Coluccio Salutati e Leonardo Bruni
Coluccio Salutati e Leonardo Bruni non furono filosofi di formazione universitaria bensì pubblici funzionari al servizio della città-Stato di Firenze e letterati sensibili agli ideali e all’esempio di Francesco Petrarca. Entrambi fornirono un significativo contributo al pensiero politico, in particolare per quanto concerne il concetto di libertà, e ambedue promossero il magistero etico petrarchesco fondato sullo studio e l’imitazione dei classici. Al tempo stesso, però, tutti e due rifuggirono dall’atteggiamento distaccato e dalla predilezione per i regimi monarchici di Petrarca impegnandosi attivamente nella vita civile, ed entrambi criticarono la filosofia scolastica accusandola di non nutrire interesse per la vita pratica svolta all’interno del consorzio sociale.
Coluccio Salutati nacque a Stignano, un piccolo paese del territorio fiorentino, poco distante dal confine lucchese, nel 1331. Trascorse i primi anni di vita e fece i suoi studi a Bologna, dove il padre si trovava impiegato al servizio del signore locale, Taddeo de’ Pepoli. Seguì i corsi di retorica tenuti da Pietro da Moglio, allievo di Petrarca, e apprese l’ars notaria. Una volta lasciata Bologna, svolse prima le mansioni di notaio nella natia Stignano, quindi di cancelliere a Todi. Lavorò per un breve periodo anche a Roma come assistente del segretario pontificio Francesco Bruni, il quale – sia detto per inciso – non aveva alcun legame di parentela con il succitato Leonardo. Grazie a Bruni, nel 1370 riuscì a ottenere la carica di notaio delle Riformagioni a Lucca. Nel 1375 fu quindi eletto cancelliere di Firenze, impiego che conservò sino alla morte, avvenuta nel 1406 (Witt 1983).
Poco dopo l’elezione a cancelliere di Firenze il nome di Salutati iniziò a diventare famoso a livello internazionale grazie alle sue brillanti missive, ossia le lettere ufficiali che egli scriveva. Firenze era allora impegnata nella cosiddetta guerra degli Otto santi (1375-78) contro quello che era al contempo il suo tradizionale alleato e signore: il papa. Le missive di Salutati, riprodotte in numerose copie, costituirono il principale strumento della propaganda fiorentina in questa guerra combattuta ‘a colpi di lettere’. Sin allora Firenze aveva sviluppato una propaganda in cui si presentava nelle vesti di ubbidiente figlia di santa madre Chiesa e principale baluardo delle prerogative guelfe in Toscana. Il nuovo scenario politico, tuttavia, richiedeva il delinearsi di una diversa immagine della città, e fu appunto questo compito che Salutati svolse attingendo alle sue conoscenze di cultura classica e storia medievale. Avvenne quindi che la Chiesa iniziò a essere raffigurata come un potere tirannico e il papa dipinto come alleato di quegli stessi barbari – i gallici – che anticamente avevano minacciato la libertà dei popoli della penisola. A sua volta, Firenze cominciò a essere investita del ruolo di principale difensore della libertà minacciata da tiranni stranieri non solo in Toscana, ma nell’Italia intera. La libertà aveva sempre costituito l’elemento di forza della storia romana; era stata infatti la libertà a far grande Roma e la sua scomparsa sotto il regime degli imperatori aveva condotto alla caduta di Roma stessa. Il papato, erede dell’impero romano, era quindi connesso al Sacro Romano Impero, ossia a quello che storicamente rappresentava il principale sostenitore del partito ghibellino e il più grande nemico della ‘libertà italiana’ (Langkabel 1981).
Nelle vesti di cancelliere di Firenze, pertanto, Salutati prese la coraggiosa decisione di secolarizzare l’ideologia politica della città facendo così di Firenze il corrispettivo moderno della repubblica romana e l’avversario di ogni tirannia, anche qualora si celasse sotto la tiara pontificia. È lecito sospettare, tuttavia, che l’ideologia profondamente laica caratteristica delle missive di Salutati che risalgono agli anni Settanta del 14° sec. non corrisponda alle sue più intime convinzioni. Innanzitutto, le missive esprimevano il pensiero non tanto del cancelliere quanto dei suoi diretti superiori, ovverosia, a livello politico, la Signoria di Firenze. Non a caso, una volta terminata la guerra, tali polemiche opinioni sparirono dalla corrispondenza ufficiale fiorentina per venire rimpiazzate dalle tradizionali formule dell’ideologia guelfa e della relativa obbedienza al soglio pontificio. Inoltre, leggendo le numerose epistole private di Salutati e le opere erudite della sua maturità, l’immagine del cancelliere quale laico convinto deve fare i conti con altre tendenze, fra cui quella di studioso profondamente legato a una tradizionale visione cristiana del mondo, un estimatore di Dante Alighieri e Petrarca il cui sentimento religioso si approfondì costantemente con il passare degli anni (Black 1986).
Salutati non ebbe mai occasione di incontrare Petrarca, ma iniziò ad avere contatti con il circolo fiorentino dei suoi ammiratori sin dagli anni 1359-61. È assai probabile che ebbe poi modo di subire, seppur indirettamente, l’influenza di alcune istanze del pensiero del grande poeta all’epoca del suo impiego romano presso Francesco Bruni, corrispondente abituale di Petrarca. Ma solo leggendo le lettere private di Salutati e i testi eruditi da lui composti nell’ultimo quarto della sua vita ci si rende conto di quanto la forma mentis petrarchesca abbia influito sul pensiero politico e morale di questo autore.
La serie di tali scritti si apre con il De seculo et religione del 1381-82, una difesa della vita religiosa ancor più radicale del De otio religioso di Petrarca (Witt 1983, p. 199). Nel 1382, inoltre, Salutati iniziò a lavorare all’imponente studio sulle allegorie relative al mito di Ercole, il De laboribus Herculis, che proseguì, senza mai completarlo, sino alla propria morte. È all’interno di quest’opera che egli narra, per la prima volta, di come Socrate perse interesse per le scienze naturali e si dedicò all’etica, in base a quanto riferito nel Fedone platonico (96a-c), negli Academica ciceroniani (I, 14, 15) e in altre fonti. In quest’opera e in altre successive Salutati si rifà all’autorevole testimonianza di Socrate per sostenere, contro la filosofia naturale e la logica di formazione scolastica, che ci si dovrebbe piuttosto dedicare a studi afferenti all’ambito prettamente umanistico, quali l’etica e la politica, escludendo così argomenti teologici non attingibili tramite la mera riflessione. Una tale critica di stampo ciceroniano, già espressa da Petrarca nel De sui ipsius et multorum aliorum ignorantia, trovò riscontro negli scritti di molti umanisti quattrocenteschi, quali Bruni e Giannozzo Manetti (Garin 2009, p. 123, e Coluccio Salutati e l’invenzione dell’Umanesimo, 2010, pp. 283-93).
