Abstract
Sorte come organi amministrativi investite di funzioni di accertamento di secondo grado, le Commissioni tributarie solo col tempo hanno assunto la natura di organi giurisdizionali. Dopo avere ricostruito la disciplina dal momento della loro istituzione alle ultime riforme, la voce analizza i profili di costituzionalità, la composizione degli organi giudicanti, i profili di incompatibilità, le prospettive di riforma.
Sorte come organi amministrativi investite di funzioni di accertamento di secondo grado, le Commissioni tributarie solo col tempo hanno assunto la natura di organi giurisdizionali. Sebbene dotate di poteri decisori sui ricorsi loro presentati, le Commissioni tributarie assumevano la propria natura di organi amministrativi, affiancando o sostituendosi all’amministrazione finanziaria, all’interno della quale erano sorte e continuavano a collocarsi.
Dopo l’abolizione del contenzioso amministrativo (l. 20.3.1865, n. 2248, all. E), l’assetto del contenzioso tributario veniva costruito su due sistemi differenziati di tutela: quello dinanzi alle Commissioni tributarie, ordinate su tre gradi di giudizio, e quello dinanzi al giudice ordinario, articolato anch’esso su tre gradi (Tribunale, Corte d’appello, Corte di cassazione). Tale modello binario di tutela è stato mantenuto per oltre un secolo. Il processo di trasformazione delle Commissioni tributarie da organi amministrativi a organi giurisdizionali poteva, quindi, ritenersi intrapreso ed in parte realizzato, anche se non senza esitazioni ed incertezze (si pensi alle modifiche apportate nel 1936/1937). Superate, pur se a fatica, le eccezioni di costituzionalità sollevate da più parti, la legge delega 9.10.1971, n. 825 (art. 10, n. 14) e il d.P.R. 26.10.1972, n. 636, posero mano alla riforma, rivedendo i criteri di selezione e nomina dei giudici tributari, dettando nuove regole con riguardo al rito e strutturando un processo unitario, articolato nei primi due gradi di giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, nel terzo grado, alternativamente tra Commissione tributaria centrale e Corte d’appello, e, quindi, dinanzi alla Corte di Cassazione.
In modo ancora più netto, i decreti legislativi 31.12.1992, nn. 545 e 546 qualificano le Commissioni tributarie come organi giurisdizionali anche al fine di sgombrare ogni possibile diversa interpretazione. Il primo di essi, recante l’ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria e l’organizzazione dei relativi uffici di collaborazione, definisce già all’art. 1 le Commissioni tributarie «organi di giurisdizione in materia tributaria». Nello stesso senso si esprime l’art. 1, primo comma, d.lgs. n. 546, in base al quale «la giurisdizione in materia tributaria è esercitata dalle Commissioni tributarie provinciali e dalle Commissioni tributarie regionali di cui all’art. 1, d.lgs. 545». Ancora più esplicitamente, la relazione governativa di accompagnamento dello schema di decreto afferma che la disposizione citata, «attribuisce espressamente alle nuove commissioni provinciale e regionale l’esercizio della giurisdizione tributaria».
Come chiarito dalla Corte costituzionale (cfr. ordinanza 23.4.1998, n. 144), le Commissioni delineate dalla riforma dei decreti nn. 545 e 546 non possono essere considerate un nuovo giudice speciale in quanto non è stato «snaturato né il sistema di estrazione dei giudici (anzi è migliorato dal punto di vista dei requisiti di idoneità e di qualificazione professionale e delle incompatibilità), né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie, anche se riconfigurata mediante una soluzione unitaria ed aggiornata e con l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile». In forza della disciplina richiamata gli organi della giurisdizione tributaria sono stati riordinati in commissioni provinciali, aventi sede nel capoluogo di ogni provincia e in commissioni regionali aventi sede nel capoluogo di ogni regione (art. 1 d.lgs. n. 545/1992). Soppresso il terzo grado di giudizio dinanzi alla Commissione tributaria centrale o, in alternativa, dinanzi alla Corte d'appello, resta il ricorso per Cassazione avverso le sentenze della Commissione tributaria regionale, sia pure limitatamente ai motivi di cui all'art. 360, c.p.c..
La disciplina di cui al d.lgs. n. 545/1992 istituisce il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, attribuendo ad esso poteri deliberativi in ordine alle nomine dei giudici, poteri disciplinari nei confronti degli stessi e propositivi con riguardo all’adeguamento delle strutture, sulla formazione e l’aggiornamento dei giudici tributari, sulla misura dei compensi, la commissione per il gratuito patrocinio, che provvede all’accertamento delle condizioni per fruire dell’assistenza tecnica gratuita (stato di povertà e non manifesta infondatezza della pretesa dedotta in giudizio) e alla designazione, in caso di ammissione a tale beneficio, del difensore abilitato e il commissario ad acta il quale, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, emette i provvedimenti necessari per dare esecuzione alla sentenza passata in giudicato (art. 70).
L’attività giurisdizionale, in quanto sintesi tra conoscenze tecnico-giuridiche e coscienza individuale, risulta scandita da una serie di garanzie riconducibili ad un vero e proprio statuto del giudice che, a sua volta, si coniuga efficacemente con il diritto di azione e di difesa delle proprie situazioni giuridiche soggettive assicurato alle parti del giudizio.
