Commercio
Il commercio ha conquistato nel XVIII secolo il posto, al tempo stesso centrale e contestato, dove si incontrano economia, storia e politica, posto che è suo ancora oggi. A partire da quella data, infatti, il pensiero economico elabora una prospettiva decisamente ottimistica dello sviluppo della società, basata su una particolare concezione della natura umana: quella di un homo oeconomicus che utilizza le proprie capacità, la sua intelligenza e la sua energia per soddisfare in primo luogo i propri bisogni materiali, ed è portato spontaneamente, per riuscirvi, a scambiare il proprio surplus con ciò che gli manca. Divenuta disciplina scientifica proprio in quell'epoca, l'economia ha l'ambizione di rendere più chiare sia le analisi degli storici, relative alle epoche più antiche, sia le decisioni della sfera politica. Queste ultime - lo vogliano o no i governanti - sono effettivamente condizionate da una serie di obblighi o di regole che la nuova disciplina cerca di evidenziare e di formulare sotto forma di leggi o, meglio ancora, di teoremi matematici che spieghino i rapporti tra le diverse variabili. L'accrescimento delle ricchezze prodotte, accumulate e consumate, diviene l'obiettivo delle società contemporanee, un obiettivo scontato per gli individui e per le famiglie, che si impone anche alle collettività e in primo luogo alla nazione, ormai definita - assai più che dal regime politico o dalla sottomissione a un sovrano - dal territorio, con le sue risorse potenziali o reali, e dalla comunità dei suoi abitanti.
Sono così definiti dei soggetti (gli individui e gli Stati), un principio ideale che regola i loro rapporti (la libera concorrenza) e una gerarchia di spazi interconnessi che garantisce l'efficacia della sua applicazione: l'unificazione dei mercati nazionali appare come la condizione necessaria per la loro integrazione - e competizione - all'interno di un unico mercato internazionale, garanzia e simbolo di un nuovo ordine mondiale.
Dal XVIII secolo in poi, però, questo posto centrale del commercio è sempre stato contestato - e lo è ancora oggi - da tutti coloro che rifiutano i postulati fondamentali di un discorso mirante a conciliare l'individuale con il collettivo attraverso la subordinazione del secondo al primo. La polemica si è concentrata in primo luogo sulla natura del commercio e, di fatto, sul suo ruolo reale nella creazione della ricchezza rispetto alla produzione in senso stretto, che è stata a lungo identificata con quella dei prodotti primari e dei manufatti, 'servizi' esclusi. In secondo luogo essa ha interessato gli effetti del commercio, sia morali che economici, in particolare le molteplici forme di ineguaglianza che il suo sviluppo - contrariamente all'ottimismo di tutte le teorie sulla generalizzazione finale dell'equilibrio e sull'armonizzazione delle disparità - sembra (almeno in una prima fase) generare e accrescere, sia fra i diversi paesi che fra le varie regioni di uno stesso paese e fra i diversi settori di una medesima economia (città e campagna, industria e agricoltura), sia infine fra gli individui. Alle analisi critiche del meccanismo dello "scambio ineguale" (Arghiri Emmanuel) rispondono quelle di Karl Polanyi, che portano l'antropologia a mettere in discussione il riferimento a una 'natura mercantile' dell'uomo e il primato dell'economia di mercato su tutte le altre forme di scambio, di ripartizione e di ridistribuzione delle ricchezze che l'hanno preceduta.
I recenti sviluppi della storia economica quantitativa - soprattutto dopo gli anni cinquanta - non hanno mutato in maniera decisiva le grandi linee della storia del commercio, linee che erano già ben tracciate, fin dalla metà del XVIII secolo, sia in Montesquieu sia nella voce Commerce dell'Encyclopédie redatta da Véron de Forbonnais. Tutt'al più essi ne hanno precisato, e in alcuni casi quantificato, sia la composizione, la direzione e il volume dei flussi, sia le oscillazioni a breve, medio e lungo termine, e d'altro canto hanno dato il via al ridimensionamento - necessario almeno per quanto concerne il periodo anteriore al XVIII secolo - del posto privilegiato così a lungo occupato prima dal Mediterraneo, poi dall'Europa.
Di tale rivalutazione ha beneficiato per prima l'Asia (con l'India, la Cina, il Giappone e l'Insulindia): il commercio interasiatico, detto anche 'da India a India', esisteva da molto tempo nella regione, e i Portoghesi nel XVI secolo, così come gli Olandesi nel XVII, non faranno altro che inserirsi al suo interno per prendervi parte, senza doverlo creare, ma anche senza riuscire a controllarne (o a deviarne) che una minima parte. La Cina del Duecento non consuma forse, secondo Marco Polo, cento volte più spezie di quante ne consumi l'Europa tutta? Bisognerà attendere, anche in questo caso, almeno la metà del XVIII secolo per l'India (dopo Plassey, 1757), e la metà del XIX per la Cina (dopo la guerra dell'oppio, 1839-1842), perché l'Europa imponga definitivamente la propria supremazia su paesi che aveva da sempre soltanto sfiorato utilizzandone la rete di mercati, fiere, trasporti terrestri e marittimi, credito. Meno fortunata, l'Africa è ancora oggi poco studiata, vittima del carattere unilaterale di una documentazione scritta quasi esclusivamente da Europei, che permette di conoscere soltanto quei settori che l'Europa riesce ad attirare o a dirottare. Ciò avviene per la tratta dei Negri, per il traffico dell'oro o del pepe di Guinea, e anche per alcuni traffici trans-sahariani: eppure, ancora nel 1830, circa 20.000-25.000 cammelli assicuravano, fra il Marocco e il Niger, scambi più di sei volte superiori in valore (60 milioni di franchi contro meno di 10) al commercio marittimo dello stesso Marocco con i paesi europei (v. Miège, 1961, vol. II, pp. 123 e 151). Ciò permette a Fernand Braudel (v., 1979; tr. it., vol. II, p. 105) di rilevare quanto segue: "Vi è in effetti una diseguaglianza storiografica fra l'Europa e il resto del mondo. Avendo inventato il mestiere dello storico, l'Europa se n'è avvalsa a proprio vantaggio. Eccola tutta pronta a testimoniare, a rivendicare, con la sua chiarezza, mentre la storia della non-Europa è appena agli inizi e comincia a farsi [...]. Una cosa mi sembra chiara: lo scarto fra l'Occidente e gli altri continenti si è formato tardi, e attribuirlo alla sola 'razionalizzazione' dell'economia di mercato, come troppi nostri contemporanei hanno ancora tendenza a fare, è evidentemente semplicistico".
L'Europa continua dunque a condurre il gioco, nonostante i recenti progressi delle ricerche sulle altre grandi aree culturali, e qualsiasi storia d'Europa dedica ampio spazio agli scambi commerciali, sia a breve che a lunga distanza. Vi è, inoltre, un generale consenso su alcune caratteristiche fondamentali, che sono valide all'incirca fino alla fine del XVIII secolo.
Gli scambi, pur includendovi i traffici a breve distanza, e a maggior ragione se li si esclude, conservano sempre un carattere accentuatamente minoritario rispetto al volume globale della produzione e del consumo. Il basso grado di monetarizzazione e il primato dell'autosufficienza nelle economie dell'ancien régime aggravano ulteriormente i limiti tecnici che già rendono difficile il trasporto massiccio dei prodotti pesanti sui lunghi percorsi: anche se le vie d'acqua offrono possibilità infinitamente più elastiche e meno costose di quelle offerte dai trasporti via terra (fatto questo che crea una prima gerarchia spaziale a favore delle coste e dei mari chiusi e relativamente calmi come il Baltico e il Mediterraneo, quest'ultimo suddiviso in sottosistemi che hanno conservato a lungo un'esistenza autonoma, quali l'Egeo per il mondo greco e l'Adriatico per Venezia), le quantità trasportate in questo modo restano sempre, ai nostri occhi, estremamente limitate. Basti pensare che dall'antichità greca e romana fino al XVI secolo la Sicilia ha potuto svolgere il ruolo e conservare la fama di grande 'granaio' del Mediterraneo, quando la media delle sue esportazioni annue, anche nei periodi più favorevoli, non superava le 50.000 tonnellate di grano.
Il commercio a grande distanza (l'espressione è ancora da preferirsi a quella, comoda ma anacronistica, di commercio internazionale) interessa quindi una gamma relativamente limitata di articoli, fra i quali predominano - nonostante lo sviluppo del commercio di alcuni prodotti pesanti (grano, sale, legno, vino) - i beni di lusso (spezie, seta) o esotici (prodotti per tingere: dalla porpora dei Romani fino al legno del Brasile), destinati a clientele ristrette, appartenenti alle classi privilegiate e ai gruppi di artigiani che lavorano per provvedere alle loro necessità. Gran parte della popolazione delle campagne - che costituisce circa l'80-90% del totale della popolazione - non è quindi quasi toccata da scambi che sono diretti soprattutto alle città.
Con due eccezioni, tuttavia: in primo luogo questa popolazione contribuisce alle operazioni di trasporto e di navigazione fluviale (il trasporto a dorso d'uomo, che esisteva ancora nel XVIII secolo negli altri continenti, sembra essere scomparso in Europa relativamente presto); in secondo luogo, in buona parte dell'Europa medievale e moderna, per le necessità fiscali dei sovrani le è imposto il consumo di quantità sempre maggiori di sale, proveniente talvolta da terre lontane e gravato - come avviene al giorno d'oggi per i prodotti petroliferi - da oneri fiscali senza alcun rapporto con il suo valore di mercato, anche tenuto conto dei costi di trasporto (v. Hocquet, 1978). La stessa popolazione rurale si trova invece più direttamente implicata nei processi di produzione che alimentano questi molteplici traffici non appena si delineano le prime forme di specializzazione nelle esportazioni. Traffico e tratta degli schiavi, lavoro forzato nelle piantagioni e nelle miniere, corvées introdotte dal 'secondo servaggio' nei latifondi coltivati a cereali dell'Europa orientale, proletarizzazione di masse di giornalieri agricoli nell'Italia meridionale e in Andalusia, prelievi obbligatori imposti dalla Chiesa, dai signori e dal sovrano: tutte queste realtà tipiche delle economie premoderne - alcune delle quali sono perdurate nei paesi extraeuropei fino ai giorni nostri - stanno a indicare che lo sviluppo delle esportazioni delle materie prime agricole o minerarie, secondo le diverse regioni ed epoche, non implica necessariamente una maggiore monetarizzazione del sistema di produzione, anzi spesso accentua le fratture abituali fra i due settori - uno monetarizzato e l'altro no - dell'economia.
Nonostante queste molteplici limitazioni, gli scambi sopra descritti permettono di conseguire alti profitti, che alimentano la speculazione e spingono coloro che occupano le posizioni migliori a creare monopoli di fatto o di diritto. Improvvise rotture dell'equilibrio fra offerta e domanda (si pensi ai cereali in tempo di carestia), o la lontananza delle fonti di approvvigionamento (come accade per le spezie dell'Asia sudorientale, a favore di Venezia, tra il XIII e il XV secolo), mettono in una posizione di forza gli intermediari commerciali, che controllano le scorte disponibili e i mezzi di trasporto. Si pensi anche al fascino esercitato sulle élites delle società rurali e urbane da prodotti ritenuti di gran lusso, il cui consumo ostentato accresce il prestigio: i signori polacchi vi dilapidano, tra il Cinquecento e il Settecento, gran parte dei profitti ottenuti dalla vendita dei loro cereali (v. Kula, 1963). La prospettiva di alti profitti stimola l'audacia per spedizioni in terre lontane che danno vita - da Ulisse (se si presta fede alle teorie sulle vie dello stagno) fino a Marco Polo e a Cristoforo Colombo - a racconti in cui la verità si mescola al mito e all'esagerazione; esse portano inoltre a una progressiva estensione del mondo conosciuto fino alla sua unificazione finale, avvenuta fra il Settecento e l'Ottocento, in un unico sistema commerciale suddiviso in sottosistemi regionali e nazionali. Tali profitti giustificano anche la lunga durata dei viaggi per terra e per mare e i rischi affrontati dai trasportatori e dai mercanti al loro seguito: nelle no man's lands in cui si arrischiano, gli uni e gli altri praticano a lungo, insieme al commercio propriamente detto, attività come la pirateria e il brigantaggio, che d'altra parte contribuiscono anch'esse ad alimentare gli scambi, in quanto le merci così sequestrate vengono quasi subito rivendute su mercati specializzati.