Il trattato De fato et fortuna (1396), teso a riconciliare il libero arbitrio e la divina provvidenza, non risulta originale dal punto di vista filosofico, ma testimonia il significativo debito che Salutati contrasse con la lettura di stampo stoico-aristotelico del cristianesimo delle origini e del Medioevo. Nel De nobilitate legum et medicine (1399), inoltre, Salutati sviluppò la nozione petrarchesca circa il ruolo preminente della volontà rispetto all’intelletto facendole assumere il carattere di un vero e proprio assunto filosofico. In tale contesto – attingendo a tesi sia agostiniane sia petrarchesche – egli attribuisce alla volontà il primato fra le azioni proprie dell’uomo. Paradossalmente, alla medicina viene così riservato un compito funzionale a un certo tipo di conoscenza speculativa (ben distinta dalla contemplazione religiosa) mirata esclusivamente a salvaguardare il benessere fisico dei singoli individui, mentre la legge viene ritenuta una forma di studio superiore in quanto relativa alla salute sia dell’anima sia della vita morale dei componenti che agiscono all’interno del consorzio civile. Altra conseguenza della predilezione salutatiana per la volontà rispetto all’intelletto fu il considerare il contributo della vita attiva del legislatore e del cittadino più importante di quanto non risultasse quello del filosofo naturale o dello scienziato dediti alla mera teoria; anche questa posizione venne riproposta nel corso del Quattrocento da vari umanisti, fra i quali spicca Lorenzo Valla (Witt 1983, pp. 331-45, e Garin 2009, pp. 191-218).
Lo scritto salutatiano di maggior rilevanza per quanto concerne il pensiero politico fu uno dei suoi ultimi, ossia il De tyranno, composto quando aveva ormai settant’anni. L’opera fu scritta per difendere Dante, il più celebre e ammirato poeta fiorentino, dall’accusa di aver collocato Bruto e Cassio, vale a dire gli eroi della Roma repubblicana, insieme a Giuda Iscariota al fondo dell’Inferno (XXXIV, 61-67). Ciò imponeva di dimostrare che Giulio Cesare, lungi dall’instaurare una tirannia, aveva praticato un governo giusto e legittimo. In base a tale assunto, risultava inoltre necessario contestare la tesi di Cicerone – il massimo modello culturale per il movimento umanistico – circa il tipo di regime introdotto da Cesare. Difendere Dante richiedeva insomma difendere al contempo il sistema monarchico e rifiutare i principi politici della tarda repubblica romana unitamente alla posizione assunta in proposito dal più celebre politico dell’epoca, appunto Cicerone (Witt 1983, pp. 368-86).
Alcuni studiosi sostengono che una simile difesa di Cesare e della monarchia da parte di Salutati riflette il manifestarsi, nell’ultima fase della sua vita, di un crescente tradizionalismo, al quale parallelamente si sarebbe accompagnata una più spiccata religiosità. Ci sono effettivamente diversi aspetti che corrispondono a verità in tale interpretazione. Bisogna innanzitutto convenire che l’atteggiamento di Salutati nei confronti di Cesare fu lungi dal risultare sempre coerente; prova ne sia il fatto che si possono ravvisare vari brani delle sue opere in cui egli assume una posizione più critica – potremmo dire ‘ciceroniana’ – rispetto alla figura e alla carriera politica di Cesare. Va anche detto, tuttavia, che la difesa di Cesare nel De tyranno non implica affatto, da parte di Salutati, un rifiuto della res publica o della libertas come egli le intendeva. Prima della metà del Quattrocento presentare uno Stato come res publica non significava automaticamente che esso possedesse una costituzione di stampo non monarchico; tale significato implicito divenne comune solo dopo la versione bruniana della Politica aristotelica, con cui appunto cominciò a diffondersi l’uso moderno del termine repubblica (Hankins 2010). All’epoca di Salutati una res publica non era soltanto un buon governo popolare ma qualsiasi buon governo, inclusa una monarchia, che mirava al bene comune. Così scrive, per es., Salutati nel De tyranno (IV, 14-16) rivolgendosi a Cicerone:
Ma, per la maestà di Dio immortale, non è forse la monarchia una legittima forma di governo? E Roma non ebbe nessun governo, finché rimase sotto i re? E nessuno fu per averne dopo Cesare, sotto il dominio di qualsiasi tu voglia ottimo principe? Non è forse verità storica e conforme all’opinione di tutti i sapienti che la monarchia è da preferirsi a tutte le altre forme di governo, se avvenga che ci sia a dirigerla un uomo buono e desideroso di saggezza? Non vi è libertà maggiore che quella di servire un ottimo principe, quando questi ordini cose giuste. Perché, se nulla vi è di più santo e di migliore che l’universo governato da un solo Dio, tanto migliore è il governo umano, quanto più si avvicina a quello. Ma certamente non può essere somigliante a quello, che quando uno solo governi. Infatti, anche il governo di molti non ha nessun valore, se la moltitudine non è concorde in un’unica opinione: poiché, se non comandi uno solo e gli altri ubbidiscono, non ci sarà un solo governo, ma molti. Perché, o Cicerone, ti scosti da ciò che hai appreso da Aristotele? Non sai che tra i sistemi di governo, sia naturali che volontari, va innanzi a tutti, per l’utile dei sudditi e per la necessità delle cose, la monarchia? Anche la natura vuole che, essendo alcuni nati per servire ed altri per comandare, affinché tra tutti si osservi l’uguaglianza della dovuta proporzione, il comando tocchi al migliore (C. Salutati, Il trattato “De tyranno” e lettere scelte, a cura di F. Ercole, 1942, pp. 178-79).
In questo brano Salutati non soltanto afferma che la monarchia risulta essere un sistema di governo repubblicano (status, condicio) e non dispotico (politicum), ma sostiene anche che il regime dei primi re romani e il principato instaurato nell’Urbe secoli dopo erano a loro volta repubblicani, secondo il significato che a questo termine veniva attribuito prima dell’età moderna. Egli asserisce inoltre che tutti i saggi sono concordi nel sostenere che la monarchia sia da preferirsi a tutte le altre forme di governo repubblicano (incluso quello popolare). Se le cose stanno così è in parte dovuto al fatto che il sistema monarchico meglio rispecchia la forma secondo cui Dio regge l’universo, un argomento – questo – presente nella tradizione cristiana almeno sin da Eusebio di Cesarea.
