Commedia all'italiana
La locuzione commedia all'italiana, che definisce un genere di cinema comico-satirico di matrice neorealista, diventò corrente solo negli anni Settanta, quando il filone esisteva da trent'anni e si andava ormai esaurendo. In origine, la c. all'i. era stata la continuazione del Neorealismo in chiave più leggera. Il Neorealismo aveva reagito alla programmatica artificialità dei film di regime privilegiando la verità sulla ricostruzione (la strada invece del teatro di posa), il dialetto sulla lingua neutra, gli attori-popolani su quelli di formazione accademica, e mescolando il comico al drammatico. Ma la stagione del Neorealismo propriamente detto fu breve. Quel cinema piacque poco in patria, dove la gente chiedeva soprattutto evasione, mentre la censura, che veniva esercitata con durezza nei confronti dei registi e dei produttori più impegnati, non facilitava la circolazione delle loro opere. La c. all'i. nacque a questo punto, sia dunque come continuazione del Neorealismo in chiave più accettabile per gli spettatori, sia come sfruttamento di uno dei pochi campi non occupati dal cinema di importazione. Si fecero film, in altre parole, che partendo dall'attualità scherzavano su una materia di per sé piuttosto tragica, arrivando talvolta persino alla morte di uno dei personaggi principali. In questi film si impiegarono, inoltre, comici provenienti dal varietà, spesso legati al loro dialetto. La primissima e forse involontaria c. all'i. fu concepita sulla misura di Erminio Macario, allora grande rivale di Totò. Come persi la guerra (1947) di Carlo Borghesio, girato con pochi mezzi, racconta le traversie di un poveraccio qualunque sballottato in una serie di conflitti che non comprende, dall'Africa alla Spagna alla Russia, per ritornare infine in un'Italia invasa da buffi nazisti e brutali americani. Inopinato campione di incassi dell'anno, fu continuato dalla stessa coppia di regista e attore in L'eroe della strada (1948) e in Come scopersi l'America (1950). Già Abbasso la miseria! (1945) e Abbasso la ricchezza! (1946) di Gennaro Righelli, entrambi con Anna Magnani, avevano parlato di rapide fortune fondate sulla borsa nera; L'onorevole Angelina (1947) di Luigi Zampa, sempre con la Magnani, mostra una popolana che dà voce al malcontento generale per i disagi del dopoguerra, e Vivere in pace (1947), con Aldo Fabrizi, ancora di Zampa, racconta la storia di contadini che nascondono un militare alleato. Sulla crisi degli alloggi si rise in Totò cerca casa (1949) di Steno e Mario Monicelli. Molti sceneggiatori di questi e altri film simili, che mostrano sullo sfondo le disfunzioni dell'ex Bel Paese, erano stati umoristi del "Marc'Aurelio" e di altre testate di quel genere: Age, Furio Scarpelli, Alessandro Continenza, Steno, Federico Fellini, Ettore Scola, Ruggero Maccari, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi. Il passo successivo verso il raggiungimento della propria fisionomia, la c. all'i. lo fece con l'avvento di un nuovo attore-autore, Alberto Sordi, il quale si era costruito un personaggio che, diversamente da tutti quelli dei comici cinematografici precedenti, da Charlie Chaplin a Totò, non solo non era fisicamente ridicolo, ma non era nemmeno simpatico: non faceva smorfie, non era stupido né imbranato; era un italiano medio qualunque, cattolico, moderatamente bugiardo, pigro, furbastro. Le sue storie non avevano in sé niente che le rendesse particolarmente spassose. Fellini gli affidò la parte del protagonista in Lo sceicco bianco (1952), la sua visita al mondo dei fotoromanzi, e subito dopo gli fece fare, in I vitelloni (1953), il giovanotto fannullone che non esita a spillare soldi alla sorella, salvo indignarsi virtuosamente quando quella va via di casa con un uomo sposato. L'accettazione incondizionata da parte del pubblico di questo antieroe vigliacchetto e ingenuamente tracotante fu sancita da Il seduttore (1954) di Franco Rossi, tratto da una commedia seria di D. Fabbri, sui tentativi di tradire la moglie da parte di un giovanotto velleitario, fondamentalmente innocuo.
