riflessi in un occhio d'oro; fot. Aldo Tonti) Huston l'ha conservata fino alla fine gloriosa della sua carriera: per il Messico tragico e incandescente di Under the volcano (1984; Sotto il vulcano), per le eleganze pacchiane della nuova mafia di Prizzi's honor (1985; L'onore dei Prizzi: indimenticabile la giacca giallo tulipano di Charlie Partanna), infine per il suo estremo capolavoro, The dead (1987; The dead ‒ Gente di Dublino), dove le luci accoglienti e i toni bruniti della cena perdono ogni alone e acquistano la durezza della notte ghiacciata quando si passa dalla nostalgia a un lacerante rimpianto.
Negli anni Cinquanta approdarono al c. alcuni grandi cineasti europei. Il primo fu Jean Renoir con The river (1951; Il fiume; fot. Claude Renoir, a.d. Eugene Lourie), girato in India (come l'Africa, luogo ricorrente del cinema a c.). Il regista scrive (in Ma vie et mes films, 1974, pp. 233-34): "La verità esterna, in India, esce felicemente dall'ordinario. Si direbbe che un decoratore di genio abbia concepito il quadro della vita quotidiana". Da qui il principio guida di evitare i filtri, i c. aggiunti, gli effetti di laboratorio, mettendo davanti alla macchina da presa "un paesaggio o una scenografia come devono essere per servire la scena". Secondo principio: "evitare i paesaggi dalle sfumature troppo complesse [...] L'occhio artificiale concepito dagli umani che è la macchina da presa non ci darà soddisfazione che quando gli poniamo dei problemi semplici [...] Nei paesi tropicali i verdi sono veramente verdi, i rossi veramente rossi [...] i colori non si confondono [...] la loro leggerezza fa pensare a Marie Laurencin, a Dufy, e oso aggiungere, a Matisse". La scelta realista di Renoir, il rifiuto di alterare il paesaggio, è così resa più complessa dal richiamo alla pittura (tanto più che in ogni caso "si tratta di scegliere" che cosa porre davanti all'obiettivo) e dalla profonda consapevolezza che rinunciare al bianco e nero significa rinunciare al "vantaggio di non poter essere realisti". Con il c. dunque Renoir ha la possibilità di arrivare al realismo puro: in The river, secondo A. Bazin (Jean Renoir, 1971) lo schermo non esiste più; non c'è altro che la realtà. Non pittorico, non teatrale, non anti-espressionista, lo schermo semplicemente sparisce a favore di quello che rivela. In Senso (1954; fot. G.R. Aldo, Robert Krasker, scenografie Ottavio Scotti, costumi Marcel Escoffier, Piero Tosi) Luchino Visconti firma una messa in scena che senza il Technicolor non sembra neppure concepibile: come in altri casi, non tanto per la compiutezza formale e per la sapienza dei riferimenti alla pittura ma perché il c. accompagna, sottolinea, sintetizza, estremizza gli stati d'animo e i crescendo delle situazioni in un lungo, continuo movimento: l'arrivo di Franz alla villa, fra tutti quei c. preziosi e sfumati, il rosa antico, l'avorio, l'argento, l'azzurro delle opaline, è l'irruzione della primordialità, del corpo nella vita della contessa Serpieri, e la fine di ogni possibile eleganza; l'immenso granaio giallo è l'oro, ricchezza materiale e pienezza della passione ma insieme clandestinità, prigionia, tradimento; l'ondeggiare delle divise e dei mantelli bianchi quando Livia Serpieri approda all'abitazione degli ufficiali austriaci a Venezia traduce l'indifferenza beffarda al suo stato di ansia e vergogna; e il suo sontuoso abito nero nell'ultima parte annuncia la tragedia: soffocante durante il viaggio in carrozza, troppo severo e minaccioso contro le eleganti pareti mauve della casa di Franz, fosco, terribile all'atto della delazione, e nel finale una sola cosa con la notte.Il circo è in Lola Montès (1955, fot. Christian Matras, a.d. Jean d'Eaubonne, William Schatz) il luogo scelto dal regista Max Ophuls per liberare con il colore, su un piano quasi astratto, la visionarietà di tutto il suo cinema: nel movimento senza gravità della macchina da presa, sotto i riflettori entrano in pista dal buio (della memoria, dell'inconscio) i colori della vita, oppure della sua messa in scena: violenti e balenanti tra i fasci di luce nell'evocazione sintetica sotto il tendone nero, chiari, soffusi e già patinati dal tempo nella messa in scena più tradizionale dei flashback, i colori di Lola Montès sembrano riassumere la posizione dell'autore su teatro e cinema, classicità e avanguardia, rappresentabilità e modi di rappresentazione.