La vastità dei rischi che uomini, merci, monete e metalli preziosi devono affrontare richiede a sua volta una continua ricerca della regolarità e della sicurezza (sia dei trasporti che dei profitti). La costituzione di reti di corrispondenti, spesso basate sulle alleanze familiari, permette ai mercanti di condurre una vita sempre più sedentaria, lasciando ai più giovani, ai loro associati o ai soli trasportatori i pericoli e le fatiche del viaggio. Sviluppo dell'assicurazione; elaborazione di forme associative elastiche e al tempo stesso diversificate, suscettibili di divenire dei veri e propri Stati nello Stato o addirittura delle potenze internazionali, come la Maona di Chio nella Genova del XV secolo o, nel XVII e nel XVIII, le Compagnie delle Indie Orientali olandese, inglese e francese; organizzazione dei trasporti con carovane e convogli più difesi; maggiore rapidità nella circolazione delle notizie, che conduce, a partire dal XVI secolo, all'instaurarsi in Europa dei primi sistemi postali; istituzionalizzazione dei raggruppamenti di mercanti in corporazioni o 'nazioni', riconosciute o addirittura rese obbligatorie dalle autorità politiche; stipulazione di accordi fra Stati, o fra Stati e mercanti, volti a stabilire, su una base di reciprocità o, al contrario, di privilegi concessi senza contropartita, le modalità di esercizio del commercio; messa a punto di meccanismi di compensazione (come le lettere di cambio nel Medioevo) e di finanziamento, per limitare la circolazione delle monete metalliche e garantire al credito l'elasticità resa necessaria dalla durata stessa delle operazioni di trasporto e di scambio: l'Europa del Medioevo e dell'età moderna sembra aver ben sistematizzato e portato a termine un'evoluzione coerente, della quale si ritrovano tracce sia nell'antichità che in altri ambiti culturali, quali i mondi arabo, indiano e cinese, un'evoluzione che ha contribuito a favorirla rispetto ai suoi concorrenti. Prima della rivoluzione industriale, e in contrasto con le pesantezze e i ritardi dell'organizzazione della produzione agricola, il commercio in tutte le sue forme ha così costituito il principale settore in cui sono state messe a punto, provate e generalizzate le tecniche di razionalizzazione della vita economica.
Un'altra evoluzione parallela conduce, grazie all'intervento delle autorità politiche, a porre dei limiti al carattere speculativo degli scambi: città e Stati, municipalità, signori e sovrani sono tutti costretti, per evitare gravi disordini sociali, a garantire la regolarità dell'approvvigionamento dei generi alimentari e delle materie prime necessarie all'artigianato e alle manifatture. Devono perciò regolamentare con una precisione estrema (della quale il pensiero liberale sottolineerà spesso, a partire dal XVIII secolo, il carattere inutilmente minuzioso e il più delle volte controproducente) il funzionamento dei mercati locali, nel tentativo di conciliare domanda e offerta, di stabilizzare i prezzi, di limitare l'intervento degli intermediari e sottoporlo a tariffe rigide, di riavvicinare il produttore al consumatore. Accettano anche, quando è necessario, di intervenire direttamente con sovvenzioni e premi, con la costituzione di depositi e riserve permanenti che permettono di influire sui corsi, con acquisti ufficiali e vendite a prezzo ridotto o anche in perdita, e infine creando delle amministrazioni specializzate per il grano, il vino, l'olio e il sale. Nella Roma imperiale si erano istituzionalizzate le distribuzioni gratuite ai cittadini. I papi del XVI secolo attribuiscono nuovamente, in maniera simbolica, il nome di 'annona' all'amministrazione incaricata di provvedere all'approvvigionamento di grano della città, e stabiliscono così un modello che sarà ampiamente imitato: non vi è città europea, fra il XVI e il XVII secolo, che possa fare a meno, se non di un'annona in senso stretto, almeno di provvedimenti o regolamenti annonari, non foss'altro che per il grano. Il grande dibattito sulla libertà del commercio dei cereali, a metà del Settecento, rivelerà in maniera esauriente il peso delle abitudini acquisite e la difficoltà, nelle condizioni tecniche dell'epoca (e nonostante l'ottimismo dei suoi fautori), di abbandonare alle sole risorse del mercato la cura di provvedere ai bisogni del consumo, non appena vi sia minaccia di carestia. Ma i cereali rappresentano solo uno dei settori, anche se il più sensibile, di una pratica molto più diffusa. Di fatto, questa sorveglianza esercitata dai poteri locali mira a realizzare una sottomissione dell'economico al sociale attraverso l'intervento del politico: ciò preannuncia gli interventi dei governi del XX secolo nell'ambito della produzione e definisce delle norme che, una volta interiorizzate, costituiscono una delle componenti essenziali dell''economia morale della folla'. Anche su questo piano, quindi, il commercio ha svolto un ruolo di banco di prova.
Gran parte degli storici ha fatto propria la tesi marxista di una rottura fondamentale, legata alla rivoluzione industriale, concernente le forme e la natura stessa dell'intervento del capitale nell'organizzazione della produzione. Prima della fine del XVIII secolo i mercanti evitano, fin tanto che è possibile, di immobilizzare dei capitali fissi per l'acquisizione e la gestione diretta dei mezzi di produzione. Essi si limitano a mettere in commercio e a trasportare a una distanza più o meno grande il surplus di una produzione che può essere garantita sia nell'ambito della proprietà signorile che in quello della coltivazione contadina indipendente o dei laboratori urbani degli artigiani, sia nel grande latifondo che nella piantagione con gli schiavi. Se capita loro di acquistare della terra, lo fanno per materializzare la loro personale ascesa sociale in una società dominata dai valori terrieri (e molti storici hanno ripreso da Fernand Braudel l'idea di un "tradimento della borghesia" per designare questo tipo di comportamento) o per garantirsi la possibilità di ottenere dei prestiti. Nel settore industriale, e prima di tutto in quello tessile, il decentramento in piccoli laboratori continua a essere la norma, poiché il padrone vi può raggruppare più telai e utilizzare un personale salariato, ma sempre limitato. I mercanti, nella misura in cui cresce la loro ricchezza e potenza, cercano di controllare (e se possibile di monopolizzare) gli approvvigionamenti di materie prime e le vendite nei paesi lontani dei prodotti finiti. Il decentramento tecnico della fabbricazione non impedisce quindi, da solo, la concentrazione della commercializzazione. Questa, anzi, viene rafforzata, in non pochi casi, dagli accordi con le autorità politiche; spesso indebitate, sempre alla ricerca di nuove risorse fiscali, queste ultime moltiplicano la concessione di privilegi (di acquisto, di vendita, di approvvigionamento e anche, nelle colonie, di mobilitazione della manodopera) e diffondono la pratica di appaltare prelievi in natura che spettano loro (come accade per la produzione mineraria nell'America spagnola), o di istituire imposte indirette che colpiscono prodotti di largo consumo: gli esattori francesi delle gabelle possono in questo modo controllare l'intero circuito della produzione, del trasporto e della vendita del sale.
Questa relativa debolezza del capitale fisso non impedisce tuttavia ai mercanti di provocare delle vere e proprie rivoluzioni nell'ambito della produzione, ad esempio introducendo nuovi prodotti. Si pensi innanzitutto, per l'Europa, alla seta a lungo importata dall'Asia, prima che la sua produzione venisse, nel secondo millennio della nostra era, trapiantata e diffusa in tutto il bacino mediterraneo, permettendo lo sviluppo di una nuova e dinamica industria nell'Europa occidentale. Si pensi anche allo zucchero: l'espandersi della coltura della canna, dal Bengala e dalla Cina meridionale al Brasile e alle Antille, passando per il Mediterraneo, e poi l'introduzione, nel XIX secolo, della barbabietola da zucchero nell'agricoltura europea permettono di accrescerne in maniera spettacolare il consumo, mutandone di tappa in tappa il ruolo - droga medicinale, spezia da cucina, alimento quotidiano, dapprima costoso, poi sempre più comune, infine elemento onnipresente nell'industria alimentare. Ma queste rivoluzioni a livello della produzione sono fatte anche ribaltando e aggirando le norme imposte dalle corporazioni per difendere la qualità dei prodotti e l'impiego dei gruppi professionali, soprattutto urbani, interessati: la fase della 'protoindustrializzazione' - analizzata e teorizzata da F. Mendels (v., 1972) e da P. Kriedte e altri (v., 1977) - permette così ai mercanti di ridistribuire nelle campagne dell'Europa occidentale una produzione tessile molto diversificata (che va dalle tele di lino e di canapa, e poi di cotone, ai tessuti di lana) destinata all'esportazione, e di ampliarne sia il volume (grazie alla diffusione di tessuti più leggeri e meno costosi) che gli sbocchi (a scapito della produzione domestica).D'altro canto, questa stessa limitazione del capitale fisso costituisce spesso la contropartita obbligata della lenta circolazione del capitale commerciale: la lentezza dei trasporti e la necessità di concedere degli anticipi ai produttori e ai venditori (siano essi contadini e artigiani, o al contrario signori e sovrani) o delle lunghe dilazioni di pagamento agli acquirenti provocano immobilizzazioni sempre costose e spesso rischiose, che portano allo sviluppo dei meccanismi di credito. Questi possono assumere le forme più sofisticate (si pensi alla lettera di cambio, di cui R. de Roover - v., 1953 - ha rilevato il carattere rivoluzionario nell'Europa della fine del Medioevo), ma molto più spesso le forme infinitamente più rozze della permuta e del pagamento in natura - il truck system o baratto, praticato sistematicamente dai mercanti italiani nel Levante - che ritroviamo alla base dei principali circuiti di produzione e di scambio.
In tali condizioni la moneta costituisce un indicatore fuorviante. La sfera della commercializzazione supera ampiamente quella della circolazione effettiva delle specie monetarie, siano d'oro e d'argento, o anche di rame e di bronzo: include le campagne, dove l'indebitamento semipermanente, aggravato anche dalle carestie e dalla pressione del fisco, costringe i contadini a cedere anticipatamente, in parte o in toto, il loro raccolto ai proprietari, ai signori, agli esattori, agli usurai locali che agiscono per proprio conto o per conto dei mercanti accaparratori. Inoltre nelle stesse campagne, a causa della rarità della moneta, lo scambio più o meno equilibrato delle derrate con la prestazione di servizi diviene la regola corrente: un sacco di grano dato al mugnaio, che a sua volta consegnerà un sacco di farina di peso minore al panettiere, consentirà di prendere da quest'ultimo, tutte le settimane, una certa quantità di pane, e un bastone, a cui ogni volta verrà aggiunta una tacca, fungerà da unico testimone. Ma la commercializzazione riguarda anche le economie più primitive che ancora non conoscono la moneta metallica: l'Africa, dove si paga correntemente in sale, stoffe, braccialetti di rame, conchiglie (zimbo e cauri) o anche, in pieno XX secolo, in olivette di corallo fabbricate in Toscana (v. Braudel, 1979, vol. I, p. 389); l'Asia, dove nel Bengala e perfino in Cina - che inventò la prima cartamoneta, prima di ripiegare sui sapechi di rame - circolano gli stessi cauri simili ai wampums utilizzati nel XVIII secolo dagli Indiani dell'America settentrionale; la Siberia, dove si paga in pellicce, ecc. Tutte queste economie meno sviluppate di quella europea possono così venire introdotte, poco a poco, nei circuiti commerciali su grandi distanze: il controllo della moneta dà allora agli Europei un vantaggio decisivo di cui essi hanno ben saputo approfittare.
