Come rane in uno stagno: la diffusione del modello
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il modello della polis è visto qui nella sua dimensione dinamica attraverso la complessa fenomenologia della colonizzazione arcaica. Si sottolineano gli elementi di continuità e di innovazione rispetto alle esperienze di navigazione di II millennio tratteggiando gli elementi caratterizzanti delle esperienze di età storica. Pur in una casistica assai ampia, si verifica la centralità della polis come luogo privilegiato di un processo vivace, originale e per molti versi distintivo.
“Ce ne stiamo intorno alle rive del mare come rane o formiche intorno a uno stagno”, così si esprimeva Platone nel Fedone, per descrivere la presenza greca nel Mar Mediterraneo. Mare, nel IV secolo, ormai percorso avanti e indietro fin nelle sue propaggini più remote; mare ben noto e dunque già piccolo; mare comunque molto vivo.
La storia dello stagno e delle rane, però, richiede qualche spiegazione, visto che la diffusione della presenza ellenica dalle Colonne d’Ercole al Mar Nero è il risultato di un processo non banale. La carta, qualsiasi carta da manuale, che ci presenti le coste che guardano a questo mare come più o meno diffusamente punteggiate di insediamenti greci, schiaccia necessariamente in una foto senza tempo il frutto di una storia molto lunga, in cui sono proprio le molteplici vibrazioni e i cambiamenti a dare il senso di una vitalità mai quieta.
E, per coglierne lo sviluppo, bisogna cominciare prima dei Greci del I millennio e accennare almeno alle navigazioni di Micenei e Fenici – in quest’ordine – che tra XIII e IX secolo hanno “arato” il mare, definendone progressivamente confini e proiezioni. Questa sapienza marinara fatta di osservazione di stelle e correnti, di tecniche e di obiettivi più o meno lungimiranti, costituisce la necessaria premessa alla colonizzazione di età storica. E non (o non solo) perché è già nella cosiddetta età oscura che si definiscono alcuni temi di un patrimonio che si travasa, nutrendola, nella cultura greca, ma anche perché è proprio in questi secoli che il Mediterraneo diviene il teatro di una diffusa e multiforme mobilità che prima ancora di essere caratterizzata etnicamente o culturalmente riconosce nel mare (in quel mare) lo spazio insieme incerto e privilegiato per esperienze condivise, tale da diventare il collante più solido di un comune riconoscersi. Questa, forse, è l’acquisizione più duratura, quella colta da Platone in maniera tanto efficace; questa l’eredità più solida che ancora oggi tenta di restituire centralità a un mare per molti versi periferico.
Una prima mappa di questi percorsi si costruisce attraverso le scoperte dell’archeologia. Si deve a un grande studioso italiano da poco scomparso, Giovanni Pugliese Carratelli, la felice intuizione dell’importanza della navigazione micenea nella messa a fuoco del Mediterraneo come spazio geografico omogeneo e storicamente attivo. La traccia di tale intuizione si nutre sia delle immagini mediate dalla cultura di età storica e soprattutto dall’epica omerica, lì dove – nell’Odissea in particolare – essa sembra trasfigurare in forma poetica geografie e paesaggi già noti, sia dei risultati delle ricerche archeologiche che, registrando la presenza di ceramica di produzione micenea negli angoli più remoti del Mediterraneo, permettono di tracciare la mappa delle rotte di quegli antichi naviganti. Naviganti che, però, non sembrano essersi mai insediati stabilmente lontano dalla patria, ma che hanno piuttosto instaurato una serie di relazioni presumibilmente di natura commerciale con altre popolazioni affacciate sul Mediterraneo, individuando i luoghi più favorevoli anche dal punto di vista topografico. Di questa realtà che dobbiamo immaginare efficace e duratura, l’emergenza più certa è costituita proprio dai frammenti ceramici, che dicono non solo delle esigenze quotidiane dei marinai, ma anche dei beni scambiati, fosse il vasellame stesso, quando di pregio, o quanto in esso trasportato. Nessuna struttura stabile, nessun segno di insediamento organizzato; il palazzo miceneo non è esportabile né come realtà architettonica né, soprattutto, come struttura sociale. Se qualcuno è rimasto oltremare, si è trattato di esperienze individuali e isolate.