Vero è che la bontà di un governo monarchico su questa Terra risulta strettamente connessa all’eventualità di avere un capo che sia al contempo buono e saggio. La necessità di poter contare su regnanti moralmente ineccepibili costituiva da sempre – com’è noto – un luogo comune del pensiero politico occidentale, ma sarebbe divenuto, in particolare, un interesse preponderante per i pensatori politici di formazione umanistica nel corso del Rinascimento.
Salutati assume una posizione che potremmo definire tipica del tardo Umanesimo con il suo sottolineare come la virtù e la saggezza di chi si trova al potere sia di gran lunga più importante delle forme costituzionali. La teoria politica degli umanisti manifestò sempre un maggiore interesse per i governanti rispetto ai tipi di governo. Tuttavia Salutati, a differenza di altri umanisti a lui successivi, non perde mai di vista le importanti limitazioni che vanno imposte al potere monarchico, quali il consenso popolare e il diritto di opporsi ai tiranni. Quest’ultimo aspetto, a ogni modo, va regolato in base a principi di prudenza, legalità e bene comune. Salutati riconosce, ad esempio, che Bruto e Cassio furono spinti ad agire dal loro amore per la libertà (nonché dall’ambizione), ma afferma che il loro tirannicidio merita di venire condannato essendo di per sé un atto illegale e, a riprova della sua sconsideratezza, esso fece ricadere Roma nella spirale delle guerre civili. Un tirannicidio che porta alla rivoluzione non potrà mai essere considerato un’azione prudente, visto che i mali delle guerre civili quasi sempre superano le sofferenze causate da un regime tirannico. L’omicidio perpetrato da Bruto e Cassio, infine, risulta ancora più esecrabile dal momento che Cesare era, sotto molti aspetti, un principe giusto, al di là dei mezzi opinabili con cui assunse il potere.
Dal brano sopra citato e da altri passi in varie sezioni del De tyranno risulta chiaro che Salutati ha in mente un’idea di libertas che non esclude affatto il regime monarchico. Salutati aveva ereditato una serie di nozioni, non sempre coincidenti, su cosa si dovesse intendere per ‘libertà politica’ sia dalla cultura classica sia da pensatori quali Giovanni di Salisbury, Egidio Romano e Tolomeo da Lucca. Fra tali nozioni vi era quella della libertà intesa come sistema legale, basato su di una costituzione, cui si contrapponeva un regime arbitrario e tirannico. Esisteva inoltre un’idea di libertà come sinonimo di autonomia, ossia non subire il dominio di altri Stati, e – ancora – una lettura delle libertà derivata dall’etica razionalista dei filosofi greci, secondo cui essa consisteva nel conformarsi alla ragione e, pertanto, nell’agire in modo virtuoso. Nessuna di queste interpretazioni escludeva necessariamente la forma di governo monarchico. Solo più tardi umanisti quali Niccolò Machiavelli applicarono il concetto di libertà come sinonimo di autonomia e quindi non dipendenza al governo interno delle città-Stato, elaborando così una teoria prettamente ‘repubblicana’ della libertà. Ma a tale sviluppo gli umanisti non erano ancora giunti all’epoca di Salutati.
Leonardo Bruni nacque nel 1370 ca. ad Arezzo, città che divenne parte del territorio fiorentino nel 1384. Figlio di un commerciante di grano, da ragazzo studiò probabilmente nella sua città, allora famosa per il livello delle sue scuole di ars grammatica, ma agli inizi dell’ultimo decennio del secolo si trasferì a Firenze per seguire i corsi di legge. Qui si unì al circolo di Salutati, che divenne per lui una sorta di figura paterna e, al tempo stesso, di mentore. Fu proprio grazie a Salutati che il celebre erudito bizantino Manuele Crisolora giunse a Firenze per insegnarvi il greco dal 1397 al 1399. Bruni divenne il suo più brillante allievo e il primo umanista del Rinascimento a vantare una profonda padronanza della lingua greca.
Nel corso della sua vita ottenne fama al di fuori di Firenze soprattutto in virtù delle sue traduzioni, impegnandosi perlopiù a tradurre testi di filosofi, retori e storici greci in latino. Fra le sue versioni di opere filosofiche dal greco si annoverano sette dialoghi platonici, l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele (rispettivamente 1416-17 e 1438), nonché gli Economica pseudoaristotelici (1420). Si tratta di versioni che godettero tutte di straordinaria fortuna; basti qui ricordare come la traduzione bruniana della Politica di Aristotele venisse ampiamente consultata sino alla fine del 16° sec. (Hankins 2003, pp. 193-239). Fu appunto grazie a questo testo che divenne comune l’accezione del termine res publica nel senso di ‛buon governo popolare’, accezione diventata poi prevalente – come detto – all’inizio dell’età moderna (Hankins 2010). Bruni compose anche, fra le altre sue opere, una Vita di Aristotele (1430), in cui a quest’ultimo veniva accordata la preferenza nel confronto con Platone (Hankins 2003, pp. 9-18; per la datazione degli scritti bruniani cfr. Hankins 2007-2008).
Nel 1405 Bruni si trasferì a Roma e, grazie al sostegno offertogli da Salutati, ottenne l’incarico di segretario apostolico alla corte di Innocenzo VII. Oltre ai quattro pontefici presso cui Bruni servì in qualità di alto funzionario (inclusi gli antipapi Gregorio XII, Alessandro V e Giovanni XXIII), egli scrisse anche alcune lettere per Martino V. Nel 1415 abbandonò la curia pontificia con l’intenzione di dedicarsi privatamente ai suoi studi. Fu allora che – in aggiunta alle versioni succitate – Bruni compose una storia della prima guerra punica basata su Polibio (i Commentaria tria de primo bello punico, risalenti al 1421-22), un trattato pedagogico (De studiis et litteris, 1422-26), uno sull’istituto della cavalleria in ambito civile (De militia, 1421) e, infine, uno di teoria della traduzione (De interpretatione recta, 1424-26). Attese inoltre alla stesura dell’Isagogicon moralis discipline (1424-26), in cui confluirono un rapido esame delle varie scuole filosofiche greche – basato soprattutto su Cicerone – e un riassunto della dottrina morale di Aristotele. Sempre nello stesso periodo iniziò a porre mano al suo capolavoro, vale a dire i dodici libri dell’Historia florentini populi (1416-42).
Nel 1427 Bruni venne eletto cancelliere di Firenze, impiego che conservò sino al termine della sua vita (9 marzo 1444). Assunta la cittadinanza fiorentina nel 1416, divenne per la prima volta eleggibile per gli uffici maggiori nel 1436. Nel periodo 1439-41 figurò per tre volte fra i membri della prestigiosa e influente magistratura dei Dieci di balìa, e fu nominato fra i nove priori nel 1443. A detta di Poggio Bracciolini, sarebbe stato eletto gonfaloniere di Giustizia, la massima carica fiorentina, se fosse vissuto un poco più a lungo. Bruni era insomma – al pari del suo ideale, Cicerone – un letterato e un homo novus che terminò la sua carriera come ricco e importante uomo di Stato.