Dopo questo film, che segnò l'incontro di Sordi con Rodolfo Sonego, da allora suo sceneggiatore più costante, l'attore interpretò L'arte di arrangiarsi (1954) di Zampa, conclusione di una beffarda trilogia sull'Italia del dopoguerra del regista romano in collaborazione con lo scrittore V. Brancati, preceduto da Anni difficili (1948) e Anni facili (1953). Nel primo un antifascista (Umberto Spadaro), già costretto a prendere la tessera del partito per non perdere l'impiego, è poi epurato come ex fascista; nel secondo, un piccolo professore già avversario del regime (Nino Taranto) si lascia invischiare in intrallazzi del consumismo postbellico. Il film con Sordi traccia invece la carriera di un opportunista voltagabbana dal 1912 ai primi anni Cinquanta. Fu anche il principio di un quasi monopolio esercitato dall'attore nel genere comico-impegnato, dove inizialmente non ebbe rivali. Mentre continuava ad apparire in molte farse di tipo più tradizionale, Sordi sfruttò la maschera che aveva inventato in numerosi film, tra cui: Un eroe dei nostri tempi (1955) di Monicelli; Lo scapolo (1955) di Antonio Pietrangeli; Il marito (1958) di Nanni Loy, Fernando Palacios e Gianni Puccini; Il moralista di Giorgio Bianchi, I magliari di Francesco Rosi, La grande guerra di Monicelli, Il vedovo di Dino Risi, tutti del 1959; Tutti a casa di Luigi Comencini, e Il vigile di Zampa, del 1960; e poi Una vita difficile (1961) di Risi, Mafioso (1962) di Alberto Lattuada, Il diavolo (1963) di Gian Luigi Polidoro, Il boom (1963) di Vittorio De Sica, Il disco volante (1964) di Tinto Brass, Il medico della mutua (1968) di Zampa. Dal-la sua ragguardevole carriera l'attore avrebbe ricavato in seguito, nel 1979, una rievocazione televisiva lunga parecchie ore e intitolata Storia di un italiano. Alcuni di quei film avevano sfruttato tempestivamente fatti di cronaca imbarazzanti per le autorità, come il caso di un vigile perseguitato per avere multato un potente; altri, come Il moralista, prendevano in giro un esponente della gerarchia al potere; altri ancora mostravano la fine degli ideali nell'Italia del nuovo benessere (Una vita difficile, Il boom). Tutti a casa affronta il tema dell'8 settembre, un tabù nel cinema serio per via della censura. In precedenza, con La grande guerra la commedia era riu-scita a intaccarne un altro ancora più massiccio, quello del primo conflitto mondiale, di cui non si poteva parlare che in chiave celebrativa. La grande guerra fu anche la prima c. all'i. in costume, in cui vengono raccontate le traversie di due fantaccini che pensano soprattutto a cavarsela, anche se muoiono come eroi. Qui ad Alberto Sordi era stato affiancato Vittorio Gassman, celebre interprete drammatico che però nel cinema non aveva avuto fortuna se non in ruoli di cattivo, fino a quando proprio Monicelli non lo aveva imposto in I soliti ignoti (1958), parodia dei film sulle grandi rapine, senza comici di professione, tranne Totò, chiamato dal produttore, preoccupato a causa dell'assenza di comici famosi, per un cammeo peraltro indimenticabile. A Vittorio Gassman si dovette il passo successivo nell'evoluzione della c. all'i., quando Risi gli affidò una parte nata per Sordi, il ritratto di uno sbruffone estroverso ma vuoto dentro, campione dell'euforico boom che il Paese stava vivendo in quegli anni. Il sorpasso, record di incassi nel 1962, dimostrò che il personaggio di Sordi funzionava anche con altri interpreti, e ben presto accanto a Vittorio Gassman si specializzarono in sue variazioni anche i coetanei Ugo Tognazzi e Nino Manfredi; per più di un decennio questi quattro attori ebbero l'egemonia della satira agra sui costumi. Al quartetto va affiancato il più eclettico Marcello Mastroianni, protagonista del memorabile Divorzio all'italiana (1961), con cui il regista Pietro Germi spezzò una lancia per il nascente movimento a favore del divorzio, presentando il caso paradossale di un siciliano che, per sbarazzarsi della moglie, prima ne organizza l'adulterio, quindi la ammazza pubblicamente per motivi di onore. Scoperta l'efficacia di questa chiave paradossale, il moralista Germi tornò a usarla in Sedotta e abbandonata (1964), pamphlet sui matrimoni forzati, e in Signore & signori (1966), sulle ipocrisie della rispettabilità in provincia. Più tardi in Serafino (1968), con Adriano Celentano e in altri film successivi avrebbe affrontato ancora il tema delle miserie coniugali.