La navigazione dei Micenei, dunque, rimane saldamente e necessariamente ancorata a una economia palaziale di cui essa è funzione, tanto che, quando il palazzo crolla, anche questa esperienza sembra rarefarsi e cedere il passo ad altri naviganti e ad altri popoli, i Fenici su tutti.
I rapporti di forza, in realtà, non sono del tutto evidenti; non è chiaro se e quanto si trattò di condivisione e quanto di un inaspettato passaggio del testimone. Ci si chiede insomma se i Fenici abbiano colmato un vuoto in certa misura approfittando del cambiamento degli equilibri nel Mediterraneo orientale, e quanto abbiano saputo raccogliere un’eredità di sapienze pregresse. Sta di fatto che anch’essi hanno descritto un movimento da Oriente verso Occidente, individuando a Capo Bon sulla costa nordafricana un punto di riferimento ottimale per il controllo delle terre più occidentali e determinando sin da età protostorica la geografia dei rapporti di forza di molti secoli a venire, con la crescente potenza di Cartagine e la sua indubbia capacità di controllo esercitata prima sulla costa del continente e presto anche sulle terre a essa più vicine (Spagna, Sardegna, Sicilia).
Proprio la conoscenza di questa precoce mobilità mediterranea ha sollecitato nei decenni scorsi a trovare nuove parole d’ordine. Con “precolonizzazione” e “protocolonizzazione”, così, si è inteso contenere e descrivere tutti i fenomeni considerati come preparatori della colonizzazione vera e propria; e se pure non è accettabile spiegare il “poi” con il “prima” e dunque leggere quella mobilità solo alla luce delle fondazioni successive, resta quale acquisizione definitiva il riconoscimento del dinamismo intrinseco del periodo immediatamente precedente alla “invenzione” della polis.
È proprio la polis, infatti, il discrimen storico decisivo che sembra tagliare in due qualsivoglia periodizzazione; la polis, cioè, si impone come realtà assolutamente innovativa che inaugura prassi e teoria della comunità politica e con essa anche una più vivace mobilità sociale. Anche la storia della colonizzazione trova nella polis uno spartiacque definitivo, tanto che l’insediamento dei Greci sulle coste dell’Asia Minore, datato già dalla tradizione antica a età protostorica (XI-X sec. a.C.), viene comunemente ritenuto fenomeno a sé, da leggersi all’interno delle specifiche dinamiche migratorie a breve e medio raggio, peraltro ben comprensibili nella speciale geografia dell’Egeo.
Ben più ampia geografia, invece, quella che va tenuta presente quando si parli della colonizzazione storica, una geografia che ha come elemento caratterizzante proprio la fondazione di città vere e proprie, in sé dunque strutturalmente diverse da qualsivoglia altra tipologia di insediamento già presente sulle coste mediterranee. Non luoghi deputati al commercio e allo scambio di beni – non emporia, per dirla con i Greci, né port-of-trade, per dirla con Polanyi) –, non approdi momentanei sulle consuete rotte di navigazione, non avamposti di carattere precipuamente militare volti a difendere specifici interessi (come saranno in età classica le speciali colonie dette “cleruchie”). Ma città, anzi apoikiai (letteralmente “insediamenti derivati”). La parola greca che designa questi insediamenti ne mette subito in luce il tratto qualificante che, tra l’altro, distingue in maniera radicale il fenomeno antico dal colonialismo moderno. Le nuove fondazioni, infatti, nascono subito e di per sé già separate dalla madrepatria, ovverosia come comunità da essa politicamente indipendenti.
