Committenza e arte di Stato
Esaminando i tre secoli già trascorsi, Francesco Sansovino identificò nel doge Pietro Gradenigo (1289-1311) l'artefice dell'eccezionale longevità di Venezia:
Accorto huomo, prudente, d'animo invitto, & molto eloquente, & che gettò il fondamento della eternità di questa Republ. con la ottima regolatione ch'egli fece delle cose del governo (1).
Pochi studiosi, anche attualmente, metterebbero in discussione il fatto che il sostegno assicurato da Gradenigo alla "Serrata" del maggior consiglio nel 1297, per effetto della quale si creò a Venezia un patriziato ereditario, ne contraddistinse il dogado come una svolta fondamentale della storia veneziana (2): fu un evento che giocò un ruolo importante, direttamente e indirettamente, nel determinare il carattere del patrocinio statale nei secoli seguenti.
A partire dal 1300, Venezia era diventata una delle maggiori città europee (3), la cui magnificenza suscitava reazioni di stupore, ma anche invidie ed esagerazioni. Già nel 1267-1275 Martino da Canal aveva dichiarato che l'area prospiciente la basilica di San Marco era "senz'altro la più bella piazza del mondo" (4). Piazza San Marco era stata ampliata fino alle dimensioni attuali dal doge Sebastiano Ziani (1172-1178), quando era stata cinta da un portico colonnato e dai palazzi dei procuratori, e solo di recente pavimentata in pietra (5). La chiesa stessa era stata trasformata grazie al bottino ricavato dal saccheggio di Costantinopoli del 1204, che aveva fruttato marmi, mosaici, icone, reliquiari preziosi e soprattutto la quadriga trionfale di bronzo, a tutt'oggi posta sopra l'ingresso principale dell'edificio sacro. Inoltre, tali ricchezze, inattese e gradite, avevano dato impulso a nuovi imponenti progetti di decorazione musiva, compreso il ciclo del Vecchio Testamento nell'atrio, la Vita e la Traslazione del corpo di san Marco nell'antivestibolo (ora cappella Zen) e le lunette dei portali della facciata occidentale. La facciata meridionale della chiesa era stata abbellita allo scopo di colpire sia i visitatori che gli abitanti con l'ostentazione della ricchezza e del potere di Venezia, ricchezza che comprendeva i cosiddetti "pilastri di Acri", che incorniciavano il portale d'ingresso, la genovese Pietra del bando, numerosi rilievi bizantini in marmo e i quattro Tetrarchi di porfido innestati nel muro del Tesoro: di vero e proprio bottino si trattava, pezzi tanto più appariscenti e simbolicamente significativi per il fatto di essere collocati in maniera apparentemente casuale (6). Accanto a San Marco, Rialto era già allora - e tale sarebbe rimasto - il secondo destinatario in ordine di importanza del patrocinio statale in città: dopo la costruzione di un nuovo ponte sul Canal Grande, alla metà del secolo, l'arca del mercato era stata ampliata con l'apertura, nel 1281, di Rialto Nuovo (7).
All'epoca di Gradenigo, il complesso di palazzo Ducale, edificato per lo più sotto il dogado di Sebastiano Ziani, aveva già oltre cento anni e consisteva in una serie di palazzi separati, ordinati attorno a singoli cortili, racchiusi entro i confini attuali (8). Ancora prima della "Serrata", il programma principale di costruzione dell'epoca di Gradenigo riguardava la sala in cui si riuniva il maggior consiglio, la cui localizzazione nel palazzo Ziani non è documentata, ma sembra si trovasse al pianterreno del palazzo del comune, sul lato meridionale del complesso che si affaccia sulla laguna (9). Nel 1292 il consiglio approvò la vendita di "grazie" per il vino e concessioni per il legno "pro facere Salam de supra canale". Se questa parte si riferiva alla costruzione di una nuova sala prospiciente il rio di palazzo (10), tal progetto dovette certo essere rimandato giacché l'8 maggio 1296, in un'altra votazione, il consiglio risolse "de ampliare Salam Majoris Consilij" (11). Dal momento che negli ultimi cinquant'anni il numero dei membri del consiglio non era sensibilmente aumentato - anzi, forse era diminuito -, con molta probabilità questa decisione scaturì semplicemente dal desiderio di disporre di un luogo di riunione più spazioso e più sfarzoso (12). Ma tale scelta risultò premonitrice, anticipando i cambiamenti politici che stavano per accadere, poiché solo due mesi prima, il 5 marzo, il doge aveva proposto la riforma costituzionale completa, in seguito chiamata "Serrata", che Sansovino definì la causa della stabilità della Repubblica. Dopo un'opposizione iniziale, Gradenigo, grazie al suo "animo invitto", otterrà l'approvazione provvisoria della legge il 28 febbraio 1297 (13).
Il protrarsi della guerra con Genova forse ritardò la costruzione della nuova sala, poiché non c'è prova che fosse già iniziata a quel tempo. Infatti, una parte del 9 settembre 1298 segnala che la penuria di spazio è diventata problema grave e afferma: "Quando il Consiglio è tanto affollato che la gente non può sedere comodamente nella sala del Consiglio, il doge e i Consiglieri permettevano di sedere nelle sale adiacenti, come poteva sembrare opportuno" (14). Era un periodo movimentato: proprio il giorno prima Venezia aveva subìto una schiacciante sconfitta per mano dei Genovesi nella battaglia di Curzola, con pesanti perdite da entrambe le parti; il giorno seguente fu presa la decisione definitiva che ratificò legalmente la "Serrata" (15).
Il nuovo patriziato, sicuro del proprio diritto ereditario alle cariche pubbliche, affrontò indubbiamente il nuovo secolo con un cauto ottimismo. La tensione sui mari si era allentata con la firma del trattato di pace con Genova nel maggio 1299, il quale, benché inconcludente sotto diversi aspetti, diede a Venezia la supremazia adriatica, uno sbocco verso il mar Nero e la pace relativa con la grande rivale nei commerci per i successivi cinquant'anni (16). Ma l'approvazione, quello stesso anno, di una legge suntuaria, suggerisce fino a che punto l'esibizione della ricchezza personale in una società sempre più ricca, e ora socialmente divisa, stesse diventando un problema: l'enfasi sulle limitazioni da porre allo sfarzo nella celebrazione di matrimoni costituiva forse una reazione alle pompose iniziative di autoaffermazione da parte dei membri più facoltosi della società, facessero o meno parte del nuovo ceto patrizio (17). I progetti per il palazzo comunale restarono uno degli strumenti principali per sollecitare e consolidare il consenso civico, insieme al progetto di ampliamento della sala del maggior consiglio, messo a punto il 14 luglio 1301, per il quale fu votato uno stanziamento di fondi derivanti dalle entrate statali raccolte dagli ufficiali super Rivoalto; la richiesta di ulteriori sussidi, l'anno seguente, sta poi a indicare che il progetto, così lungamente rinviato, era finalmente operativo (18).
Sebbene la posizione della sala non risulti specificata nei documenti contemporanei, del tutto plausibile ne risulta la collocazione tramandata da Sansovino: vicino al collegio, già esistente a quell'epoca,
è situato un altro Salone sopra il Rio di Palazzo, il quale fu cominciato l'anno 1301. Sotto il Doge Gradenigo [...> & si finì l'ann. 1309. nel quale si diede principio à ridursi il Consiglio Grande, & durò per cotale effetto fino all'anno 1423 [...> onde il presente rimase per lo ridutto del Consiglio dei Pregadi (19).
Non abbiamo notizie sicure sulla decorazione della sala, ma potrebbe essere quella cui fece riferimento Sansovino nelle sue osservazioni sulla successiva sala del maggior consiglio, cominciata nel 1340: "Fu la prima volta dipinta a verde di chiaro e di scuro" (20). Certo è, comunque, che proprio alla sala del 1309 si riferiva Sanudo, ricordando una conversazione avuta con il procuratore Federico Corner nel 1498:
[...> et hessendo un zorno in sala di Pregadi mi disse: ῾Marin fio, vedestù questa Sala come la è sta depenta? fu fatta al tempo di Missier Pietro Gradenigo doze. Vedestù questi arbori grandi, mezzani & piccoli? è quelli che intra in questo Senato posti al governo dil Stado: li piccoli impara, poi vien mezani, poi grandi, cussì è le tre età: zoveni, mezani e vecchi, et a questo modo si governa urbem institutae reipublicae' (21).
Mentre l'interpretazione che Corner dà delle pitture potrebbe essere stata concepita molto tempo dopo la loro esecuzione, gli alberi visti da Sanudo (ammettendo che fossero stati dipinti all'epoca di Gradenigo) più probabilmente costituivano la parte rimanente di un più ampio progetto (22).
La sala fu ultimata al momento giusto, in quanto, a partire dal 1310, il consiglio era composto da 900 membri, che salirono a 1.017 solo l'anno seguente (23). Una sala del consiglio più spaziosa e presumibilmente decorata in modo più elegante fornì al nuovo patriziato un ambiente adatto a trattare iniziative diplomatiche: pur rimanendo, in pratica, il potere politico nelle stesse mani di prima, il formarsi di un'aristocrazia ereditaria diede al ceto dirigente un certo vantaggio nelle trattative con i prìncipi stranieri, ai quali ora si rivolgeva da pari a pari (24). Si sviluppò in questo periodo anche lo spettacolo ufficiale, un aspetto della diplomazia per il quale Venezia diverrà famosa: secondo la tradizione, la prima regata si tenne nel 1304 in onore di Pietro, figlio del re del Portogallo, in visita alla città (25); nel gennaio dello stesso anno, il maggior consiglio ordinò che fossero usati, per la festa delle Dodici Marie, dodici pettorali d'oro portati da Costantinopoli, che si diceva fossero appartenuti a dodici dame di corte di sant'Elena (26).
Palazzo Ducale rimase l'obiettivo principale del patrocinio statale su larga scala durante il Trecento, ma neppure la basilica di San Marco, la cui decorazione aveva costituito l'interesse principale nel secolo precedente, venne trascurata. Fondata nel secolo IX come cappella del doge, che ne rimase il "patronus et verus gubernator", con l'ascesa della procuratia era diventata sempre di più una chiesa pubblica. All'epoca di Gradenigo vi erano quattro procuratori, due dei quali (de supra) erano addetti propriamente all'amministrazione della piazza e della basilica di San Marco e ricevevano l'incarico a vita dal maggior consiglio, mentre i loro poteri emanavano direttamente dal doge, cui restava l'ultima istanza: affiancato dal minor consiglio, questi poteva sospendere o revocare qualsiasi decisione in merito alla fabbrica marciana (27).