Grazie al richiamo dei quattro 'mostri' e alla scoperta del fatto che gli italiani amavano sentir parlare dei loro difetti, delle disfunzioni del loro sistema, delle bugie dei loro manuali di storia e di altri argomenti scomodi o imbarazzanti, solo a patto di poterci ridere sopra, i primi anni Sessanta furono l'età d'oro della c. all'i., con un apice collocabile nel 1963. Nel 1961 uscì il lieve e ironico Il posto di Ermanno Olmi (che avrebbe poi continuato a lavorare su un registro intimista); nel 1962 spiccarono La marcia su Roma di Risi, con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, e l'originale I nuovi angeli di Ugo Gregoretti. Nel 1963 comparvero almeno quindici film assegnabili al genere, che affrontavano molti dei suoi argomenti fatidici. Tra questi La smania addosso di Marcello Andrei, film che tratta di uno stupro in Sicilia, tema che sarebbe tornato in Sedotta e abbandonata; intanto Gassman e Jean-Louis Trintignant tentarono di replicare Il sorpasso con Il successo di Mauro Morassi; sempre con Vittorio Gassman e con Ugo Tognazzi, Risi girò I mostri, venti brevi sketch sulle crudeltà spicciole di quei tempi. Tognazzi incontrò Marco Ferreri per L'ape regina; Monicelli volle raccontare uno sciopero fallito nella Torino di fine Ottocento in I compagni; Antonio Pietrangeli descrisse una ragazza che si vuole emancipare in La parmigiana, e una matura zitella che cerca marito in La visita; Lina Wertmüller debuttò con I basilischi, sull'inerzia di certa gioventù meridionale. Il cinema sfruttava per la satira gli spazi lasciati liberi dalla televisione, monopolio di Stato; e coerentemente con la tradizione novellistica nazionale, ricorse anche alla formula del film a episodi, che consentì di impiegare per breve tempo registi e attori di richiamo. E. Scola esordì nella regia proprio con una galleria di episodi scollacciati con Gassman sempre protagonista in Se permettete, parliamo di donne (1964); Alta infedeltà, dello stesso anno, ha quattro sketch sul tema, diretti da Elio Petri, Luciano Salce, Franco Rossi e Monicelli; La mia signora, ancora del 1964, comprende cinque sketch di Alberto Sordi per tre registi (Tinto Brass, Comencini, Mauro Bolognini); con Le bambole (1965) di Risi, Comencini, Rossi e Bolognini si cercò di puntare per una volta sulle star femminili (Gina Lollobrigida, Monica Vitti, Virna Lisi); I complessi (1965) di Rossi, Risi e Luigi Filippo d'Amico è ricordato per lo sketch Guglielmo il dentone diretto da quest'ultimo e interpretato da Alberto Sordi, con un blando tentativo di satira nei confronti della televisione.Raggiunta l'acme, cominciò però il declino del filone, malgrado tentativi di rinnovarsi. Si cercarono alternative ai quattro inevitabili divi, lanciandone senza troppa fortuna di nuovi (Johnny Dorelli, Alberto Lionello, Paolo Villaggio, Lando Buzzanca) e talvolta puntando sulle donne, donde una serie di commedie al femminile (per es., Le dolci signore, 1967, di Zampa, con Ursula Andress, Virna Lisi, Claudine Augier). La sola attrice a imporsi in questo campo fu Monica Vitti, già intensa interprete dei film di Michelangelo Antonioni, grazie a Monicelli che ne scoprì il talento comico in La ragazza con la pistola (1968), su un altro tentato delitto per motivi d'onore; subito dopo affiancò Sordi in Amore mio, aiutami (1969), diretto dall'attore, sui problemi di una coppia che vuole essere 'aperta'. Si rilesse maliziosamente la storia patria, come in Le voci bianche (1964) di Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa sui cantanti castrati, e in L'arcidiavolo (1966) di Scola con Vittorio Gassman, sulla pace tra papa Innocenzo VIII e Lorenzo de' Medici; ma fu soprattutto L'armata Brancaleone (1966) di Monicelli, estrosa rivisitazione di un Medioevo sgangherato e maccheronico, ad avere grande successo, mentre Luigi Magni esplorò la Roma meno conosciuta in un'originale serie iniziata con Nell'anno del Signore… (1969) e Franco Indovina reiventò anch'egli un Medioevo grottesco in Tre nel Mille (1971).