Un primo sguardo a una carta della colonizzazione greca di età storica (i cui estremi cronologici vanno grosso modo dalla metà dell’VIII alla fine del VI secolo a.C.) permette di cogliere immediatamente alcuni tratti distintivi. Subito si vede, per esempio, come sia assente dalla dinamica coloniale la città simbolo del mondo greco, quella Atene che fino agli albori dell’età classica rimane tutto sommato marginale rispetto ad alcuni fenomeni di cui sono protagoniste altre realtà. Primi tra tutti gli Eubei, soprattutto nella persona della città di Calcide uscita vincitrice su Eretria nella guerra per il controllo della pianura lelantina (la prima guerra tra Greci storicamente nota e datata alla seconda metà dell’VIII secolo, capace, tra l’altro, di coagulare alleanze internazionali). Proprio gli Eubei fungono da traino del movimento coloniale, dimostrando una spiccata vocazione a far da mediatori dei beni non solo propri ma anche di altri produttori (asiatici in particolare) e a percorrere in lungo e in largo il Mediterraneo, di cui dimostrano buona conoscenza. La predominanza euboica delle prime fasi della colonizzazione è oggetto di dibattito in sede moderna, che di volta in volta enfatizza o ridimensiona il valore documentario di fossili linguistici, ceramici, culturali; resta che proprio calcidesi sono nella tradizione i primi insediamenti greci in Occidente, quali Pitecusa (Ischia) e Cuma, e poi Reggio, Nasso, Leontini, Catania, in una geografia che in tutta evidenza privilegia il versante tirrenico della penisola italica – in combinazione più che in concorrenza con Fenici ed Etruschi –, lo stretto di Messina, la costa orientale della Sicilia. Ma la tradizione ricorda gli euboici (eretriesi questa volta) anche a proposito del primo insediamento greco a Corfù, l’antica Corcira, ove poi si sarebbero stabiliti definitivamente i Corinzi.
La storia dell’insanabile rivalità tra Corcira e Corinto, al pari di quella tra colonie doriche e ioniche in Sicilia, dice di più delle controversie di età classica che dei fenomeni arcaici; qui importa registrare lungimiranza e potenzialità della città dell’istmo che in età arcaica non solo conosce una poderosa evoluzione politica interna (da una aristocrazia familiare all’isonomia passando per una vivacissima tirannide), ma, più o meno in parallelo a questa, persegue un precoce interesse per Occidenti più o meno remoti, con la fondazione di Siracusa (nello stesso anno di Corcira, il 733 a.C., stando alla tradizione), e una consistente attività coloniale (a volte in collaborazione con Corcira) concentrata sulla costa occidentale della penisola balcanica (Ambracia, Epidamno, Apollonia).
Proprio dinamiche e spazi dell’attività colonizzatrice di Corinto consigliano di guardare sempre all’interezza dello stagno per vedere quanto lontane e pur collegate fossero le linee che conducevano da una parte all’altra dello stesso mare, riunendo in una catena non tanto politica quanto culturale e religiosa le colonie di Megara – la metropoli che a Occidente fonda nel 728 a.C. la sfortunata Megara Iblea nella terra degli indigeni della Sicilia orientale, e a Oriente, tra Propontide e Mar Nero, dapprima Calcedone e Bisanzio (in posizione spettacolare), quindi si spinge fino ad Astaco e a Eraclea Pontica – oppure quelle degli Spartani, che vicende tortuose conducono a Santorini, la bellissima Thera, e da qui a Cirene o, lungo altri percorsi più interconnessi di quanto appaia a prima vista, verso Taranto, unica ma non per questo meno importante colonia spartana in terra italica.