La maggior parte del tempo dei procuratori trascorreva in uffici all'apparenza insignificanti, relativi alla decorazione e al restauro della Basilica; e però decisioni anche di piccolo momento potevano comportare implicazioni di larga portata: per fare un esempio, l'istituzione, nel 1300, della cappella musicale di San Marco gettò le basi per la costituzione, nel secolo XVI, di un importante centro di composizione di musica corale (28). Circa nello stesso anno, fu eseguito un nuovo paliotto o antependium destinato all'altar maggiore, presumibilmente per completare la Pala d'oro (29), ma la prima grande iniziativa del nuovo secolo riguardò il completamento di una costosa serie di cancelli in bronzo per i portali esterni della facciata occidentale, due dei quali erano già stati installati nella prima metà del secolo XIII, l'uno nel portale centrale, l'altro all'interno dell'atrio, separato così dall'antivestibolo (ora cappella Zen). Databili al secolo VI e provenienti, con ogni probabilità, dal bottino della quarta Crociata, i due cancelli mostravano un disegno a grata di opus clatratum in stile paleobizantino; riadattati - a quanto sembra - da maestri veneziani per il riutilizzo in Basilica, vennero anch'essi a far parte del programma estetico di quella renovatio imperii christiani che includeva i mosaici del Vecchio Testamento nell'atrio. Questi ultimi si rifacevano al modello del cosiddetto Genesi Cotton, un antico manoscritto cristiano, e si proponevano lo scopo di dare alla città una storia cristiana legittima, basata "sull'epoca degli apostoli" (30). Ma verso la fine del secolo, quando vennero sostituite le porte laterali della facciata, nuovi gusti e nuovi propositi vennero innanzi. La porta immediatamente a sinistra del portale principale fu firmata e datata da un orafo veneziano - "MCCC Magister Bertucius aurifex venetus me fecit" - il quale mantenne la forma generale della lavorazione a grata, di opus clatratum, ma più robusta, solida e regolare. Sotto l'influenza di modelli classici, egli desiderava reinterpretare al modo romano il tema bizantino "all'antica". Su ciascuna delle porte laterali venne utilizzato un nuovo tipo di suddivisione, che creava un disegno a forma di croce: pur derivato da modelli pagani, era possibile assumere tale intervento all'interno di un'ottica cristiana evocante i "cancelli del Paradiso" (31).
La porta corrispondente, a destra dell'ingresso principale, attribuita anch'essa alla bottega di Bertuccio, seguiva la stessa impostazione generale, ma con l'aggiunta singolare di due piccole figure di divinità pagane con cornucopie e tre grandi teste femminili su ciascuna ala. Erano "copie il più vicino possibile al falso", tratte "a stampo" da modelli ricavati dagli originali classici: evidentemente l'originalità non costituiva una qualità essenziale. Le porte di Bertuccio rappresentavano probabilmente il tentativo, di ispirazione politica, di far compiere un passo in avanti alla renovatio del secolo XIII e di dare a Venezia una storia propria, risalente al passato prebizantino ma già cristiano-romano (32).
Il rinnovamento pressoché costante della chiesa proseguì nei primi decenni del secolo XIV. Una lettera del 1309, inviata dal collegio al capitano di galea Gabriele Dandolo, offre una vivida testimonianza del carattere veneziano, improntato all'onore, al dovere e al profitto:
Poiché la nostra chiesa di San Marco ha bisogno di statue di marmo in buone condizioni, e ci è giunta voce che sull'isola di Micone e anche altre isole Romene [...> si possono trovare le più belle statue di ogni colore e tipo, chiediamo [...> che quando vi troverete in quei luoghi [...> indaghiate su quelle statue che sono erette o capaci di stare in posizione eretta, e colonne medie di bianco, a striscie, verde, porfido e di ogni altro tipo; e se sono belle che le procuriate e le poniate nelle nostre galee a mo' di zavorra, ma non per questo sovraccaricando le galee, né rimandando gli incarichi a voi affidati dal nostro comune, a detrimento dell'attività; e noi faremo in modo che coloro che avranno collaborato a questa causa siano ricompensati dai Procuratori di San Marco, nella maniera più giusta e conforme (33).
È databile a questi anni un nuovo altare nella cappella di San Pietro nel presbiterio, e inoltre la Vergine dello schioppo - un rilievo a figura intera della Madonna e del Bambino nel transetto settentrionale. Un mosaico e un'opera scultorea furono eseguiti anche nell'antivestibolo, rispondendo all'interesse del nuovo patriziato per l'abbellimento delle aree dell'edificio sacro più frequentate dal pubblico (34).
Come dimostra la lettera a Gabriele Dandolo, le ricchezze derivanti dal commercio furono fondamentali per tali iniziative. In verità, questa fu l'epoca di Marco Polo, le cui avventure si possono considerare emblematiche dell'estensione degli orizzonti mercantili di Venezia. Non sorprende così che l'attenzione si rivolgesse ancora al rinnovamento di Rialto, come pure all'ampliamento dell'Arsenale - i maggiori supporti dell'attività commerciale veneziana -, anche se il sovraffollamento rimase un problema serio, nonostante l'apertura di Rialto Nuovo nel 1281. Sempre a Rialto, una revisione vieppiù drastica fu avviata di lì a qualche tempo con il restauro della Beccaria nel 1305, e sarebbe continuata per altri vent'anni (35).
Fondato nel 1155 nel sito che a tutt'oggi ne ospita le strutture, l'Arsenale era ancora in primo luogo un magazzino e un cantiere per eseguire riparazioni, mentre la costruzione delle galee veniva appaltata a costruttori privati in altri luoghi della città. Nel 1304, sull'onda di una generale tendenza alla centralizzazione e al potenziamento del controllo statale, furono iniziati i lavori che ne avrebbero quadruplicato la superficie, con la costruzione di ampi cantieri, larghi bacini e la costruzione della Tana, un opificio gestito dallo Stato per la produzione di cordami. Una dichiarazione del senato, risalente a un'epoca più tarda, asseriva: "La manifattura del cordame nella nostra bottega della Tana è la sicurezza delle nostre galee e navi e allo stesso tempo dei nostri naviganti e del capitale" (36). Gli ultimi tre anni del dogado di Gradenigo furono contraddistinti da una serie di crisi. In un discorso del 1308, che riassumeva il nascente carattere aristocratico dello Stato veneziano da lui incarnato, il doge convinse un riluttante maggior consiglio ad approvare l'intervento militare a Ferrara: "È dovere di ogni buon principe, e di ogni degno cittadino, di espandere lo Stato, di rafforzare la Repubblica e di cercarne la prosperità con ogni mezzo in suo possesso" (37).
Una politica che portò Venezia al confronto diretto con il papa Clemente V, il quale nel 1309 fulminò l'interdetto contro la città. Situazione gravosa, che danneggiò particolarmente i commerci veneziani e non senza riflesso negativo sull'orgoglio civico suscitato dalla sala del maggior consiglio (38); e che fu forse una causa della sfortunata cospirazione del 14-15 giugno 1310, nel corso della quale i patrizi Baiamonte Tiepolo e Marco Querini tentarono di rovesciare il regime. L'episodio della fallita cospirazione portò all'insediamento del consiglio dei dieci e alla proclamazione della festività di san Vito (15 giugno) come festa di Stato: nel 1314 la casa di Baiamonte Tiepolo sarebbe stata smantellata per procurare la pietra da utilizzarsi nell'edificazione di una nuova chiesa dedicata a quel santo (39).
Gradenigo morì il 13 agosto 1311 e fu sepolto con una cerimonia semplice e priva di lutto fastoso, poiché l'interdetto proibiva gli onori religiosi. Il cronista Marin Sanudo scriverà in seguito:
e avendo dogato questo Doge in gran fastidio e in poca pace anni 22. e mesi 9. morì, e nel Monastero di San Cipriano di Murano fu sepolto. Ma non si vede l'arca, né alcun Epitafio, se non un avello in Chiesa senza lettere (40).
Il dogado di Marino Zorzi sarebbe durato meno di un anno (agosto 1311-luglio 1312). Essendo le energie del governo assorbite dalla questione dell'interdetto e da una rivolta a Zara, ci furono poche opportunità di patrocinio statale per nuove iniziative; tuttavia Zorzi, a proprie spese, sottoscrisse la costruzione del monastero di San Domenico dei Frari e destinò per via testamentaria la somma necessaria alla costruzione di un ospedale per i poveri, che avrebbe dovuto reggersi su una donazione amministrata dai procuratori di San Marco. Nonostante si trattasse, in senso stretto, di una forma privata di patrocinio, la si può nondimeno considerare de facto come un'opera patrocinata dallo Stato, in virtù della carica ricoperta dal donatore. Alla morte, nel luglio 1312, Zorzi fu sepolto nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Della sua sepoltura così scrisse Sanudo: "Non si vede Arca di questo Doge sontuosa, né Epitafio" (41).
Il dogado di Giovanni Soranzo (1312-1328) - uomo "molto grazioso e fedele", stando a Sanudo (42) - fu complessivamente un'epoca felice, come riporta Sansovino: "In questi tempi fu tanta l'abbondanza delle cose della città, che con un ducato si forniva tutta la casa per una settimana di camangiari" (43). L'interdetto fu finalmente abrogato nel 1313 e Venezia, ritiratasi dalla terraferma, nuovamente si concentrò sui traffici marittimi: tetragona ai richiami per un'altra crociata, firmò una serie di trattati - con Bisanzio, Trebisonda, Persia e Armenia - e seguitò a intrattenere relazioni cordiali con il Sultano e gli altri principi del Nordafrica; inoltre, stabilì legami commerciali con le Fiandre e Londra, mentre dal 1320 la flotta di Romània compiva viaggi annuali alla volta del mar Nero (44).
All'interno la struttura sociale e politica divenne ancor più rigida: un nuovo scrutinio disposto nel 1315, seguìto da ulteriori restrizioni nel 1317 e nel 1319, limitò ulteriormente l'accesso a un patriziato sempre più esclusivo e, con il decadere del principio elettivo, nel 1324 le cariche nel maggior consiglio furono dichiarate totalmente ereditarie (45). I signori di Venezia potevano ora considerarsi qualcosa di più che semplici cittadini-mercanti, pretendendosi anzi pari a qualsiasi altro signore di terraferma. A un popolo costretto ormai ad adattarsi a impianti sociali senz'altro più bloccati vennero offerti, qual sorta di compensazione, diversivi di ben altra natura: nel 1315, i responsabili dell'Arsenale ordinarono che si apprestassero "duos platos" (due peattoni) con cinquanta remi ciascuno per una regata da tenersi con cadenza annuale il giorno della conversione di san Paolo (25 gennaio), onde celebrare la festa delle Marie (46). Nel 1316, la nascita di tre cuccioli da una coppia di leoni, donati alla Repubblica dal re di Sicilia, fu considerata tanto significativa da venir registrata in un documento di Stato debitamente legalizzato: gli animali furono tenuti in una gabbia posta sotto il portico del palazzo di Giustizia (palatio ad jus reddendum) che fronteggiava la Piazzetta e il notaio attestò che "quasi tutti gli abitanti di Venezia, e altri che si trovavano in città quel giorno, si radunavano lì per assistere a questo evento quasi miracoloso" (47).