Questa gerarchia principale ne riflette di fatto un'altra, a un tempo spaziale ed economica. Non c'è commercio locale senza una rete di borghi e di cittadine, di mercati e di fiere, che animano un territorio. Non c'è un commercio a grande distanza, con un minimo di sviluppo, senza che emergano alcune metropoli mercantili, le quali organizzano, concentrano e controllano le attività di scambio. La loro apparente fragilità contrasta con la struttura possente dei grandi Stati territoriali, ai quali però, con la ricchezza, possono opporsi vittoriosamente: si pensi a Venezia di fronte all'Impero ottomano. La storia del Mediterraneo, e poi quella dell'Europa, possono venir lette come un susseguirsi di dominazioni commerciali che si sono spostate dall'est all'ovest, inglobando di volta in volta spazi più ampi: quelle dei Fenici - Tiro e Cartagine -, dei Greci di Corinto e di Atene, e poi di Delo e di Rodi, degli 'orientali' nell'Impero romano, delle città dell'Italia meridionale (Amalfi e Sorrento) e settentrionale (Venezia e Firenze, Genova e Milano), delle città anseatiche, dei Portoghesi nel Cinquecento, dell'Olanda nel Seicento, dell'Inghilterra - e di fatto Londra - nel Settecento. In ogni fase una città, un piccolo gruppo di città, un 'popolo' svolge il ruolo centrale di intermediario e controlla le posizioni più redditizie di quello che il secolo dei Lumi chiama 'commercio di economia': esso si basa sull'acquisto "delle merci di un paese [...] per procurarsi le merci di un altro" (v. Montesquieu, 1748, XX, 6), "fornendo solo pochissima produzione propria" (Véron de Forbonnais, Éléments du commerce), e permette di combinare posizioni di monopolio o di semimonopolio (come per le spezie e, più in generale, per i prodotti dell'Asia) ed economie di scala a livello dei trasporti, della distribuzione e dei circuiti di pagamento. Questi ultimi si basano in definitiva su una compensazione ad ampio raggio e finiscono per creare fiere di scambio (tra le quali le più celebri sono state, fra il Cinquecento e il Seicento, quelle di Bisenzone, trasferite poi a Piacenza dai Genovesi che le controllavano), banche specializzate in funzioni strettamente finanziarie (a Genova, a Venezia, ad Amsterdam, a Londra) e borse (Anversa nel 1531, Amsterdam nel 1561, Londra nel 1571, Lione, Marsiglia e Bordeaux nel 1595).Questo modello di 'commercio di economia' si trova, fra il XVI e il XVIII secolo, alla base di tutte le riflessioni teoriche e di tutte le scelte politiche in materia economica. Su di esso si fonda, per esempio, uno degli elementi dell'azione di Colbert, quello che mira a permettere alla Francia di fare a meno dell'intermediario olandese, e anzi di fargli concorrenza sul suo terreno entro la fine del XVIII secolo.
Perché questo modello venga messo in discussione (e nemmeno completamente, dato che alcuni paesi, come l'Olanda, svolgono a tutt'oggi, a livello europeo, una funzione essenziale di intermediazione), bisognerà attendere la rivoluzione industriale, che permetterà a ogni paese di basare la propria posizione commerciale sulle sue specializzazioni produttive e, di fatto, sul loro carattere 'orientato verso l'esportazione' più che sul loro volume effettivo: con una produzione complessiva inferiore o uguale, i paesi dell'Europa occidentale e il Giappone alimentano oggi una quota del commercio internazionale molto superiore a quella degli Stati Uniti, dove il mercato interno ha un peso essenziale. D'altra parte, questa 'mutazione' si spiega con i cambiamenti avvenuti nella composizione degli scambi internazionali: lo scambio dei prodotti di lusso ed esotici con i manufatti e con alcuni beni primari è stato nettamente sostituito, nel XIX secolo, dallo scambio dei manufatti con le materie prime e i prodotti energetici, e poi, nella seconda metà del XX secolo, da quello dei manufatti con altri manufatti. Il primo tipo di scambio ispirava la teoria mercantilistica. Il secondo è alla base della riflessione di Ricardo sui vantaggi comparativi delle stoffe inglesi e del vino portoghese. Sul terzo si basano sia il processo d'integrazione economica europea, successivo alla decolonizzazione, sia, a livello mondiale, la nuova divisione internazionale del lavoro, che, stimolata dalla crisi degli anni settanta, si apre alle industrie di alcuni paesi in via di sviluppo.
Le dominazioni commerciali che si sono susseguite hanno, in ogni periodo della storia, affascinato i contemporanei e suscitato le gelosie degli Stati vicini per l'importanza delle ricchezze accumulate e per la potenza eccezionale - senza alcun rapporto con la superficie del territorio e con la popolazione - che entità politiche di piccole dimensioni riuscivano a raggiungere. Se Cartagine ha finito con l'essere sconfitta da Roma, Venezia, dopo aver fatto deviare la quarta crociata per distruggere l'Impero bizantino e riservarsene le parti migliori, giunge a resistere da sola, quasi da pari a pari, alla spinta degli Ottomani, pur padroni della metà orientale del Mediterraneo. Anche i ripetuti sforzi di Luigi XIV contro le Province Unite falliscono. Il denaro non è forse, più ancora degli uomini, il nerbo della guerra, che permette di arruolare le truppe, armare le navi, comprare le alleanze? Ebbene, sia Venezia che le Province Unite hanno una capacità di mobilitazione finanziaria uguale o superiore a quella dei loro avversari: cumulano i vantaggi di un'economia infinitamente più monetarizzata con le risorse di un credito organizzato che permette loro di raccogliere in breve tempo le somme necessarie.Questa divisione - e competizione - fra due forme di dominio, uno commerciale, l'altro politico, è apparsa prestissimo, nella storia europea, come un principio di equilibrio e di organizzazione dello spazio. Già Cicerone osservava: "Nolo eundem populum imperatorem et portitorem esse terrarum" (De republica, IV), e Montesquieu (v., 1748, XX, 4) traduce a suo modo, approvandolo: "Non amo che un popolo sia al tempo stesso il dominatore e il fornitore dell'universo". Più recentemente I. Wallerstein (v., 1974, pp. 15-16) ha proposto di vedere nel costo della potenza militare e della gestione politica di uno Stato troppo grande la ragione della disfatta finale degli imperi che si sono succeduti, e al contrario, nella costituzione di Stati nazionali che vivono in una situazione di equilibrio anche precario, la ragione del successo del capitalismo a partire dal XV secolo: ogni singolo Stato può rovinarsi con le guerre senza che il sistema in sé, che è internazionale, venga messo in discussione. L'idea dell'inutilità del prezzo pagato per le spese politiche e militari viene accennata, all'inizio del XV secolo, in una celebre arringa del doge Mocenigo che cerca di distogliere i suoi concittadini dalla conquista della terraferma: tutta la pianura del Po - egli sostiene - non è già il "giardino di Venezia", un bellissimo giardino "che non costa nulla", né per amministrarlo, né per difenderlo? Anche in questo caso la rivoluzione industriale segnerà una rottura, con le successive egemonie delle due prime potenze militari: nel XIX secolo quella, sul mare, dell'Inghilterra (che ne trae vantaggio per contrastare le pretese, prima della Francia e poi della Germania, di dominare l'Europa continentale); nel XX secolo quella degli Stati Uniti, su tutti i piani. Ma - a ulteriore conferma della validità delle tesi di Mocenigo - la supremazia militare non resiste a lungo al declino della dominazione economica.
Questa lunga storia del commercio, soprattutto europeo, che arriva alla fine del XVIII secolo, si presta a una duplice lettura. Una rileverà le stabilità e le continuità: quelle degli spazi interessati, delle categorie di prodotti, dei luoghi di produzione, degli itinerari, dei limiti tecnici (soprattutto in materia di trasporti), dei sistemi di organizzazione commerciale, ecc. L'Europa del Cinquecento importa dall'India, dall'Insulindia e dalla Cina gli stessi generi - spezie e seta - e soffre, nei suoi scambi con questi paesi (causa di un'emorragia permanente di metalli preziosi, fino all'entrata in funzione delle miniere americane), dello stesso squilibrio sofferto dall'Impero romano. E quanto si sa dei suoi lontani partners commerciali asiatici parla nello stesso senso. L'altra lettura metterà invece in evidenza i cambiamenti, che possono essere imputati allo sviluppo stesso degli scambi commerciali e alla competizione che esso ha provocato fra i diversi concorrenti. Nel Medioevo e nell'età moderna si sono effettivamente verificate alcune innovazioni fondamentali che, anche se su una scala diversa rispetto a quelle della fine del XVIII secolo e del XIX, hanno avuto conseguenze altrettanto rivoluzionarie.Una prima categoria di queste innovazioni concerne le tecniche di trasporto. Per il trasporto su terra sono da menzionare l'invenzione, intorno all'anno Mille, del particolare collare che permette ai cavalli di trainare carichi più pesanti; la costruzione dei canali, a partire dal XIV secolo, prima intorno a Milano, poi in Olanda, in Inghilterra e in Francia; infine, a metà del XVIII secolo, la costruzione di strade - strade reali gratuite in Francia, highways a pagamento in Inghilterra - che permettono di percorrere al galoppo fino a 100-120 km al giorno.
Per il trasporto sul mare le innovazioni sono ancora più importanti: il timone di poppa, i perfezionamenti della velatura (vela quadra) e delle costruzioni navali, lo sviluppo delle conoscenze in materia di navigazione con l'uso della bussola per l'orientamento, dell'astrolabio e poi del sestante per il calcolo delle latitudini, di strumenti più precisi di misurazione del tempo per il calcolo delle longitudini. Senza uscire dagli schemi della navigazione a vela, si ottengono così navi più grandi (con una stazza di più di 1.000 tonnellate), più rapide, più solide e più facili da manovrare, che consentono di aumentare la produttività (meno uomini di equipaggio per uno stesso carico) e sono in grado, infine, di allontanarsi dalle coste e avventurarsi in alto mare: senza tali innovazioni, le scoperte transoceaniche della fine del XV secolo e, soprattutto, il loro pieno sfruttamento da parte dell'Europa nel corso dei secoli successivi non sarebbero stati possibili. Inoltre navi simili richiedono porti più sicuri, più difesi, meglio attrezzati per accoglierle e assicurarne in breve tempo il carico e lo scarico: con i loro canali interni Venezia nel Mediterraneo e Amsterdam nel Nordeuropa, prima della nascita delle ferrovie, fissano già dei modelli destinati in seguito a essere imitati altrove (v. Konvitz, 1978).
Legata alla precedente da una serie di correlazioni, la seconda categoria di innovazioni si è sviluppata storicamente in parallelo con l'ampliamento continuo degli spazi inglobati in un sistema regolare di scambi commerciali. Nell'area mediterranea, e poi in quella europea, questo ampliamento è avvenuto per tappe successive, a due livelli. Il primo ha corrisposto all'espansione di una zona centrale, contrassegnata da una certa unità politica, economica e culturale, che costituisce un mondo a sé (ciò che Braudel ha definito una "economia-mondo"), ma intrattiene rapporti continui con altre economie-mondo, e anzitutto con quelle, altrettanto se non più antiche, dell'Asia. Tale espansione si è effettuata dapprima da est verso ovest, a partire dal Vicino Oriente, fra il secondo e il primo millennio prima della nostra era: questa prima fase termina con la costituzione dell'Impero romano. L'espansione riprende alla fine del primo millennio, ma questa volta dall'ovest verso l'est dell'Europa continentale, inglobando così degli spazi che Roma, incentrata sul Mediterraneo, non era riuscita a conquistare. A partire dalla fine del XV secolo l'Europa, mentre si impadronisce dell'Atlantico - al di là del quale costruisce, in tre secoli, delle economie complementari alla sua e al tempo stesso identiche - riesce anche ad accedere direttamente alle economie dell'India, dell'Insulindia, della Cina e del Giappone. Per molto tempo si limiterà a 'sfiorare' tali economie: comincerà a dominarle realmente in profondità soltanto a partire dalla fine del XVIII secolo, quando avvia a proprio beneficio una unificazione economica del mondo che si completa solo oggi, alla fine del XX secolo.