La fenomenologia è molteplice e a fatica si fa ricondurre a una casistica data: ci sono gli abitanti del lontano Egeo o delle ancora più remote coste dell’Asia Minore che si spingono con arditezza inaudita in Occidente (Rodi e Cretesi fondano Gela nel 688 a.C.; i Focei fondano Massalia e poi, probabilmente in fuga dai Persiani, Velia sul Tirreno); ci sono quelli che in qualche misura si specializzano preferendo alla concorrenza una sorta di monopolio “pseudoterritoriale” (si pensi ai Milesi che condividono con i soli Megaresi la colonizzazione in area pontica arrivando all’iperbolico numero di 90 città, tra cui senz’altro Cizico, Trapezunte, Olbia pontica); ci sono, soprattutto, ethne (realtà territoriali) che fondano poleis, città (è il caso degli Achei e dei Locresi). In questa varietà si moltiplicano anche le cause possibili, alcune colte, enfatizzate e in qualche modo stravolte dalle fonti antiche, alcune meglio rilevabili dagli studi moderni grazie alla conoscenza di lungo periodo di bisogni, risorse, migrazioni in tutto il Mediterraneo.
Non vale più, certo, distinguere rigidamente tra colonie di popolamento a vocazione agricola e colonie di precipuo carattere commerciale, come a lungo si è fatto; non soddisfa, soprattutto, la sottolineatura di una causa su tutte, quando, come sempre, è soprattutto il bisogno a muovere gli uomini facendo loro correre rischi sovente mortali. Bisogno di terra nuova per città in cui l’incremento demografico portava a una pressione sempre più insostenibile; bisogno di risorse alimentari e umane (forza lavoro fresca e disponibile); bisogno di sbocchi commerciali nuovi dove attivare scambi con le terre più lontane. Ma anche bisogno di nuovi assetti politici che individuava nell’esilio forzato di una parte della popolazione la soluzione di controversie specifiche e l’allentamento della tensione conflittuale tra gruppi sociali diversi o, più spesso, tra famiglie che concorrevano alla leadership. Bisogno di novità, perché no; di orizzonti nuovi, nuove rotte e nuove possibilità.
Si sprecano le storie di storici e no intorno a servi e figli bastardi che chiedono diritti, a pretendenti non riconosciuti, a matrimoni di convenienza, ma in tanta abbondanza qualcosa ci deve pur essere a tenere insieme una dinamica tanto lunga e tanto complessa, qualcosa che renda legittimo riconoscere come sostanzialmente unitario il fenomeno della colonizzazione greca di età arcaica.
Questo qualcosa sta proprio nella forma polis, l’esito unitario e costante di un movimento centrifugo apparentemente incessante e certamente diversificato.
La colonizzazione greca, infatti, si traduce comunque nella fondazione di città greche in terra straniera, in terre, cioè, più o meno lontane dalla Hellas geografica e abitate da popolazioni di stirpe diversa. Il processo non è né scontato né univoco: si pensi in primo luogo a Sibari, Crotone, Locri Epizefiri, tra le più importanti città dell’antica Italìa che vengono fondate, però, da realtà che ancora non conoscono la forma poleica e che sono organizzate in forma cantonale ed etnica (rispettivamente l’Acaia nel nord-ovest del Peloponneso e la Locride in Grecia centrale).
Si pone proprio qui il nodale interrogativo intorno al ruolo che il processo coloniale ha avuto nel definirsi stesso della polis, diventando occasione per la definizione e l’organizzazione di nuove forme comunitarie. Non volendo ricadere in una questione in parte insensata quale la possibilità di individuare un solo luogo e un solo tempo per la nascita della polis, resta che la colonizzazione nel suo intrinseco dinamismo ha comunque indotto una ridefinizione reale dei rapporti e con essa una articolazione (pre)politica comunque innovativa. Non sarà un caso che la tradizione antica attribuisca alle città occidentali la nascita di alcuni tra i primi legislatori – Zaleuco di Locri e Caronda di Catania i nomi più noti –, a significare come la migrazione di piccoli gruppi di uomini, magari sulla spinta di qualche turbolenza di potere, portava sovente e forse inevitabilmente alla sperimentazione di nuove possibilità in cui l’imporsi di un’élite aristocratica si integrava con spinte di più spiccato carattere isonomico. Nella madrepatria, del resto, alla struttura piramidale delle società del II millennio si era pressoché ovunque sostituita una struttura relazionale e politica che riconosceva ai membri di un gruppo più o meno allargato (e proprio in questo dosaggio sta il carattere più o meno elitario delle politeiai storiche) una sostanziale parità, il che si traduceva in parità di possesso terriero e di potere decisionale lì dove si dovessero fondare e organizzare comunità nuove. Pur fuori dalla Grecia e spesso molto lontane da essa, le poleis sono “greche nell’anima”, ovvero mantengono inalterati quegli elementi costitutivi e fondanti che fanno della polis l’esperienza di riferimento per molto tempo a venire, in primis il rapporto inalterabile e necessario tra partecipazione politica, possesso della terra, militanza nell’esercito cittadino.