Nell’ambito di tale sistema di garanzie, alcune di esse ricevono una copertura costituzionale come quelle del giudice naturale, della soggezione alla legge, della distinzione solo per funzione, dell’inamovibilità (artt. 25, 101, 104, 107, …). Altre, invece, come i principi di terzietà e imparzialità del giudice, ricevono un autonomo riconoscimento sul piano costituzionale nell’ambito della nuova formulazione dell’art. 111 della Costituzione, riguardando l’attuazione della funzione giurisdizionale nell’ambito di un giusto processo. La riforma costituzionale del 1999, nel prevedere la regola del giusto processo, la riferisce alla funzione giurisdizionale senza alcuna distinzione, considerandola modalità attuativa essenziale. Il principio dell’indipendenza e della terzietà dell’organo giudicante risulta così amplificato e rafforzato, divenendo più che una garanzia del giudice una garanzia del processo. In questo senso si esprime la stessa disposizione la quale sancisce che il processo giusto deve svolgersi «davanti ad un giudice terzo e imparziale» (e non che il giudice presso cui si svolge il processo debba essere terzo e imparziale). Se la terzietà esprime indifferenza dell’organo rispetto all’interesse dedotto dalle parti nel giudizio (criterio sostanziale), oltre che rispetto all’esito delle controversie ad esso devolute, l’imparzialità attiene al perseguimento di un superiore interesse pubblico (nel caso della funzione giurisdizionale espresso dall’applicazione della norma astratta al caso concreto) senza condizionamenti da parte dei soggetti portatori di interessi privati e senza alcuna disparità di trattamento. Tra le garanzie poste dall’art. 111, la norma non menziona espressamente il requisito dell’indipendenza del giudice, anche perché posta in via generale dagli artt. 101 e 108, rientrando nello statuto costituzionale del giudice. In particolare, la seconda delle due norme richiamate stabilisce espressamente che «la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali». Sebbene tale disposto fosse già contenuto nel testo costituzionale del 1948, gli istituti che concorrono in modo fondamentale a tutelare la posizione del giudice hanno ricevuto faticosa attuazione nel sistema della giustizia tributaria.
L’istituzione di una magistratura tributaria a tempo pieno sembra essere ispirata più da ragioni di opportunità che non di legittimità costituzionale, ben potendo la terzietà e l’imparzialità, in quanto garanzie del processo, essere riferite anche a processi che si svolgono dinanzi a giudici non professionali, part time e finanche onorari (si pensi ad esempio ai giudici di pace del processo civile, ai vice procuratori onorari, ai giudici popolari dei giudizi penali, ecc.).
Essa, infatti, consentirebbe la sottrazione del giudice ad interferenze esterne derivanti dalla propria attività professionale (dottore commercialista, ragioniere, avvocato, ecc.) o dalla propria condizione lavorativa (appartenenza ad amministrazioni pubbliche) e risolverebbe in modo definitivo la delicata questione delle incompatibilità.
Fondamentale appare in ogni caso la piena attitudine tecnico-professionale della persona fisica che ricopre l’incarico di giudice allo svolgimento delle funzioni giudicanti di cui è investito, senza della quale non avrebbe alcun senso né potrebbe aversi la terzietà o la imparzialità del giudice richiesta dall’art. 111 della Costituzione. Altrettanto essenziali ai fini del rispetto degli artt. 108 e 111, Cost., oltre che per un migliore funzionamento degli apparati giurisdizionali, sono un sistema di reclutamento costruito su criteri che valorizzino il merito e quindi la conoscenza delle regole processuali e del diritto tributario sostanziale ed un rigoroso regime delle incompatibilità e, conseguentemente, delle ipotesi di astensione e di ricusazione.
Il principio della «qualificazione professionale dei giudici tributari» è, invece, posto dall’art. 30, primo comma, lett. f), l. 30.12.1991, n. 413, recante la delega per la riforma del contenzioso tributario, il quale richiede che i componenti delle commissioni tributarie debbano avere «un’adeguata preparazione nelle discipline giuridiche ed economiche, acquisita anche con l’esercizio protrattosi per almeno dieci anni di attività professionale». Nel dare attuazione a tali criteri direttivi, l’art. 4, d.lgs. n. 545/1992, prevede un tassativo elenco di soggetti che possono essere nominati giudici tributari, differenziato a seconda del grado provinciale o regionale, reclutati all’interno delle più eterogenee categorie (in via esemplificativa: magistratura – ordinaria, amministrativa o militare –, avvocatura dello Stato, pubblico impiego – con almeno dieci anni di servizio cui almeno due in una qualifica alla quale si accede con la laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o altra equipollente –, Guardia di finanza, ragionieri e periti commerciali, revisori ufficiali dei conti o revisori contabili, abilitati all’insegnamento in materie giuridiche ed economiche o tecnico-ragioneristiche, ingegneri, architetti, geometri, periti edili, periti industriali, dottori in agraria, agrotecnici e periti agrari che hanno esercitato per almeno dieci anni le rispettive professioni). Dalle disposizioni richiamate emerge come esse abbiano, solo per talune categorie di soggetti, richiesto l’esercizio professionale per più di dieci anni di attività giuridiche ed economiche; per altre (magistrati, docenti, laureati in discipline giuridiche ed economiche, revisori dei conti, ecc.), l’esperienza professionale decennale è stata ritenuta, invece, superflua e in stridente contrasto con la norma delegante. Tale soluzione appare censurabile, non potendo essere condivise le ragioni addotte dalla relazione governativa secondo cui in taluni casi l’esperienza professionale può essere sostituita dal possesso di un titolo di studio o di una abilitazione. Particolari perplessità desta, poi, la mancata previsione della laurea in giurisprudenza o in economia e commercio e la specifica conoscenza del diritto tributario e del diritto processuale tributario quali requisiti generali per rivestire la carica di giudice tributario scorrendo le tabella E e F, recanti i titoli valutabili e i relativi punteggi, appare chiaro come esse prescindano quasi del tutto dalla conoscenza del diritto tributario così come di quello del diritto processuale civile, non attribuendo alcuna rilevanza al superamento di tali esami nel corso degli studi universitari e postuniversitari, a specifiche esperienze professionali, ad eventuali pubblicazioni nella materia, ecc..