La fama di Bruni in epoca recente è dovuta essenzialmente alla sua figura di primo ‘umanista civile’ all’interno della moderna tradizione repubblicana. Tale ruolo gli fu assegnato dal grande studioso tedesco naturalizzato statunitense Hans Baron nella sua celebre monografia The crisis of the early Italian Renaissance (1955). Un’interpretazione affine a questa, per quanto concerne l’importanza dell’umanesimo civile bruniano, si deve a Eugenio Garin (2009, p. 126).
I testi principali su cui poggia l’interpretazione moderna del pensiero politico di Bruni sono la Laudatio florentinae urbis (1403-1404), il già citato De militia (1421), la Oratio in funere Iohannis Strozzae (1428) e il trattatello in greco dal titolo La costituzione fiorentina (1439). Si tratta di opere assai diverse per genere e intenti. Il primo e il terzo costituiscono esempi di letteratura epidittica, in cui (come Bruni stesso afferma) all’oratore è lecito impiegare in una certa misura abbellimenti ed esagerazioni. Il secondo è invece una critica non priva di verve polemica all’idea medioevale – soprattutto francese – di cavalleria; ivi l’autore si rifà alla teoria politica greca e alla tradizione di Roma antica per reinterpretare la figura del cavaliere alla stregua di una forma particolare (e aristocratica) di ufficio civile. L’ultimo testo citato, infine, offre una disamina della costituzione fiorentina esemplata su simili descrizioni all’interno della Politica di Aristotele, a beneficio – come rivela una copia posseduta da Gemisto Pletone – dei partecipanti greci al Concilio per l’unione delle due Chiese che si svolse nella città toscana.
Il panegirico dal titolo Laudatio florentinae urbis, ispirato all’orazione di Elio Aristide in lode di Atene, e l’oratio funebris, il cui modello è invece il discorso di Pericle per i caduti trasmesso da Tucidide, offrono entrambi una visione idealizzata di Firenze in cui questa viene elogiata per la sua bellezza, le imprese militari, la virtù dimostrata in pace e in guerra, la sua cultura, il buon governo e la libertà di cui godono i suoi cittadini. Bruni sottolinea come tutti gli abitanti di Firenze siano uguali di fronte alla legge e venga loro concesso «lo stesso diritto di partecipare alla vita pubblica». Egli delinea l’immagine di una città che favorisce una sana e meritocratica competizione fra i suoi membri, in modo che quanti risultino moralmente migliori e più preparati accedano al governo e si sforzino di ottenere pubblico riconoscimento. Varie affermazioni in entrambi i testi potrebbero a prima vista apparire palesemente populiste. Una volta lette con maggiore attenzione all’interno del loro contesto retorico, tuttavia, esse si dimostrano coerenti con l’ideologia oligarchica che Bruni professa in altri suoi scritti. In queste orazioni, infatti, così come nella sua opera storiografica e nelle missive, egli elabora un concetto ‘negativo’ di libertà che pone in rilievo l’autonomia politica da Stati stranieri e l’indipendenza da derive autoritarie interne. In nessuno dei suoi testi elabora una concezione ‘positiva’ della libertà quale poteva riscontrare, per es., nelle pagine di Tucidide dedicate alla costituzione ateniese o in vari ambiti della cultura comunale fiorentina caratterizzata dalla politica delle corporazioni nel corso del Medioevo.
Per una più chiara comprensione dell’ideologia che Bruni intende promuovere bisogna rivolgersi al suo trattatello sulla costituzione fiorentina, un’opera tarda e meno vincolata dai dettami del genere epidittico rispetto alle due orazioni sopra citate. In questo scritto egli presenta quella di Firenze come una costituzione mista in senso aristotelico, ossia una combinazione di democrazia e aristocrazia. Sebbene essa riveli vari elementi democratici, quali la breve durata degli incarichi, la scelta degli ufficiali tramite estrazione a sorte e la libertà di parola, il suo carattere prevalente è di tipo aristocratico. Il governo «dei migliori e dei più ricchi» (oi áristoi kai plousiótatoi) risulta garantito dalla scarsa frequenza delle assemblee popolari, da organi sottoposti a quello principale cui solo i maggiori cittadini possono accedere e dal divieto – per gli artigiani e le classi meno abbienti – di assumere incarichi all’interno dell’amministrazione pubblica.
Firenze è stata un tempo più democratica di quanto sia oggi – afferma Bruni – ma ciò è cambiato nel momento in cui la milizia cittadina venne sostituita da truppe mercenarie; questo ha ovviamente messo il potere nelle mani di chi le finanzia, ossia quella stessa aristocrazia basata sul censo e sul merito. Da una riflessione simile a questa contenuta nell’Historia florentini populi (VII, 101) si evince che Bruni considerava la sostituzione della milizia cittadina con i mercenari un errore a cui attribuire il successivo declino di Firenze come forza militare.
Alcuni studiosi sostengono che quest’opera di Bruni, scritta in tarda età, riveli la delusione provata dall’autore nel vedere la libertà fiorentina affievolirsi sotto il regime di Cosimo de’ Medici. Non vi è in realtà alcuna prova a sostegno di una simile tesi, e anzi molti elementi indicano l’esatto contrario, testimoniando come Bruni non solo accettasse il regime mediceo ma – di fatto – ne traesse cospicui benefici. Per quanto concerne il pensiero politico, durante l’intero corso della sua vita egli – in sintonia con la maggior parte degli umanisti del 15° sec. – fu un conservatore che con i suoi scritti sostenne l’ideologia dei governi principeschi e oligarchici che ebbe a servire. Al tempo stesso si sforzò di migliorare il carattere di tali governi, promuovendo un modello di condotta saggia e virtuosa fondato sugli esempi e sugli insegnamenti dell’antichità classica.
Il contributo più importante di Bruni al pensiero politico è l’Historia florentini populi. Si tratta di un contributo solitamente negletto dagli studiosi della storia delle idee, benché il suo intento principale fosse appunto insegnare come comportarsi in ambito politico e servire quindi, in un certo senso, da ‘specchio per i governanti’. Tramite l’Historia florentini populi Bruni voleva cioè far capire alle élites politiche fiorentine e toscane come perseguire una condotta virtuosa, conservare il potere della loro res publica e ampliarlo. Egli spiegava, poi, quali strategie politiche avevano avuto successo in passato e quali no, e il motivo di tali effetti (Hankins 2007).