Data a quegli anni lo sviluppo della pompa ducale: le trombe d'argento del doge furono rimesse a nuovo nel 1317, l'ordine processionale dell'"andata in trionfo" pubblica fu essenzialmente fissato nel 1327 e un nuovo Bucintoro, l'imbarcazione cerimoniale, fu costruito nel 1328 per essere utilizzato nelle occasioni di festa, come l'ingresso a Venezia di prìncipi forestieri (48). L'aspetto più rilevante dell'attività edilizia statale continuò a incentrarsi sulla costruzione di impianti per sopperire ai bisogni del commercio e dei traffici. Al definitivo completamento del nuovo palazzo del comune a Rialto fu nominata nel 1322 una commissione di dodici savi preposta al miglioramento dell'affollata e sporca piazza del Mercato, prospiciente San Giacomo; e fondata, secondo la tradizione, nel 421 dopo Cristo, vale a dire con la città stessa. Osservando che a Rialto, e soprattutto nella piazza di Rialto, mercanti e gentiluomini sostavano e conversavano, i savi decisero di spostare la colonna del Maleficio, dove venivano eseguiti i supplizi dei criminali, dal centro della piazza a una sede più appropriata, vicino al palazzo di Giustizia, tra le due grandi colonne della Piazzetta; quanto alla colonna del Bando, dove erano affissi gli editti pubblici, fu lasciata al suo posto (49). Anche la chiesa fu rinnovata e circondata di nuovi portici destinati ad accogliere le botteghe e il credito; dietro San Giacomo, ai piedi del ponte di Rialto, fu eretta una nuova loggia, la parete interna decorata con "istorie" che rappresentavano gli episodi della Battaglia del canale Orfano e della Sconfitta di Pepin: veri e propri "miti di fondazione" della Repubblica, commemorando l'instaurazione della sede ducale sulle isole di Rialto, nel primo decennio del secolo IX, questi dipinti esplicavano una funzione assai più pregnante del puro e semplice elemento decorativo, giacché, in conformità all'antica attitudine dei Veneziani nei confronti dei dipinti di carattere storico, essi furono percepiti quale forma di testimonianza del tutto equivalente ai documenti pubblici o alla storia scritta. Quando la loggia fu demolita nel secolo seguente, alcuni artisti ricevettero l'incarico di copiare esattamente le antiche immagini, così da poter essere ridipinte all'interno della nuova struttura architettonica (50). Al centro delle "istorie" era raffigurato un mappamondo. In quegli anni due geografi veneziani - fra Paolino minorita e Marino Sanudo il vecchio (il Torsello) - avevano compilato numerose mappe similari (51), e il fatto che il ruolo centrale di Venezia nello sviluppo della scienza geografica fosse una naturale conseguenza delle attività mercantili fu reso ancor più evidente attraverso l'esposizione di una copia dei Viaggi di Marco Polo, attaccata a una catena e collocata nella loggia, a disposizione del pubblico (52).
Due importanti progetti di rinnovamento dell'architettura religiosa furono portati avanti sotto gli auspici statali durante il dogado di Soranzo, il primo dei quali riguardante la cappella di San Nicolò, situata sul rio di palazzo nella cinta di palazzo Ducale, che era stata edificata originariamente - o almeno rinnovata - dal doge Pietro Ziani (1205-1229) come adempimento di un voto fatto dal predecessore Enrico Dandolo durante l'assedio di Costantinopoli nel 1204 e, conformemente alla tradizione, dipinta con episodi della quarta Crociata. Nel dicembre 1319 il maggior consiglio descrisse la chiesa come "completamente priva di dipinti" e stanziò dei fondi per decorarla "con la storia dell'incontro tra il Papa e l'Imperatore a Venezia", soggetto evocante un evento reale ma rielaborato nel corso del tempo fino a diventare una delle leggende più amate della storiografia veneziana: la pace di Venezia del 1177, quando il doge Sebastiano Ziani ospitò l'imperatore Federico Barbarossa e il papa Alessandro III per la firma del trattato. La rappresentazione all'interno della chiesa sarebbe stata ispirata da un nuovo dettagliato racconto dell'avvenimento commissionato nel 1317 da Bonincontro de' Bovi, un notaio della cancelleria ducale (53). Per esporre questi documenti pittorici, non v'era sede migliore di San Nicolò, chiesa a carattere civico e testimone di solenni contratti, là dove il doge e la signoria assistevano regolarmente alla messa. I nuovi dipinti, arricchiti da un altrettanto nuovo e autorevole testo, avrebbero permesso ai Veneziani di riconfermare la propria lealtà alla Chiesa di Roma - ché i rapporti tra questa e Venezia erano stati compromessi, soltanto pochi anni prima, dalla dolorosa guerra di Ferrara -, pur riaffermando al contempo le pretese di sovranità e il legittimo diritto sul mare Adriatico. Il progetto pittorico sembra aver effettivamente realizzato un rinnovamento completo della chiesa; pagamenti per l'ammontare totale di 300 ducati sono documentati nel periodo che va dal 1323 al 1329, epoca in cui i dipinti furono probabilmente completati (54).
Il doge avrebbe avuto, però, un ruolo personale più attivo nell'ambito del secondo progetto: la costruzione di un nuovo battistero in San Marco, opera che si iniziò già all'indomani dell'elezione di Soranzo e che proseguì per grande parte del suo dogado. Il progetto prevedeva la chiusura di una porzione dell'atrio, che si estendeva lungo il lato meridionale della chiesa, così da ricavarne due ambienti, ciascuno con struttura a volta sormontata da una piccola cupola. L'apporto di Soranzo si limitò al programma architettonico e plastico, poiché la decorazione musiva sarebbe stata realizzata più tardi sotto gli auspici del doge Andrea Dandolo (55). Morto Soranzo, nel dicembre 1328, fu tumulato in una tomba alquanto semplice, "coll'arma solamente, senza alcun epitafio", nello stesso vano del fonte battesimale: privilegio insolito anche per un doge, quello della sepoltura in Basilica, concessogli probabilmente per il ruolo attivo svolto nel programma di rinnovamento architettonico (56).
La "promissione ducale" del successore di Soranzo, Francesco Dandolo, includeva un nuovo provvedimento - il quale suggerirebbe il precedente insorgere di seri contrasti tra i procuratori e Soranzo stesso sulle modalità di conduzione del programma - specialmente diretto alla risoluzione di eventuali dissapori tra procuratori e doge in merito ai lavori in San Marco: il doge avrebbe dovuto conformarsi al voto unanime dei sei consiglieri, ma se soltanto cinque di questi si opponevano alle intese ducali, la questione sarebbe allora dovuta passare al senato per la deliberazione definitiva (57). Un provvedimento che costituì un progresso ulteriore verso la limitazione dei privilegi del doge, le cui origini risalivano a molto tempo prima di quella "Serrata" che ne aveva determinato il potenziamento.
Agli inizi del proprio dogado (1329-1339) Francesco Dandolo dovette misurarsi con due pressanti problemi. La prima, più urgente, sfida fu la penuria cerealicola, che il doge scongiurò inviando due emissari in Sicilia per acquistarvi grano, dando in tal modo una piccola ma significativa prova di capacità di governo, tale da meritargli più tardi un riconoscimento nelle Vite dei dogi di Sanudo: l'azione di Dandolo "fu cosa molto grata al Popolo" (58). Ma una minaccia esterna, che alla lunga avrebbe avuto ripercussioni assai più gravi, emerse di lì a poco: rapidamente trasformatisi in signorie i comuni viciniori, Venezia finì per ritrovarsi progressivamente circondata da grandi Stati territoriali. Con la conquista di Treviso nel 1329, poco prima della sua morte, l'ambizioso Cangrande della Scala era ormai in grado di controllare le vie commerciali alpine. La situazione divenne insostenibile quando a Cangrande successe il nipote Mastino, il quale impose nuove tasse sulle merci veneziane che attraversavano i territori a lui soggetti. E la guerra delle tariffe che ne seguì ebbe l'effetto di privare Venezia degli indispensabili rifornimenti alimentari dalla terraferma (59).
La decorazione del Battistero pare continuò in virtù di contributi privati, mentre il patrocinio statale dell'arte e dell'architettura si limitò in questo periodo a progetti di minore entità, ma pur sempre di alta valenza simbolica. Ad esempio, nel 1329 venne issata la statua di san Teodoro su una delle colonne monumentali nella Piazzetta, come pendant del Leone marciano, allo scopo di significare un'ulteriore "protezione" spirituale della città (forse in conseguenza delle sfide scaligere): già eclissato da san Marco nel secolo IX quale patrono cittadino, san Teodoro venne così reintegrato nel ruolo di legittimo protettore di Venezia (60).
La minaccia scaligera fu forse il motivo che portò, nel 1331, alla redazione, da parte di un certo Castellano da Bassano, di una versione più estesa di una nota leggenda, opera che, scritta in esametri latini e dedicata al doge Dandolo (Venetiane pacis inter ecclesiam et imperium Castellani Bassaniensis), ricevette l'elogio del maggior consiglio:
Mastro Castellano, che redasse un libro in versi sulla storia del papa Alessandro e l'imperatore Federico, sulla guerra e la pace stabilita tra loro, e poi confermata a Venezia, secondo quanto è ritratto nella chiesa di San Nicolò, nel Palazzo e in una cronaca, in onor del signor Doge e del Comune di Venezia, con grande zelo e fatica.
Non esistono notizie capaci di chiarire se l'autore scrisse su commissione oppure di propria iniziativa, ma in ogni caso fu ricompensato con 1.000 salme di grano per l'impresa compiuta (61).
Né venne trascurato il fasto ducale: la carestia del 1329 non dissuase i correttori alla promissione ducale dall'ordinare un corno per il doge Dandolo, ornato di pietre preziose, del costo di 1.500 ducati a carico del comune, spesa sostenuta in epoche precedenti dal doge stesso all'atto di assumere la carica; dopo averlo indossato "nelle feste designate", il doge era inoltre tenuto a restituirlo alla procuratia per la custodia. Pur potendo acquistare apertamente perle e gemme, i procuratori erano anche i custodi della grande fortuna composta dai gioielli ceduti in pegno al comune come garanzia dei prestiti erogati; gioielli che venivano incorporati nel Tesoro quale pagamento forfetario nel caso di inadempienza dei debitori, e parte dei quali furono utilizzati per l'abbellimento di San Marco o, come nel caso del corno del doge Dandolo, per impreziosire gli attributi della dignità ducale (62).
Erano, quelli, tempi di instabilità. Come sempre, il commercio rimaneva l'interesse principale, ma nel 1331 furono emanate disposizioni restrittive sulle importazioni giacché gran quantità di merce invenduta si ammassava a Rialto. Quanto alla politica estera, mentre ancora si sforzava di trattare e di limitare l'aggressività scaligera con mezzi diplomatici, l'anno seguente Venezia inviò un ambasciatore in Francia per discutere - peraltro senza soverchio entusiasmo - di una nuova crociata (63).
Nonostante la temperie, lo sfarzo pubblico non accennava a ridursi: nel 1333 furono ordinati due nuovi pettorali (gorzariae) per la festa delle Marie (64), anche se questo atto eccedeva i limiti dell'economia dei procuratori. Così, infatti, una parte del maggior consiglio datata 1334:
Poiché molte spese diverse devono necessariamente essere compiute per la chiesa di San Marco [...> e poiché i Procuratori non dispongono di fondi sufficienti per la notevole somma da spendersi in gemme e perle [...> e poiché San Marco intercede sempre per noi presso Nostro Signore, siamo vincolati a contribuire e a onorare la Sua santa chiesa. Si voti che a detti Procuratori vengano erogati 50 libbri de grossi [500 ducati>, denaro che ad essi è fatto obbligo di restituire quando saranno interamente saldati i conti per le gorzarie, o prima, se possibile (65).
Insomma, la magnificenza pubblica veniva incoraggiata, mentre assoggettati al controllo dello Stato erano i fasti privati. Quello stesso anno fu approvata una legge suntuaria che stigmatizzava in particolare l'uso di abiti intessuti d'oro e di copricapi bordati di perle, oro e argento nonché la quantità eccessiva di schiavi e servitori (66).