Nel frattempo, però, l'Europa ha perso il controllo esclusivo dell'economia mondiale, e alcuni discutono addirittura le possibilità future di una nuova organizzazione dello spazio nel XXI secolo, centrata non più sull'Atlantico, ma sul Pacifico. In ciascuna di queste tappe, tuttavia, almeno fino al XIX secolo, l'economia-mondo europea deve una parte della sua capacità di espansione al fatto di non limitarsi, verso l'esterno, a scambi lontani e limitati all'Asia. Essa dispone anche, ai suoi margini, di zone di frontiera dall'economia primitiva, dalle quali ricava senza fatica un certo numero di prodotti rari e di materie prime (come lo stagno delle Cassiteridi, necessario al mondo greco per la fabbricazione del bronzo, o l'oro e gli schiavi dell'Africa subsahariana alla fine del Medioevo), zone che controlla solo da lontano: né del tutto sottomesse, né del tutto autonome, attratte dall'Europa e incapaci di resisterle, queste aree di frontiera costituiscono il secondo cerchio della sua espansione.Questo spazio in continuo ampliamento costituisce un eccezionale terreno non soltanto di dominio, ma anche di una sperimentazione che apre la strada a una terza categoria di innovazioni. Esso permette di giocare con i gusti e le abitudini dei consumatori: l'Europa del nord imparerà così ad aver bisogno dei prodotti dei climi più caldi - vino e sale -, l'Europa romana e medievale a non poter fare a meno del pepe e delle spezie dell'Oceano Indiano e dell'Insulindia, e le sue aristocrazie faranno della seta - i primi tessuti, di origine cinese, hanno raggiunto il Mediterraneo nel secondo secolo prima della nostra era - il simbolo per eccellenza del lusso nel vestire. Ormai satura di pepe, grazie ai Portoghesi e agli Olandesi, l'Europa adotta, a partire dalla fine del XVIII secolo, nuove bevande - che sono anche degli stimolanti - come il caffè, il cioccolato e il tè. Ogni volta ciò che inizialmente era un lusso tende a diffondersi e a conquistare nuovi mercati. L'incremento della domanda permette a questo punto di aggirare non soltanto i monopoli degli intermediari - gli schiavi e la polvere d'oro si andranno a cercare direttamente sulle coste del Golfo di Guinea, e le spezie in 'India' -, ma anche quelli dei produttori: ai trasferimenti dall'Asia verso il Mediterraneo della seta e dello zucchero (che poi proseguirà verso le Antille e il Brasile, via Canarie) si aggiungono quello del caffè dall'Arabia verso l'America e, nel XIX secolo, quello del tè dalla Cina verso l'India, che ne è divenuta oggi il primo paese esportatore e il secondo consumatore. Ma il moltiplicarsi delle imitazioni e dei surrogati sta a indicare che l'offerta rimane inferiore alla domanda, o comunque troppo cara: la regola vale per le spezie (il 'pepe di Guinea' africano prende il nome di 'pepe falso'), per le droghe (nel XIII secolo l'aglio sarà la 'triaca dei contadini') e i coloranti (la grana d'Europa e d'Africa, ottenuta da una cocciniglia, sostituisce il chermes d'Oriente). Ogni volta l'aumento dell'offerta implica sia la creazione di nuove aree geografiche di produzione, sia l'immissione sul mercato di prodotti di sostituzione: bisogna attendere la nascita della chimica di sintesi, nel XIX secolo, perché venga superata questa doppia dipendenza, che aveva condizionato per secoli tutta la storia del commercio europeo, attraverso monopoli successivi messi sistematicamente in discussione dalla concorrenza. E inoltre i mercanti avevano potuto controllare e sfruttare soltanto una parte di questa mobilità geografica delle piante coltivate: come mostrano gli spostamenti di gran parte dei nostri frutti e delle nostre verdure dal Vicino e dal Medio Oriente - dove erano stati domesticati da abili agricoltori - verso la zona occidentale del Mediterraneo, o quelli delle piante americane (mais e tabacco, patata e pomodoro) verso l'Europa, la maggior parte delle piante coltivate si sono spostate in maniera più modesta e anonima, da giardino a giardino, da campo a campo, per acclimatarsi poco per volta per merito dei contadini e dei proprietari terrieri.
Il fascino della scoperta, e dei mondi sconosciuti e misteriosi cui essa dà accesso, ha ispirato tutta una letteratura di viaggi divisa fra la tentazione del meraviglioso e la precisione della descrizione. Dalla poesia (l'Odissea) alla geografia (Tolomeo e Strabone) e all'etnografia (alla quale Erodoto dà ampio spazio nelle sue Storie e di cui la Germania di Tacito rappresenta un modello), un genere è in tal modo definito fin dall'antichità greca e romana. Innumerevoli 'peripli' e racconti si propongono (senza riuscire sempre a mantenere le promesse) di fornire ai loro lettori nuove indicazioni sugli itinerari, le distanze, i luoghi, le produzioni, le popolazioni e i loro costumi, le monete e le misure.Senza dubbio questo tipo di scritti, e la curiosità di cui sono testimonianza, non sono monopolio dell'Europa, dato che, per esempio, tutti i Cinesi che viaggiavano all'estero dovevano riferire all'imperatore su ciò che avevano visto e imparato nei paesi visitati. Kan Ying, mandato da Pan Chao nel 97 in direzione del Mediterraneo romano, sarebbe stato costretto dai Parti a non proseguire il suo cammino e dirottato verso il Golfo Persico, ma altri testi, come lo Hou Han Shu (la storia della seconda dinastia Han) parlano del paese di Ta Ts'in (l'Oriente romano). La dinamica dell'espansione europea ha comunque certamente contribuito, a partire dal XIII secolo, a rompere in proprio favore l'equilibrio nella circolazione dell'informazione. Col passare del tempo, d'altronde, il viaggio tenderà a spezzare o a nascondere il suo legame iniziale con il commercio a grande distanza. Con l'appoggio dei sovrani e delle accademie la scoperta diviene allora fine a se stessa, e le vengono assegnati obiettivi in primo luogo scientifici, ma anche politici, mentre l'organizzazione degli scambi regolari è riservata ad altri e rinviata a un secondo momento: l'esplorazione sistematica del Pacifico nel XVIII secolo inaugura, da questo punto di vista, uno stile nuovo che è perdurato fino a noi. Ma la conquista dello spazio ci ricorda che la programmazione e l'osservazione le più scientifiche non eliminano affatto - tutt'altro - né il sogno né il lavoro dell'immaginazione.
A tutti questi "libri sulle meraviglie del mondo", dei quali il racconto di Marco Polo, da solo, compendia origini, ambizioni e seduzione esercitata sul lettore, lo sviluppo degli scambi contrappone - nello stesso periodo fra il XIV e il XV secolo - una letteratura più tecnica, destinata proprio alla formazione e all'informazione dei mercanti. Le Pratiche della mercatura di Francesco Balducci Pegolotti e di Giovanni d'Antonio da Uzzano danno il via a una lunga serie di manuali pubblicati in quasi tutti i paesi dell'Europa occidentale: alcuni generici, altri più specializzati (soprattutto per quanto concerne l'aritmetica commerciale, gli scambi e la contabilità, ma anche le guide e gli itinerari di viaggio). Di questi i più celebri e i più diffusi, con numerose edizioni e traduzioni, saranno il Parfait négociant di Jacques Savary (1675) e il Dictionnaire universel de commerce di suo figlio, Jacques Savary des Bruslons, pubblicato postumo nel 1723 a cura del fratello. Si è dubitato della loro reale utilità per l'apprendimento di una professione che resta dominata, dopo studi relativamente brevi e orientati verso la pratica, dall'esperienza concreta acquisita presso altri mercanti, ma il loro valore consiste appunto nel fatto che essi riproducono, codificandoli, gli usi dei ceti commerciali allora dominanti. Così come sono, esprimono la complessità crescente delle attività mercantili (e di quelle più propriamente finanziarie a esse legate) e l'identità sociale acquisita da un gruppo professionale molto diversificato. Senza passare attraverso il riconoscimento di una formazione universitaria, che resta riservata, oltre che alla teologia, al diritto e alla medicina, questo settore si afferma come produttore e consumatore al tempo stesso di una massa crescente di informazioni, detentore di un ben preciso corpus di conoscenze: d'altronde esso doveva una parte del suo prestigio al fatto che il controllo dei canali di scambio rimane, fino all'ultimo quarto del XVIII secolo, la chiave principale dell'arricchimento personale e familiare, e quindi di una possibile ascesa sociale.
L'imporsi del commercio nella letteratura scritta e questo sviluppo di un sapere autonomo riflettono in realtà la crescente integrazione delle professioni mercantili nelle gerarchie sociali dell'Europa occidentale. Esse vanno progressivamente perdendo il loro carattere di attività separate, riservate a minoranze etniche e religiose (come i 'lombardi' o gli Ebrei nella Francia del XIII e del XIV secolo) tagliate fuori dal resto della società e sospette a priori. Sempre di più, invece, esse costituiscono il nucleo di un ceto sociale riconosciuto come tale, cui la ricchezza accumulata permette l'accesso ad altre specializzazioni professionali (soprattutto attraverso gli studi giuridici), ma anche alla proprietà fondiaria e a condizioni sociali considerate superiori come, in Francia, le cariche della nobiltà di toga. L'ascesa di una famiglia come i Medici a Firenze rimane un'eccezione, confrontata a quella di tanti condottieri che non avevano faticato molto per ritagliarsi uno Stato personale. L'organizzazione delle repubbliche mercantili, che dall'Italia del nord ai Paesi Bassi e poi alle Province Unite fa partecipare a pieno titolo le ricche famiglie di mercanti all'esercizio del potere e alle responsabilità politiche, resta anch'essa un'eccezione, seppure importante, rispetto a quella che è la regola in tanti Stati territoriali, grandi e piccoli. Ma i sovrani imparano a rispettare sia i banchieri che raccolgono e mettono in moto le somme necessarie alle loro guerre, che gli arrendatori che appaltano la riscossione delle imposte, e l'aristocrazia fondiaria non può più fare a meno dei servigi di uomini che prendono in affitto i suoi domini e le sue signorie, ne acquistano i prodotti, gestiscono la sua contabilità colmando i deficit, temporanei o durevoli che siano, provvedono ai suoi bisogni di generi di lusso. Dietro la diffidenza e il disprezzo che fino al XVIII secolo tutti i trattati di nobiltà continuano a ostentare nei confronti della 'vile mercanzia', la realtà sociale rivela un'elasticità infinitamente maggiore: la storiografia ha potuto quindi mettere in rilievo la possibilità riconosciuta in Inghilterra ai cadetti delle famiglie nobili di praticare il commercio senza per questo degradarsi, l'alleanza della monarchia francese con una borghesia mercantile alla quale essa apre le porte dell'amministrazione dello Stato, o la dinamica che conduce alla formazione dei patriziati nelle città dell'Italia settentrionale.
Mobilità, integrazione, riconoscimenti sociali: queste tre evoluzioni parallele rivelano a loro modo un ulteriore tratto originale dell'Europa medievale e moderna e fanno supporre che il commercio abbia conquistato poco a poco un posto uguale a quello di altre attività socialmente valorizzate, come la guerra, la preghiera e il lavoro dell'artigiano e del contadino. Esse non cancellano certo da un giorno all'altro altre realtà, talvolta più antiche e più generali, tipiche degli ambienti mercantili, in particolare in Asia: il rapporto di fiducia necessario fra le parti privilegia sempre il supporto delle reti familiari e dei sistemi di alleanza che alimentano il fenomeno delle 'colonie mercantili', delle 'nazioni' e delle 'diaspore'. L'Italia medievale aveva esportato le sue dall'Europa nordoccidentale e dalla Spagna fino al Mediterraneo orientale e al Mar Nero. L'Italia moderna vede installarsi a Venezia o a Livorno gruppi stabili e compatti di mercanti greci e armeni, e consolidarsi con l'immigrazione gli antichi nuclei di Ebrei. Al massimo della sua potenza, l'Europa del XIX secolo imporrà alla Cina indebolita il regime delle 'concessioni', che aveva già largamente sfruttato in India.
Dietro queste continuità, la tendenza di fondo sembra essere stata, tuttavia, quella dell'elaborazione di forme nuove e più impersonali di associazioni, che dividevano potere, rischi e profitti in proporzione agli apporti, in capitale e in lavoro, di ciascuna delle parti. Semplice associazione temporanea all'inizio, la 'compagnia' guadagna così in potenza, in durata, in specializzazione, in anonimato, finché non si arriva alla formazione delle grandi compagnie europee di commercio, le più ricche delle quali, come la Compagnia britannica delle Indie, costituiscono dei veri e propri Stati nello Stato. Il modello di organizzazione e di funzionamento gradualmente messo a punto potrà, fin dal XVII secolo e più in generale a partire dal XVIII, essere applicato alla produzione industriale.