La complessità dei tre film appena citati, sia sul piano teorico-espressivo sia di resa spettacolare del c., non ha un equivalente nel resto della produzione europea più o meno fino agli anni Sessanta, nonostante l'affermarsi di vari sistemi e procedimenti industriali (il tedesco Agfacolor poi brevettato dai sovietici come Sovcolor, il belga Gevacolor, l'italiano Ferraniacolor presto abbandonato) e il loro largo utilizzo nei generi più diversi. Gli inglesi colorarono le loro avventure coloniali e le commedie della serie iniziata con Doctor in the house (1954; Quattro in medicina) di Ralph Thomas, mentre i francesi si affidarono ai racconti classici (Barbe-bleue, 1951, Barbablù, di Christian-Jaque) e alle peripezie di Martine Carol e più tardi di Brigitte Bardot. In Italia i gravi limiti del Ferraniacolor non impedirono la riuscita di due trasposizioni delle commedie di Eduardo Scarpetta (Un turco napoletano, 1953, e Miseria e nobiltà, 1954, entrambe di Mario Mattoli), che conservano anche nel c. lo stile e il gusto della loro origine teatrale; ma il passaggio a brevetti più sofisticati fu decisivo per il successo popolare dei film-opera di Carmine Gallone (Puccini, 1953; Casa Ricordi, 1954; Madama Butterfly, 1954), poi del genere mitologico iniziato con Le fatiche di Ercole (1958) di Pietro Francisci.
Il nuovo decennio si aprì fra le ombre sanguigne di Peeping Tom (1960; L'occhio che uccide) di M. Powell e culminò nel 1968 con la più travolgente e meravigliosa sequenza-colore del cinema, il lungo precipitare nello spazio-tempo e la visione oltre l'infinito di 2001: a space odyssey di Stanley Kubrick (2001: Odissea nello spazio; fot. Geoffrey Unsworth, a.d. Tony Masters, Harry Lange, Ernest Archer). Esperienze e usi diversissimi si accavallarono nel panorama in fermento del cinema europeo, dove gli autori italiani e quelli della Nouvelle vague e del Free Cinema continuarono ad alternare c. e bianco e nero (come poi avrebbero fatto in Germania negli anni Settanta e oltre Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders). Il c. è antirealistico, primario, piatto, disteso quasi crudelmente sulla superficie del cinemascope, nell'uso che ne fa in Une femme est une femme (1961; La donna è donna) Jean-Luc Godard: il quale tornò ai colori primari, il blu che tinge la faccia del protagonista, il rosso e il giallo dei candelotti di dinamite legati alle sue braccia, per il clamoroso suicidio di Pierrot le fou (1965; Il bandito delle undici). E insieme al giovane Godard, tutti i grandi autori accettarono finalmente la sfida: Ingmar Bergman con una commedia, För att inte tala om alla dessa kvinnor (1964; A proposito di tutte queste… signore), completamente artefatta, secondo la definizione dello stesso autore; nello stesso anno Michelangelo Antonioni, che in Deserto rosso trattò gli esterni come stati d'animo, colorandoli e modificandoli secondo la lezione di Mamoulian; nel 1965 Federico Fellini con Giulietta degli spiriti, dove il c. è reinvenzione del meraviglioso e unifica realtà, ricordi e allucinazioni; poi François Truffaut con una storia dove il rosso del fuoco ha un ruolo di protagonista (Fahr-enheit 451, 1966). Va citata infine l'esperienza di Luis Buñuel, che dopo i casi isolati di Las aventuras de Robinson Crusoe (1952; Le avventure di Robinson Crusoe) e La mort en ce jardin (1956; La selva dei dannati), arriva una volta per sempre al c. in Belle de jour (1967; Bella di giorno) e se ne serve con impassibile precisione (le tinte forti e luminose del sogno iniziale, i beige borghesi della protagonista, il cuoio nero dell'amante) accettando a suo modo le convenzioni pittoriche e cinematografiche anche nei capolavori successivi, vedi i c. caldi e la luce diffusa propria della commedia per Le charme discret de la bourgeoisie (1972; Il fascino discreto della borghesia). Anche gli altri autori raggiunsero in seguito risultati straordinari sempre rinnovandosi e, in generale, mediante la tendenza, praticata da Huston e sottolineata da Truffaut come un'esigenza, a diversificare le scelte di colore sulla base del tipo di storia e dell'epoca: in quanto un'altra regola, in fondo mai trasgredita, è cercare la libertà espressiva e fantastica sempre rispettando la credibilità storica.