Conseguenza è che il reclutamento dei giudici tributari è legato più alla valutazione dei titoli da parte del Consiglio di Presidenza, sulla base di punteggi attribuiti a titoli di varia natura (alcuni dei quali peraltro non collegati alla maturazione di esperienze significative nel settore tributario) che non ad una verifica della conoscenza tecnica degli eventuali candidati da parte di una commissione concorsuale qualificata. La modalità di accesso alla magistratura tributaria indicata dalla riforma non può essere, quindi, positivamente valutata nella sua globalità, soprattutto alla luce del già richiamato innalzamento del livello di guardia delle garanzie costituzionali in materia di statuto del giudice e del processo, non garantendo una selezione di tipo meritocratico, adeguata alla qualità della domanda della giustizia tributaria.
Con riferimento agli altri requisiti per la nomina a componente delle Commissioni tributarie provinciali e regionali, l’art. 7 d.lgs. n. 545/1992, quasi interamente riproduttivo dell’art. 4 d.P.R. n. 636/1972, pone alcune condizioni generali, comuni a quelle solitamente poste per l’accesso al pubblico impiego, ed altre, più specifiche, che si collegano alla peculiare funzione di cui è investito il giudice tributario. Rientrano tra le prime, la cittadinanza italiana, «l’avere l’esercizio dei diritti civili e politici» (vale a dire avere la capacità di agire ed essere titolari del diritto di voto), l’idoneità fisica e psichica. La norma, così come modificata per effetto dell’art. 3 bis, co. 3, d.l. 30.9.2005, n. 203, convertito nella l. 2.12.2005, n. 248, stabilisce, inoltre, il limite massimo di età («non aver superato alla data di scadenza del termine stabilito nel bando di concorso per la presentazione della domanda di ammissione i settantadue anni di età») e l’avere o l’aver dichiarato di voler porre la residenza nella regione nella quale ha sede la commissione tributaria. Il primo requisito, che presenta carattere generale riferendosi a tutte le ipotesi di nomina, compresa quella a Presidente di Commissione (così la risoluzione del Consiglio di Presidenza dell’8 gennaio 1998), va collegato alla disposizione di cui all’art. 11, secondo comma, in base al quale i giudici tributari cessano dall’incarico in ogni caso al compimento del settantacinquesimo anno di età. Il secondo requisito si rivela, invece, del tutto inopportuno. Superata la logica democratico-partecipativa che aveva originariamente condizionato la composizione delle Commissioni tributarie, la presenza negli organi giudicanti di componenti radicati sul territorio rischia di diventare un possibile turbamento della terzietà e dell’indipendenza del giudice per i legami ed i rapporti (di amicizia come di inimicizia) con le parti del giudizio che possono crearsi anche a seguito della residenza nella stessa sede. Ferma restando l’applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione nel caso di iudex suspectus, sarebbe semmai preferibile espungere dal testo normativo tale requisito ovvero prevedere il requisito della residenza in una sede diversa da quelle in cui è ubicata la Commissione tributaria, introducendo semmai rimborsi spese per i necessari spostamenti dalla propria abitazione a quella dell’ufficio. Tra i requisiti specificamente dettati con riguardo alla nomina a giudice tributario va segnalata quella di non aver riportato condanne per delitti comuni non colposi o per contravvenzioni a pena detentiva o per reati tributari e non essere mai stati sottoposti a misure di prevenzione o di sicurezza. Come chiarito dalla relazione ministeriale di accompagnamento, tale requisito, che attiene alla personalità del giudice, è rapportato alla condanna penale «che è prescritta immune da condanne non solo per generici delitti non colposi ed a pene detentive per contravvenzioni ma anche a qualsiasi sanzione per reati tributari». È utile ancora aggiungere che, rispetto all’originaria formulazione dell’art. 11 d.lgs. n. 545/1992, l’attuale disposizione, così come modificata per effetto dell’art. 3-bis, co. 2, d.l. 30.9.2005, n. 203, convertito con modificazioni nella legge 2.12.2005, n. 248, elimina il limite temporale posto alla durata dell’incarico di componenti delle Commissioni tributarie. La modifica apportata rende l’incarico di giudice tributario a durata illimitata, salvo il limite del compimento del settantacinquesimo anno di età. Essa appare più coerente rispetto al requisito della professionalità del giudice, evitando che le esperienze maturate nel corso dell’attività svolta vengano disperse per effetto della cessazione dall’incarico alla scadenza del termine posto.