A partire dal 1336 la pressione scaligera divenne intollerabile. Dopo una profusione di comunicazioni e missive ufficiali, tutte debitamente recanti il sigillo di piombo - si narra che Mastino della Scala "ringhiasse" con acredine: "A che mandarmi il doge tanto piombo? Il tenghi a coprire il campanile di San Marco" (67) -, la signoria veneziana aveva ormai esaurito ogni risorsa diplomatica. Venezia stipulò un'alleanza militare con Firenze, alla quale l'anno successivo aderirono i Visconti, gli Estensi e i Gonzaga. Nel gennaio del 1339 l'espansionismo scaligero fu bloccato e un trattato di pace sancì la restaurazione della signoria carrarese su Padova, sotto l'egida veneziana, con le insegne di Firenze e Venezia scolpite e dipinte sulla chiesa maggiore e sul portale del palazzo comunale di quella città. Inoltre Venezia ebbe per sé Treviso, primo vero possedimento in terraferma, la cui acquisizione fu celebrata poche settimane dopo con un torneo in piazza San Marco (68).
Lo sviluppo di Rialto proseguì, quell'anno, con la sistemazione della Beccaria, in modo simbolicamente evidente, sulle rovine della Ca' Grande della famiglia Querini, che aveva preso parte alla cospirazione del 1310 (69). Altra importante iniziativa nel 1339, la rimessa a nuovo del molo dirimpetto al Canal Grande, a ovest della Piazzetta. L'impresa richiese la rimozione dell'Arsenale di Terranova, un cantiere navale vicino alla Pescaria e alla Zecca, così come la pavimentazione dell'intera area. Nel 1343 in questo sito sarebbero sorti i granai di Terranova, il maggior magazzino cerealicolo d'Europa, consistenti in tre grandi strutture di mattoni con l'effigie del Leone di San Marco nella parte centrale (70). Come per il sale, "fonte di uno stabile ed antico commercio di base", il monopolio governativo sui grani faceva parte di una politica di lavori pubblici tendente a un duplice scopo: da un lato mantenere il controllo degli approvvigionamenti e della domanda di un prodotto essenziale, dall'altro assicurare riserve adeguate in caso di penuria. Nel 1344 l'Arsenale a Castello sarebbe diventato monopolio statale per la costruzione di galee (71).
Francesco Dandolo morì nell'ottobre 1339. Nel testamento disponeva di esser sepolto, insieme alla moglie Elisabetta, in Santa Maria dei Frari, "dove dovrebbe essere eretta una tomba dignitosa e appropriata, tuttavia edificata con il minor sfarzo e vanità possibile, a meno che questo non si renda necessario per l'onore del dogado". Ma l'edificazione di una tomba ducale non era responsabilità dello Stato bensì della famiglia, che sceglieva l'artista e ottemperava ai desideri del deceduto. Il sarcofago di Dandolo, in marmo d'Istria, è di tipo comune e reca nella parte anteriore una Dormitio Virginis probabilmente scolpita da un artista veneziano su modello bizantino, rivelando un gusto conservatore e perfino retardataire (72). Di tutt'altra fattura la sovrastante lunetta dipinta da Paolo Veneziano, il più originale artista locale del Trecento, con colori ricchi e intensi: in una sintesi di tendenze gotiche e bizantine, il doge e la dogaressa sono ritratti inginocchiati, presentati alla Madonna e al Bambino dai rispettivi santi patroni, san Francesco d'Assisi e santa Elisabetta d'Ungheria. Le figure sacre mantengono lo stilizzato distacco dal mondo terreno tipico delle icone bizantine, mentre la coppia ducale denota una qualità naturalistica affatto nuova per l'arte veneziana: la dogaressa in veste di terziaria francescana, il doge con l'abito e le insegne della carica e la ciocca di capelli bianchi che sfugge dal "camauro" conferiscono alla composizione la qualità di un ritratto. Nel complesso costituito dall'arca e dalla lunetta si manifestano dunque, giustapposti, gli orientamenti stilistici più conservatori e più avanzati dell'epoca (73). Allo stesso modo dell'ospedale di Marino Zorzi, la tomba deve essere considerata un'opera pubblica, in virtù dell'alta carica del donatore. Dandolo, al quale il Castellano aveva dedicato la Venetiane pacis, nel 1331 fu commemorato con un'iscrizione tombale che ne riassumeva i maggiori successi in termini di conquiste territoriali: "[...> Vincla resolvit Marchia quis dudum / nimium quoque pressa jacebat Tervisina [...>" (74).
Due secoli più tardi Sansovino avrebbe posto una glossa più pacifica sul dogado di Dandolo:
Si trovarono in Venetia sotto costui, in un tempo medesimo, 60. Ambasciatori di diversi Principi, & Comunità per diverse occasioni fra loro, chiedendo il giuditio del Senato, tale era la fama della giustitia incorrotta de i Padri (75).
L'età del doge Bartolomeo Gradenigo (1339-1342) si iniziò sotto auspici trionfali, segnata a tre mesi appena dall'elezione da una sorta di "miracolo" civico, e si concluse con la costruzione in fieri - ma altrettanto "miracolosa", come è stato giustamente osservato - del nuovo palazzo Ducale.
Del primo evento così scrisse Sanudo: "In questa Terra accadde una cosa molto miracolosa a di Febbrajo 1340 che per tre giorni continui crebbero l'acque, e la notte venne grandissima pioggia e tempesta; cosa inudita". Secondo la tradizione, la tempesta sarebbe stata causata da forze maligne che mettevano in gioco la sopravvivenza stessa della città, ma, come testimoniato da un anziano pescatore, san Marco, con l'aiuto di san Nicolò e di san Giorgio, essi pure protettori della città, la salvò da sicura distruzione (76): Non ci poteva essere prova più certa della buona sorte di Venezia, che si perpetuava con l'aiuto della divina provvidenza.
Alla fine del 1340 i membri del maggior consiglio erano saliti a 1.212 (77), sì che la sala di Gradenigo risultava inadeguata alla dignità di Venezia, ormai alla testa di uno Stato territoriale. Il 28 dicembre, su consiglio dei tre savi designati a studiare il problema, il consiglio votò: "Ut in facto sale Majoris Consilij nuperime construende fiat id quod fama honor et utilitas terre postulant". La nuova sala doveva essere costruita sopra gli uffici dei signori di notte, ubicati a quel tempo sul piano della loggia, vale a dire al piano superiore del vecchio palazzo del comune di Ziani. Fu disposto uno stanziamento di 950 lire "di grossi" (9.500 ducati) per le opere strutturali e di altre 200 lire, sempre "di grossi" (2.000 ducati), per le pitture e le dorature (78). Apparentemente i lavori iniziarono molto presto; il 3 giugno 1341 il maggior consiglio scelse due ufficiali per supervisionare quotidianamente il lavoro di costruzione (79).
La concisione dei documenti ha lasciato irrisolto un certo numero di questioni, che continuano a tener desta l'attenzione degli studiosi. Innanzitutto, se il progetto, opportunamente definito "mirabile" nelle prime fonti, fu il parto della genialità di un singolo o piuttosto di un gruppo corporativo quali gli stessi procuratori di San Marco. Nei documenti del secolo XIV sono menzionati tre nomi appena: Pietro Baseggio, citato postumo nel 1361 come "olim magistri prothi palatii nostri nove"; Filippo Calendario, un "tajapiera" (tagliapietra), proprietario di chiatte per il trasporto della pietra e identificato come l'architetto in fonti manoscritte databili all'inizio del secolo XV; infine un certo "Henricus protomagister palacii". Magistri prothi palatii nostri o protomagister palacii: si tratta di titoli che, dati i tempi, potevano riferirsi a un architetto, ma non è dato sapere se la progettazione del palazzo sia ascrivibile a uno solo dei personaggi menzionati ovvero a più di uno (80).
Il secondo interrogativo discende dal primo: se al principio fosse stato eseguito un modello completo, cui ci si attenne fino alla fine, pur con qualche modifica, oppure se il progetto si sviluppò progressivamente nel tempo. Ugualmente problematica è la questione delle modalità costruttive: il vecchio palazzo di Ziani, che consisteva nel pianterreno e nel livello della loggia, fu demolito o drasticamente rimaneggiato, innalzando la nuova costruzione sullo stesso terreno? O fu invece costruita prima la sala e poi il livello inferiore, riedificato all'interno del tracciato del palazzo preesistente? Per quanto infruttuose si siano rivelate le ricerche archeologiche, la ricostruzione di Edoardo Arslan pare la più convincente: il portico e la loggia del vecchio palazzo Ziani sarebbero stati conservati e rinforzati per sostenere la nuova sala e, questa ultimata, si sarebbe proceduto al rifacimento dei due piani inferiori, arricchiti con nuovi portici, per creare un insieme coerente. L'integrazione così efficace tra l'imponente massa muraria della facciata superiore e la loggia con il portico sottostante viene considerata dallo studioso rivelatrice della "presenza di un'unica mente; con fedeltà, comunque, a un unico progetto, anche se svolto in un certo lasso di tempo" (81).
Come si vedrà, la struttura esterna dell'edificio fu completata essenzialmente nel 1365, ma le decorazioni plastiche, inclusi i capitelli e il poggiolo della facciata meridionale, vennero terminati solo all'inizio del secolo XV. Ancora "indipendente", a quell'epoca, si sarebbe poi esteso lungo l'intero confine meridionale della cinta di palazzo Ducale, racchiudendo la precedente Torresella nell'angolo orientale. La facciata occidentale, prospiciente la Piazzetta, sarebbe stata completata con la settima grande colonna dell'angolo sud-occidentale, che è attualmente segnata da un tondo di "Venecia" sulla parete superiore (82).
Il doge Gradenigo morì nel dicembre 1342 e fu sepolto in una semplice tomba di marmo nell'atrio dell'ala settentrionale di San Marco (83). Onore che gli fu reso probabilmente perché le finestre delle ali occidentale e settentrionale dell'atrio erano state rimodellate proprio durante il suo dogado (84). Fra i cinque correttori alla promissione per il doge successivo c'era un giovane procuratore di San Marco, Andrea Dandolo, prescelto, forse, per i suoi interessi giuridici e amministrativi. Ricco, colto, di bell'aspetto, non ancora quarantenne, fu soprannominato il "Contesino". Aveva studiato diritto a Padova e aveva già scritto la Chronica brevis, una concisa - appunto - storia di Venezia dalle origini al presente. Appena una settimana più tardi, dopo una votazione contrastata, egli avrebbe indossato il corno dogale (85).
È singolare che Andrea Dandolo (1343-1354) - il più grande doge del secolo e forse di tutti i tempi per capacità personali e qualità intellettuali - dovesse guidare la Repubblica attraverso "uno dei periodi più tragici della sua storia" (86), ché, come ebbe succintamente a scrivere Sanudo, "in questo suo tempo quasi sempre fu guerra, peste e carestia" (87). Pochi tuttavia non sottoscriverebbero la descrizione che Petrarca diede di Dandolo, "uomo distinto non meno per lo studio delle arti liberali che per le insegne di una carica così alta" (88). Dandolo fu per molti versi una vittima delle circostanze. Se non poté esercitare che scarso controllo sulla dura realtà delle calamità naturali, se si trovò alle prese con l'intransigenza genovese, ciò malgrado seppe condurre avanti una serie sorprendente di iniziative in campo giuridico, amministrativo e storiografico: dalla codificazione di leggi e statuti alla compilazione di documenti di Stato nel Liber Albus e Liber Blancus, fino alla stesura di due storie della città, la già citata Chronica brevis e la Chronica extensa. Attività tutte sottese, a quel che sembra, da una particolare visione della missione storica della Repubblica di Venezia - le origini divine, i fondamenti giuridici, la continuità delle istituzioni - e del fondamentale ruolo del doge nel por mano alle pubbliche realizzazioni (89).