Una crescita spettacolare in valore, volume, distanze percorse, prodotti interessati, popoli direttamente o indirettamente coinvolti negli scambi commerciali - o perché produttori o perché consumatori o per entrambe le cose - ha caratterizzato gli ultimi due secoli: agli scambi, ormai diffusi in tutto il mondo, sono venuti ad aggiungersi i rapidi progressi della produzione industriale. Questa è stata sistematicamente incrementata dalle rivoluzioni tecnologiche che si sono succedute: vapore e industria tessile dalla seconda metà del Settecento, ferrovie a partire dal 1830-1840, metallurgia della ghisa prima, e poi dell'acciaio, a partire dagli anni 1850-1880, elettricità, alluminio, automobile e aviazione dopo il 1880-1890, informatica oggi. Ma questa crescita è stata anche stimolata e inquadrata prima dalle strategie degli Stati e poi, in misura sempre crescente nel corso degli ultimi decenni, dalle società che operano su scala multi- e di fatto trans-nazionale. L'aumento e la diversificazione dei bisogni di materie prime alimentari e industriali, di prodotti energetici, di beni industriali strumentali e di consumo durevole o meno, e infine di servizi, hanno contribuito a rompere i vecchi equilibri fondati sul primato dell'autoconsumo e della produzione domestica, completata tutt'al più da un artigianato con scambi a breve raggio.
Il movimento, cui ha dato il via l'Europa nel corso del XX secolo, è largamente sfuggito al suo controllo: ha dovuto fare i conti con l'accresciuta potenza prima degli Stati Uniti, poi del Giappone e dei nuovi paesi industrializzati dell'Asia, con la costituzione, avvenuta in due tempi (1917, 1945), di un'area economica socialista che ambiva a modificare le regole degli scambi in vigore nel mondo capitalistico, e infine con la decolonizzazione. Quest'ultima non ha certo cancellato le antiche forme di dipendenza economica, né nell'America Latina del XIX secolo né in Africa e in buona parte dell'Asia nella seconda metà del XX, ma ha posto con più vigore il problema delle strategie di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo (o 'paesi in via di sviluppo').
Al cambiamento quantitativo e alla 'mondializzazione' degli scambi commerciali si accompagna un parallelo mutamento del pensiero economico, a partire dalla metà del XVIII secolo: delle 740 opere di economia recensite nel 1769 dall'abate Morellet nel Prospectus che annunciava il suo nuovo Dictionnaire de commerce, il 70% erano posteriori al 1750 (v. Perrot, 1981). Con Adam Smith (Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, 1776) e David Ricardo (Sui principî dell'economia politica e della tassazione, 1817) questo mutamento approda alla nascita di una nuova disciplina scientifica, l'economia.L'economia si identifica inizialmente con una dottrina - il liberalismo - che si contrappone a quella che l'aveva preceduta e che Smith chiama "sistema di commercio" o "sistema mercantile", prima che la storiografia tedesca della seconda metà del XIX secolo le dia il nome, definitivo, di "mercantilismo". Più che una vera e propria dottrina, d'altronde, questo termine sintetizza di fatto l'intrecciarsi di numerosi elementi successivi. Anzitutto un complesso di pratiche antiche, che estendono al territorio di uno Stato un insieme di provvedimenti, la maggior parte dei quali era stata adottata nel Medioevo dalle città con lo scopo di proteggere i loro approvvigionamenti di materie prime alimentari e industriali e il lavoro degli artigiani, di lottare contro la concorrenza delle altre città, di limitare le attività economiche degli stranieri, e infine di evitare le uscite di numerario. Poi una politica apparentemente coerente, che porta lo Stato a intervenire direttamente per creare manifatture e compagnie di commercio, sovvenzionare la flotta mercantile, abbassare i costi reali del lavoro, imporre tariffe doganali che sgravino le importazioni di materie prime colpendo quelle di manufatti. Il tutto formulato in termini teorici da autori come Jean Bodin (Discours de Jean Bodin sur le rehaussement et diminution des monnoyes tant d'or que d'argent, et le moyen d'y rémédier aux paradoxes du sieur de Malestroit, 1578) e Antoine de Montchrestien in Francia (Traicté de l'oeconomie politique, 1615), Luis Ortiz in Spagna (Memorial al Rey para que no salgan dineros de estos reinos de España, 1558), Thomas Mun in Inghilterra (England's treasure by forraign trade, 1664) e Antonio Serra nel Regno di Napoli (Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d'oro et d'argento dove non sono miniere, con applicazione al Regno di Napoli, 1613).
Ma Adam Smith e i suoi successori vanno ben oltre la semplice rottura con coloro che li hanno preceduti. Cercano infatti di precisare il quadro teorico e di definire i concetti che saranno alla base degli ulteriori sviluppi della disciplina. L'obiettivo ormai non consiste più nel descrivere i dettagli del meccanismo degli scambi commerciali - come si proponevano invece i dizionari di commercio - e l'ineguale ripartizione delle ricchezze che questi assicurano fra i diversi paesi (né gli interventi in grado di accrescere la parte di uno di essi a scapito dei suoi rivali), ma di unire strettamente le categorie dello scambio e della produzione: la giustificazione e la finalità del commercio non consistono tanto nell'accumulazione diretta delle ricchezze a beneficio di un paese, perseguita dai mercantilisti (col rischio di sottomettere la produzione alle proprie esigenze), quanto nel suo effetto di stimolo e di impulso - in ogni paese preso singolarmente e, a livello internazionale, in tutti i paesi contemporaneamente - per un uso più efficace dei fattori di produzione, il quale soltanto può massimizzare i guadagni che ogni soggetto ne ricava. In questa prospettiva i soggetti di riferimento saranno, più ancora che nel passato, gli Stati territoriali, dove il perfezionamento del mercato interno avrà come risultato di garantire una mobilità, se non perfetta almeno maggiore, di almeno due di questi fattori - il capitale e il lavoro -, mobilità che manca invece a livello internazionale: commercio interno e commercio estero esprimono quindi delle realtà distinte, complementari ma di natura diversa, anche se vanno, o andrebbero, sottoposti alle medesime regole.
Questa rivoluzione epistemologica ha il merito di precorrere le trasformazioni in corso nell'economia: il commercio internazionale di ridistribuzione, soprattutto dei prodotti coloniali o importati dall'Asia, occupa ancora, nella seconda metà del Settecento, un posto fondamentale e costituisce la base delle posizioni dominanti, anche in Inghilterra, dove i rapidi progressi dell'industria tessile - cotone e lana -, della produzione di carbone e dell'uso del vapore non sono stati sufficienti per sconvolgere i precedenti equilibri: il posto riservato da tutti gli autori alla rendita fondiaria - il reddito del proprietario terriero -, accanto al capitale e al lavoro, rispecchia il forte peso economico e sociale dell'agricoltura. Anche se la rete di strade (le highways a pedaggio, mentre le nuove strade reali francesi sono gratuite) e soprattutto di canali, e la soppressione delle dogane e delle imposte interne sulla circolazione (che sorprende tutti i visitatori stranieri) assicurano all'Inghilterra un reale progresso nell'unificazione del suo mercato 'nazionale', il costo dei trasporti è sempre abbastanza elevato per impedire la mobilità dei prodotti e dei fattori di produzione. Nonostante l'esperienza della guerra d'indipendenza americana, alla fine del Settecento l'Inghilterra non ha alcuna intenzione di rinunciare, negli scambi con le proprie colonie, ai vantaggi del monopolio (che cerca invece di aggirare, con la forza o con l'astuzia, nelle colonie spagnole), cosa che Smith tollerava senza approvarla. Bisognerà attendere il 1858 perché venga definitivamente soppressa la Compagnia delle Indie, e la fine dell'Ottocento perché si organizzi poco per volta una rete efficace e sufficientemente ampia per la distribuzione dei prodotti alimentari (carne congelata, latticini, ortaggi e frutta freschi), che permetterà all'offerta di far fronte all'incremento della domanda, mentre, fin verso il 1880, l'unico bene la cui produzione era elastica a sufficienza per adattarsi rapidamente a un aumento dei salari era l'alcol. Con le loro previsioni, tuttavia, Smith, Malthus, Ricardo e Stuart Mill non intendono soltanto anticipare l'avvenire, ma anche isolare un certo numero di variabili per definire dei modelli teorici circoscritti all'analisi delle loro interazioni, considerando tutte le altre variabili come nulle o prive di effetti.
Adam Smith utilizza la distinzione dei tre fattori di produzione - lavoro, capitale e rendita -, già presente nei fisiocratici, per proporre una definizione del valore (di scambio e d'uso) e per elaborare la prima teoria della crescita economica: essa deriverebbe dall'accumulazione del capitale, che determina una maggiore divisione del lavoro e, attraverso la specializzazione dei soggetti, un aumento della produttività, ma sarebbe destinata a esaurirsi a causa dell'aumento dei salari e soprattutto della rendita, che porta alla diminuzione dei profitti del capitale.Un altro esempio di questa posizione è dato da Ricardo, il quale definisce il costo di produzione in rapporto al solo lavoro, riferendosi a un'economia che produce un unico bene - il grano - per farne l'unità di misura di tale costo, fonda sul principio del margine il calcolo del saggio unitario, per uno stesso paese, del salario e del profitto, e basa la sua dimostrazione della regola del vantaggio comparativo sull'esempio dei rapporti commerciali instauratisi fra l'Inghilterra e il Portogallo in seguito al Trattato di Methuen (1713): pur avendo costi di produzione meno elevati sia per il vino che per le stoffe, il Portogallo ha tratto vantaggio dallo specializzarsi nella produzione del vino, poiché ogni unità di quest'ultimo venduta all'Inghilterra gli permetteva di acquistare da questa più stoffe di quante avrebbe potuto acquistarne in casa propria, mentre all'Inghilterra, dal canto suo, conveniva incrementare la produzione di stoffe, poiché ogni unità di stoffa venduta al Portogallo le permetteva a sua volta di acquistare da questo più vino di quanto avrebbe potuto acquistarne all'interno. Secondo questo ragionamento, i benefici del commercio per ogni partner non dipendono dal livello assoluto dei prezzi, ma da quello relativo. Il ragionamento presuppone però la non incidenza dei costi di trasporto e, soprattutto, la stabilità dei costi di produzione - anche quando questa cresce - e quindi l'assenza di qualsiasi aumento dei salari e calo della produttività. Una volta ammesse queste due ipotesi, la divisione internazionale del lavoro assicurata dallo sviluppo degli scambi permetterebbe in tutti i casi di accrescere la ricchezza di ciascun paese e il reddito reale dei suoi abitanti: lungi dal creare uno squilibrio in favore del più 'avvantaggiato', assicurerebbe insieme la crescita e il raggiungimento di un equilibrio almeno tendenziale.
Al di là del successo durevole di questo modello di ragionamento 'due volte due' (due paesi, due prodotti, due fattori di produzione), queste intuizioni dei 'classici' fondatori del pensiero economico hanno influenzato nel corso degli ultimi centocinquant'anni sia le decisioni politiche dei governi sia le riflessioni degli economisti. Per i primi, i guadagni attesi da una liberalizzazione degli scambi interni e internazionali hanno determinato una serie di scelte lungamente e pubblicamente dibattute in rapporto alle perdite prevedibili a carico di una categoria sociale (per esempio i proprietari terrieri e i farmers, quando in Inghilterra si abolirono nel 1846 le Corn laws), di un ramo di attività o di un paese: il problema è sapere se la protezione doganale possa proteggere in maniera efficace il più debole, pur favorendo il decollo industriale di un late-comer. Intere generazioni di economisti hanno cercato di verificare l'esistenza e la natura di questi guadagni (guadagni di consumo o vincolati a una riallocazione delle risorse), di misurarne sia l'evoluzione (sono durevoli o temporanei, crescenti o decrescenti?) sia l'impatto e la ridistribuzione in ciascun paese, e infine hanno cercato di seguire le variazioni della 'ragione di scambio', cioè del rapporto fra i prezzi dei prodotti importati e quelli dei prodotti esportati.