Strettamente connesse alle garanzie di terzietà e di imparzialità del giudice tributario sono le regole che riguardano le incompatibilità. È di tutta evidenza che attraverso la limitazione al contemporaneo svolgimento di più attività ritenute incompatibili con la funzione giurisdizionale si intende impedire situazioni che possono provocarne un turbamento, compromettendo l’indifferenza del giudice rispetto agli interessi di cui sono portatrici le parti del giudizio. Le regole poste in ordine alle incompatibilità si atteggiano, tuttavia, in modo diverso a seconda dello status del giudice: per i magistrati di carriera, esse sono più penetranti anche in considerazione dell’esclusività che caratterizza il rapporto di impiego, per i giudici onorari e per quelli non togati sono, invece, meno pesanti, dovendo essere garantita l’equidistanza e l’indifferenza rispetto alle parti del giudizio. Il contemperamento, non sempre facile, tra l’interesse generale all’eliminazione di ogni possibile turbamento dell’esercizio della funzione giurisdizionale e quello del singolo alla conservazione della propria rete di relazioni personali e lavorative rende quanto mai delicata la definizione delle incompatibilità dei giudici non professionali. Per i componenti delle Commissioni tributarie, la questione si rivela ancora più complessa combinandosi con quella dell’idoneità tecnica del giudice: è noto, infatti, che un adeguato livello di competenza nel diritto tributario e nel diritto processuale può essere più facilmente assicurato proprio da coloro che, a diverso titolo, operano nel settore (quali avvocati dello Stato, funzionari dell’Amministrazione finanziaria, commercialisti, consulenti tributari, ecc.) e, pertanto, sono o possono essere legati da vincoli giuridici o da rapporti professionali con una delle parti del processo. Non può tuttavia passare inosservato che il legislatore ha posto crescente attenzione al regime dell’incompatibilità proprio mentre “il livello di guardia” delle garanzie della terzietà e imparzialità del giudice si innalzava. Va, infatti, ricordato che già la norma di delega (art. 30, co. 1, lett. f), l. n. 413/1991) aveva posto tra i criteri direttivi quello della definizione del «regime delle incompatibilità, con particolare riferimento all’esercizio di assistenza e di rappresentanza dei contribuenti nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria». Numerose sono le fattispecie di incompatibilità contemplate dalla norma delegata. L’art. 8 d.lgs. n. 545/1992, prevede, infatti, l’incompatibilità con l’incarico di membro del Parlamento nazionale ed europeo, di giudice della Corte costituzionale, di consigliere regionale, provinciale, comunale o circoscrizionale, di amministratore, dipendente e i componenti di organi collegiali di enti che applicano tributi, concorrono all’accertamento o partecipano al relativo gettito, di prefetto, di appartenente alle Forze armate o di funzionario civile dei corpi di polizia, di ispettore del SECIT, di appartenente del Corpo della Guardia di Finanza, di amministratore o dipendente delle società concessionarie del servizio di riscossione delle imposte o preposte alla gestione dell’anagrafe tributaria e di ogni altro servizio tecnico del Ministero delle finanze, di soggetto che ricopre incarichi direttivi o esecutivi nei partiti politici. Va altresì segnalata l’incompatibilità “interna” riguardante coloro che sono coniugi o parenti fino al secondo grado o affini in primo grado di coloro che sono iscritti negli albi professionali o negli elenchi dei professionisti abilitati a prestare assistenza tecnica nella stessa sede della Commissione tributaria ovvero che, pur essendo iscritti in altra sede, esercitano comunque abitualmente la loro professione dinanzi alla medesima Commissione. Tra le incompatibilità esterne, mentre resta fermo il divieto a fare parte di più Commissioni tributarie sia dello stesso grado che di gradi diversi, viene riferita ai soli componenti del collegio giudicante l’incompatibilità per i coniugi, parenti e affini entro il quarto grado. Tra le innovazioni apportate, le più significative e le più delicate sotto il profilo dell’indipendenza del giudice appaiono quelle riguardanti i dipendenti dell’Amministrazione finanziaria e coloro che esercitano attività di assistenza e di consulenza nei confronti dei contribuenti. Nell’attuale formulazione della norma, l’incompatibilità viene posta con riguardo ai dipendenti dell’Amministrazione finanziaria che prestano servizio presso gli uffici delle Agenzie delle entrate, delle dogane e del territorio.
Proseguendo nell’indagine, occorre ricordare che il verificarsi delle cause di incompatibilità previste dall’art. 8, cit., può dare luogo a due ordini di effetti giuridici: la sospensione dall’incarico ovvero la decadenza dallo stesso. La prima comporta il temporaneo congelamento delle funzioni di giudice tributario per il periodo di durata dell’incarico che determina l’incompatibilità. Come emerge dall’ultimo comma dell’art. 8, la sospensione riguarda i casi di nomina del giudice tributario a membro del Parlamento nazionale e del Parlamento europeo, a giudice della Corte costituzionale, a consigliere comunale, provinciale o regionale o ad amministratore di enti che applicano tributi o hanno partecipato al relativo gettito, a dipendenti degli enti stessi o componenti degli organi collegiali, qualora concorrano all’accertamento dei tributari stessi. Nei casi richiamati, la sospensione opera ex lege; una volta intervenuta la causa di incompatibilità, il giudice tributario ne dà comunicazione al Presidente della Commissione tributaria il quale a sua volta provvede a trasmettere gli atti al Consiglio di Presidenza il quale ne prende atto. Cessata la situazione che determina l’incompatibilità, i giudici tributari riassumono le proprie funzioni presso la commissione tributaria di appartenenza, anche in soprannumero. Più complesso appare, invece, il caso in cui l’incompatibilità dia luogo a decadenza, rendendosi necessaria l’adozione da parte del Ministro dell’economia e delle finanze del provvedimento di decadenza, previa deliberazione del Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria. Quest’ultima deliberazione è, peraltro, emanata a conclusione di un complesso iter procedimentale, sostanzialmente analogo a quello disciplinare.