Dandolo nutriva un interesse speciale per i documenti, sia in quanto testimonianza privilegiata di leggi specifiche, sia in quanto frammenti storici essi stessi. Nella Chronica extensa, compilata presso la cancelleria ducale nei primi anni del suo dogado, sono i presupposti dell'introduzione dei supporti documentali nell'ambito della cronachistica veneziana: costituito da trascrizioni dagli archivi o da cronache più antiche, il testo traeva una precisione storiografica affatto nuova dal riferimento a statuti, deliberazioni e concessioni, i quali inoltre conferivano ad esso il senso dell'autorità legale. In verità, lo spiegamento di prove storicamente documentate voluto da Dandolo si pone all'inizio della storiografia pubblica veneziana, quantunque la critica moderna abbia dimostrato che la Chronica non è poi così attendibile come a prima vista potrebbe apparire: troppe, infatti, le contraddizioni, ciò che tradisce un uso selettivo delle fonti, avulso dal rigore critico, e conferma in Dandolo un uomo del suo tempo, di un'epoca in cui i criteri di prova erano assai aleatori. Pur in mancanza di conferme e di verifiche, dinanzi a un evento qualsivoglia lo storico medievale non esitava a inventarsi dei documenti per colmare le lacune della registrazione storica (90). Un atteggiamento che dovrebbe esser sempre tenuto a mente quando si tratta del patrocinio delle attività artistiche da parte di Dandolo.
Anche in questo campo le iniziative del doge furono orientate agli stessi obiettivi della sua opera politica e giuridica, soprattutto in vista di dare alla Repubblica il proprio radicamento in un passato storico connotato da piena legittimità. Fu forse Dandolo ad avviare la decorazione musiva del battistero di San Marco nel 1330, quando ancora ricopriva la carica di procuratore; ma il primo atto di patrocinio statale davvero importante dopo l'elezione al dogado fu il completo rinnovamento della Pala d'oro. Atto, questo, che è legittimo definire emblematico; nel maggio 1343 venne presentata al maggior consiglio la richiesta di 400 ducati, giacché "i Procuratori [...> proposero che la pala dell'altare di San Marco fosse lavorata e abbellita in maniera adeguata all'onore di san Marco e alla magnificenza della città".
Lo stanziamento fu approvato de bonis nostri comunis, assieme a un altro di 350 ducati, somma giacente in deposito presso la Procuratia e da tempo non più reclamata (91). Sebbene il pannello superiore della Pala d'oro, suddivisa in due parti, fosse già stato oggetto di lavori nell'anno precedente, il progetto avviato sotto Dandolo implicò la risistemazione di tutti gli smalti e pietre preziose in una nuova struttura dorata in stile gotico, elaborata quanto complicata. L'aspetto attuale della Pala risale all'età di Dandolo: 255 smalti bizantini con personaggi e narrazioni, oltre a un totale di 1.927 perle e pietre preziose. Va detto comunque che già in precedenza il manufatto aveva subìto almeno una trasformazione; parecchie ipotesi sono state formulate dagli studiosi sulla forma o sulle forme anteriori (92), ma l'unica prova testuale riguardante la storia della Pala d'oro la fornisce Dandolo stesso (o chi per lui) sotto forma di due iscrizioni latine aggiunte alla Pala rimaneggiata, nonché nelle numerose citazioni della Chronica extensa, nel cui testo essa compare tra le poche opere menzionate. Stando alle prime fonti, antecedente della Pala d'oro fu una tabula d'argento ordinata dal doge Pietro Orseolo (976-978) per fungere da antependium (93). Due successive iniziative, nel 1105 e nel 1209, sono ricordate in una delle iscrizioni:
Nell'anno millesimo centesimo e, aggiungi, quinto, quando Ordelaffo Falier era doge nell'urbe, fu questa pala fatta nuva ricchissima di gemme che fu rinnovata quando tu, Pietro Ziani, eri doge e quando era procuratore degli atti Angelo Falier nell'anno millesimo ducentesimo nono (94).
Il fatto che la Pala fosse originariamente compiuta sotto il doge Ordelaffo Falier nel 1105 è confermato dalla Chronica extensa:
Il doge fece sistemare il pannello meravigliosamente composto d'oro, gemme e pietre preziose a Costantinopoli, sopra l'altare per una maggiore glorificazione del Santissimo Marco Evangelista; questo pannello, arricchito di altri tesori, rimase là fino ai nostri giorni (95).
Questa prima Pala, che forse fu in effetti un paliotto d'altare, probabilmente consisteva soltanto nel pannello inferiore. La Chronica ne registra anche il rifacimento sotto il doge Pietro Ziani nel 1209, epoca in cui fu plausibilmente aggiunto il pannello superiore, utilizzando il bottino di Costantinopoli e fors'anche lo smalto con la figura aureolata del doge Ordelaffo Falier in abito molto simile a quello bizantino di corte (96): "Angelo Falier, unico Procuratore della Cappella ducale, restaurò il pannello dell'altare di San Marco, aggiungendo, per ordine del doge, gemme e perle" (97).
La seconda iscrizione ricorda il rinnovamento della Pala d'oro nel 1345:
Nel quarantacinquesimo anno del mille e trecento quando Andrea Dandolo, fra tutti chiaro per onore, era doge e sotto i nobili [uomini> Procuratori dell'alma chiesa veneranda di Marco, veramente beato, Marco Loredan e Francesco Querini, allora questa antica tavola fu rinnovata preziosa di gemme (98).
Iscrizioni rivelatrici: insieme alla conferma fornita dalla Chronica, esse conferivano all'opera d'arte un passato sufficientemente documentato, rendendola veicolo di tradizione e di continuità storica. E poi, collocando se stesso nella sequenza di dogi, Dandolo alludeva alla continuità stessa di Venezia (99). Il rinnovamento della Pala d'oro ispirò la commissione di una "Pala feriale" con la quale ricoprirla durante la settimana. L'incarico fu affidato a Paolo da Venezia, pittore della lunetta sulla tomba di Francesco Dandolo e, fin dal 1342, beneficiario di uno stipendio annuale erogato dallo Stato per lavori legati alla festa delle Marie. Assistito nell'esecuzione dai figli, Luca e Giovanni, Paolo firmò e datò il dipinto il 22 aprile 1345, tre giorni prima della festa di san Marco (100). La "Pala feriale" si compone di due pannelli orizzontali, con sei santi a fianco della figura del Cristo morto nell'ordine superiore, e sette episodi della vita di san Marco nell'ordine inferiore: se le figure nella fila superiore, tutte raffiguranti patroni civici di grande rilievo, mantengono ancora caratteristiche bizantine, le sottostanti parti narrative sono notevoli per naturalismo e vivacità di carattere gotico, ciò che rappresenta la più efficace testimonianza del ruolo cardine giocato da Paolo nella svolta operatasi nell'attitudine artistica veneziana da Oriente verso Occidente. La Pala d'oro, con i preziosi smalti bizantini incastonati nella struttura gotica, con edicole ogivali e motivi decorativi curvilinei, mostra un analogo, ma ancora non sintetizzato, adattamento.
Quando la sezione superiore della Pala d'oro era ripiegata, la "Pala feriale" la ricopriva interamente, per essere rimossa nei giorni di festa e riposta alle spalle di quella, aperta per mezzo di un ingegnoso meccanismo di argani, pulegge e catene sospese a due colonne retrostanti di colore verde antico. E sopra le colonne, due statue di marmo, sempre visibili, raffiguranti l'angelo Gabriele e la Vergine annunciata (101). Nonostante le incertezze di datazione di queste due sculture, l'insieme che esse vanno a formare con la Pala è tale da farlo presumere ispirato alla concezione propria di Andrea Dandolo della missione storica di Venezia: Andrea Dandolo, primo cronista veneziano a considerare seriamente il problema delle origini della città che, unica ancora tra le maggiori città italiane, mancava di un'origine fatta risalire all'antichità classica e dunque priva di decisivi strumenti di legittimazione civica.
Risposta a questa lacuna fu la renovatio di San Marco nel secolo XIII, che tentò di dare a Venezia un passato, seppure fittizio, nell'antichità cristiana. Accanto a questa, si era sviluppata una lunga tradizione letteraria, risalente almeno al secolo XII, che asseriva essere il giorno di fondazione quello dell'Annunciazione, il 25 marzo. Significativamente, fu nell'età di Dandolo che Jacopo Dondi, un medico padovano, affermò di aver scoperto un documento registrante la fondazione di Venezia "ad Rivum altum" il 25 marzo 421 per opera di un gruppo di tre consoli padovani, documento che Dandolo non esitò a includere nella Chronica extensa, malgrado fosse andato disperso subito dopo la scoperta di Dondi (102).
Altre due questioni concernenti la fondazione della città si imponevano all'attenzione dei contemporanei, la prima delle quali metteva in gioco le origini dei primi abitanti. Fonti remote alludevano a rifugiati provenienti dalla terraferma, per sfuggire alle invasioni barbariche nei secoli V e VI, e fin dal secolo XIII prese a circolare una versione arricchita della leggenda che narrava come gli immigrati fossero i discendenti di una primitiva colonia troiana, fondata da Antenore (o Priamo, secondo alcuni cronisti). Questi vari fili furono intrecciati insieme da Dandolo nelle due cronache storiche (103), che egli, forse, arricchì di realizzazioni pittoriche, commissionando un manoscritto miniato, ora a Madrid, della Historia Troiana di Guido delle Colonne, le cui miniature derivano dalla Genesi di Vienna - un manoscritto tardo-antico - come è stato efficacemente dimostrato da Hugo Buchthal, il quale ha affermato che le miniature troiane presentavano notevoli paralleli con le scene narrative della "Pala feriale", che "parla lo stesso idioma" (104). Questa appropriazione consapevole di uno stile e di una iconografia arcaizzanti si può considerare analoga all'uso della Genesi Cotton come modello per i mosaici dell'atrio di San Marco, con la ripetizione di motivi classici nei settori dorati della facciata: in entrambi i casi, servono a "documentare", seppure artificiosamente, una continuità artistica con l'antichità cristiana (105).
La seconda questione riguardava la fondazione apostolica di Venezia e il supposto primo ministero di san Marco ad Aquileia: in base alla praedestinatio - una leggenda risalente al secolo XII - un angelo sarebbe apparso in sogno a Marco, annunciando che avrebbe trovato il luogo del riposo eterno in una delle isole della laguna veneziana. È significativo che Dandolo iniziasse la Chronica extensa proprio con questo episodio e che, proprio durante il suo dogado, apparisse una moneta - il tornesello - con l'effigie del Leone di San Marco, per la prima volta come leone in molleca, completo di aureola, ali e Vangelo, riportante l'iscrizione: "VEXILLIFER VENETIARUM" (portabandiera dei Veneziani) (106).