L'ipotesi di base, nella prospettiva classica, è di solito che i flussi commerciali vanno spiegati, in assenza di protezioni tariffarie, con le differenze di costo a loro volta dovute a divari nella remunerazione del lavoro, nella produttività o nella tecnologia impiegata, ma anche, più in generale, a differenze tra i diversi paesi nella dotazione dei fattori fondamentali di produzione. Eli Heckscher (1919) e Bertil Ohlin (1933) hanno fatto di quest'ultimo punto la base della loro teoria: da un lato i beni esportati da un paese sono quelli che utilizzano in maniera intensiva i fattori di produzione di cui esso è abbondantemente dotato; dall'altro, lo sviluppo dello scambio tende a eliminare le differenze internazionali nella remunerazione di questi stessi fattori (salari, canone d'affitto della terra, interesse del capitale, ecc.). In seguito W. F. Stolper e P. A. Samuelson ripresero questa teoria per dimostrare le conseguenze, positive per i salari e negative per il capitale, di una protezione doganale applicata a quelle importazioni che presuppongono un'utilizzazione intensiva del lavoro: l'aumento dei prezzi da essa provocato all'interno favorisce la remunerazione del fattore lavoro, ma abbassa quella del capitale, meno intensamente utilizzato. A sua volta T. M. Rybczynski ha dimostrato (1955) che, a prezzi costanti, la produzione che utilizza il fattore abbondante si svilupperà a scapito di quella che utilizza il fattore più raro: fatto che viene ad accrescere la dipendenza dei paesi in via di sviluppo, poiché essi tenderanno ad aumentare la produzione e l'esportazione di prodotti che richiedono manodopera, a scapito dei prodotti industriali che invece richiedono capitale, ma che potrebbero sostituire i prodotti importati. W. Leontief ha però contestato (1956-1971) l'applicazione all'economia americana del teorema di Heckscher-Ohlin, osservando che le importazioni degli Stati Uniti consistevano in prodotti che, fabbricati sul posto, avrebbero richiesto per ogni lavoratore il 30% di capitale in più rispetto ai prodotti esportati: un 'paradosso', dato che gli Stati Uniti erano allora proprio il paese più ricco di capitali, ma un paradosso che si è potuto verificare sia in Giappone che in India, e che ripropone in termini nuovi il problema dell'allocazione dei fattori in un determinato paese, insieme a quello della qualificazione della manodopera (per definizione difficile da misurare).Un altro aspetto dell'approfondimento della teoria classica è rappresentato dall'analisi parallela dei meccanismi destinati a correggere gli squilibri delle bilance commerciali e dei pagamenti. Avviata nel Settecento da David Hume, la critica dell'identificazione mercantilistica dell'accrescimento della ricchezza di un paese con quello della sua riserva monetaria perviene all'identificazione dei meccanismi atti a ristabilirne l'equilibrio. Questa capacità è stata pertanto successivamente attribuita ai prezzi (effetti inflazionistici di un'eccedenza delle due bilance), ai tassi di cambio (le cui variazioni tendono a rendere eguale il potere d'acquisto nei vari paesi), ai flussi internazionali di capitali (prestiti e investimenti), che vengono automaticamente a compensare - in mancanza di una svalutazione - gli eventuali deficit della bilancia dei pagamenti, ai tassi di interesse e all'intervento delle politiche governative, che agiscono sulla domanda attraverso le misure monetarie e la politica fiscale. Ma la difficoltà consiste proprio nei tempi di reazione propri di questi diversi meccanismi, nelle loro contraddizioni, e nei loro eventuali effetti secondari.
A questa riflessione teorica si è affiancato lo sforzo per formulare in termini matematici i rapporti reali o simulati fra le variabili o i gruppi di variabili: questo sforzo è stato soprattutto concentrato sull'analisi delle tendenze alla specializzazione produttiva, sull'eguagliamento dei redditi dei vari fattori, sulle condizioni di realizzazione dell'equilibrio, ma anche sulla simulazione degli effetti, sulle altre variabili, della modificazione di un elemento del sistema commerciale (per esempio la diminuzione dei diritti doganali). In questo senso il commercio internazionale ha rappresentato, e continua a rappresentare, un terreno di confronto privilegiato tra le diverse economie nazionali. In effetti, il confronto con la realtà che faceva apparire difficoltà impreviste - la crisi degli anni trenta, lo sviluppo del Terzo Mondo - poneva nuovi problemi, suggeriva nuove vie e nuove variabili, stimolando continuamente i progressi teorici. Per questo motivo gli economisti si sono visti costretti a rimettere in discussione, su più di un aspetto, i postulati più consolidati della tradizione classica.
La tradizione classica aveva posto l'accento sull'offerta e su un'utilizzazione ottimale dei fattori di produzione, che dovrebbe sempre risolversi nella riduzione dei prezzi pagati dal consumatore e nella possibilità, per quest'ultimo, di decidere al meglio nella scelta razionale dei suoi diversi acquisti, tenendo conto dei suoi bisogni e dei suoi redditi. Sempre di più, invece, la domanda ha rivelato le proprie rigidità e una sua propria logica, che influenzano l'offerta e vanno ben oltre le disponibilità monetarie dei compratori. I gusti - i più solidamente radicati dei quali corrispondono ad antiche scelte di civiltà spesso confermate da imperativi o divieti religiosi, ma conservano comunque una dimensione individuale - limitano le possibilità di sostituzione di un bene con un altro: tranne qualche eccezione (come l'Irlanda), l'Europa del XVIII e del XIX secolo aveva adottato la patata solo come un complemento e non come un sostituto del pane; allo stesso modo, tutti gli sforzi degli Stati Uniti, negli anni sessanta di questo secolo, per diffondere il consumo del pane di grano in Asia, e soprattutto in Giappone e nella Corea del Sud, non sono riusciti a intaccare il predominio del riso. L'offerta di beni alimentari si scontra con barriere culturali che è estremamente difficile sia trasgredire che abolire, e inoltre i comportamenti e le preferenze che orientano le scelte continuano a mutare nel tempo. L'aumento dei redditi sembra provocare, nel campo dell'alimentazione, una regressione dei cereali in favore della carne e dei prodotti freschi, come pure (legge di Engel) la riduzione delle spese destinate all'alimentazione in favore di quelle destinate ad altri prodotti, soprattutto industriali. Ciò provoca a sua volta, negli scambi internazionali, un calo del prezzo relativo dei prodotti alimentari.
Se gli economisti (e, seguendo il loro esempio, tutti coloro che, nelle scienze sociali, sono stati tentati di imitare il rigore matematico delle loro analisi) continuano a ragionare secondo il modello 'due volte due', escludendo le altre variabili per poi reintrodurle nel modello una per volta, nella realtà l'osservatore si trova davanti a un gran numero di situazioni infinitamente più complesse, le quali resistono a un simile lavoro di scomposizione delle difficoltà: scambi multilaterali, che coinvolgono una molteplicità di prodotti e implicano un insieme di deficit e di eccedenze commerciali che si compensano, nella migliore delle ipotesi, soltanto a livello mondiale; impatto dei diritti doganali e dei provvedimenti governativi concernenti la localizzazione, la natura e i prezzi delle diverse forme di produzione; influenza dei costi di trasporto non certo trascurabili (anche se, storicamente, in continua diminuzione), né soprattutto uguali a seconda dei prodotti, delle quantità e dei percorsi. Queste diseguaglianze, che impediscono di considerare lo spazio come una variabile neutra o anche omogenea, avvantaggiano i trasporti di massa, le vie marittime e fluviali (per i prodotti pesanti), i beneficiari delle infrastrutture in loco (porti e aeroporti, strade, canali e ferrovie), a loro volta decise e realizzate dalle autorità politiche in funzione di criteri non sempre e soltanto economici, ma danneggiano i beni che non possono essere scambiati perché non trasportabili. Il problema consiste quindi nel sapere se le tecniche adottate dagli economisti permettono di costruire dei modelli al tempo stesso più complessi e più realistici, o se le condizioni effettive dei mercati nazionali e internazionali richiedono invece metodi di analisi radicalmente diversi.
A queste rigidità della domanda, dell'offerta e dei costi di trasporto vengono ad aggiungersi le molteplici limitazioni al regime ideale della concorrenza perfetta. Gli economisti si sono perciò trovati a dover ripensare i loro diagrammi ed equazioni per ricollocarli in un contesto concreto di 'concorrenza imperfetta', e quantificare così di volta in volta le conseguenze di queste imperfezioni: tutt'altro che automaticamente negative, almeno per alcune delle parti, esse fanno sentire i loro effetti, variabili a seconda dei casi, sia a livello nazionale che internazionale. I guadagni sono scontati per coloro che si trovano in una posizione di monopolio o (se si accordano fra loro) di oligopolio, oppure, al contrario, di monopsonio o (nelle medesime condizioni) di oligopsonio. I primi potranno vendere i loro beni a un prezzo superiore al costo marginale di produzione, e di fatto uguale o leggermente inferiore a quello dei beni di sostituzione: il mondo intero lo ha sperimentato durante la crisi petrolifera degli anni settanta. I secondi possono invece pesare sui corsi e comprare i beni dei quali sono i soli o i principali acquirenti a un prezzo inferiore allo stesso costo marginale: le oscillazioni dei corsi mondiali delle principali materie prime forniscono quotidianamente esempi di questo caso. Con la pratica del dumping si verifica una situazione radicalmente diversa, in quanto sono gli stessi venditori che, per rispondere a un calo della domanda o per eliminare la concorrenza dei produttori locali, decidono di vendere 'in perdita', in maniera temporanea o durevole, salvo a rialzare i prezzi una volta divenuti padroni del mercato. Anche quando sono provvisorie e destinate a essere rimesse in discussione, queste distorsioni si cancellano solo nel lungo periodo, con il progresso tecnico, la messa a punto dei prodotti di sostituzione e la riorganizzazione della produzione: e spesso, allora, lasciano il posto ad altre.
A partire da Adam Smith, la contrapposizione fra la perfetta mobilità dei fattori capitale e lavoro nel quadro nazionale e la loro immobilità nel quadro internazionale ha costituito uno dei postulati fondamentali della teoria classica. Mentre il commercio interno è regolato dai costi di produzione, il commercio internazionale lo sarebbe dalla domanda reciproca e si giustificherebbe come un'alternativa agli spostamenti di quegli stessi fattori: Smith non aveva forse osservato che "tra tutti i bagagli gli uomini sono i più difficili da trasportare"? Tuttavia, mentre la mobilità del lavoro è ben lungi dall'essere un fatto acquisito all'interno delle frontiere (soprattutto fra occupazioni non concorrenti) e implica sempre dei costi spesso dissuasivi, gli esempi di mobilità dei fattori di produzione al di là delle frontiere nazionali, e ormai su scala mondiale, hanno continuato a moltiplicarsi dalla metà del secolo scorso, con le grandi migrazioni di manodopera e l'internazionalizzazione dei movimenti di capitali. Ogni volta è risultato colpito il reddito dei fattori privi di mobilità: l'immigrazione ha modificato i salari in senso opposto negli Stati di arrivo e di partenza, e gli investimenti di capitali esteri hanno determinato l'aumento dei salari, ma anche la diminuzione dei rendimenti del capitale e della terra. Lo sviluppo delle imprese multinazionali ha, nel corso degli ultimi decenni, generalizzato la pratica degli investimenti diretti in numerosi paesi, non più soltanto per garantire l'approvvigionamento di materie prime, ma per produrre sul posto prodotti finiti, aggirando così gli ostacoli alle importazioni, e inoltre per sviluppare nuove strategie per la distribuzione degli insediamenti produttivi su scala mondiale. Sempre meno identificabili con il loro paese d'origine, specie per quel che riguarda gli insediamenti suddetti, le società multinazionali elaborano in tal modo strategie del tutto nuove, che permettono loro di massimizzare al tempo stesso la produzione e il rendimento dei capitali, approfittando delle differenze, anche temporanee, tra i costi della manodopera, tra le leggi di carattere sociale e le disposizioni antinquinamento, come anche tra le facilitazioni e gli aiuti concessi dai governi locali.