L'approccio al film in costume risulta però quanto mai differenziato. Fellini nel suo Fellini Satyricon (1969; fot. Giuseppe Rotunno, a.d. Danilo Donati) da una parte si ispirò anche per il colore (i sabbia, i neri, i porpora stinti) all'iconografia romana classica, dall'altra diede largo spazio al gusto orientale, agli ori, ai cieli dipinti: insieme a cupezze medievali e a un mare dal colore malato, sormontato in un momento culmine dal giallo e dal bianco di un'immensa scogliera di arenaria e pomice, in una visionarietà che brucia qualsiasi anacronismo (il film, del resto, fu definito di 'fanta-archeologia'). Una ricostruzione largamente soggettiva è quella della polverosa Grecia arcaica di Edipo re (1967) diretto da Pier Paolo Pasolini: esperienza che arriva poi alla felice ricchezza cromatica di Medea (1969), e a quella della cosiddetta Trilogia della Vita (Il Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972; Il fiore delle Mille e una notte, 1974). Negli anni successivi la libertà è divenuta ovviamente minore, il che ha condotto sulla strada opposta. In Barry Lyndon (1975, fot. John Alcott, a.d. Ken Adam) lo scrupolo filologico di Kubrick (i celebri interni fotografati a lume di candela) si traduce in un'appassionante lezione di realismo dove ogni azione è contestualizzata, letteralmente calata in un paesaggio, in modo che la luce del cielo, i dolci verdi delle colline irlandesi o i verde cupo e i grigio pietra dei giardini all'italiana facciano più che da sfondo da interagenti: come gli interni e i costumi, che hanno le tinte calde e le ombre forti di William Hogarth, gli eterei celesti e bianchi di Thomas Gainsborough. Mentre Truffaut in L'histoire d'Adèle H. (1975; Adele H., una storia d'amore; fot. Nestor Almendros), prodotto con un budget infinitamente più piccolo, gioca sulla serie di colori azzurro-blu-rosso-nero-bianco, la cui algida severità raggiunge lentamente un calore di fiamma. Negli anni Kubrick ha dato forma e c., con gli stessi ineguagliabili risultati di 2001, ad altri sogni e misteri: impossibile non citare, almeno, di The shining (1980; Shining, fot. John Alcott, a.d. Roy Walker) le luci ambrate, i rossi e gli amaranto, i fiumi di sangue che sgorgano dalle pareti dell'Overlook Hotel, e l'oro e nero, il luccichio fitzgeraldiano dell'inconoscibile passato; e di Eyes wide shut (1999; fot. Larry Smith, a.d. Les Tomkins, Roy Walker) ancora l'oro, l'inebriante luce d'oro che pervade le sale della festa iniziale e bagna la protagonista. Va infine almeno ricordato (fra altri risultati splendidi del colore-espressione, come nelle diverse parti di Fanny och Alexander, 1982, Fanny e Alexander), un film di Ingmar Bergman, Viskningar och rop (1972; Sussurri e grida; fot. Sven Nykvist, a.d. Marik Vos), che contiene un particolare significativo: la casa in cui si svolge l'azione è interamente tappezzata di rosso, e il rosso, c. che dà piacere, qui è destinato a rendere sopportabile fino alla fine l'atrocità della rappresentazione.