L'impegno storiografico di Dandolo influenzò anche le commissioni artistiche per San Marco: la decorazione musiva del Battistero, iniziata probabilmente nel 1330, completata durante il suo dogado e quasi certamente finanziata personalmente dal doge (107), mostra un'eclettica miscela di correnti gotiche e bizantine, analogamente alle altre opere commissionate da Dandolo. Non sappiamo se anche Paolo da Venezia mise mano ai cartoni dei mosaici, come qualcuno ha suggerito; in ogni caso, la mancanza di coerenza stilistica e iconografica sembra indicare l'impegno di più artisti. I mosaici delle due cupole rappresentano la Missione degli apostoli e un Cristo in gloria circondato dagli ordini celesti, mentre il Battesimo di Cristo e la Discesa dello Spirito Santo sono collocati sopra la tomba di Giovanni Soranzo e, oltre alle varie immagini di santi e di apostoli, i mosaici comprendono scene della vita di Cristo e di Giovanni Battista. Più rilevante dal punto di vista civico è il grande mosaico del Cristo crocifisso nella lunetta sopra l'altare: con una incoerenza stilistica, che ricorda quella della Pala "feriale", le quattro figure sacre che affiancano la croce (san Marco, la Vergine, san Giovanni Evangelista, san Giovanni Battista) vengono rappresentate in uno stile con forti caratteristiche bizantine, mentre le tre figure inginocchiate ai piedi della croce - in scala minore e ritratte di profilo - sono raffigurate naturalisticamente, in sintonia con le nuove concezioni artistiche, che guardano verso occidente (108). Il doge, presumibilmente lo stesso Andrea Dandolo, chiaramente riconoscibile dall'abito ducale, ha l'onore di occupare un posto al di sotto della croce (109). Invece, non è sicura l'identificazione delle figure che chiudono ciascun estremo della composizione: a sinistra si trova certamente un cancelliere grande - probabilmente Benintendi Ravignani (1347-1365), ma forse Nicolò Pistorini (1323-1347) (110). La figura a destra è solitamente identificata con la dogaressa, ma pur tenendo conto della stilizzazione del ritratto è difficile vedervi la rappresentazione di una figura di donna, quando sarebbe più logico riconoscervi un altro magistrato, magari un consigliere ducale o un procuratore di San Marco (111). In verità, l'esatta identificazione dei personaggi non è importante quanto i rispettivi incarichi sicché, conformemente alla corretta descrizione del mosaico di Girolamo Arnaldi, che parla di una "sintesi figurativa del suo Dogado", Andrea Dandolo non dovrebbe essere considerato in questo mosaico in quanto singolo individuo bensì come un simbolo dell'autorità ducale; allo stesso modo, il cancellier grande e l'altro consigliere (chiunque essi fossero) rappresentano rispettivamente gli altri due componenti dello Stato veneziano: popolo e patriziato (112). Secondo l'interpretazione fornita da Debra Pincus, il gruppo rappresenterebbe l'autorità terrena, sottoposta direttamente all'autorità celeste di Cristo nella cupola sovrastante: "Ci viene offerto un ritratto dello Stato attraverso le attività dell'epoca" (113). Come vedremo, l'uomo Andrea Dandolo venne commemorato nel Battistero, nella prima effigie che apparve su una tomba dogale a Venezia (114).
In quegli stessi anni, i lavori a palazzo Ducale procedevano con lentezza: alla fine del 1344 la nuova sala del maggior consiglio venne completata sul lato prospiciente la laguna (115). L'ornamentazione scultorea e architettonica del palazzo è insolitamente ricca per un palazzo comunale italiano: i capitelli e i gruppi di statue negli angoli, databili in base allo stile, vengono fatti risalire da vari studiosi al periodo che va dal 1341 al 1420; purtroppo non sappiamo se esistesse un progetto nella prima fase del programma di edificazione, reso esecutivo, poi, durante un arco di tempo sufficientemente lungo, né si conoscono i nomi degli scultori, che sembra fossero parecchi, tra i quali è stato suggerito trovarsi Filippo Calendario, ma senza poterlo provare (116).
Il programma iconografico, nell'insieme, rientra nell'ampia categoria di summae enciclopediche del periodo, così come i rilievi del campanile di Firenze (cominciato nel 1334). Non ci è dato sapere se Andrea Dandolo ebbe un qualche ruolo nella formulazione del programma, benché gli ideali di legalitas e justitia che esso esprime siano certamente conformi agli ideali del doge. I capitelli del portico a pianterreno presentano un assortimento eterogeneo di soggetti, fra cui le razze e le età dell'uomo, i pianeti, la creazione di Adamo ed Eva, i vizi e le virtù, animali e uccelli di varie specie. Il significato del programma non deve essere ricercato tanto in un singolo tema o nell'esposizione didattica, quanto nella comprensività, implicante che tutti gli esseri e le attività rientrano nelle competenze dello Stato.
Proprio sopra i capitelli nei tre angoli esterni dell'attuale edificio si trovano gruppi di statue a grandezza naturale, ai quali - diversamente dai capitelli - è stata data un'interpretazione abbastanza credibile: secondo Staale Sinding-Larsen, considerati nell'insieme si riferiscono alla legge e alla giustizia, sia come princìpi che come pratica, nella società umana. La facciata meridionale è racchiusa tra le statue dell'arcangelo Raffaele e Tobia, in piedi sopra Noè ubriaco, che compongono un'allegoria della legge umana o naturale, e la statua dell'arcangelo Michele, correlato alla caduta di Adamo ed Eva, che fornisce specularmente l'allegoria della legge divina. Il gruppo collocato nell'angolo nord-occidentale, vicino all'attuale porta della Carta, sarebbe stato aggiunto nel secolo XV, quando il palazzo raggiunse la forma definitiva, chiudendo logicamente il progetto: l'arcangelo Gabriele sovrintende al giudizio di Salomone, in un'allegoria della legge positiva che comprende quella divina e quella umana (117).
La giustizia, considerata la più alta delle virtù civiche, divenne uno dei simboli più importanti della Repubblica, secondo solo al Leone di San Marco, e la prima apparizione della giustizia come emblema ufficiale dello Stato deve essere vista, probabilmente, nella personificazione femminile di Venecia nel medaglione scolpito, databile a prima del 1355, che demarca l'angolo nord-occidentale originale del palazzo del 1340. Il medaglione ritrae una matrona seduta su un trono leonino, la quale impugna una spada nella mano destra e tiene una pergamena nella sinistra, con la scritta: "FORTIS / IUSTA / TRONO / FURIAS / MARE / SUB PEDE / PONO". Ai suoi piedi giacciono due furie sottomesse, interpretabili come i vizi dell'ira e della superbia e - estendendo l'analogia - come i mali della discordia civile e della minaccia militare. Si potrebbe confondere la figura femminile con l'immagine della giustizia, se non fosse per l'iscrizione posta al di sopra del capo - "VENECIA" - e per il fatto che non regge la bilancia; ma che la si voglia ritenere una personificazione del buon governo oppure della giustizia, essa fu comunque simbolo adatto a quegli anni inquieti, come ha suggerito uno studioso (118).
Nel 1345 una crisi in Dalmazia, già in corso di aggravamento, giunse ad una fase decisiva con la ribellione di Zara, sostenuta dall'Ungheria, e la situazione rimase instabile anche dopo l'importante vittoria ottenuta da Venezia l'anno seguente, un successo che le garantì il controllo dell'Adriatico. Nel novembre 1347 Nicolò Lion, un consigliere ducale, affermò: "oltre ogni bene, i nostri maggiori e noi stessi ponemmo cuore e mente alla difesa e alla sicurezza del nostro golfo, sopra il quale riposa il bene nostro e dello stato" (119).
Nei mesi seguenti, Venezia dovette affrontare sfide ben più terribili. Come scrisse Sanudo più tardi, descrivendo l'anno 1347: "fu una grandissima carestia a Venezia di biade, e se non era il miglio, si tiene che molti sarebbon morti di fame". Le galee furono inviate a comprare il grano e, malgrado il gran numero di imbarcazioni perdute in una tempesta, ne tornarono un numero sufficiente per salvare la città dalla totale carestia (120). Il 25 gennaio, festa della conversione di san Paolo, mentre presumibilmente si stavano ancora svolgendo le regate per la festa delle Marie, un altro cronista annotò:
[...> a hora de vespero, in zorno de venere, in Veniesia fo uno grandissimo terramotto, il mazor che homo se ricordasse; le campane del campanil de San Marco da si sonavano et ruino a terra de molti campanili et altri edifitii et per de zorni quindese continui duro tal tarramotti, per li qual molte done gravede disperse et morite. Et cessadi li terremotti subito principio la mortalità (121).
Ma il peggio doveva ancora venire: in marzo iniziò la grande pestilenza che alla fine avrebbe spazzato via dal 40 al 70% della popolazione. Secondo lo stesso cronista, fu maggio il mese peggiore, e a luglio la mortalità virulenta era praticamente cessata:
[...> et se la ditta mortalità havesse durato più, el se conveniva arbandonar Veniesia, et non se trovava quasi più persone in la terra, che se saria andato da Canareio a Castello che'l non se haveria trovato diexe persone per la via, né per le piaze (122).
Sembra che il maggior consiglio continuasse a riunirsi durante questo periodo. Il 10-11 giugno ai detentori di cariche che avevano abbandonato la città fu ordinato di fare ritorno; il numero legale dei voti richiesti nei consigli per approvare la legislazione fu abbassato; e, con una deliberazione ispirata da un criterio sia pratico che di pietà, venne votata la liberazione di tutti i debitori verso il comune incarcerati (123). Pochi giorni dopo, i procuratori de supra registrarono la restituzione di novantadue perle, grandi e piccole, che erano state rubate "dai maestri o da un maestro, che avevano lavorato sulla nostra Pala". Con tutta probabilità, si trattò di un gesto espiatorio da parte di un artigiano pentito che aveva preso molto seriamente la credenza generalizzata che la peste fosse la punizione divina per i peccati umani (124). A partire da luglio, la nuova sala del maggior consiglio non appariva più tanto necessaria per la "fama, l'onore e l'utilità" della città. Sanudo scrisse, con qualche esagerazione, che la peste aveva decimato i membri del maggior consiglio, scesi da 1.250 a 380, con cinquanta famiglie della nobiltà completamente annientate (125). Il senato si riunì il 5 dello stesso mese, assegnando 500 ducati mensili per edificare il tetto della sala, che, una volta ultimato, avrebbe dovuto segnare la sospensione dei lavori, con la successiva rimozione delle pietre e delle macerie sparse intorno al palazzo. Ma soltanto cinque giorni dopo, in una seconda sessione, il senato decise che, essendo stata la mortalità tanto alta, una sala di quella grandezza sarebbe stata inutile e ordinò pertanto la cessazione immediata di tutti i lavori:
Imperocché questa sala del mazor conseio fa spese senza fine et intencion de la terra sia che più oltra no le fazza spese a questo, azo che li deneri li quali se spende vegna in comun per acomplir la intemption de la terra (126).
Tuttavia la città incominciava a riprendersi. Il 5 agosto Venezia firmò un trattato con l'Ungheria per garantire la libertà di commercio nell'Adriatico (127) e due giorni dopo il senato approvava una legge che proibiva a uomini e donne "magni quam parvi" di indossare il lutto
[poiché questo> induce all'angoscia e al cordoglio in quelli che li vedono, dal momento che tali abiti non sono un mezzo per la liberazione delle anime dei morti, sarebbe più utile per chi vede eliminare questo lutto e sostituirlo con la gioia piena e la celebrazione (128).