Va inoltre notato che quest’opera è utile a rivelare sino a quale punto Bruni prendesse le distanze dai precetti di Aristotele. Si tende infatti a descrivere Bruni come un seguace dello Stagirita per quanto concerne il pensiero politico, e di primo acchito tale affermazione sembra del tutto plausibile, alla luce dello sforzo profuso per molti anni da questo umanista allo scopo di rendere la filosofia morale aristotelica disponibile in traduzione latina, per non parlare della sua esplicita adesione ad Aristotele. Tuttavia, la lettura dell’Historia evidenzia come, sotto vari aspetti fondamentali, Bruni rifiutasse le sue idee politiche.
Sia Aristotele (Politica, VII, 2) sia Platone (Leggi, I, 628b), per es., criticano le costituzioni che hanno come loro fine la formazione di un impero; entrambi concordano nel ritenere simili costituzioni confuse e viziate da un’erronea preferenza per la vita attiva rispetto a quella contemplativa, dall’emotività e dal perseguimento degli onori invece che dal desiderio di condurre una vita equilibrata secondo i canoni suggeriti dalla ragione. L’Historia bruniana, al contrario, promuove con forza la gloria e l’ampliamento del territorio come nobili fini da raggiungere. In un discorso fatto pronunciare da Pino della Tosa con il quale si invita la Signoria fiorentina all’acquisto di Lucca nel 1329, Bruni scrive:
Pensate, poi, a quanto aumenterà il vostro potere una volta preso possesso di questa bellissima e ben fortificata città, con un territorio così vasto, con tanti paesi e castelli! Pensate a quanto cresceranno la gloria, la fama e il nome del popolo fiorentino se una città a lungo stata nostra pari o quasi per ricchezza e potere dovesse diventare a voi soggetta! Quanto a me, lo confesso, essendo uomo che vive alla stregua dei suoi simili e come loro si comporta, desidero le stesse cose che gli altri ritengono un bene: estendere i confini, ampliare il dominio, accrescere la gloria e la reputazione dello Stato, badare alla nostra sicurezza e procurarsi guadagni. Se reputiamo che tutte queste non siano cose desiderabili, dovremo allora dire addio al benessere della repubblica, all’amor di patria e, in pratica, alla vita che conduciamo adesso. Se quanti vi consigliano di non prendere Lucca disprezzano tutto ciò e lo reputano di nessun valore, stanno di fatto introducendo delle nuove norme di vita. Se invece lo stimano e lo considerano un bene, allora devono per forza credere che Lucca sia da prendersi, visti i tanti vantaggi e i tanti benefici che ne deriverebbero (Historia florentini populi, VI, 5).
È assai probabile che questo discorso rifletta le convinzioni dello stesso Bruni. Di fatto, narrando come Firenze si risolse infine a non seguire il consiglio di Pino della Tosa, egli commenta dicendo che si trattò di «una pessima decisione da parte della città». Del resto, il discorso viene da lui posto all’inizio del sesto libro, quasi interamente dedicato al fallito tentativo fiorentino di prendere Lucca. Il resto del libro mira in pratica a dimostrare gli effetti negativi di tale errore: le enormi spese, le perdite di vite umane, la vergogna, il disastro militare e, infine, la tirannia di Gualtieri di Brienne, tutte conseguenze di questo enorme abbaglio politico.
L’Historia bruniana testimonia poi un Umanesimo civile assai meno desideroso di promuovere le classiche doti utili a una sana condotta, quale viene auspicata dai filosofi greco-latini, e assai più interessato a trovare soluzioni pratiche per i problemi di ordine politico e morale che minacciano il benessere dello Stato. L’obiettivo primario di Bruni è stimolare un atteggiamento virtuoso da parte dei cittadini al fine di accrescere il potere politico e militare di Firenze. In una certa misura, ciò significa favorire il diffondersi di virtù classiche quali la prudenza, la moderazione, il coraggio, il patriottismo e la parsimonia. Tuttavia, la sua lettura della storia in vista delle lezioni che essa può trasmettere lo induce ad assumere atteggiamenti estranei agli storici antichi. Tucidide, Livio, Sallustio e Tacito, per es., si augurano ovviamente che i loro lettori imparino la prudenza dallo studio del passato, ma non sviluppano alcuna teoria relativa al successo o meno in campo politico: la riuscita o meno in questo ambito sono da loro visti in termini puramente e tipicamente morali. Polibio ha senza dubbio una sua teoria per spiegare il successo romano, ma quando si mette a esporla deve, di fatto, interrompere il racconto (verso la fine del quinto libro) per inserire una lunga, sincronica e astratta analisi della costituzione, della religione e dei costumi militari dei Romani estesa a tutto il sesto libro (e che rimase ignota a Firenze sino all’ultimo decennio del Quattrocento). L’atteggiamento di Bruni è invece analitico e al contempo intrinsecamente storico, in quanto le sue spiegazioni per i successi e i fallimenti dei fiorentini animano il racconto e a loro volta derivano da esso. In altre parole, la prudenza e il suo contrario sono presentati nel loro concreto manifestarsi. Una delle massime preferite è che «il tempo e l’esperienza, maestra di vita» svelano la verità. La longevità del priorato fra le istituzioni fiorentine, per es., dimostra che si tratta di un organo utile e ben concepito (III, 58-59). Sono i risultati a testimoniare se si sia agito o meno con prudenza.
Non v’è dubbio che Bruni concordi con il fondamentale assunto dell’etica antica, secondo cui non si può conseguire la felicità, né nella sfera privata né in quella pubblica, senza agire virtuosamente. Ma è altrettanto vero che il suo far coincidere la felicità in ambito politico con la ricchezza, il potere e l’espansione imperialistica del proprio Stato presuppone una sfumatura romana assente dal pensiero greco antico su tali temi, finendo per arrivare a un’analisi notevolmente diversa, di tipo premachiavelliano, del concetto di virtù politica. Già in Bruni il termine virtù assume la sfumatura che diventerà poi celebre con il Principe.
Un ulteriore elemento di contrasto fra Bruni e Aristotele è ravvisabile nell’esplicita preferenza che il primo accorda al popolo (inteso come espressione della classe media) rispetto alla plebe e ai magnati. Di fatto Bruni si rivela, dall’inizio alla fine dell’Historia, un sincero partigiano del popolo. Non a caso egli loda l’istituzione degli Ordinamenti di giustizia e il suo promotore, Giano della Bella, che assurge fra i massimi eroi all’interno di quest’opera (IV, 26-40). Fino allora – scrive Bruni – il popolo si era trovato in una condizione, per così dire, di onorevole servitù (honesta veluti servitute) nei confronti della nobiltà (nobilitas). Quest’ultima non aveva mai trattato il popolo come suo pari. Conseguentemente, quanti risultavano esclusi dal ceto nobiliare avevano subito violenze, angherie, danni economici e ingiustizie di ogni genere senza riuscire mai a far rispettare la legge. A tutto questo gli Ordinamenti riuscirono a mettere fine imponendo ai nobili forti limitazioni politiche e legali; essi furono infatti privati dei diritti politici ed esclusi dalle magistrature, nonché sottoposti a pene più severe e passibili di condanna anche con prove assai meno circostanziate nei processi a loro carico. Intere famiglie erano ritenute responsabili per i crimini commessi da loro singoli membri. L’applicazione delle condanne loro comminate era affidata a un corpo militare di cinquemila cittadini capitanati dal gonfaloniere di giustizia. Infine, prosegue Bruni nella sua descrizione, un ufficiale particolare, vale a dire l’esecutore degli Ordinamenti di giustizia, aveva il compito di occuparsi dei crimini che venivano contestati ai magnati (IV, 99).