Come innanzi evidenziato, la graduale trasformazione delle Commissioni tributarie da organi di amministrazione attiva in organi di giurisdizione speciale è stata caratterizzata dal graduale adeguamento delle regole del diritto processuale tributario a quelle del processo civile.
Al riguardo, particolare rilevanza assume la previsione contenuta nell’art. 1 d.lgs. n. 546/1992, in base alla quale i giudici tributari, nelle controversie loro devolute, devono applicare, oltre alle norme di tale decreto, «per quanto da esse non disposto e con esse compatibili le norme del codice di procedura civile». Il rinvio alle disposizioni di tutto il codice di procedura civile (e non più ad alcune di esse come previsto dall’art. 39 d.P.R. n. 636/1972) appare dettato dall’intento di armonizzare la disciplina del processo tributario con quella del processo civile (la norma dà così attuazione alla delega di cui all’art. 30 l. n. 413/1991 che, alla lettera g, prevede espressamente “l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile», nello stesso senso, espressamente, la relazione governativa di accompagnamento), oltre che di colmare le lacune, ove ancora configurabili, della disciplina del rito davanti alle Commissioni tributarie.
Il rinvio alle disposizioni del codice di procedura civile costituisce così il naturale corollario, oltre dell’acquisita giurisdizionalità delle Commissioni tributarie, dell’assunzione del processo civile quale modello di riferimento del sistema della giustizia tributaria.
Sebbene il processo tributario venga introdotto attraverso l’impugnazione di un atto dell’amministrazione finanziaria, del concessionario per la riscossione delle imposte, dell’ente locale o dell’ente pubblico che abbia adottato l’atto stesso ovvero del silenzio-rifiuto avverso l’istanza di rimborso, esso ha sicuramente per oggetto situazioni di diritto soggettivo riconducibili a rapporti di tipo obbligatorio. Richiamando l’espressione adoperata ripetutamente dalla Corte di cassazione, il giudizio tributario si configura come giudizio di impugnazione-merito, in quanto, fermo restando il profilo formale impugnatorio che si concreta nella previsione di termini di decadenza per la presentazione dell’atto introduttivo del giudizio e di ulteriori condizioni cui è subordinata l’ammissibilità dello stesso (vedi, ad esempio, la fase della costituzione in giudizio del ricorrente), esso resta preordinato all’accertamento del rapporto sostanziale d’imposta, vale a dire dell’an o del quantum debeatur. Il ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale costituisce, pertanto, soltanto il veicolo d’accesso al giudizio; il giudice, verificata l’ammissibilità dello stesso e la legittimità dell’atto impugnato, orienta la propria attività verso i profili sostanziali del rapporto tributario, dovendo conoscere le situazioni giuridiche soggettive di natura creditoria o debitoria dedotte nel processo. Il petitum consiste, infatti, nell’accertamento della sussistenza o meno del diritto di credito vantato dall’amministrazione finanziaria con l’atto impugnato ovvero affermato dal contribuente nell’istanza di rimborso.
Tornando all’art. 1 d.lgs. n. 546/1992, occorre evidenziare che il rinvio alle norme del codice di procedura civile appare subordinato a due condizioni: 1) che nessuna delle norme del d.lgs. n. 546 disciplini compiutamente la fattispecie; 2) che la norma processualcivilistica, astrattamente applicabile alla fattispecie concreta, sia compatibile con quelle del decreto legislativo medesimo. Come evidenziato dalla circolare n. 98/E del 1996, ai fini dell’utilizzazione delle disposizioni del codice di procedura civile, occorre che la fattispecie processuale che si verifica abbia le medesime caratteristiche di quella oggetto delle disposizioni del codice di procedura civile ed in secondo luogo che la disciplina risultante sia compatibile con le norme del processo tributario e dell’ordinamento tributario in generale. La natura materiale del rinvio, peraltro riferito all’intero corpo di norme del codice di procedura civile, comporta che anche eventuali modifiche di quest’ultimo si rendano applicabili al processo tributario qualora ricorrano le condizioni dell’omessa previsione della fattispecie da parte del d.lgs. n. 546 e della compatibilità come innanzi chiarita (si pensi alle modifiche apportate di recente alla disciplina del processo civile per effetto del d.lgs. 2.2.2006, n. 40, attuativo della delega di cui alla l. 14.5.2005, n. 80).