Meno spontaneo fu il tentativo di creare una commedia bilingue per esportarla negli Stati Uniti, dove Hollywood, in anticipo sull'Italia, era in crisi per la concorrenza della televisione. Si tentarono ibridi come Caccia alla volpe (1966) di De Sica, scritto da Neil Simon e Cesare Zavattini, con Peter Sellers e Victor Mature, o La ragazza e il generale (1967) di Festa Campanile, con Virna Lisi e Rod Steiger, o Il tigre (1967) di Risi, con Vittorio Gassman, Ann-Margret e Eleanor Parker. Girati in inglese, questi film non riuscirono a imporsi sul mercato statunitense, e talvolta stentarono anche su quello italiano.L'allentarsi delle maglie della censura e l'emergere della televisione indipendente resero la c. all'i. meno trasgressiva, e quindi meno interessante: nudi e parolacce esonerarono gli sceneggiatori da quel gioco di allusioni che aveva avvinto il pubblico in un patto di complicità. Mentre il nuovo, spregiudicato talento di L. Wertmüller approfittava dei vincoli caduti con Mimì metallurgico ferito nell'onore (1972), Film d'amore e d'anarchia: ovvero "Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota ca-sa di tolleranza…" (1973), Tutto a posto e niente in ordine (1974), Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare di agosto (1974), tutti ben più aggressivi e sboccati dei loro predecessori (tra l'altro lanciando nuove star come Giancarlo Giannini e Mariangela Melato), i film che i vecchi maestri continuavano a proporre, come Dramma della gelosia ‒ Tutti i particolari in cronaca (1970) di Scola sembrarono prodotti di accademia accanto all'ondata di Le calde notti di Poppea (1969) di Guido Malatesta e simili su cui in quel momento i produttori preferivano investire. Nel tentativo di non uscire dai suoi binari più caratteristici, la c. all'i. classica si fece sempre più cupa. Nel film In nome del popolo italiano (1971) di Risi un magistrato (Ugo Tognazzi) distrugge una prova pur di incastrare il personaggio interpretato da Vittorio Gassman, innocente del delitto attribuitogli, ma deleterio speculatore. Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Loy è incentrato sull'incubo della carcerazione preventiva. La grande bouffe (1973; La grande abbuffata) di Ferreri, allegoria del consumismo, mostra quattro amici gourmet che si suicidano a forza di mangiare. Finché c'è guerra c'è speranza (1974), diretto e interpretato da Alberto Sordi, disegna la figura di un mercante di armi che, denunciato, vorrebbe smettere il suo losco mestiere, ma è costretto a continuarlo dalla famiglia perbene, ormai abituata al benessere. In Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati un povero cameriere italiano (Nino Manfredi) in Svizzera, una volta licenziato, affronta umiliazioni sempre più grottesche pur di non essere espulso da quell'eden. Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Scola, ancora con Manfredi, descrive una feroce tribù di borgatari. In Un borghese piccolo piccolo (1977) di Monicelli, Alberto Sordi è un travet che cattura, tortura e uccide atrocemente il piccolo delinquente che ha ammazzato suo figlio durante una rapina. In Caro papà (1979) di Risi un giovane contestatore diventa terrorista e ha l'incarico, eseguito, di sparare al proprio padre, un ricco industriale (Vittorio Gassman). Il fallimento di quest'ultimo film è emblematico del disagio che il genere ha provato nei confronti degli anni di piombo, impossibili da trattare satiricamente. Già nel 1974, alla c. all'i. si era detto in certo modo addio con un film di Scola, C'eravamo tanto amati, in cui tre amici tracciano il bilancio di quello che sono diventati in trent'anni. Nei decenni successivi, pur riaffiorando ogni tanto con prodotti talvolta bene accolti dal pubblico ‒ come, tra i tanti, Amici miei (1975) di Monicelli, La terrazza (1980) e La famiglia (1987) di Scola, Tutti dentro (1984) di Sordi, Speriamo che sia femmina (1986), Parenti serpenti (1992) e Panni sporchi (1999) ancora di Monicelli, e Los negros también comen (1988; Come sono buoni i bianchi), trasferta di Ferreri in un continente nero impegnato nella resistenza passiva alla colonizzazione ‒, il glorioso filone, ormai spesso scivolato nel racconto di storie private, non presentò più, se non raramente, quelle caratteristiche di satira-commento a caldo cui doveva la sua specificità.
Qualche garbata esercitazione su temi affini a opera di autori della generazione più recente, come Mediterraneo (1991) e Puerto Escondido (1992) di Gabriele Salvatores, Benvenuti in casa Gori (1990) di Alessandro Benvenuti ‒ battistrada quest'ultimo di una nuova voga per la disincantata, mordace ironia toscana ‒ o Ferie d'agosto (1996) di Paolo Virzì, o ancora le commedie dell'attore-regista Carlo Verdone, ha fatto parlare di ripresa e ripetizione degli schemi della c. all'i., ma non ha impedito ad alcuni di denunciare il definitivo tramonto del genere.
L. Miccichè, Il cinema italiano degli anni '60, Venezia 1976.
C.G. Fava, Alberto Sordi, Roma 1979.
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M. Porro, Alberto Sordi, Milano 1979.
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La commedia all'italiana. Parlano i protagonisti, a cura di P. Pintus, Roma 1985.
Mario Monicelli. L'arte della commedia, a cura di L. Codelli, Bari 1986.
Age & Scarpelli in commedia, a cura di C. Trionfera, Pesaro 1990.
Mordi e fuggi. La commedia secondo Dino Risi, a cura di V. Caprara, Venezia 1993.
E. Giacovelli, Non ci resta che ridere. Una storia del cinema comico italiano, Torino 1999.
Lo sguardo eclettico. Il cinema di Mario Monicelli, a cura di L. De Franceschi, Venezia 2001.