È evidente che nessun seguace ‘ortodosso’ delle teorie aristoteliche in campo politico avrebbe approvato gli Ordinamenti di giustizia. Le istituzioni proposte da Aristotele in generale, e in particolar modo il suo ideale politico misto, si prefiggevano di escludere qualsiasi forma di partigianeria. Lo scopo precipuo di Aristotele è favorire quanto più possibile lo sviluppo della virtù e della saggezza nel governo di uno Stato e assicurarsi che i governanti agiscano nell’interesse di tutti. Al tempo stesso, però, ognuno deve poter constatare che i propri interessi vengano rispettati, il che significa concedere a ogni classe sociale all’interno dello Stato (agiata, media o povera) la possibilità di prendere decisioni che la riguardino, di avere cioè una certa voce in capitolo per quanto concerne il modo in cui essa viene governata (Politica, VI, 4). Questo, a sua volta, implica un attento equilibrio fra gli elementi oligarchici e democratici nel delineare la costituzione. Ma per quanto gli interessi delle classi abbienti e di quelle povere possano risultare bilanciati, le leve del potere statale dovranno sempre essere nelle mani dei cittadini più saggi e virtuosi, quelli che Aristotele definisce «liberi di nascita, ricchi, colti e di nobile lignaggio». «La qualità deve prevalere sulla quantità», ossia i più nobili devono governare la massa dei cittadini (Politica, IV, 12). Lo Stato non può quindi ammettere forme di discriminazione nei confronti di classi particolari, giacché questo non farebbe che alimentare ulteriori contrasti. La legge, definita come raziocinio libero dalle passioni (Politica, III, 16), deve pertanto vigilare affinché non emergano forme di partigianeria, assumendo il ruolo di arbitro assolutamente neutrale. L’imparzialità delle leggi risulta di capitale importanza e deve pertanto costituire un elemento fondante di tutte le costituzioni (Politica, III, 15).
La lode bruniana degli Ordinamenti, al contrario, rivela come egli ritenga inevitabile, al pari di Niccolò Machiavelli, la presenza – all’interno della vita politica – di forme di faziosità, essendone quest’ultima una componente ineludibile. Nell’Historia Bruni non avanza mai l’ipotesi che tali scontri tra fazioni possano venire risolti seguendo la classica dottrina aristotelica, ovverosia fondendo tra loro gli elementi opposti. Egli si rivela invece fautore della strategia fiorentina, il che significa sancire la vittoria di una delle parti con strumenti legali ma anche con la forza. In altre parole, ciò che egli approva negli Ordinamenti è proprio il loro istituzionalizzare il contrasto tra fazioni. Il loro scopo dichiarato è appunto assicurare che in qualsiasi scontro tra un popolano e un esponente della nobiltà lo Stato prenderà le parti del primo e lo aiuterà ad annullare il maggiore potere di cui il secondo dispone. Le leggi devono insomma favorire il più debole al fine di proteggerlo.
L’aristotelismo bruniano risulta poi ancor meno ortodosso per quanto concerne la sua analisi sociale. Aristotele ritiene che sia assai più facile riscontrare la virtù fra persone ricche e di nobile lignaggio. Bruni, al contrario, non è dell’opinione che la virtù sia senz’altro caratteristica prevalente fra le classi elevate, e sostiene piuttosto che essa è abbastanza equamente distribuita fra tutte le componenti della scala sociale. Egli non esita, ad esempio, a lodare la virtus et constantia di Michele di Lando, capo della rivolta dei Ciompi, benché homo ex minima plebe; dimostra, anzi, di ammirarlo per «le sue qualità naturali di comando e l’aspetto tutt’altro che volgare» (auctoritas quaedam nativa et forma viri non illiberalis). Seppure di umilissime origini e appartenente al proletariato (etsi ex infima plebe ex ipsoque opificio prognatum), questi rivelò tuttavia una certa abilità nel tenere a freno le assurde aspirazioni e gli infausti obiettivi della folla (Historia, IX, 7-10). È difficile immaginare un simile apprezzamento per Cleone, il demagogo ateniese del 5° sec. a.C., da parte di Platone o Aristotele. Né, del resto, Bruni si trattiene dal condannare in modo esplicito la vergognosa condotta di gran parte della nobiltà, tacciandola di tradimento.
Egli poteva senz’altro attingere a piene mani dalla storia fiorentina lampanti esempi in cui i nobili si erano comportati in modo disdicevole. Ciò non toglie, tuttavia, che il suo ritenere la virtù una caratteristica presente nelle varie classi testimonia una serie di preconcetti di tipo sociale diversi da Aristotele. Il modo in cui egli descrive i vari personaggi nell’Historia contrasta apertamente con l’assunto aristotelico secondo cui la società assume per natura una forma gerarchica, ponendo alla sua sommità i ricchi e i nobili, ossia quanti siano al tempo stesso perlopiù saggi e virtuosi. Non v’è dubbio che lo stesso Bruni riveli in svariate circostanze una predilezione per gli optimates e che, nel corso della sua vita, si dimostrò rispettoso delle famiglie nobili alla pari di qualsiasi altro ambizioso (nonché immigrato) appartenente alla classe media, quale egli era. In vari passi dell’Historia si può riscontrare come guardi con ammirazione agli strati superiori della società, ai più abbienti, e riservi al contempo un atteggiamento di disprezzo per la «feccia» (fex) di Firenze. Tuttavia, resta egualmente notevole – almeno da una prospettiva aristotelica – quanto egli sia, da un lato, prodigo di lodi per la virtù dimostrata dai fiorentini comuni, ossia dalla classe media, e si riveli invece critico nei confronti della condotta dei nobili dall’altro. Per quanto concerne il buon andamento dello Stato fiorentino, il contributo maggiore dei nobili non deriva dalla loro superiorità morale, ma dalla loro esperienza pratica, dalla loro ricchezza e dai rapporti internazionali, tutti aspetti politicamente utili.
