Colpa diagnostica e danno da nascita
La Corte di cassazione, a sezioni unite, con la sentenza n. 25767/2015, ha formulato due principi in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata: a) la madre che agisce per il risarcimento del danno da “nascita ingiusta” assume per intero l’onere e il rischio di provare che avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata della grave anomalia fetale; b) il nato disabile non può agire contro il medico per il risarcimento del danno da “vita ingiusta”, poiché l’ordinamento non gli riconosce il diritto a non nascere se non sano. Enunciati per risolvere altrettanti contrasti emersi nella giurisprudenza a sezione semplice, ambedue i principi non risultano tuttavia convincenti.
SOMMARIO 1. La ricognizione 1.1 Wrongful birth 1.2 Wrongful life 2. La focalizzazione 2.1 Onere probatorio della madre 2.2 Legittimazione risarcitoria del nato 3. I profili problematici 3.1 Nascita ingiusta e presunzioni giurisprudenziali 3.2 Vita ingiusta e non existence paradox
Il tema del “danno da nascita” è ormai un classico della responsabilità civile applicata alla bioetica.
Il sintagma viene correntemente riferito a due fattispecie di colpa diagnostica in medicina prenatale.
La prima fattispecie concerne la madre, che non sia stata informata di una grave anomalia fetale e non abbia quindi potuto optare per l’aborto terapeutico, del quale pure sussistevano tutti i requisiti di legge.
L’altra fattispecie concerne il figlio, che, spogliata la madre della facoltà di interrompere la gravidanza, viene al mondo nelle severe condizioni di handicap oggetto del fallimento diagnostico.
Nell’una ipotesi si parla di wrongful birth, nell’altra di wrongful life.
Gli ordinamenti avanzati si chiedono se il medico debba risarcire il danno da “nascita ingiusta” e il danno da “vita ingiusta”, a quali condizioni, entro quali limiti.
Nel dicembre del 2015, la Corte di cassazione ha offerto una risposta a sezioni unite, attesi i contrasti emersi nella giurisprudenza a sezione semplice1.
La norma di riferimento si trova nell’art. 6, lett. b), l. 22.5.1978, n. 194, che autorizza l’interruzione volontaria della gravidanza dopo i novanta giorni «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro», purché sussista «grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
Materia del contrasto è la duplice prova riferita all’ipotesi controfattuale che la donna fosse stata informata dell’anomalia fetale: ella sarebbe incorsa in grave pericolo alla salute psicofisica; ella avrebbe deciso di ricorrere all’aborto terapeutico.
Un indirizzo di legittimità riteneva presumibile fino a prova contraria che la notizia dei gravi danni fetali avrebbe esposto a pericolo la salute quantomeno psichica della gestante e l’avrebbe indotta all’opzione abortiva2; la gravità della malattia del nascituro veniva considerata l’asse di una presunzione iuris tantum, basata sulla massima “più probabile che non”3.
L’indirizzo opposto disconosceva queste inferenze probabilistiche e caricava la madre di un onere probatorio assoluto, invocando il principio di vicinanza, dacché onerare il medico della prova di eventi ipotetici attinenti alla sfera interiore della donna avrebbe trasformato il giudizio risarcitorio in vicenda “parassicurativa”4; il rischio probatorio circa il pericolo alla salute e l’opzione di aborto veniva trasferito per intero sulla donna5.
La colpa diagnostica è un inadempimento del contratto di cura stipulato dalla gestante, sicché non è dubbio che costei sia legittimata ad agire per il risarcimento del danno.
Tramite la figura del “contratto con effetti protettivi del terzo” (Vertrag mit Schutzwirkung für Dritte), la giurisprudenza ha esteso il novero dei legittimati, includendovi: il padre del concepito, la cui posizione è qualificata dai diritti e doveri correlati alla procreazione6; i fratelli e le sorelle del nato, la cui posizione è qualificata dall’attesa di un rapporto parentale completo e sereno7.
Il contratto di cura protegge anche il nascituro e pertanto nessuno dubita che egli, acquisita la capacità giuridica con la nascita (art. 1 c.c.), sia legittimato ad agire nei confronti del medico per il danno da negligente assistenza al parto8.
L’incertezza riguarda la legittimazione del nato ad agire nei confronti del medico per il danno da negligente diagnosi prenatale.
Un arresto aveva negato questa legittimazione poiché: il dovere medico di protezione del concepito è funzionale alla nascita, anziché alla non nascita; manca il danno risarcibile, in quanto l’aborto conseguente alla diagnosi avrebbe privato il nascituro della vita stessa, seppur malformata; il “diritto a non nascere se non sano” sarebbe adespota (intestato a chi non è ancora soggetto giuridico), evocherebbe l’aborto eugenetico (bandito dall’ordinamento personalistico costituzionale), vincolerebbe la stessa gestante (obbligandola all’aborto terapeutico)9.