L’idea, e la necessità, di una guida non viene del tutto dismessa, naturalmente, se non altro per ragioni meramente pratiche e si trova incarnata nella figura del fondatore (oikistes), colui che gode di una sorta di investitura divina (evidente a volte in segni fisici distintivi come balbuzie e zoppia) da parte dell’oracolo delfico, che nella maggior parte dei casi fornisce con parole oscure, ma meglio comprensibili a posteriori, gli indizi necessari in merito a modalità e destinazione dell’impresa. Al fondatore, salvo che in rari casi, resta soprattutto una funzione identitaria indispensabile in comunità così lontane dalla patria e spesso resa ben visibile nel luogo di culto eroico a lui riservato attraverso il quale la comunità rinnova la propria memoria e dunque il proprio presente.
Si tratta sempre di città dinamiche, vive. E lo si vede in un altro fenomeno tanto ripetuto da diventare elemento anch’esso costitutivo e caratterizzante della colonizzazione: molte colonie fondano a loro volta altre colonie (Megara Iblea fonda Selinunte, per esempio, che con il tempo diventerà assai più grande della madrepatria dall’altra parte dell’isola); non solo: in questa sorta di duplicazione alcune tra esse sperimentano soluzioni inedite (Sibari fonda Metaponto con l’aiuto degli Achei greci; Gela fonda Agrigento con il contributo dei Rodi; gli Zanclei fondano Imera con l’aiuto dei Miletidi, fuoriusciti da Siracusa), a dire che ogni volta che un processo coloniale si mette in moto, esso è tanto intrinsecamente dinamico da generare quasi inevitabilmente novità proprio sul piano delle relazioni e delle costruzioni di identità (politiche e culturali).
Proprio nel mondo coloniale, inoltre, grazie alla disponibilità fisica di spazi e in ragione del maggiore dinamismo sociale, nonché di una forte concorrenzialità, la polis diventa soggetto trainante di esperienze destinate ad avere una lunga storia ben oltre l’età arcaica. Due esempi su tutti: Sibari in Italia meridionale e Siracusa in Sicilia orientale, entrambe tanto lungimiranti e potenti da costruire un potere abbondantemente sovracittadino in cui la formula delle subcolonie, pur non intaccando il principio dell’autonomia delle singole città, nei fatti disegna un potere territoriale più vasto. Sibari, si arrischiano a dire fonti più tarde, giunge a costruire una sorta di arche (“impero”) tra le due sponde della Calabria, riuscendo a sottoporre alla propria egemonia comunità minori ed ethne indigene. Se la vita di Sibari dura poco, ben più lunga è la vicenda di Siracusa, che proprio a partire dalla presa sul territorio sa porre le premesse per un potere che si esaurisce soltanto con l’arrivo di Roma.
Parole e cose non sempre corrispondono; o almeno non esattamente. E questo vale senz’altro per la parola-chiave su cui tutto ciò ruota, “colonizzazione”, che inevitabilmente evoca ai non specialisti esperienze assai più vicine nel tempo e anche solo per questo radicalmente diverse da quella antica.
In linea generale, infatti, l’esperienza coloniale greca mai si traduce in volontà imperialista perseguita da un potere centrale, lì dove il segno distintivo insiste nella sostanziale autonomia delle comunità fondate che anche nei momenti più difficili, quando il legame con la madrepatria può diventare ancoraggio concreto, mai rinunciano agli elementi distintivi della polis, autonomia ed eleutheria, libertà da qualsivoglia potere esterno e totale autodeterminazione.