Per Bruni, in breve, la massima virtù del ‘vivere civile’ è la moderazione e la lezione principale che si deve attingere dall’Historia consiste appunto nel constatare come tutte le classi sociali debbano moderare il proprio comportamento. La sua strategia per conseguire l’armonia fra i cittadini risulta assai più affine al concetto ciceroniano di concordia ordinum che all’attenta distribuzione aristotelica del potere fra le varie classi. I nobili, secondo Bruni, devono riconoscere l’autorità del popolo ed esimersi dall’esercitare qualsiasi forma diretta di potere tramite le magistrature; all’interno del consorzio civile non possono atteggiarsi a signori o soldati. In tale contesto essi devono dismettere le loro prerogative nobiliari e militari – del tutto legittime, invece, se esercitate nei rispettivi possedimenti e in tempo di guerra – trattando gli altri cittadini alla pari e in modo rispettoso. Devono pertanto obbedire alla legge e porre un freno alla loro ambizione. Qualora abbiano subito un torto e desiderino soddisfazione, i nobili devono rivolgersi ai magistrati, non ricorrere alla violenza. Hanno inoltre il dovere di limitare le proprie spese per il lusso, giacché questo porterebbe a esasperare le differenze sociali e impoverirebbe lo Stato. Il popolo, a sua volta, deve nutrire rispetto e fiducia nell’esperienza, nelle competenze e nella comprovata lealtà dei nobili degni di stima, senza farsi trascinare dalle passioni; deve quindi evitare di infierire sui nobili, dal momento che questo non farebbe altro che metterli alla mercé di potenze straniere (VI, 93). Dovrebbe inoltre guardarsi dall’abolire legittimi privilegi legati al merito, spinto da una mal riposta aspirazione all’uguaglianza (VII, 24), e riconoscere che la nobiltà aumenta il prestigio di uno Stato e contribuisce ad abbellirlo. L’esempio da evitare è quello dei francesi, popolo rozzo per natura, la cui superba aristocrazia tratta le persone comuni «come se fossero schiavi» (VI, 112).
Nell’Historia, in pratica, Bruni adotta spesso categorie aristoteliche di giudizio, ma le sue conclusioni e i presupposti su cui queste si fondano sono estranei al filosofo greco. Egli fa un uso meramente strumentale di Aristotele, alla stregua di un retore, come avrebbe fatto Cicerone, con lo scopo cioè di rafforzare la propria tesi in vista di una conclusione non aristotelica, vale a dire sostenere che lo storico può giudicare istituzioni e forme di comportamento da parte dei cittadini in virtù del loro promuovere o meno il benessere e la fama dello Stato. Si tratta di una posizione assai distante da quelli che Aristotele considera gli scopi della vita politica. Per quanto egli affermi esplicitamente che l’etica costituisce una branca della politica ed è a questa subordinata, per il filosofo greco l’obiettivo primario dello Stato è favorire lo sviluppo dell’essere umano sia nella vita attiva sia in quella contemplativa. In ultima analisi, Aristotele considera un’attività non politica, vale a dire il pensare in sé, la più nobile di tutte per l’essere umano. Nella scelta fra quello che Machiavelli chiamerebbe «uno Stato che si conservi» e «uno Stato che si espande» Aristotele preferirebbe il primo, privilegiando cioè l’aspetto della durata. Bruni sembra invece più prossimo a Machiavelli nel suo mirare a far sì che Firenze possa espandersi dimostrandosi al tempo stesso duratura. Egli non potrebbe certo condividere la posizione estremistica di Machiavelli, secondo cui le norme morali sono fondamentalmente diverse da quelle che determinano il successo politico, ma appare in sintonia con le sue tesi nel fornire un’analisi ‘strumentale’ delle istituzioni e delle forme di comportamento dei cittadini.
Un esempio del realismo politico bruniano tratto dal libro XI dell’Historia ci aiuterà a illustrare questo aspetto. Siamo nel 1399 e il duca di Milano, Giangaleazzo Visconti, sta stringendo la morsa intorno a Firenze, prendendo il controllo di una città toscana dopo l’altra fino a circondarla con le sue truppe da ogni lato. I fiorentini avevano avuto l’opportunità di rompere questo accerchiamento di forze nemiche l’anno precedente, allorché Gherardo d’Appiano, signore di Pisa favorevole allo Stato fiorentino, aveva segretamente offerto loro un’alleanza tramite il suo emissario Giovanni Grassolini, qualora Firenze avesse accettato di fornirgli, a proprie spese, una cospicua guarnigione che ne rendesse più sicura la permanenza fra le mura pisane.
Anche in virtù del fatto che Pisa era tradizionalmente una città ghibellina e nemica di Firenze, Gherardo si trovava in una posizione vulnerabile. I fiorentini, però, interpretarono l’offerta di Gherardo come una richiesta di sostenere la tirannia, e la respinsero. Invece di mantenere le trattative segrete indissero un’ampia assemblea pubblica, al termine della quale stabilirono che non sarebbe stato consono al buon nome del popolo fiorentino comprarsi un’alleanza. In conseguenza di ciò, Gherardo – la cui posizione era ormai divenuta insostenibile – cedette alla proposta di Giangaleazzo e consegnò la signoria di Pisa ai milanesi. La stessa cosa avvenne quando i perugini offrirono la loro alleanza in cambio del sostegno militare di Firenze contro il pontefice, che stava allora cercando di riacquisire la signoria di quella città. I fiorentini rifiutarono, asserendo di essere guelfi di troppo specchiata fedeltà per combattere contro il papa, ma il risultato fu che Giangaleazzo riuscì a prendere possesso di un’altra città confinante. In altre parole, un inopportuno senso dell’onore, l’esagerato rispetto per il pontefice e il rifiuto ideologico della tirannia impedirono ai fiorentini di agire nel proprio interesse, inducendoli a respingere alleanze che avrebbero fermato l’avanzata di Giangaleazzo.
Bruni ci fa sapere la sua opinione in proposito tramite un discorso – in realtà mai tenuto – che egli fa pronunciare all’oligarca Rinaldo Gianfigliazzi, uno dei suoi eroi, in un’affollata assemblea (o pratica) a Palazzo Vecchio. Qui troviamo opportunamente sintetizzata l’opinione di Bruni rispetto alla debolezza dei governi popolari ogni qual volta siano chiamati a occuparsi di questioni militari, così come le sue idee sulle possibili soluzioni a tale debolezza. Ciò che egli invoca in questo brano è il realismo politico. La concreta minaccia portata alla loro esistenza in caso di guerra impone che i fiorentini mettano al primo posto il bene dello Stato e depongano, almeno temporaneamente, il loro tradizionale rispetto religioso per il pontefice, i meccanismi di controllo da loro istituzionalizzati per impedire l’ascesa di cittadini troppo potenti e i loro pregiudizi culturali a favore delle decisioni prese collegialmente e di una strategia politica elaborata nel corso di pubbliche assemblee. Bruni nota nei governi popolari una certa tendenza alla «pigrizia e alla negligenza», chiedendo quindi maggiore determinazione da parte dell’esecutivo. Non a caso Gianfigliazzi, nel discorso che lo storico gli fa pronunciare, invoca la creazione di un consiglio (presumibilmente i Dieci di balìa) di cui dovrebbero far parte cittadini onesti e saggi, appositamente incaricato di occuparsi della guerra e della politica estera fiorentina, in grado di agire tempestivamente e con la massima segretezza, come sempre è necessario in un contesto bellico se si vogliono conseguire determinati obiettivi, senza venire cioè rallentati dalle consuete pastoie burocratiche imposte dal complicato sistema decisionale del comune.