Non è il caso in questa sede di elencare tutte le disposizioni del processo civile che sono in grado di trovare applicazione nel processo tributario. A mero titolo esemplificativo, possono citarsi l’art. 5 c.p.c. riguardante il momento identificativo della giurisdizione e della competenza, gli artt. 33 e 40 c.p.c. in tema di cumulo soggettivo e di connessione, gli artt. 51 e segg. in tema di astensione e ricusazione, gli artt. 99 e segg., aventi ad oggetto il principio della domanda e 112, riguardante quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, le norme sulle notificazioni (artt. 137 e segg.), quelle sul computo dei termini (artt. 155), sulla nullità degli atti del processo (art. 156), sulla correzione delle sentenze (art. 287), sul riconoscimento e la verificazione delle scritture private, sulle impugnazioni in generale (artt. 323 e segg.), ecc.. Non mancano poi disposizioni del testo normativo in materia di processo tributario che richiamano espressamente talune disposizioni del codice di procedura civile; anche qui, esemplificativamente, si possono ricordare l’art. 3, secondo comma, che ammette l’applicabilità dell’art. 41 c.p.c. in tema di regolamento preventivo di giurisdizione, l’art. 6, d.lgs. n. 546/1992 che rinvia alle disposizioni del codice di rito in materia di astensione e di ricusazione, l’art. 15, avente ad oggetto le spese di giudizio, che fa riferimento alle norme corrispondenti del c.p.c. (art. 92 e segg.), gli artt. 16 e 17, in tema di comunicazioni e notificazioni, l’art. 38, in tema di notificazione della sentenza (anche qui cfr. i capitoli successivi), l’art. 62, in materia di ricorso per cassazione (art. 360 e segg. c.p.c.), l’art. 64, in materia di giudizio di revocazione (art. 395 c.p.c.), l’art. 69, avente ad oggetto la spedizione in forma esecutiva delle sentenze (art. 475 c.p.c.), ecc.
Come da più parti osservato, il nuovo assetto del contenzioso tributario non può, peraltro, rappresentare “il punto finale del percorso indispensabile per pervenire ad un sistema del tutto soddisfacente”, proprio per i condizionamenti di carattere costituzionale con i quali deve fare i conti ogni proposta di cambiamento degli assetti ordinamentali del processo tributario.
Raccogliendo tale sollecitazione, la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, istituita con legge 24.1.1997, n. 1, ha proposto un riconoscimento costituzionale per gli organi della giurisdizione tributaria. Naufragato il progetto di riforma costituzionale e modificata più volte la disciplina del processo, sia con riguardo alla giurisdizione che agli atti impugnabili, resta ancora fortemente avvertita l’esigenza di un intervento urgente volto a dare dignità costituzionale alla giustizia tributaria, sul modello della Costituzione tedesca. Tale esigenza appare ancora più indifferibile alla luce delle modifiche apportate dal legislatore (art. 12 l. 28.12.2001, n. 448 e art. 3 bis, d.l. 30.9.2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2.12.2005, n. 248), le quali tendono a mettere in crisi il modello originario, peraltro ritenuto conforme alla Costituzione dalle pronunce innanzi richiamate della Corte costituzionale. Il graduale allargamento della giurisdizione tributaria, comprendente attualmente tributi di ogni genere e specie e l’inserimento tra gli atti impugnabili di nuove ed ulteriori categorie di atti, del tutto diversi per natura e funzione dagli altri compresi nell’elenco di cui all’art. 19 (si pensi al fermo amministrativo) evidenziano come il limite dello snaturamento degli organi giurisdizionali tributari posto dalle sentenze richiamate della Corte Costituzionale, sebbene non ancora superato, sia sempre più vicino.
È di tutta evidenza, infatti, che la giurisdizione delle Commissioni tributarie, originariamente concepita come una giurisdizione caratterizzata dal limite delle materie ad esse devolute (cosiddetto limite esterno), individuate attraverso una elencazione tassativa di tributi nominativamente indicati, tende ad atteggiarsi come giurisdizione a carattere generale, comprendente qualunque rapporto di carattere tributario.
Allo stesso tempo, la pluralità dei criteri di riparto della giurisdizione, unitamente alle difficoltà di raccordo con le disposizioni in materia di atti impugnabili, rendono necessario un ripensamento normativo. In questa prospettiva, auspicabile appare la costituzionalizzazione degli organi della giurisdizione tributaria, analogamente a quanto disposto in altre costituzioni (si pensi a quella tedesca). Ove ciò avvenisse, potrebbero finalmente essere istituiti i Tribunali tributari composti da giudici professionali e a tempo pieno, così come previsto nel progetto di riforma presentato dal CNEL su sollecitazione del gruppo di lavoro formato da molti docenti universitari e studiosi e coordinato dal prof. Uckmar.
Va comunque avvertito che la legge di delega fiscale 11.3.2014, n., 23, pur recando alcuni correttivi alla disciplina del processo tributario, non sembra muoversi su tale linea. L’art. 10 della delega fiscale riguarda il contenzioso tributario, sia con riguardo al rito che agli assetti organizzativi. Nell’esprimere i principi cui dovrà attenersi il legislatore delegato, la norma prevede essenzialmente:
1) il rafforzamento e la razionalizzazione della conciliazione giudiziale;
2) la revisione delle soglie in relazione alle quali il contribuente può difendersi senza l’assistenza tecnica (attualmente solo per le controversie inferiori a 2.582,28 euro);
3) eventuale ampliamento dei soggetti abilitati all’assistenza tecnica dinanzi alle commissioni tributarie (una platea che già oggi coinvolge diverse figure professionali come i dottori commercialisti, gli avvocati, i ragionieri, i periti commerciali e i consulenti del lavoro);
4) l’immediata esecutività delle sentenze;
5) la predisposizione di criteri più rigorosi per la ripartizione delle spese del giudizio, limitando la compensazione delle stesse ai soli casi di soccombenza reciproca (nonostante quanto già stabilito dall’art. 92 c.p.c. post riforma del 2009);
6) l’uniformazione e la generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare.