Se la liberalizzazione degli scambi costituiva per i fondatori dell'economia classica l'obiettivo principale, dobbiamo constatare che al di fuori dell'Inghilterra (finché questa ha conservato la sua posizione di predominio) tale liberalizzazione è stata applicata solo durante brevi periodi (ad esempio negli anni che vanno dal 1850 al 1870 e poi di nuovo a partire dagli anni 1950-1960). Nella maggior parte degli Stati le tariffe doganali non soltanto sono rimaste elevate, ma sono anche divenute, di fatto, gli strumenti di una politica di sviluppo economico che ha registrato clamorosi fallimenti, ma anche notevoli successi: si pensi agli Stati Uniti, alla Germania, al Giappone e anche all'Italia, negli ultimi decenni del XIX secolo e nei primi del XX. In quella stessa epoca l'imperialismo coloniale appariva ai paesi più sviluppati come una strada normale per assicurarsi l'approvvigionamento di materie prime, mercati per le loro industrie, elevate remunerazioni per i loro investimenti. Ai semplici dazi doganali nel XX secolo si sono del resto aggiunte altre forme di intervento sugli scambi esteri: sovvenzioni alla produzione, percentuali di importazione volontarie o imposte, imposizioni di norme tecniche miranti a escludere l'importazione di certi prodotti, mercati pubblici in forte crescita riservati alle aziende 'nazionali', e non soltanto nel settore della difesa, ecc. L'economista interpreta tutte queste politiche come provvedimenti di ridistribuzione o di trasferimento dei redditi dei principali fattori sia all'interno di ogni singolo paese che fra i diversi paesi: i loro effetti però sono spesso contrari allo scopo iniziale e, nella migliore delle ipotesi, essi non costituiscono altro che un second best.In ogni caso, tuttavia, sia che si tratti di ridistribuire il reddito a vantaggio di alcuni paesi, o di proteggere un'industria nascente o i fattori che essa utilizza, un trasferimento diretto di fondi, sotto forma di dono ai paesi interessati o di sovvenzione a determinate aziende, appare all'economista preferibile a un dazio doganale, che provoca il calo della domanda e della produzione a livelli subottimali, impedisce la specializzazione e riduce il benessere economico: il tutto su scala mondiale. La conservazione delle barriere doganali rivela ai suoi occhi il persistente disaccordo fra gli interessi mal compresi, o visti solo a breve termine, dei soggetti - cioè gli Stati e i loro cittadini - e la dinamica del sistema internazionale, i cui effetti, stimolati dalle misure di liberalizzazione degli scambi, finiscono sempre per avvantaggiare le parti che hanno accettato di portare avanti il gioco fino in fondo.
La realtà delle regole tariffarie in vigore invita a concentrare l'attenzione sui due poli di questo sistema: da un lato i paesi più industrializzati, dall'altro i paesi in via di sviluppo. Nei primi si erano effettivamente alternati, dopo la metà del XIX secolo, periodi di crescente protezionismo a periodi di riduzione dei dazi doganali: mentre il protezionismo derivava da decisioni politiche unilaterali, la riduzione dei dazi era il risultato di trattati bilaterali che diminuivano i dazi sulle principali esportazioni di ciascun paese, i cui effetti però tendevano a estendersi a catena - tramite la clausola della nazione più favorita - a tutti i partners commerciali di pari rango. Solo l'Inghilterra aveva mantenuto fino agli anni venti una politica unilaterale di libero scambio, prima di aderire, negli anni trenta, alla 'preferenza imperiale' in favore dei suoi dominion e delle sue colonie.
La crisi mondiale che inizia nel 1929 e le prudentissime riduzioni concesse, nell'ambito degli accordi commerciali, con il Trade Agreement Act (TAA) del 1934 dagli Stati Uniti, rimasti fino a quel momento fortemente protezionistici (con un livello medio di dazi del 53% nel 1930), crearono una situazione nuova che doveva portare, all'indomani della seconda guerra mondiale, all'adozione del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), che aveva l'obiettivo di assicurare, attraverso negoziati multilaterali, la progressiva riduzione dei dazi. Questi negoziati, avviati a Ginevra nel 1947 e portati avanti attraverso varie fasi (il Kennedy round, terminato nel 1967, il Tokyo round del 1973-1979), hanno permesso delle sostanziali riduzioni dei dazi sulle importazioni dei grandi paesi industrializzati, ricondotti in media intorno al 10% (9% per gli Stati Uniti e la CEE, 11,2% per il Giappone).Tuttavia questa liberalizzazione generalizzata degli scambi ha rappresentato solo uno degli aspetti dell'evoluzione avvenuta dopo gli anni cinquanta: da allora si è infatti verificato uno sviluppo, al tempo stesso contraddittorio e complementare rispetto a questa liberalizzazione, di unioni doganali limitate a un ristretto numero di paesi che riducono i dazi sugli scambi reciproci, pur conservando una barriera tariffaria comune verso l'esterno. L'esperienza più dinamica è stata portata avanti nell'Europa occidentale, con la CEE e la 'Piccola zona di libero scambio', e con la vittoria finale del Mercato Comune, la cui unificazione completa è fissata per la fine del 1992. Ma questo movimento ha coinvolto anche altre regioni: per esempio, i paesi socialisti con il COMECON (Consiglio per la Mutua Assistenza Economica), che ha cercato di pianificare sia gli scambi che le produzioni industriali specializzate all'interno dell'area socialista, e anche, pur se con risultati molto limitati, alcuni gruppi di paesi in via di sviluppo, con il Mercato comune dell'America centrale e l'Associazione latino-americana di libero scambio. Fra gli Stati da una parte e un mercato mondiale ancora frenato dall'esistenza di molteplici e sempre nuove barriere, dall'altra, tendono così a costituirsi dei raggruppamenti intermedi, delle "nazioni ingrandite" (A. Marchal), la cui condizione di successo, alla luce dell'esperienza della CEE, sembra essere non tanto la complementarità, quanto l'omogeneità delle domande interne, dei livelli di vita e delle strutture produttive.
Il relativo insuccesso registrato su questa strada da un gran numero di paesi in via di sviluppo rappresenta solo un particolare aspetto delle difficoltà da essi incontrate, specie dopo l'ultima guerra, per definire una politica commerciale coerente con le necessità generali della loro politica economica. Inseriti in buona parte - anche a causa della dominazione coloniale, di diritto o di fatto, che avevano subita - in una divisione internazionale del lavoro che faceva di loro gli esportatori di materie prime e gli importatori di prodotti industriali, molti di essi sono stati vittime del peggioramento della loro ragione di scambio e si sono trovati costretti a far fronte a numerose esigenze, difficili - se non impossibili - da conciliare: difendere i prezzi delle loro esportazioni tramite accordi fra i paesi produttori, al costo però di una limitazione della produzione; ridurre le importazioni di manufatti, sviluppando industrie di sostituzione protette da dazi doganali e/o da un severo contingentamento degli acquisti all'estero; proteggere un'agricoltura di sussistenza, minacciata dall'apertura verso l'estero e dalla specializzazione in una piccola quantità di prodotti agricoli o minerari destinati al mercato internazionale; ricondurre l'ammontare del debito, cresciuto sia per gli acquisti di prodotti alimentari che per programmi di modernizzazione spesso sproporzionati ai mezzi esistenti, a un livello compatibile con le loro capacità di pagamento e i loro bisogni di investimento.
Le difficoltà incontrate da molti di questi paesi hanno rafforzato la diffidenza dei fautori del liberalismo nei confronti di qualsiasi limitazione di tipo politico allo sviluppo degli scambi internazionali, ma anche quella degli avversari di un sistema internazionale caratterizzato, a loro avviso, dallo "scambio ineguale" (A. Emmanuel) e accusato di incrementare, anziché attenuare, le differenze di sviluppo esistenti fra le diverse regioni del mondo. I successi raggiunti a partire dagli anni settanta da un piccolo gruppo di paesi asiatici che avevano scelto invece la via opposta, caratterizzata da una completa apertura nei confronti degli scambi con l'estero - specie i quattro 'nuovi paesi industriali': Corea, Taiwan, Singapore e Hong Kong - hanno in qualche maniera confermato le teorie dei primi e incoraggiato l'insediamento di industrie che richiedevano lavoro in paesi ricchi di manodopera e avvantaggiati da bassi salari, secondo la più perfetta logica di Heckscher-Ohlin. Non bisogna però dimenticare né l'impatto della crisi petrolifera, che ha colpito più duramente i paesi in via di sviluppo importatori di energia, né le difficoltà incontrate per armonizzare produzioni e prezzi di vendita fra concorrenti di fatto, né le piccole dimensioni (e lo scarso sviluppo) che spesso caratterizzano il mercato interno di ciascuno di questi paesi (un fattore la cui importanza appare confermata, a contrario, dai migliori risultati ottenuti da paesi di dimensioni superiori, come nel caso dell'India).
Il commercio internazionale si impone dunque, oggi più che mai, come una delle dimensioni fondamentali per la lettura dell'economia contemporanea. Crescita degli scambi e crescita economica sono tanto più strettamente interdipendenti, in quanto la maggioranza dei paesi, sviluppati o no, sono ormai ampiamente aperti verso l'estero e quindi dipendono, per l'incremento delle loro attività, dagli stimoli provenienti dalla domanda estera: nessuno sviluppo è più possibile in un solo paese. Tutto avviene come se - nonostante i divari, numerosi e crescenti, fra teoria e pratica - le regole del gioco fossero ormai accettate da quasi tutti i paesi: tutt'al più, ognuno cerca di migliorare la propria situazione relativa e di limitare gli effetti negativi che comporterebbe l'applicazione troppo brutale di queste regole per i suoi cittadini e per l'equilibrio interno della propria economia. Questa situazione è confermata dalla prudenza dei paesi più indebitati nel chiedere di rinegoziare un debito spesso smisurato.
L'accettazione di questo modus vivendi, tuttavia, ha poco a che vedere con l'ottimismo liberale che attribuiva alla crescita generale degli scambi commerciali un ruolo centrale per il progresso economico, per una maggiore eguaglianza e armonizzazione del livello delle ricchezze, e per l'unificazione del mondo, che avrebbe così sostituito la pace alla guerra per regolare i rapporti fra gli Stati. La crescita degli scambi ha invece consolidato l'esistenza di blocchi di paesi dagli interessi opposti o divergenti, tutti, o quasi, pronti ad alternare, in proporzioni variabili, provvedimenti liberali e misure protezionistiche; ha anche contribuito a perpetuare, nonché ad accentuare, differenze nello sviluppo spesso di origine molto antica. Mai comunque come oggi (e la crisi iniziata nei primi anni settanta ha influito e continua a influire in questo senso) tale crescita è apparsa come un optimum, o almeno come un second best.
Il ridimensionamento del credo liberale ha permesso di ricondurre a più giuste proporzioni l'opposizione, formulata dagli stessi teorici liberali, fra la nuova dottrina e quelle che l'avevano preceduta. Ha anche favorito la ricollocazione in una prospettiva storica del ruolo svolto dal commercio nello sviluppo delle società e delle forme molteplici, e talvolta contraddittorie, che ha potuto assumervi. Questo importante cambiamento d'atteggiamento è stato decisamente favorito dai progressi dell'antropologia ed è a suo modo indicativo della fecondità di un incontro interdisciplinare.
Il paradigma del mercato esprimeva, secondo Adam Smith, un aspetto fondamentale della "natura lucrativa" dell'uomo: la sua "propensione a scambiare un bene con un bene, un bene con un servizio, una cosa con un'altra" per accrescere il suo personale profitto. Si trattava di uno scambio che, prima della generalizzazione dell'uso della moneta, era costretto ad assumere la forma, ritenuta primitiva, del baratto. L'antropologia ha ripreso questa affermazione iniziale per rimetterla in discussione e trasformarne radicalmente il significato.