Risulta in tal senso significativo – sia detto per inciso – e certo non casuale che Bruni stesso fosse membro proprio della commissione detta Dieci di balìa all’epoca in cui stava scrivendo gli ultimi tre libri dell’Historia. Come Machiavelli (Discorsi, I, 8), Bruni considera l’invidia delle persone di scarso valore un ostacolo all’emergere di grandi leader e vorrebbe si prendessero misure concrete atte a impedire la calunnia e la persecuzione giudiziaria. Soprattutto, Bruni dimostra rispetto per l’uso della forza armata da parte dello Stato e un certo disprezzo, al contrario, per quei cittadini che sempre auspicano la pace, per motivi religiosi o economici, senza rendersi conto che la politica estera richiede fermezza. Egli preferisce un esercito permanente fatto di professionisti rispetto alla leva obbligatoria. Il buon cittadino deve senz’altro desiderare la pace, tuttavia, quando gli interessi dello Stato impongono la guerra, deve essere pronto a sostenerla.
Le soluzioni proposte da Bruni per instaurare l’armonia civile e ottenere sia potere sia prestigio a livello internazionale lo portano molto lontano dalla consueta professione di buoni intenti caratteristica del pensiero pedagogico umanistico, e che riscontriamo anche nel suo De studiis et litteris. Alla pari di vari trattati pedagogici umanistici, questo suo testo risente in larga misura di quella tradizione isocratea che sprona a coltivare le proprie abilità e doti morali allo scopo di conseguire onore e fama. Ciò comporta un vantaggio, seppure indirettamente, per lo Stato che si trova così a poter contare su una classe dirigente virtuosa. La strategia umanistica per ottenere onore è lo studio dei classici, ossia imitare la lingua e il comportamento dei Romani, nella convinzione che gli antichi siano stati migliori, più insigni, saggi e potenti rispetto agli esempi attingibili dal corrotto mondo contemporaneo. L’eloquenza antica e gli illustri modelli di virtù del mondo antico dovrebbero di per sé ispirarci a condurre una vita migliore.
Nell’Historia Bruni adotta una diversa strategia persuasiva. Egli invita i suoi concittadini ad agire virtuosamente perché la loro storia dimostra che non comportarsi così conduce inevitabilmente la collettività al disonore e al fallimento. Egli non promette che in ogni singolo caso la virtù di un individuo verrà ricompensata con una vita piena di successi, come dimostra abbondantemente, fra gli altri, la sorte toccata al suo eroe, Giano della Bella, privato dei suoi beni ed esiliato dagli ingrati concittadini (IV, 40); promette, però, che la città la cui classe dirigente si comporta in modo virtuoso sarà libera, potente e famosa. Forse riuscirà anche a dimostrare di meritare un impero universale, come Roma antica. Si tratta comunque di una promessa da politico romano, come Cicerone, non da filosofo, come Aristotele. A loro volta, il tipo di analisi adottato da Bruni, il suo subordinare la virtù privata alla gloria dello Stato nonché il tentativo di porre la lealtà nei confronti di questo al di sopra di ogni altra forma di lealtà (sia essa rivolta al partito, alla propria classe sociale o persino alla Chiesa) indicano che la sua principale affinità a livello di pensiero politico non è con Aristotele, Polibio, san Tommaso d’Aquino o persino con Tolomeo da Lucca, ma con Machiavelli.
Il trattato “De tyranno” e lettere scelte, a cura di F. Ercole, Bologna 1942 (una versione integrale inglese del trattato, con testo originale a fronte, sarà compresa nel volume Political writings, ed. and transl. S.U. Baldassarri, R. Bagemihl, Cambridge, Mass., in preparazione).
D. De Rosa, Coluccio Salutati: il cancelliere e il pensatore politico, Firenze 1980.
H. Langkabel, Die Staatsbriefe Coluccio Salutatis: Untersuchungen zum Frühhumanismus in der Florentiner Staatskanzlei und Auswahledition, Köln-Wien, 1981.
R.G. Witt, Hercules at the crossroads. The life, works and thought of Coluccio Salutati, Durham (N.C.) 1983.
R. Black, The political thought of the Florentine chancellors, «The historical journal», 1986, 29, 4, pp. 991-1003 (riproposto con alcune variazioni in Id., Studies in Renaissance humanism and politics, Farnham 2011).
Coluccio Salutati e l’invenzione dell’Umanesimo, Atti del Convegno internazionale di studi, Firenze (29-31 ottobre 2008), a cura di C. Bianca, Roma 2010.
Opere letterarie e politiche, a cura di P. Viti, Torino 1996.
History of the Florentine people, ed. and transl. J. Hankins, 3 voll., Cambridge (Mass.)-London 2001-2007.
H. Baron, The crisis of the early Italian Renaissance: civic humanism and republican liberty in an age of classicism and tyranny, 2 voll., Princeton (N.J.) 1955 (ed. riveduta in un solo volume Princeton, N.J., 1966; trad. it. Firenze 1970).
C. Vasoli, Bruni Leonardo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 14° vol., Roma 1972, ad vocem.
J. Hankins, Humanism and platonism in the Italian Renaissance, 1° vol., Humanism, Roma 2003.
J. Hankins, Teaching civil prudence in Leonardo Bruni’s “History of the Florentine people”, in Ethik: Wissenschaft oder Lebenskunst? Modelle der Normenbegründung von der Antike bis zur Frühen Neuzeit, hrsg. S. Ebbersmeyer, E. Kessler, Berlin 2007, pp. 143-57.
J. Hankins, The chronology of Leonardo Bruni’s later works (1437-1443), «Studi medievali e umanistici», 2007-2008, 5-6, pp. 1-40.
E. Garin, Interpretazioni del Rinascimento, a cura di M. Ciliberto, 2 voll., Roma 2009.
J. Hankins, Exclusivist republicanism and the non-monarchical republic, «Political theory», 2010, 38, 4, pp. 452-82.
Traduzione di Stefano Baldassarri