Nel ridisegnare la selezione dei giudici tributari, la norma avverte l’esigenza di rafforzare la terzietà dell’organo giudicante e l’idoneità tecnica del giudice.
In questa prospettiva, l’accesso alla carriera di giudice tributario, più che alla sola anzianità di servizio, dovrebbe essere subordinato, per i giudici togati come per quelli non togati all’accertamento del possesso di specifiche competenze tecniche e alla profonda conoscenza del diritto tributario. In questo modo, verrebbe anche assicurata l’effettiva idoneità tecnica del giudice che la dignità costituzionale ed i principi del giusto processo impongono. Allo stesso tempo, solo una maggiore professionalità del giudice tributario (garantita da maggior rigore nella selezione della magistratura tributaria e da un costante aggiornamento professionale, da compensi più idonei alla funzione svolta) potrebbe consentire l’omogeneità qualitativa nei collegi giudicanti, oggi di rado riscontrabile per la presenza di componenti aventi diversa provenienza ed esperienza, e un miglioramento della qualità delle sentenze. Ciò peraltro potrebbe anche indurre a non ritenere necessaria l’istituzione di un ruolo del giudice tributario professionale full time, ben potendo le garanzie costituzionali di cui al nuovo art. 111 Cost., essere comunque soddisfatte da commissioni formate da componenti di sicura professionalità ed accertata terzietà e imparzialità.
Con riferimento, invece, al tema della ragionevole durata del processo sono previsti strumenti volti a garantire una maggiore rapidità ed efficienza quali l’utilizzo sempre più spinto della posta elettronica certificata per le comunicazioni e le notificazioni e del cosiddetto processo tributario telematico, e l’eventuale previsione di un giudice unico per le controversie di minore importanza, ossia quelle cause di modesto valore e di non particolare complessità.
La delega, invero, interviene anche sulla questione del trattamento economico dei giudici, prevedendo un adeguamento dei criteri di determinazione della parte fissa come di quella variabile.
Le esperienze straniere, soprattutto quelle di alcuni Stati dell’Unione europea più vicini al nostro per tradizione e cultura giuridica, offrono interessanti stimoli e spunti di riflessione per eventuali ulteriori riforme degli assetti del processo tributario. La prospettiva comparatistica offre, infatti, un ampio spettro di modelli organizzativi ed ordinamentali: 1) sistema misto nel quale convivono organi del contenzioso amministrativo-tributario e giurisdizione ordinaria (modello attuato, sia pure con diverse varianti in Spagna, Grecia, Paesi Bassi, Svezia e, in qualche misura nel Regno Unito); 2) sistema dualistico tra giurisdizione civile ed amministrativa, caratterizzato da un rigido riparto tra le due giurisdizioni (modello proprio del sistema francese); 3) il sistema della giurisdizione speciale tributaria devoluta a giudici professionali ed a tempo pieno, proprio, ad esempio, dell’ordinamento tedesco.
Prendendo le mosse dal modello spagnolo, va evidenziato che esso è caratterizzato da una fase preliminare che si celebra dinanzi ai cd. “Tribunali economico-amministrativi” (reclamacion economico-administrativa) ed una successiva dinanzi agli organi della giurisdizione amministrativa (recurso contencioso administrativo). Avverso le decisioni emesse dai Tribunali economico amministrativi è proponibile ricorso dinanzi agli organi giurisdizionali. Più precisamente, contro le pronunce dei Tribunali economico-amministrativi regionali e locali è competente, in unico grado, il tribunal superior de justicia del territorio mentre contro quelle del tribunale economico amministrativo centrale l’audiencia nacional. Contro le sentenze di tali organi è ammesso ricorso per cassazione quando la controversia supera una determinata soglia ed in ogni caso per violazione di legge o per unificacion de doctrina.
Del tutto peculiare è l’assetto della giurisdizione delle controversie in materia di tributi locali che è affidata ai Juzgados de lo contencioso, giudici monocratici di recente istituzione; avverso le pronunce di tali organi è comunque ammesso ricorso dinanzi al Tribunal superior de justicia, quando il valore della controversia supera una soglia ancora più elevata e comunque nel caso di vizi di inammissibilità del ricorso o di violazione di disposizioni di carattere generale.