Nel febbraio del 1350 il maggior consiglio riconobbe che la ripresa era stata più rapida del previsto, "essendo il numero dei nostri nobili ristabilito e aumentato"; si osservò, inoltre, che rimanevano circa 2.000 ducati in deposito per la costruzione della nuova sala e che una buona quantità di legname e altro materiale già acquistato e semilavorato si stava nel frattempo deteriorando. Per questo, "e anche perché non sembrava onorevole lasciare una tale opera magnifica così incompleta e non continuarla", la costruzione doveva essere ripresa immediatamente e completata il più presto possibile (129). Purtroppo, era destinata a subire ulteriori ritardi: in estate, dopo numerose schermaglie e iniziative diplomatiche fallite, divenne inevitabile la guerra con Genova, durante la quale Venezia subì una pesante sconfitta nella battaglia del Bosforo, nel febbraio 1352, ma uscì poi vittoriosa ad Alghero l'anno seguente, spingendo Genova a cercare la protezione dei Visconti. Il perdurare della guerra inaspriva il problema della ripopolazione cittadina: alla fine di quell'anno fu approvata una parte che concedeva agli artigiani che immigravano a Venezia la libera ammissione alle corporazioni, non essendo più tenuti a pagare la buona entrata, e a coloro che portavano con sé la moglie e l'intera famiglia veniva garantita la cittadinanza. Nell'ottobre 1353 il maggior consiglio scelse cinque savi perché studiassero il problema: "perché sia a causa della guerra attuale che della passata mortalità [la città> si è molto spopolata" (130).
Nel 1354 Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano (e ora di Genova), inviò Petrarca a Venezia quale ambasciatore per tentare di negoziare un trattato di pace. Petrarca ben conosceva il doge, avendo egli già visitato Venezia numerose volte nel periodo compreso tra il 1349 e il 1351, quando era ospite di Jacopo da Carrara, signore di Padova. La corrispondenza intercorsa tra Petrarca e il doge a proposito della guerra rivela due concezioni della "vita civile" nettamente diverse tra loro: Petrarca fondava i propri argomenti a favore della pace sulla morale universale e sulla religione, Dandolo, al contrario, giustificava la durata della guerra nel contesto etico e politico particolaristico della venezianità. Non sorprende che la missione del Petrarca fosse destinata a fallire soltanto dopo un mese di discussioni, e in agosto Venezia intraprese una nuova mobilitazione per la guerra nel mar Adriatico. Una pesante catena di ferro fu tesa all'imbocco della laguna, tra San Nicolò di Lido e Sant'Andrea della Certosa, si ordinò la coscrizione dei cittadini e si impose una nuova tassa finalizzata alla costruzione delle navi (131).
Poche settimane dopo, agli inizi di settembre, Andrea Dandolo morì all'età di 49 anni. Nel testamento aveva richiesto la sepoltura nel Battistero, pregando di non modificare la restante decorazione. Non ci è noto se egli pose mano al disegno della tomba, collocata a ridosso della parete di fronte al mosaico del Cristo crocifisso, ma il progetto iconografico allude a vari temi del suo dogado: prevede nicchie a conchiglia, classiche nella forma, ma contenenti figure gotiche nello stile e nello spirito, come la Madonna incoronata in trono, al centro, e l'Annunciazione, resa dalle figure della Vergine e dell'angelo Gabriele poste su ciascuna estremità, elemento che sarebbe diventato caratteristico delle tombe veneziane, forse intenzionalmente allusivo alla fondazione mitica della città. Rilievi scultorei del martirio di san Giovanni Evangelista e sant'Andrea rispecchiano il tema del sacrificio, ripetuto dal tema della Crocifissione che li fronteggia. Il lungo epitaffio in lettere gotiche sulla parete, al di sotto della tomba, loda le doti personali di Dandolo e allude alle sue imprese intellettuali e, in termini più generali, al suo patriottismo (132). Petrarca aveva composto un epitaffio differente per la tomba, su ordine del cancellier grande Benintendi Ravignani, che però non fu utilizzato: in esso, malgrado la controversia con Dandolo, enfatizzava in modo particolare le iniziative militari e politiche del doge. Il poeta impiegò tre anni per comporre tale epitaffio e forse fu per questo ritardo che non se ne poté fare uso. Forse invece il testo fu respinto per il suo stesso contenuto: bisogna ammettere che le iscrizioni delle tombe ducali all'interno della Basilica tendevano alla banalità (133).
Le sepolture private nel massimo edificio sacro non dovevano più essere ammesse, come annotò un cronista in seguito: "Questo Doxe fu l'ultimo fusse sepolto a San Marcho perché cusì fo preso in cancelaria: in corection de Principi si trova che niun doxe ni altri se possi sepelir a S. Marcho" (134).
L'ultimo grande progetto di Andrea Dandolo sulla chiesa, vale a dire la decorazione musiva della cappella di Sant'Isidoro, era ancora in fase di esecuzione all'epoca della morte del doge e, come per i mosaici del Battistero, fu probabilmente realizzato a sue spese. Secondo la Chronica extensa, le reliquie di sant'Isidoro erano state riportate a Venezia da Chio nel 1124 dal doge Domenico Michiel, ma nel corso del tempo si era persa traccia della loro posizione (135). In seguito Caresini avrebbe descritto dettagliatamente il ruolo di Dandolo nel risveglio del culto del santo:
Egli riscoprì il corpo del santissimo martire Isidoro, che era rimasto celato per lungo tempo nella chiesa di San Marco, e lo collocò con grande devozione nella cappella che egli aveva allora edificato (136).
Nel triste anno 1348, le reliquie erano state traslate in un'urna della nuova cappella appena costruita nel transetto settentrionale. In quel tempo fu probabilmente iniziata la decorazione musiva, continuata fino al 1355, anno della consacrazione dell'altare (137). Malgrado le carenze della tecnica musiva, l'insieme è da considerare un successo didattico. Nuovamente, qui, come nella Pala d'oro, Dandolo creò un artefatto il cui valore di testimonianza pittorica veniva rafforzato da iscrizioni e registrazioni nelle cronache, risultando infine sia un'opera d'arte che un documento storico.
La citazione originale nella Chronica extensa trovava così conferma all'interno della cappella, nell'iscrizione sulla tomba di sant'Isidoro, la cui storia, martirio e traslazione si dispiegano nelle immagini dei mosaici e nelle iscrizioni sulle due pareti laterali, sotto la volta a botte. Come per i mosaici del Battistero, non ci è noto l'artista che ne disegnò i cartoni, ma qui si riscontra indubbiamente una coerenza di stile, dove la componente bizantina è di fatto tralasciata o, per meglio dire, nel vivace modo narrativo, nell'attenzione agli abiti e ai tipi esotici, nel tono "popolare", i mosaici non parlano più greco, ma neppure latino.
In verità, il progetto segna l'introduzione del volgare nell'arte monumentale veneziana: con composizioni affollate e realistiche, i mosaici si basano su modelli "paragiotteschi", che hanno molto in comune con i manoscritti occidentali in vernacolo, le illustrazioni per le cronache e i romanzi cavallereschi (138); un linguaggio figurativo che avrebbe goduto di lunga vita a Venezia, culminando alla fine del secolo XV nelle grandi pitture narrative delle Scuole e, presumibilmente, di palazzo Ducale, il cui scopo era di convincere l'osservatore dell'autentica realtà di un particolare evento storico (139). Come ha sottolineato Debra Pincus, le decorazioni musive di Dandolo in San Marco ne enfatizzavano l'identità ducale e rendevano i dogi passati e presenti i maggiori protagonisti della storia veneziana (140).
Dopo la morte di Dandolo, il maggior consiglio impiegò soltanto quattro giorni per eleggere Marino Falier in qualità di nuovo doge (settembre 1354-aprile 1355). Questi era all'epoca ambasciatore veneziano presso la corte papale ad Avignone, con alle spalle una brillante carriera nei pubblici incarichi. Ma già a partire dal momento del suo solenne ingresso a Venezia, il 5 ottobre, le cose peggiorarono. Per di più, durante l'itinerario cerimoniale attraverso la laguna, calò una fitta nebbia, che costrinse il doge e il comitato di ricevimento a sbarcare dal Bucintoro, proseguendo in direzione della città su piatte. Sanudo scrisse in seguito:
E dovendo smontare alla riva della Paglia, per la caligo andarono ad ismontare alla riva della Piazza in mezzo alle due Colonne, dove si fa la Giustizia, che fu un malissimo augurio (141).
Venezia era ancora in guerra con Genova e solo un mese dopo subì un'umiliante sconfitta a Portolongo, vicino all'isola di Sapienza, ponendo in pericolo l'intero Adriatico e, sebbene Falier avesse soltanto ereditato una difficile situazione, i primi mesi in carica furono contrassegnati da un'atmosfera ostile, nonostante fosse stata firmata una tregua di quattro mesi nel gennaio 1355 (142).
Il 15 aprile si adempirono i sinistri presagi descritti da Sanudo, quando Falier e un gruppo di cospiratori vennero arrestati per un tentativo di colpo di stato. Il doge fu decapitato due giorni dopo sui gradini del palazzo dove aveva prestato solenne giuramento meno di un anno prima. L'evento sarebbe in sé irrilevante ai fini di una storia del patrocinio statale, se non fosse per il fatto che anche Filippo Calendario, il personaggio più frequentemente indicato come architetto del nuovo palazzo Ducale, vi fu implicato e che pure il di lui suocero, Bertuccio Isarello, fu arrestato, processato e condannato dal consiglio dei dieci, che deliberò che entrambi "fossero appiccati alle Colonne rosse delle balconate del palazzo, nella quale sta a vedere il Doge la festa della Caccia" (143); le colonne, a quel tempo nel vecchio palazzo di giustizia prospiciente la Piazzetta, furono poi riutilizzate nel secolo XV all'interno del palazzo che lo rimpiazzò. Altri cospiratori furono impiccati, uno o due per arcata, lungo il resto della facciata che dà verso il molo (144).
Il successore di Falier, Giovanni Gradenigo, durò anch'egli per un breve periodo, operando per poco più di un anno (aprile 1355-agosto 1356). Non sappiamo se la cospirazione di Falier fosse stata ispirata da un personale malcontento o da idee monarchiche, in ogni caso la rapida punizione dei coinvolti produsse l'effetto di mantenere il consenso necessario per fronteggiare le perduranti ostilità con Genova, e il significato di ammonizione durevole dell'esecuzione capitale venne rafforzato da parte dei detentori del potere con la proclamazione del 16 aprile - festa di sant'Isidoro - giorno di festa da celebrare annualmente. In quell'occasione, i "commandadori", portando lunghe torce prive di fiamma, dovevano condurre il doge e i capi del consiglio dei dieci in processione a San Marco, dove avrebbero assistito alla messa (145). La data prescelta ci indica, incidentalmente, che la cappella di Dandolo, dedicata allo stesso santo, stava per essere completata in quell'epoca; e infatti il suo altare fu effettivamente consacrato il 10 luglio alla presenza di Gradenigo. Questo doge morì nell'agosto 1356, in una Venezia ancora in guerra, e fu sepolto ai Frari, in una tomba senza epitaffio decorata unicamente dallo stemma (146).