Decisione opposta quella legittimazione aveva ammesso poiché: l’illecito subito dalla madre propaga gli effetti lesivi sul concepito, in modo diacronico, per il tempo della nascita; il nato può agire per il “danno da vita handicappata”, lesivo del diritto alla salute ex art. 32 Cost., allo svolgimento della personalità ex art. 2 Cost., all’uguaglianza sostanziale ex art. 3 Cost. e alla serenità familiare ex artt. 29, 30, 31 Cost.; il danno da vita handicappata, per quanto in senso naturalistico sia ascrivibile a una fatalità genetica, sul piano giuridico è ascrivibile anche all’omissione diagnostica del medico, che ha impedito alla gestante il legittimo esercizio dell’opzione abortiva10.
La pronuncia delle Sezioni Unite delude e arretra. La legittimazione risarcitoria del disabile viene esclusa con formule nobilmente astratte, che celebrano
la sacralità della vita idealizzata, ma non riconoscono il dolore di una vita concreta.
La madre viene gravata di una diabolicissima probatio, come se la ripartizione dell’onere probatorio dovesse restare insensibile alla differente condizione dell’esperto e del profano.
Affermano le Sezioni Unite che è onere della madre – attrice per il risarcimento del danno da wrongful birth – dimostrare tanto il pericolo alla salute quanto la volontà abortiva, in osservanza del principio onus incumbit ei qui dicit e del canone di vicinanza della prova.
Le Sezioni Unite ammettono che l’attrice possa assolvere quest’onere in via presuntiva, ma si fanno scrupolo di chiarire che non trattasi di presunzione legale, neppure iuris tantum, bensì di presunzione semplice, condizionata dai limiti ex art. 2729 c.c.
Le Sezioni Unite negano la legittimazione risarcitoria da wrongful life per diverse ragioni.
Si esclude un danno risarcibile quale pregiudizio differenziale («avere di meno»), giacché l’omissione diagnostica non priva il concepito di alcunché, piuttosto gli consente di nascere: «la non vita non può essere un bene della vita, per la contradizion che nol consente».
Si esclude il nesso eziologico, distinguendo l’errore medico che abbia cagionato la malformazione di un feto sano e l’errore medico che si sia limitato a non diagnosticare una malformazione congenita.
Si esclude la configurabilità del diritto a non nascere se non sano, accostato a un inconcepibile diritto al suicidio.
Si esclude ogni irrazionalità nell’estromissione del nato dalla platea dei legittimati al risarcimento, nella quale sono viceversa ammessi i congiunti (madre, padre, germani), e ciò perché solo costoro possono lamentare un danno-conseguenza come danno differenziale.
Si richiama la vicenda transalpina, nella quale una celebre sentenza favorevole al risarcimento del danno da vita ingiusta (arrêt Perruche) è stata seguita da un intervento legislativo di segno opposto, che ha prospettato il trasferimento del ristoro dei disabili alla solidarietà nazionale (loi Kouchner): l’enfasi comparatistica sottintende che la legittimazione del nato assegnerebbe al risarcimento una «impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale».
Si paventa che l’imputazione di responsabilità del medico nei confronti del nato disabile evochi un’analoga imputazione di responsabilità della gestante, facendole obbligo di ricorrere all’aborto terapeutico.
Le soluzioni adottate dalle Sezioni Unite assestano un colpo mortale alla diagnostica predittiva, giacché onerare la madre di una prova luciferina e negare la legittimazione del figlio significa deresponsabilizzare medici e strutture, con effetti depressivi sull’affinamento dei protocolli e l’ammodernamento dei macchinari.
Dal piano consequenzialista al piano sistematico: incongruo il rifiuto di soccorrere la madre con una presunzione iuris tantum, atteso che la responsabilità medica è il luogo elettivo delle cd. presunzioni giurisprudenziali e che la norma di legge contiene tutti gli estremi per istituirne una anche qui; incongruo il rifiuto di legittimare il nato, che si vede opposta una singolare compensatio vitae cum damno.
Laddove ha onerato la madre della prova controfattuale circa il grave pericolo per la salute e il ricorso all’opzione abortiva, la pronuncia delle Sezioni Unite è sembrata plausibilmente orientata a neutralizzare una «eccessiva facilitazione», che alla donna sarebbe stata concessa in passato tramite «presunzioni di conio giudiziale praeter se non contra legem»11.
In realtà, gli elementi fondativi di una costruzione inferenziale a vantaggio della gestante si rinvengono proprio nella norma di legge.