Ancora più complesso appare il modello “dualistico”, proprio dell’ordinamento francese, fondato sul riparto di attribuzioni (partage des competences) tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa. Nella prima, ricadono le controversie in materia di imposizione indiretta (diritti di registrazione, di bollo e tributi assimilati) nonché dei contributi indiretti e la tassa sui veicoli da turismo e societari, nella seconda quelle in materia di imposte dirette e sul valore aggiunto. La soluzione accolta dalla legislazione francese (livre des procedures fiscales) appare in qualche modo ispirata dall’idea (posta a base della legislazione ottocentesca anche in molti Stati italiani preunitari o immediatamente successiva all’unificazione) secondo cui le imposte, come quelle di registro e di bollo, che coniugavano diritto civile e diritto tributario, dovessero appartenere naturalmente al giudice ordinario, mentre quelle dirette o sulla cifra d’affari, trovando applicazione attraverso un procedimento impositivo riconducibile all’esercizio di un potere pubblico, dovevano essere riportate nell’ambito della giurisdizione amministrativa. Nel sistema francese, particolare rilevanza presenta il rimedio pregiudiziale della reclamation prealable davanti all’autorità amministrativa che, essendo doveroso, rende limitato il numero dei procedimenti che raggiungono il momento giurisdizionale unitamente ad altre procedure di definizione delle controversie fiscali (ricorso al superiore gerarchico e all’interlocutore dipartimentale ovvero alla commissione dipartimentale delle imposte dirette e delle tasse sul volume d’affari, transazione). È utile ricordare che la giurisdizione amministrativa si articola in un primo grado dinanzi ai Tribunali amministrativi e di un secondo davanti alle Corti amministrative di appello e di un ultimo grado dinanzi al Consiglio di Stato mentre quella ordinaria si svolge davanti ai Tribunal de grande instance, in primo grado e alla Corte di cassazione, in secondo.
Del tutto diverso è il modello della giurisdizione speciale tributaria, propria del sistema tedesco. In tale ordinamento, la giurisdizione tributaria, che peraltro è costituzionalmente riconosciuta e garantita, alla stregua di quella civile, penale, del lavoro e sociale-previdenziale, è esercitata in via esclusiva da giudici speciali, in parte togati (nominati a vita) e in parte onorari (questi ultimi restano in carica per quattro anni), in possesso di specifiche professionalità tecniche e nominati nel rispetto dei principi di terzietà e imparzialità.
Per effetto delle disposizioni del Finanzgerichtsordnung (FGO), il processo tributario è costruito su due gradi: il primo, di merito dinanzi al tribunale finanziario, Finanzgericht (in tutta la Germania ve ne sono 19, generalmente ubicati presso le capitali dei Lander e con una competenza territoriale coincidente con quella degli Stati regionali), e il secondo, di sola legittimità, dinanzi alla Corte finanziaria federale (Bundesfinanzhof), che ha sede a Monaco di Baviera. Sia il Finanzgericht che il Bundesfinanzhof sono suddivisi in sezioni specializzate per materia (senate); ogni collegio è formato da 5 componenti, tutti giudici di carriera nella Corte tributaria centrale, tre togati e due laici nei tribunali federali.
Va comunque avvertito che, così come la Francia, anche la Germania fa precedere il giudizio tributario da una fase amministrativa obbligatoria. Invero, diversi sono i rimedi amministrativi al cui inutile esperimento è subordinato il ricorso in sede giurisdizionale: l’Einspruch, una sorta di ricorso in opposizione allo stesso organo che ha adottato l’atto impugnato, e il Beschwerde, ricorso all’organo “gerarchicamente” superiore (generalmente l’Oberfinanzdirektion), oltre ai ricorsi straordinari dinanzi al medesimo organo che ha adottato l’atto (Gegenvorstellung) o a quello che esercita il controllo su di esso (Dienstaufsichtbeshwerde). Snellezza del giudizio ed efficacia dei rimedi pregiurisdizionali si sono rivelati idonei ad una sensibile riduzione dei tempi del processo, la durata media del quale, nei due gradi di giudizio, non è superiore ad un anno.
L’ordinamento tedesco presta, inoltre, particolare attenzione al reclutamento dei giudici: in Germania, ad esempio, possono essere chiamati a far parte dei tribunali tributari, nella qualità di giudici di carriera, i magistrati abilitati (che abbiano cioè acquisito l’idoneità all’ufficio di giudice Befahigung zum Richteramt) che abbiano esercitato per almeno tre anni l’attività di giudice o i laureati in giurisprudenza che, sempre in possesso dei requisiti per l’accesso alla carriera di giudice, abbiano svolto l’attività di funzionario presso l’ufficio di Hoeheren Dienst (l’ufficio di più alto livello) per almeno due anni. Interessante è la previsione di un periodo di prova, per un arco di tempo che va da un minimo di tre anni ad un massimo di cinque anni, al fine di verificare attitudini e capacità dell’aspirante giudice di carriera. È inoltre consentita la nomina di giudici ad “incarico”, per coloro che sono stati già funzionari dell’amministrazione finanziaria e per un periodo massimo di due anni, a conclusione del quale può avere luogo la nomina a giudice di carriera.
Passando rapidamente al sistema inglese, va evidenziato che esso è caratterizzato da organi del contenzioso amministrativo, distinti per gruppi di tributi o per tipologie di controversie e organi della giurisdizione ordinaria. I primi, denominati efficacemente Tax tribunals, si distinguono in General commissioners of income tax, la cui competenza si estende a tutte le questioni in materia di imposte sul reddito, e special commissioners, investiti di competenze specifiche quali ad esempio quelle in materia di imposta sui redditi petroliferi (petroleum revenue tax), di fiscalità internazionale, di tassazione del reddito del trust, di disposizioni antielusive, ecc..
I secondi (Vat and duties tribunals) hanno invece competenza in materia di imposizione sul valore aggiunto, di accise e di diritti doganali. Avverso le decisioni di tali organi è ammesso proporre ricorso, solo per motivi di diritto, dinanzi alla High Court che esercita il vero judicial control con successiva impugnazione alla Court of Appeals e, quindi, (in taluni limitati casi) alla House of Lords.
D. lgs. 31.12.1992, nn. 545 e 546.
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