Eppure anche la colonizzazione antica non va esente – e come potrebbe? – da presupposti ideologici e forme di violenza che ne fanno esperienza complessa e multiforme, destinata a mutare profondamente e per sempre i territori di destinazione. Un’altra parola infatti ha a lungo popolato la letteratura scientifica sul tema: “ellenizzazione”, a dire in modo non troppo evidente il processo non uniforme né pacifico che ha condotto i Greci a insediarsi in territori abitati da altri.
Ora, da tempo ci si interroga sulle reazioni che proprio la fondazione di poleis ha innescato nelle società preesistenti e sulle molteplici dinamiche culturali e sociali che hanno condotto da un lato alla sopraffazione politica di comunità meno strutturate e impreparate a subire un’aggressione esterna (tanto che sovente, come in Calabria, esse arretrano dalla linea di costa abbandonando i villaggi più vicini al mare o, come in Sicilia, si trovano nella condizione di tributari dei Greci), dall’altro alla interazione pur non paritaria tra la cultura ellenica e le culture indigene.
Le città greche, intendiamoci, non smisero mai di essere tali e dunque la loro esperienza chiede di essere letta in primis all’interno delle coordinate della loro appartenenza, ma resta che l’hellenikon coloniale ha conosciuto, soprattutto nelle esperienze marginali, forme di contatto molto interessanti.
Restano probabilmente più visibili soltanto alcuni vettori e soprattutto quelli che dai Greci portano agli “altri” (si pensi solo all’alfabeto), mentre necessariamente meno documentabili e documentati restano tutti quei fenomeni legati alle donne, alla religione non ufficiale, ai gruppi socialmente marginali, in cui le città greche hanno quotidianamente conosciuto e assorbito il lievito silenzioso delle realtà locali, politicamente deboli, ma egualmente vitali. Nemmeno la parola “ellenizzazione”, dunque, serve davvero e richiede da tempo ripensamenti e riletture che non a caso attingono alla comparazione e alle scienze sociali.
Un’ultima questione va evocata, sulla scorta di letture che negli ultimi anni hanno rimesso in moto la discussione sul fenomeno della colonizzazione che un po’ languiva nell’indagine su singoli studi del caso. Si sostiene che anche in merito alla colonizzazione gli antichi ne sapessero quanto noi, anzi di meno; e che dunque la tradizione letteraria non soccorre né aiuta a comprendere quando si voglia ricostruire un fenomeno tanto complesso dell’età arcaica.
Del fenomeno stesso si mette in dubbio l’esistenza, ritenendolo piuttosto la riduzione a sistema da parte del pensiero classico che avrebbe proiettato all’indietro, conferendo loro unità, frammenti che non autorizzerebbero il riconoscimento di una fenomenologia coloniale complessiva.
Il dibattito sulle fonti letterarie e storiche antiche non si chiude mai, è vero. Certo è che a voler assumere in toto una prospettiva ipercritica, si dovrebbe poi avere il coraggio di non scrivere più una riga nemmeno di manuale né sulla colonizzazione né su altri fenomeni dell’VIII-VI secolo a.C., affidando alla documentazione archeologica il compito non già di documentare, ma di interpretare i dati. Quanto poi alla colonizzazione, è chiaro che si tratta di un campo assai delicato in cui particolarmente ardua diventa l’orchestrazione tra parole-chiave e modelli, ricostruzioni (di antichi e di moderni), tradizioni, documentazione archeologica.
Ma se si vuole riconoscere come tema di dirompente novità della storia greca l’“invenzione” della polis, e se si riconosce che la forma polis è per noi visibile già in età arcaica in tutto il bacino mediterraneo, allora non si potrà dimenticare che questa diffusione ha cause e modalità specifiche e che proprio la forma poleica costituisce un elemento discriminante e di lunga durata su gran parte delle aree in cui essa si è innestata. Che si voglia o no chiamare questa “colonizzazione” è a ben vedere ininfluente.