Tra i requisiti autorizzativi dell’aborto terapeutico, l’art. 6, lett. b), l. n. 194/1978 pone l’estremo della «rilevanza» delle malformazioni del nascituro, fonte di pericolo per la salute anche solo «psichica» della donna.
Se la fattispecie normativa della wrongful birth può configurarsi esclusivamente nell’ipotesi di malattia fetale di rilevante gravità, l’interprete vi può – anzi, vi deve – presumere sia il pericolo per la salute quantomeno psichica della gestante, sia la di lei opzione di salvataggio mediante aborto terapeutico.
Una donna eccezionalmente forte o eccezionalmente motivata può anche sottrarsi a tale pericolo o respingere tale opzione pur di fronte alla gravità delle condizioni del nascituro, ma l’id quod plerumque accidit dà altre indicazioni sul versante probabilistico, sicché dovrebbe essere il medico a provare il caso di eccezione a fini liberatori.
Le Sezioni Unite mostrano di concepire quasi uno spazio vuoto tra la presunzione legale e la presunzione semplice, a guisa che, esclusa l’una, si limitano ad ammettere l’altra.
Tuttavia, il diritto vivente sperimenta in gran numero le cd. presunzioni giurisprudenziali, figure giudiziali di relevatio ab onere probandi, basate sulla verosimiglianza del fatto e la vicinanza alla fonte.
Le Sezioni Unite giustificano l’aggravio probatorio della madre tramite il richiamo al principio di vicinanza della prova, inteso come sinonimo esplicativo del principio di riparto dell’onere12.
Nondimeno, se il principio di vicinanza della prova ha un senso operativo, questo non può essere che costituzionalmente orientato all’effettività del diritto di difesa.
Onerare la madre di provare in via ipotetica quali rischi psicofisici avrebbe corso e quali decisioni genitoriali avrebbe preso se fosse stata informata durante la gestazione significa renderle eccessivamente difficile o addirittura impossibile l’esercizio dell’azione risarcitoria.
Il medico, soggetto tecnicamente qualificato e dotato di protocolli specifici, ha miglior accesso alla prova, in quanto può stimare i rischi clinici della gestante nelle diverse eventualità e stimolarne le decisioni prospettiche in occasione della manifestazione del consenso informato.
Quindi, dovrebbe stare al medico la prova liberatoria tratta dai colloqui anamnestici e informativi.
Essendo ammessa una prova liberatoria, non si instaurerebbe affatto il temuto automatismo risarcitorio di stampo parassicurativo.
«Meglio una vita malata, ma vita, che niente»: con questo apoftegma una dottrina sunteggia la pronuncia delle Sezioni Unite, approvandone l’ispirazione filosofica13.
Non importa che la sacralità della vita sia ritorta proprio contro il nato.
Chi esercita il dubbio invita a riflettere: quale premio per «aver arrecato la vita», il medico è esonerato dalla responsabilità per la negligenza, destinata così a ripetersi; nascondere la realtà materiale dell’handicap sotto la retorica vitalistica cela «una punta di ipocrisia»; la giurisprudenza francese continua a liquidare il danno da vita ingiusta facendo leva sull’irretroattività della loi Kouchner, mentre la giurisprudenza italiana si fa ipnotizzare dal «significato simbolico» della fattispecie14.Del resto, pur auspicata da chi denuncia l’«imperialismo della responsabilità civile»15, la socializzazione del danno prospettata dalla loi Kouchner non potrebbe annullare il rilievo giuridico della colpa medica senza indurre fenomeni di calcolato scadimento delle prestazioni diagnostiche (moral hazard).
Fra i plurimi argomenti impiegati dalle Sezioni Unite per escludere la legittimazione risarcitoria del disabile verso il medico, il più fragile è quello che evoca il rischio di dover ammettere la medesima legittimazione verso la gestante, la quale vedrebbe tramutata la facoltà di aborto in obbligo.
L’argomento è stato condiviso da qualche estimatore della sentenza, che per la gestante teme l’insorgere di un «obbligo di non far nascere»16.
In realtà, l’art. 1 l. n. 194/1978 istituisce la «procreazione» a oggetto di un «diritto» della donna, sicché ella mai potrebbe essere convenuta per rispondere dell’opzione non abortiva, pur assunta nella consapevolezza della grave malattia fetale, valendo il principio qui iure suo utitur neminem laedit.
Al netto della discutibile proposta di lasciare in capo alla madre una responsabilità indennitaria da fatto lecito17, resta che uguagliare la posizione del medico e quella della madre vuol dire trascurare la differenza tra il colpevole di un illecito e l’esercente di un diritto.