Ricchissimo è l'uso del c. nel cinema di Bernardo Bertolucci: nella scenografia visionaria di Il conformista (1970; fot. Vittorio Storaro, a.d. Ferdinando Scarfiotti, come per gli altri film citati di seguito) luci e ombre scavano nel personaggio e lo nascondono fra marcati chiaroscuri, con c. sfumati e larghe porzioni di schermo invase dal nero di sfondi e ambienti (il colloquio con Montanari nello studio radiofonico, il primo incontro con Quadri), dal bianco delle costruzioni fasciste, dal gioco dei costumi bianchi e neri; la luce nei suoi diversi momenti, nella casa del rogo sensuale di Ultimo tango a Parigi (1972), domina grandi distese di un c. caldo e ipnotico che definisce, limita, dilata lo spazio; e un c. luminoso e nitido (l'immenso drappo giallo che si alza nel sole, il bianco lattiginoso e sfuggente della cortina degli eunuchi) trionfa più tardi nella prima parte di The last emperor (1987; L'ultimo imperatore). Sul finire degli anni Sessanta si era intanto avventurato nel colore un altro maestro italiano, Marco Ferreri, e lo aveva fatto con l'apparente noncuranza di registi come Wellman e Buñuel: senonché il cinema di Ferreri si tinge dei colori e delle luci del mare con una frequenza da segno ricorrente; e se il colore gli è utilissimo per rappresentare un atroce nonsenso (la pistola dipinta in rosso a pallini bianchi di Dillinger è morto, 1969), o per descrivere un'opulenta e fredda irrealtà (gli ambienti vaticani di L'udienza, 1972), o tragici contrasti (l'allegra bellezza delle vivande e dei dolci, dal pomodoro al crema al pistacchio, nella lutulenta atmosfera mortuaria di La grande bouffe, 1973, La grande abbuffata), è con Storia di Piera (1983) che Ferreri arriva, fra i metafisici bianchi rosa e gialli dell'architettura-paesaggio della cittadina di Sabaudia, al colore personale e artificiale degli esterni raccomandato da R. Mamoulian senza ridipingere né ritoccare niente. Intanto il cinema degli anni Settanta era stato un cinema tutto a c. (con poche caparbie eccezioni), indipendentemente dai generi e dal tipo di produzione; e si era affermata la tendenza (poi rinnovata nell'ultimo decennio) a determinare il clima e il tono del film non solo attraverso la luce, come avveniva nei film in bianco e nero, ma attraverso l'impasto e le dominanti di colore.
Nel cinema americano, dopo una lunga crisi, era tornata a imporsi una forte scuola realista, con una fotografia vigorosa e senza ricercatezze, talvolta volutamente sgranata, che aveva rinnovato con il c. la tradizione degli anni Trenta discendente dai reportage (Easy Rid-er, 1969, di Dennis Hopper; Five easy pieces, 1970, Cinque pezzi facili, di Bob Rafelson; Fat city, 1972, Città amara, di John Huston); mentre un posto a sé sembra avere Days of heaven (1978; I giorni del cielo) di Terrence Malick, dove la fotografia di Nestor Almendros e Haskell Wexler, di nitidezza e sentimento straordinari, è un inno ai c., alle luci, allo spazio del paesaggio americano. Molte sfaccettature presenta il realismo di Robert Altman, da quello di California split (1974; California poker) e Nashville (1975), in parte riconducibile alla tradizione e alla pratica contemporanea del c., a quello al limite