COMMERCIANTE (fr. commeråant, marchand; sp. comerciante; ted. Kaufmann; ingl. merchant, trader)
Nel significato economico, entrato nell'uso e nel linguaggio comune, la parola designa chi per speculazione s'intromette nella circolazione economica dei beni, qualificati durante questa circolazione merci, siano mobili oppure immobili (cod. comm. art. 3, nn. 1, 2, 3). Il commerciante compra le merci per trasferirne lucrativamente ad altri la proprietà, o anche soltanto l'uso se sono cose mobili (cod. comm. art. nn. 1 e 2); oppure vende merci, che ancora non gli appartengono, per acquistarle dopo averle vendute (cod. comm. art. 59): lo scambio per lo scambio. L'operazione del trasferimento di merci si dovrebbe perciò qualificare compravendita, e non, come fa il nostro codice di commercio (libro I, titolo VII), vendita. In tal modo, l'unica espressione includerebbe lo scopo per cui si acquista o si vende, essendo sottinteso il movente del lucro, che è l'obiettivo essenziale della classe: finis mercatorum est lucrum.
Risulta, da questa premessa, la coincidenza della nozione economica del commerciante, con quella legislativa: per cui (art. 8 del cod. comm.) "sono commercianti coloro che esercitano atti di commercio per professione abituale". Corrisponde l'"esercizio" alla assunzione di una responsabilità illimitata per le operazioni compiute dal titolare dell'azienda col proprio nome commerciale (ditta), direttamente o a mezzo di rappresentante; e "la professione abituale" all'atteggiamento economico, o condizione sociale, che il titolare riveste per ricavare un reddito, un profitto durevole, dal detto esercizio. La spendita del nome è espressa nella voce "esercita"; il guadagno di una certa stabilità dalla "professione abituale".
L'art. 8 colloca, accanto al commerciante singolo, "le società commerciali", le quali, sorgendo con l'esclusivo proposito dell'esercizio professionale del commercio, lo giustificano col fatto stesso di essersi costituite a tale scopo (v. società commerciali).
Questi intermediarî, speculanti nel tempo, nello spazio e nelle modalità dei loro acquisti e delle loro rivendite, accrescono, con la propria, la ricchezza dell'ambiente; non solo per l'utilità sociale inerente all'agevolazione della circolazione e dell'acquisto dei beni, ma per l'aiuto poderoso che la loro attività presta a ogni altra attività produttiva, allargando lo spaccio dei prodotti di ogni industria, di cui viene ad essere il necessario complemento. Donde, storicamente, il prestigio originario della classe commerciale e di quelle classi che, man mano, aderirono, per identità di obiettivi, alla sua organizzazione, per ottenere il riconoscimento, da parte dello stato, d'immunità e di privilegi e, soprattutto, la concessione di disciplinare con regolamenti interni la propria attività economica e sottoporre i rapporti giuridici conseguenti, anche se contratti con estranei all'associazione, a leggi proprie (statuti), diretta emanazione della pratica (viva vox iuris), costituendo una propria giurisdizione.
Questa perfetta autonomia di azione economica e legale creò una classe potente e privilegiata, alle cui sorti, fortunate o fortunose, si collegavano quelle statali. La floridezza o la decadenza dei nostri comuni, nei primi secoli dopo il Mille, sono la più accentuata manifestazione di questa fusione d'interessi pubblici e privati, politici ed economici.
È pertanto nel seno di queste associazioni o leghe, dapprima di soli commercianti, poi nelle corporazioni (università, mercanzie, fratellanze) di categorie affini (mercanti, banchieri, artefici, ecc.) che ebbero origine e sviluppo gli statuti con la specifica designazione di diritto dei commercianti: ius mercatorum. Designazione, fin da allora, imperfetta; perché lo statuto non rappresentava la legge circoscritta alla classe da cui traeva il nome; ma era la disciplina, pubblica e privata, di tutte le classi economicamente operose, siccome emanazione spontanea, sorta dall'uso, delle loro reciproche relazioni d'affari. Era la fonte di norme giuridiche, di regole amministrative, tecniche, di polizia, di igiene, che la pratica e il convincimento delle sue esigenze alimentavano con perenne rigoglio (art. 1 cod. comm.), specialmente nei centri di maggiore sviluppo economico, nei quali il diritto comune delle obbligazioni e dei contratti, soprattutto per la prevalenza in esso di restrizioni canonistiche, era di ostacolo allo svolgimento delle libere energie produttive. Dove, invece, il diritto comune vi rispondeva - anche perché la classe dominante prevaleva nella sua elaborazione e sanzione (come a Genova: Genuensis ergo mercator!) - non si è verificato un distacco, sostanziale e giurisdizionale, fra i due diritti. A questo obiettivo convergono in Italia gli sforzi di quanti hanno viva la sensazione del tessuto uniforme, economico e giuridico, della società moderna. Ogni produttore, socialmente operoso, ha bisogno della medesima protezione legale, quale che sia il ramo della sua attività economica. Il codice di commercio non è, né deve essere, circoscritto ad una piuttosto che ad altra classe, non a regolare taluni negozî o fatti economici, ma tutti, senza esclusioni arbitrarie. La legge protettrice del lavoro e dei suoi risultati deve essere unica, come unico, pur nei suoi diversi atteggiamenti tecnici, è il fenomeno economico che la determina. È ormai anacronistico che il codice di commercio italiano, applicato il 1° gennaio 1883, dia il bando all'industria agricola, quando il nostro diritto pubblico ha abbattuto ogni barriera fra le diverse industrie, riconoscendo espressamente che l'industria agricola è, per l'Italia, la prevalente; questa perciò deve mettersi alla pari delle altre attività economiche, e godere pari diritti ed obblighi nell'interesse superiore dello stato. Si manterranno le designazioni di commerciante, d'industriale, di banchiere, di vettore terrestre e marittimo, di assicuratore, ecc. per indicare l'ambito della loro rispettiva attività economica e tecnica, e per regolare, occorrendo, in armonia con l'interesse pubblico e in ossequio alla struttura politica del regime, le rispettive organizzazioni (sindacati e corporazioni); non dunque per frazionare fra le categorie utilmente operose le norme del diritto privato che, per tutti, devono essere identiche.