Da un lato, in effetti, gli antropologi hanno proposto di vedere nello scambio una categoria fondamentale del funzionamento di tutte le società e una condizione per la loro riproduzione, anche e soprattutto delle società più 'primitive'. Dall'altro, essi hanno cercato di spezzare il rapporto privilegiato, fissato a partire da Smith, fra la sfera dello scambio e quella dell'economia produttiva, e di restituire alla prima una dimensione che fosse anzitutto sociale: distinto da trade, il commerce ha assunto nuovamente un significato che era già suo nella lingua del XVII e del XVIII secolo, la quale ne aveva fatto, in senso figurato, il sinonimo di una socialità identificata con il rapporto da pari a pari fra le persone. La voce Commerce dell'Encyclopédie lo ricordava fin dall'inizio: "Si intende con questo termine, in senso generale, una comunicazione reciproca. Si applica in particolare alla comunicazione che gli uomini si fanno [per lo scambio] fra loro dei prodotti delle loro terre e della loro industria".La prima conseguenza di questa impostazione sarà il rifiuto, da parte dell'antropologia, dell'idea stessa di un'economia naturale che avrebbe preceduto il costituirsi dell'economia mercantile e l'asserzione che, storicamente, lo scambio precede la nascita del mercato e può superarne ampiamente i confini, assumendo allora un significato infinitamente più ricco. Partners, modalità, beni, sanzioni, tutti i suoi elementi possono in realtà variare completamente, come osserva Marcel Mauss nelle prime pagine del suo Saggio sul dono: "Nelle economie e nei diritti che hanno preceduto i nostri, non si trovano quasi mai semplici scambi di beni, di ricchezze e di prodotti nell'ambito di un mercato sviluppatosi fra gli individui. Anzitutto non sono gli individui, ma le collettività, ad assumere obblighi reciproci, a effettuare scambi e contratti; i soggetti del contratto sono delle persone giuridiche - clan, tribù, famiglie - le quali si affrontano e si oppongono sia in gruppi rivali che si fronteggiano direttamente, sia attraverso l'intermediazione dei loro capi, sia ancora in entrambi i modi contemporaneamente. Per giunta, gli oggetti dello scambio non sono beni e ricchezze, mobili e immobili, cose economicamente utili. Sono soprattutto cortesie, festini, riti, prestazioni militari, donne, bambini, feste, fiere, di cui il mercato è soltanto uno dei momenti e la circolazione delle ricchezze uno dei termini di un contratto molto più generale e permanente. Infine queste prestazioni e controprestazioni vengono fornite in una forma prevalentemente volontaria, con doni o regali, benché siano in fondo rigorosamente obbligatorie, pena, altrimenti, una guerra privata o pubblica" (v. Mauss, 1923-1924). Anche se questa definizione si riferisce chiaramente alle società del passato, l'analisi dell'antropologo suggerisce quasi automaticamente che lo sviluppo del mercato non ha impedito, nelle nostre società, la sopravvivenza almeno residuale di molte di queste forme 'primitive' di scambio.Vent'anni dopo Karl Polanyi (v., 1944) ha ripreso la medesima affermazione, ma in termini diversi e per scandire le tappe di un'evoluzione diacronica. Anche se, a suo avviso, vi è sempre 'commercio', anche senza profitto né accumulazione, né possesso permanente, né mercanteggiamento, né baratto, Polanyi in realtà preferisce, in La grande trasformazione, riservare il termine 'scambio' esclusivamente all'ambito dello scambio mercantile, per poter distinguere altre due forme assunte dalla circolazione dei beni, che sono, di fatto, "due principî di comportamento che apparentemente non hanno nulla a che vedere con l'economia". I due principî sono legati a modelli istituzionali di organizzazione sociale: il primo allo schema dualistico della 'simmetria', il secondo a quello, gerarchico, della 'centralità', così come l'autarchia, che rappresenta una terza forma egualmente originale, è legata all''amministrazione domestica' o oeconomia. Al contrario, l'originalità dello scambio, prima in natura (baratto), poi in moneta, consiste nell'aver prodotto un'istituzione distinta, il mercato, che ha dato all'economia una sua autonomia e le ha permesso di dominare la società, facendone un proprio elemento ausiliario.
Questa 'invenzione' del mercato, inoltre, è avvenuta lentamente e per tappe, fatto questo che ne ha frenato la portata rivoluzionaria. Infatti i primi mercati che si sono costituiti sono stati, da un lato, il mercato locale riservato soprattutto ai beni "pesanti, voluminosi o deperibili", impossibili da trasportare, dall'altro il mercato internazionale, riservato invece proprio ai beni che possono essere trasportati. Entrambi i mercati hanno in comune di non essere concorrenziali, o di esserlo limitatamente, e di "funzionare principalmente all'esterno e non all'interno di un'economia", risultando quindi insufficienti per sconvolgerne gli equilibri. Così si spiega perché "il tipico mercato locale, quello in cui le casalinghe si procurano ciò di cui hanno bisogno quotidianamente, dove i produttori di cereali e di ortaggi e gli artigiani locali propongono i loro articoli, non cambi molto, quali che siano l'epoca e il luogo", sia che "appartenga alla vita tribale dell'Africa centrale, o a una città della Francia merovingia, o a un villaggio scozzese del tempo di Adam Smith". E si spiega anche il fatto che, dall'Europa medievale fino all'Asia dei monsoni, l'organizzazione del commercio a grande distanza abbia assunto forme assai simili tra loro (di cui il port of trade è solo uno degli elementi): praticato da piccoli gruppi di mercanti, spesso stranieri raggruppati in colonie, e interessato a una gamma ristretta di prodotti rari e costosi destinati alle élites sociali e politiche, esso rimane solitamente tagliato fuori dal commercio locale.
Nella formazione di questo nuovo tipo di mercato si verifica una prima rottura a causa dell'intervento degli Stati mercantilistici che, contro i particolarismi dei signori e delle città, estendono l'ambito della regolamentazione a tutto il territorio. Ma tale rottura ne preannuncia un'altra, infinitamente più importante: quella che garantisce la formazione di un grande mercato autoregolato, che unifica tutti i singoli mercati in un sistema interdipendente, in cui "tutta la produzione è destinata alla vendita sul mercato, e tutti i redditi provengono da questa vendita". Governato da una concorrenza perfetta, potrà sottomettere l'intero funzionamento della società alle esigenze del sistema delle merci. È una rivoluzione economica e sociale che domina tutta la storia della fine del Settecento e dell'Ottocento: circoscritta dapprima al mercato interno, si estende in seguito al mondo intero.
Tuttavia, come Polanyi spiega nella seconda parte della sua dimostrazione, questa vittoria del mercato è stata soltanto temporanea, avendo essa stessa prodotto il suo contrario: contro gli effetti distruttivi dell'estensione mondiale del mercato delle merci, la società ha reagito creando istituzioni sufficientemente forti per tenere sotto controllo i tre mercati fondamentali del lavoro, della terra e del denaro. Avviata fin dal 1879, questa nuova fase si conclude nel 1929, agli inizi della 'grande depressione', quando incomincia una nuova epoca in cui la società riprende il controllo dell'economia: ciò non avviene senza resistenze che spiegano la violenza e, almeno nel primo caso, l'ambiguità delle risposte date dal fascismo e dal socialismo. In questa prospettiva l'autonomia dell'economia avrebbe rappresentato solo una parentesi durata un secolo o al massimo un secolo e mezzo: il liberalismo l'avrebbe sottratta alla rete di costrizioni sociali nelle quali essa si trovava embedded, ma soltanto per il tempo necessario all'elaborazione, da parte della società stessa, di nuove regole più adatte alle nuove possibilità dell'economia.
Polanyi è morto nel 1964: avrebbe conservato il radicalismo di questa previsione se avesse vissuto la crisi degli anni settanta e ottanta? È comunque fuori di dubbio che la crescita dei trent'anni successivi alla guerra e poi questa crisi gli hanno dato ragione, su questo piano, solo in parte. Inoltre la partita che egli credeva terminata dopo gli anni trenta è in realtà ancora aperta: abbandonato dopo il 1929, il tallone aureo rinasce a Bretton Woods (1944) identificato con il tallone-dollaro, e dura fino al 1971, quando gli Stati Uniti rinunciano a difendere la parità della loro moneta, aprendo così un periodo di fluttuazione delle monete sia tra loro che rispetto all'oro. Il movimento sarà inverso per il mercato del lavoro: per restituirgli un minimo di elasticità, la crisi ha costretto la maggioranza degli Stati a rinunciare ad almeno una parte dei provvedimenti di protezione sociale decisi nel corso dei decenni precedenti per ridistribuire meglio i profitti della crescita, a rinunciare cioè alla garanzia dell'occupazione e della scala mobile nei paesi sviluppati e ai prezzi 'politici' dei principali generi alimentari nei paesi in via di sviluppo e in alcuni paesi socialisti. Ciò sta a indicare una rimessa in discussione dei vantaggi acquisiti in precedenza, in nome di una necessaria sottomissione alle regole del mercato, le sole ritenute in grado di permettere, a più lungo termine, la ripresa della crescita. Lungi dall'essere condannato, il mercato autoregolato sembra godere ottima salute; rimane il fatto che, rifiutandosi di limitare le proprie analisi alle società 'primitive' o 'storiche', e spostando invece il dibattito sul contemporaneo, l'antropologia economica è riuscita a rimettere in discussione il monopolio disciplinare della scienza economica e a ricollocarne, più della storia stessa, i risultati e le previsioni nella più lunga durata della storia umana.
Da almeno due secoli e mezzo la riflessione sul commercio ha affiancato, nelle varie fasi del loro sviluppo, le scienze sociali nel loro tentativo di cogliere all'opera le dinamiche delle società che esse studiavano. Il commercio si è docilmente prestato ai successivi tentativi di formalizzazione, ma la sua notevole complessità ha sempre finito con l'avere la meglio. Storia, economia, antropologia hanno perciò volta a volta oscillato fra due atteggiamenti estremi. Il primo tendeva a fare del commercio una categoria a sé: generatore di ricchezze e causa di gerarchie fra gli individui, i gruppi, le regioni, gli Stati, ma anche fattore di innovazioni, di mobilità e di tensioni che negavano alle società in questione la tranquillità della riproduzione semplice, cioè sempre uguale, o quasi, a se stessa. Il secondo cercava invece di delineare il ruolo del commercio - un ruolo tuttavia limitato - nel cuore stesso dell'economia e della società, facendone un indice significativo, ma soltanto indiretto, di realtà dominanti assai più radicate: il vantaggio comparativo serve soltanto a rendere esplicito il divario fra i costi di produzione (Ricardo) o le disparità nella disponibilità dei fattori di produzione (Heckscher-Ohlin). Fin dal più lontano passato gli Stati organizzati non hanno, tutto sommato, proceduto in maniera molto diversa. Interessati (ai guadagni sperati in termini di ricchezze o di potenza) e al tempo stesso diffidenti (dei pericoli per l'equilibrio sociale e per la stabilità del loro potere), essi sono sempre stati incerti sull'atteggiamento da tenere: lasciar fare, salvo prelevare la loro parte - in denaro o in natura - sulle uscite, le entrate e i transiti, oppure proibire, monopolizzare, sorvegliare i luoghi, i tempi, le persone, le quantità, i prezzi, i contratti, le monete, le misure. In entrambi i casi il rischio, in caso d'insuccesso, era lo stesso: oggi come ieri la responsabilità della crisi viene attribuita, in prima istanza, al politico. Si possono ritrovare facilmente in quasi tutti i paesi i segni, in teoria contraddittori ma di fatto coesistenti, di questi successivi tentativi. Tuttavia, poiché le soluzioni estreme di un commercio totalmente statalizzato o totalmente libero appaiono più che mai condannate all'insuccesso o socialmente impraticabili, la tendenza prevalente si muove in direzione di compromessi, più o meno riusciti, giustificati dalla qualità dei risultati (i migliori o i meno cattivi).
Andando alla radice, il commercio ha permesso alle scienze sociali (o ve le ha costrette?) di affrontare il problema, per esse cruciale, del rapporto tra l'identico e il diverso - un diverso mai ridotto all'identico, al tempo stesso associato e rivale, amichevole e ostile, legato alle sue abitudini e alle sue convinzioni, ma anche disposto a prendere in prestito e a imitare. Non c'è società umana che non sia obbligata a praticare il gioco dello scambio, in casa propria e con i vicini, uno scambio graduato, in termini di diritti e di doveri, secondo la gerarchia delle parti, alla quale corrisponde sempre una gerarchia dei linguaggi utilizzati. La necessità fondamentale di acquistare per poter vendere, e di vendere per poter acquistare, si ricongiunge con quella, ancora più fondamentale, del dono - dare per poter ricevere, ricevere per poter dare - e stimola anche la tentazione di accumulare - vendendo più di quanto si acquista e dando più di quanto si riceve - per disporre di un credito che dia dei diritti sull'altro e dunque del potere. Ma è un potere fragile e subito rimesso in discussione dalle regole stesse della sua utilizzazione: rovinare l'altro, infatti, e spingerlo al fallimento sarebbe il modo più sicuro per uccidere lo scambio.
L'economia liberale ha senza dubbio portato ai limiti estremi il sogno di un mondo in cui le regole del commercio sarebbero divenute quelle della società degli uomini e ne avrebbero garantito per sempre gli equilibri. Questo sogno livellatore, nelle sue pretese di eguaglianza fondate su un apparato matematico esemplare, è il simbolo, nel campo delle scienze sociali, dell'ideale della continuità: ma la discontinuità non cessa di riaffermare, contro di esso, i suoi diritti. (V. anche Economia internazionale; Industria; Mercato).
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