del visionario di Mc Cabe and Mrs. Miller (1971; I compari) con il chiaroscuro ambrato e caliginoso della fumeria d'oppio, le letali distese di neve; a un personale iperrealismo nei film di derivazione teatrale, Come back to the 5 & dime, Jimmy Dean, Jimmy Dean (1982; Jimmy Dean, Jimmy Dean), fra l'altro ispirato, nei c. sfumati e nostalgici del drugstore, alle illustrazioni del "Saturday evening post" (fonte dichiarata poi da Woody Allen per uno dei suoi esiti formali più gioiosi, il coloratissimo Radio days, 1987); e Fool for love (1985; Follia d'amore), che ricorda l'alta definizione e i c. vividi e netti dell'iperrealismo pittorico di Richard Estes e Don Eddy.Con il c. si rinnova l'atmosfera del noir in Chinatown (1974) di Roman Polanski, perfettamente in equilibrio fra ricostruzione filologica e pura visione, denso di un'atmosfera e di un fascino largamente affidati alla combinazione luce-colore-musica-suono: dove il c. è il segno dell'atrocità (non solo il sangue che sgorga dal naso accoltellato di J.J. Gittes, ma, in finale, nell'interminabile sollecitazione sonora di un singolo clacson fra i c. notturni del quartiere cinese, l'insostenibile buco nero che è l'orbita sfondata di Evelyn). Anche per l'Hitchcock di Frenzy (1972) l'orribile è ormai un c.: il viola scuro della lingua che fuoriesce dalla bocca della prima donna strangolata, il grigio livido delle dita rigide della seconda. Nell'horror non sembra più possibile che l'angoscia, la paura, il raccapriccio si possano trasmettere senza il c.: le tinte acide e funeste, i cupi scintillii, i rossi e neri, i neon lilla e pistacchio che Brian De Palma usa in Phantom of the paradise (1974; Il fantasma del palcoscenico), e le visioni in rosso che evoca in Carrie (1976; Carrie, lo sguardo di Satana); le notti azzurre verdi e nere, i balenii d'acciaio, la corsa delle ombre sull'amaranto in Profondo rosso (1975) di Dario Argento; l'apparizione mozzafiato delle vele rosso sangue della nave che trasporta il Nosferatu, Phantom der Nacht (1978; Nosferatu, il principe della notte) di Werner Herzog; fino alla più recente e impressionante reincarnazione del Nero, la liquida figura nera che riempie d'orrore le notti di Scream (1996) di Wes Craven.Mentre i maestri europei della fotografia e della scenografia (S. Nykvist, Vilmos Zsigmond, László Kováks, V. Storaro, Carlo Di Palma, F. Scarfiotti, Dante Ferretti) portavano la loro esperienza nel cinema americano degli anni Settanta, l'enorme successo di The godfather (1972; Il padrino) e The godfather, part II (1974; Il padrino ‒ Parte seconda) di Francis F. Coppola impose sia lo stile fotografico di Gordon Willis (poi collaboratore, fra gli altri, di Woody Allen per il magico Annie Hall, 1977, Io e Annie, e per altri film di questo autore), caldo e chiaroscurato negli interni, trasparente di luce negli esterni, sia le geniali scenografie di Dean Tavoularis (di nuovo al fianco di Coppola per Apocalypse now, 1979), il quale fece scuola insieme ad altri grandi scenografi che affidarono al c. continue e mutevoli suggestioni, come Santo Loquasto (i film di Woody Allen) e Richard Sylbert (oltre a Chinatown, due film di Warren Beatty, Reds, 1981, e Dick Tracy, 1990).