Più sottile la questione della causalità, che potrebbe qualificare l’illecito del medico alla stregua di un “illecito senza danno”.
Chi plaude alle Sezioni Unite insiste su ciò: la malformazione congenita non è un danno, ma una fatalità, la cui imputazione al medico non è ammissibile se non al prezzo di una torsione sanzionatoria della responsabilità civile18; la causalità omissiva postula l’obbligo di impedire l’evento, mentre il ginecologo non è tenuto a impedire la nascita di un feto malformato19.
Tuttavia, se dismettesse per un attimo le lenti naturalistiche e assumesse la prospettiva della causalità giuridica, l’interprete constaterebbe che l’illecito omissivo del medico ha natura plurioffensiva, cagionando danno tanto alla madre, quanto al figlio.
La colpa diagnostica reca danno alla gestante, ledendone il diritto all’autodeterminazione, ma reca danno pure al nato, costringendolo all’handicap.
L’imputabilità dell’un danno fonda l’imputabilità dell’altro, identica essendo la linea eziologica (causa causae est causa causati).
L’identità della matrice causale toglie valore alla tesi – non rara in dottrina20 – che subordina la tutela risarcitoria del disabile a una prova specifica circa la gravità delle sue condizioni: la severità della malattia del nascituro è già parte della fattispecie normativa, perché, senza di essa, non è data la facoltà di aborto terapeutico ex art. 6, lett. b), l. n. 194/1978.
Se è fuorviante applicare il metro naturalistico al wrongful life tort quale fattispecie di colpa omissiva, non meno improprio è tentare di governare questa fattispecie con lo strumentario dei danni patrimoniali.
Ne soffre l’implicito richiamo delle Sezioni Unite alla Differenztheorie («avere di meno»), giacché questa postula un calcolo differenziale tra patrimonio ex ante e patrimonio ex post, davvero inadatto a una fattispecie essenzialmente personalistica.
Circa il dotto riferimento alla contradizion che nol consente – tanto suggestivo per qualche osservatore21 –, le Sezioni Unite vestono in terzina dantesca un cinquantennale tema di giurisprudenza americana: il non existence paradox assume che sia illogico comparare una qualità della vita con l’assenza della vita.
È stato facile dimostrare che non di un tema logico si tratta, quanto di un tema assiologico, e che nulla realmente si oppone alla figura del danno da vita ingiusta se non la sua acerbità sociale22.
Questione di tempo.
Note
1 Cass., S.U., 22.12.2015, n. 25767.
2 Cass., 10.5.2002, n. 6735.
3 Cass., 10.11.2010, n. 22837.
4 Cass., 2.10.2012, n. 16754.
5 Cass., 22.3.2013, n. 7269.
6 Cass., 10.5.2002, n. 6735.
7 Cass., 2.10.2012, n. 16754.
8 Cass., 9.5.2000, n. 5881.
9 Cass., 29.7.2004, n. 14488.
10 Cass., 2.10.2012, n. 16754.
11 Gorgoni, M., Una sobria decisione «di sistema» sul danno da nascita indesiderata, in Resp. civ. prev., 2016, 164.
12 Franzoni, M., La «vicinanza della prova», quindi..., in Contr. e impr., 2016, 369 s.
13 Mazzoni, C.M., Vita e non vita in Cassazione. A proposito di Cass. n. 25767/2015, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 462.
14 Cacace, S., L’insostenibile vantaggio di non esser nato e la contradizion che nol consente, in Danno e resp., 2016, 361 ss.
15 Ponzanelli, G., L’imperialismo della responsabilità civile, in Danno e resp., 2016, 223.
16 Carusi, D., Omessa diagnosi prenatale: un contrordine … e mezzo delle Sezioni Unite, in Giur. it., 2016, 551.
17 Stefanelli, S., Indagine preimpianto e autodeterminazione bilanciata, in Riv. dir. civ., 2016, 692 ss.
18 Piraino, F., I confini della responsabilità civile e la controversia sulle malformazioni genetiche del nascituro: il rifiuto del cd. danno da vita indesiderata, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 453 ss.
19 Bilò, G., Nascita e vita indesiderate: i contrasti giurisprudenziali all’esame delle Sezioni Unite, in Corr. giur., 2016, 54.
20 Russo, M., Omessa informativa sulle condizioni per l’interruzione della gravidanza: spunti in materia di legittimazione e prova, in Giur. it., 2016, 1397.
21 Mandrioli, E., Spunti critici per un’interpretazione restrittiva del danno risarcibile, in Resp. civ. e prev., 2016, 670.
22 Bona, C., Sul diritto a non nascere e sulla sua lesione, in Foro it., 2016, I, 506 ss.