Questi e molti altri artisti hanno portato nell'uso della luce-colore un occhio e una tecnica ormai raffinatissimi al servizio di registi con una profonda conoscenza del cinema, diventato fin dagli anni della Nouvelle vague un riferimento iconografico essenziale. La consapevolezza dei richiami, usati peraltro con grande libertà (come nel cinema di Bertolucci), è evidente nei film di Martin Scorsese (non a caso esegeta, fra l'altro, di un maestro del c. come M. Powell), passato dal realismo di Mean Streets (1973; Mean Streets ‒Domenica in chiesa, lunedì all'inferno) e di Alice doesn't live here anymore (1975; Alice non abita più qui, che contiene all'inizio anche una celebrazione di tutti i tramonti hollywoodiani di studio), al violento iperrealismo della New York elettrica e notturna di Taxi driver (1976), alle seduzioni cromatiche di New York, New York (1977): in quest'ultimo, nel ricordo di R. Mamoulian e V. Minnelli, emanano nei locali di jazz dove il protagonista Jimmy è sempre in azione, dalle pareti, dagli angoli, da invisibili corridoi e scale, proiezioni e riflessi di luce violetta, rosso fuoco, verde mare, affascinanti quanto nervosi; e si arriva, nella notte del matrimonio dei due protagonisti, con la neve, gli alberi e gli abiti bianchi, alla ricreazione a c. delle scene bianco su bianco di Van Nest Polglase alla RKO di quarant'anni prima. Scorsese è poi approdato, in Goodfellas (1990; Quei bravi ragazzi), rovesciando la cifra realistica 'povera' di Mean Streets, all'estensione totale della gamma cromatica e delle possibilità di luce in un nuovo iperrealismo denso e complesso che sembra preludere a quello di Quentin Tarantino. Almeno da menzionare, infine, la visione di un realista pop come Spike Lee, che fa svettare i c. come un vessillo della tradizione afroamericana caricandoli, per es. in Do the right thing (1989; Fa' la cosa giusta), di un'intensità esplosiva quanto le situazioni che racconta.L'affermazione sempre più prepotente degli effetti speciali ha significato fra gli anni Ottanta e Novanta un ritorno in grande stile al cinema fantastico, che ha nel c. un assoluto punto di forza, espressiva o puramente spettacolare. Il tono del c. è il tono del racconto, nei molti aspetti del genere: vivace, ardito, chiaroscurato come i protagonisti quello dei Gremlins (1984) di Joe Dante, fosforescente, sgargiante di lusso e neon metropolitani quello di The mask (1994) di Charles Russell, mercuriale quello delle stupefacenti metamorfosi di The terminator (1984; Terminator) di James Cameron. Mille variazioni, sfumature, contrasti di grigio nero giallo rosa rosso nelle visioni del futuro rétro di Blade runner (1982) di Ridley Scott (fot. Jordan Cronenweth, a.d. Lawrence G. Paul); di azzurro blu argento e oro pullulanti nella luce lunare in The adventures of Baron Munchausen (1989; Le avventure del barone di Munchausen) di Terry Gilliam (fot. Giuseppe Rotunno, a.d. Dante Ferretti). Nel mondo fantastico di Tim Burton il c. è racconto, stile ma anche festa, sorpresa, divertimento: indimenticabili, nella meraviglia del tutto, le case suburbane, rosa celesti verdine crema, e i costumi femminili a c. unico, violetto lampone turchese, fra cui spicca il nero del protagonista, di Edward scissorhands (1990; Edward mani di forbice; fot. Stefan Czapsy, a.d. Bo Welch, costumi Colleen Atwood); la fantasia optical dei dischi volanti-pastiglie colorate, il lamé viola dei marziani di Mars attacks! (1996; fot. Peter Suschitzky, a.d. Wynn Thomas); e il paesaggio da illustrazione ottocentesca, azzurro bianco grigio nero in una sospesa luce invernale, di Sleepy Hollow (1999; Il mistero di Sleepy Hollow; fot. Em-manuel Lubezki, a.d. Rick Heinrichs, Peter Young).
Nel cinema ipnotico, allucinatorio di David Lynch il c. è timbro, suono oltre che visione, e corre lungo tutte le possibilità drammatiche fra realtà esterne e interne. In Blue velvet (1986; Velluto blu; fot. Frederick Elmes, a.d. Patricia Norris) sembrano prendere vita dal sogno il sipario di velluto blu marezzato dei titoli, il vestito blu della cantante Dorothy, il rosso delle sue labbra e il suo appartamento, dove il rosa si fa c. incandescente, angoscioso; Wild at heart (1990; Cuore selvaggio) si apre con il fuoco di un fiammifero che esplode nel buio in tutta l'estensione del cinemascope; e i geometrici rossi e neri di Lost highway (1996; Strade perdute) sembrano spostare, o turbare, le nostre percezioni, sovrapporsi, chiudersi sui personaggi, aprire varchi e abissi (come lo sprofondare nella cavità dell'orecchio mozzato di Blue velvet, e in seguito nel cubo-buco nero di Mulholland drive, 2001). Anche nella visione iperrealistica di Quentin Tarantino il c. è veicolo di emozioni e sensazioni molto vicine alla fisicità: memorabili il cupo interno di Reservoir dogs (1992; Le iene o Cani da rapina), ogni tanto bucato da teatrali accensioni di c. acido; gli splendidi titoli di testa in giallo rosso e nero, le notti calde che virano all'improvviso al verde livido e al viola, la vibrante luce diurna sui divani rossi del diner nel quale si apre e chiude Pulp fiction (1994; fot. Andrzej Sekula, a.d. David Wasco): visioni che poi tendono a una più calma linearità in Jackie Brown (1998), per es. nel lungo attraversamento dell'aeroporto da parte della protagonista ripresa in piani americani su pareti a colore unito, nella drammatica solarità di alcuni esterni, nei chiaroscuri caldi dei dialoghi d'amore.Data la scarsa frequentazione dei generi nel cinema europeo degli anni Ottanta e Novanta (tranne, per es. i thriller del cinema spagnolo e il recente action movie francese), è difficile rintracciarvi linee e tendenze del colore. Con poche eccezioni (le notti pulsanti di My beautiful laundrette, 1985, My beautiful laundrette ‒ Lavanderia a gettone, di Stephen Frears, fot. Oliver Stapleton), nel predominio del naturalismo-minimalismo c. e luci sono spesso sciatti, con dominanti azzurrine e tristi opacità (e intanto il recente uso dei riversamenti da video umilia l'immagine costringendola a un'inguardabile piattezza), mentre nella produzione più popolare, per es. in alcune commedie inglesi, il 'visivo', c. compreso, quando non tende al caramelloso ha il pregio di una maggior brillantezza. Nel cinema d'autore vanno almeno menzionati l'affascinante ricerca formale di Peter Greenaway, che ha fatto del c. un elemento chiave delle sue elaborate messe in scena, e l'uso semplice ma sempre consapevole, fra realismo, fotoromanzo e pop art, del cinema di Pedro Almodóvar. Il gusto pop si incrocia con quello naif delle iconografie locali nel coloratissimo cinema di genere indiano e in quello di Hong Kong, ossessivamente decorativi e antirealistici; mentre uno straordinario realista come Tsai Ming-liang, in Heliu (1997; Il fiume), riesce a tingere i colori della quotidianità di Taipei di un'angoscia priva di ogni speranza.
L'altissima qualità tecnica della fotografia cinese a c. è diventata alla fine degli anni Ottanta un perfetto strumento espressivo nelle mani di Zhang Yimou. In Hong gaoliang (1987; Sorgo rosso; fot. Gu Chang Wei) il c. del titolo è la prigionia della ragazza data in sposa a un vecchio e ricco lebbroso: rossi il vestito, il velo gettatole sulla faccia, il palanchino del suo viaggio di consegna al marito; verde la radura scavata fra le canne di sorgo dall'amante per il rigenerante adulterio; rossi i corpi scuoiati dagli invasori giapponesi; rossa la grappa di sorgo che diventa arma incendiaria per la rivolta finale. Con il luogo dell'azione del secondo film, Ju Dou (1990; fot. Gu Chang Wei), un'antica tintoria, prigione della donna, Zhang Yimou celebra la grande arte cinese del c. allo stato puro e insieme la crudeltà di tanta bellezza. In Da hong denglong gaogao gua (1991; Lanterne rosse; fot. Zhao Fei), ultimo film della trilogia sulla donna negli anni Venti, il c. del titolo e i suoi itinerari notturni sono perno e sintesi visiva della storia. Questi slanci visionari si distillano in un'assoluta purezza di sguardo nei film neorealisti come Qiu Ju da guansi (1992; La storia di Qiu Ju; fot. Chi Xiaoning, Yu Xiaoqun) e Yige dou bu neng shao (1999; Non uno di meno), dove il c. rifiuta qualsiasi sottolineatura espressionistica; mentre con Yao a yao, yao dao waipo qiao (1995; La triade di Shanghai) il regista torna a un libero e acceso gioco cromatico nella casa da gioco-teatro-bordello, in uno sfavillio che sembra ricreare a c. le atmosfere di luce di Josef von Sternberg (per es., di Morocco, 1930, Marocco, e di Blonde Venus, 1932, Venere bionda), con echi del Coppola di The Cotton Club (1984; Cotton Club) e del Sergio Leone di Once upon a time in America (1984; C'era una volta in America).
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