Così come Gradenigo, anche Giovanni Dolfin (1356-1361) ereditò una situazione difficile. Oltre all'aggravarsi del conflitto e alle intermittenti pestilenze, sorsero problemi monetari che richiesero un accurato controllo e l'intervento del governo durante l'intero periodo del dogado. Nel giugno 1358 Venezia infine cedette Zara al re d'Ungheria e rinunciò così al primo titolo onorifico del doge, "Dalmatiae atque Croatiae Dux", concessione dolorosa quest'ultima, ma necessaria per mantenere l'accesso ai porti dell'Adriatico: ora il doge doveva ricevere l'unico appellativo di "Dux Venetiarum [...>" (147).
Durante il dogado Dolfin non fu intrapresa alcuna impegnativa iniziativa di patrocinio statale. I lavori di edificazione di palazzo Ducale subirono forse un grave ritardo a causa delle esecuzioni di Calendario e Isarello, architetto anche quest'ultimo, e probabilmente procedevano lentamente (148), ma in compenso esistono prove circa l'avvio di progetti di rinnovo urbano su piccola scala. Alla fine del 1356, la commissione istituita nel 1353 per studiare i problemi di ripopolamento fu rinnovata e ora avrebbe dovuto provvedere ad "ampliare il territorio e a ridurre la popolazione, ottenendo più terre per abitazioni nel nostro Stato [...> poiché la nostra amata città sta diventando sovrappopolata" (149). Nel 1360 il ponte della Paglia, in origine ligneo, fu ricostruito in pietra, probabilmente ispirato dal crescente splendore del nuovo palazzo Ducale, a cui è prossimo (150). Nel 1361 il campanile di San Giovanni di Rialto crollò nel cuore della notte, andando completamente distrutto, e le sue macerie rimasero poi ammucchiate nei dintorni fino all'ultima decade del secolo - sintomo dell'inerzia e delle ristrettezze economiche dell'epoca (151).
Dolfin morì nel luglio 1361 e fu sepolto nel presbiterio dei Santi Giovanni e Paolo (152). Pur ereditando buona parte dei vecchi problemi, il successore, il doge Lorenzo Celsi (1361-1365), dimostrò d'essere uomo di notevole stile. Secondo Sanudo:
Questo doge fu molto splendido e largo. Teneva nella sua Corte ogni sorta d'uccelli da spassarsi e darsi piacere con quelli, e certe bestie contrafatte, ch'era una bella cosa da vedere. Teneva etiam di molti belli cavalli e corsieri, e cavalcava molte fiate per Venezia con molti Gentiluomini in sua compagnia (153).
Immediatamente dopo l'insediamento alla carica, dovette affrontare la ribellione e la tentata secessione di Candia, ma questo non gli impedì di offrire una sontuosa cerimonia di benvenuto al duca d'Austria, che visitò Venezia alla fine di settembre del 1361. Navigando da Treviso, il duca e il seguito di duecento persone vennero accolti a San Jacopo di Paludo dal doge, accompagnato da una scorta di gentiluomini, e proseguirono poi, tutti insieme, verso la città, ospitati sul Bucintoro. Sanudo registrò così l'evento: "E furono fatte le spese pel Comune a tutti: E mostrategli le belle cose di Venezia, ci stette sei giorni. Poi si partì ben soddisfatto. E furono spesi per onorarlo Ducati diecimila". In dicembre, il re di Cipro ricevette un'accoglienza molto simile (154). Fu nell'anno seguente che Petrarca, in cerca di pace e di quiete, decise di trasferirsi a Venezia, avendo visitato la città di frequente negli ultimi anni e avendo stretto qui, presso la cancelleria, parecchie amicizie molto intime, come quella con Benintendi, nel comune interesse per la cultura classica. Al fine di evitare, dopo la morte, la dispersione dei libri in suo possesso, il poeta propose di lasciarli alla Repubblica, con l'accordo di utilizzarli per costituire una biblioteca pubblica, e in cambio chiese una dimora in cui vivere per il resto dei propri giorni. La biblioteca personale, che comprendeva circa duecento volumi, era una delle più rilevanti in Italia a quel tempo. Il maggior consiglio accettò l'offerta il 4 settembre e gli procurò immediatamente una casa sulla riva degli Schiavoni - Ca' Molin delle due Torri. Petrarca scrisse da Venezia una lettera, indirizzata a un conoscente e datata nella settimana successiva, dichiarandosi soddisfatto del "vasto palazzo da questa città libera e liberale concedutomi in uso" (155).
L'attenzione si rivolse nuovamente a palazzo Ducale: nel corso dello stesso 1362, papa Urbano V garantì l'indulgenza ai visitatori della cappella di San Nicolò, di recente rinnovata, purché offrissero una elemosina ai prigionieri (156). In dicembre venne avanzato un nuovo appello per il completamento della sala del maggior consiglio, così che "non dovesse cadere in tale desolazione la quale implicherebbe un notevole danno per il nostro Comune". Furono stanziati tutti i fondi disponibili a questo scopo, "che doveva essere soddisfatto senza una grande quantità di denaro". Furono minacciate ammende contro chiunque avesse ostacolato il rapido completamento della sala (157).
Quando, nel giugno 1364, giunse la buona notizia che la ribellione di Candia era finalmente stata domata, al doge venne offerta un'altra opportunità per abbandonarsi liberamente al gusto per la spettacolarità. Ammirando la Piazza dal proprio seggio accanto al doge, sopra l'ingresso principale di San Marco, Petrarca fu subito impressionato tanto dalla grande folla e dallo splendore dello scenario, quanto dalle stesse celebrazioni della vittoria:
Circondato da folto stuolo di magnati occupava il doge la loggia marmorea, che nella facciata del tempio sovrasta il vestibolo e tutta domina la sottostante piazza; là dove si veggono i quattro dorati cavalli di bronzo, opera di antico e insigne artefice - qualunque esso sia - che sembrano nitrire e scalpitare dall'alto quasi fossero vivi [...>. Sotto la loggia non v'era nulla di vuoto; non vi sarebbe entrato come suol dirsi un grano di miglio: la grande piazza, il tempio stesso, le torri, i tetti, i portici, le finestre riboccavano di spettatori stretti, stipati, ammucchiati gli uni sugli altri. Incredibile, innumerevole folla copriva il suolo in ogni lato, e la prole numerosa e gentile di questa fiorente città raddoppiava la letizia di que' giorni solenni, porgendo a ciascuno motivo di compiacimento e di gioia il giubilo che scorgeva sul volto d'innumerevoli suoi concittadini (158).
Celsi morì nel luglio 1365 e fu sepolto in Santa Maria della Celestia (159). Durante l'ultimo anno di dogado, egli forse erogò delle somme per il rinnovo di palazzo Ducale in misura maggiore della "non magna quantitate pecuniae" prevista per la sala del maggior consiglio nella parte del 1362, poiché la promissione del successore, Marco Cornaro, proibì al nuovo doge di spendere denaro del comune "in fabbriche del Palazzo" in assenza del voto favorevole di cinque consiglieri, dei due terzi del maggior consiglio, dei tre capi e trenta membri della quarantia (160).
Malgrado questa restrizione, si verificò una considerevole attività nella nuova sala durante il dogado di Cornaro, e almeno una parte delle mura fu affrescata a quell'epoca. Come scrisse Sanudo:
Sotto di questo Doge fu fatta dipignere la Sala Grande del maggior consiglio attorno di sopra tutti i Dogi co' Brevi in mano e coll'arme. E ordinò, che fosse principiato dal primo Doge in Rialto, sicché la sua arma venisse in mezzo del Consiglio, dov'è il Tribunale, su cui siede il Doge. E di sotto attorno fece dipignere la Storia sul muro di Federigo Barbarossa, e quando Papa Alessandro III fuggì a Venezia, essendo Doge Sebastiano Ziani [...>. E in capo della Sala è un Paradiso, come Cristo incorona la Madre con Angioli e Santi, e letture, che dicono [...> Marcus Cornaro Dux & Miles fecit fieri hoc Opus (161).
Nel momento in cui Sanudo scriveva queste righe, il progetto stava già per essere "rinnovato", pur senza modificarne lo schema, e la descrizione è pertanto credibile.
Una volta completata, la decorazione risultava costituita da tre componenti pittoriche: una serie di ritratti ducali, un ciclo di dipinti di carattere storico, che narravano la storia di Alessandro III, e un dipinto del Paradiso (162).
Fu fatto venire da Padova un celebre maestro affreschista per dipingere il Paradiso e alcune delle Istorie: si trattava di Guariento da Arpo, che aveva già dipinto un importante ciclo narrativo agli Eremitani e nella cappella della Reggia Carrarese a Padova, oltre che in altre località (163). Il Paradiso era un affresco immenso, largo più di 24 metri, che ricopriva l'intera parete orientale della sala; al centro si trovava l'Incoronazione della Vergine, mentre ai lati erano raffigurate le milizie celesti. La Vergine era la patrona di molte città italiane e pertanto non era insolito trovare nei palazzi comunali pitture monumentali che la ritraevano: oltre alle Maestà di Siena e di San Gimignano, le sale del consiglio di Gubbio e di Volterra erano affrescate con il tema dell'Annunciazione e Siena e Padova possedevano già propri dipinti con il tema dell'Incoronazione della Vergine. Ma l'affresco veneziano fu il più imponente, poiché combinava tutti i precedenti modelli in un'unica corale esposizione, dando l'impressione che pressoché tutti i santi del Paradiso, accuratamente schierati in ordine gerarchico, fossero presenti nella sala del maggior consiglio di Venezia, fiancheggiati, ai due estremi della parete, dall'angelo Gabriele e dalla Vergine annunciata, che alludevano alle origini divine della città. A differenza delle rappresentazioni toscane, il Paradiso di Guariento non conteneva emblemi o stemmi di Stato e nessun intercessore in forma di patrono civico, oltre alla Vergine. Così a Venezia "le riunioni del maggior consiglio si tenevano in una sala con una riproduzione dell'intero Paradiso, politicamente ῾neutrale', collocata sulla parete principale, come se tra lo Stato di Venezia e i poteri celesti esistesse un rapporto diretto, che veniva dato per scontato e quindi non richiedeva particolare accentuazione nella pittura stessa" (164).
La decisione di affrescare le pareti con la storia di Alessandro III, che ripeteva la rappresentazione già dipinta nella cappella di San Nicolò, indica il ruolo centrale della pittura narrativa nel discorso pubblico veneziano. Non si trattava, comunque, di una pura ripetizione, ma anche di un'estensione, perché era basata sul testo colorito di Castellano da Bassano, redatto nel 1331. Ora, nello spazio massimamente pubblico e politico della nuova sala del maggior consiglio, gli emblematici "trionfi" - una candela bianca, una spada, un anello d'oro, un ombrello, le trombe d'argento dorato e gli stendardi colorati - concessi dal papa Alessandro III al doge Ziani, ancora nel 1177, potevano servire da metafora visiva dei privilegi ducali e, come elemento più decisivo, della sovranità veneziana nell'equivalenza tra papato e impero (165). Un rinnovato interesse per la storia di Venezia, durante l'esecuzione del progetto, può avere spinto a commissionare parecchi manoscritti miniati databili intorno al 1370 - uno sulla leggenda di Alessandro (166) e altri due sulla Historia Troiana (167).
Al di sopra delle Istorie, la serie di ritratti dei dogi (probabilmente in mezzobusto e bardati di corno, camauro e bavaro) era dipinta in successione, tutto intorno alla sala. È importante ricordare che questo ciclo non era destinato a concludersi nell'arco dell'esistenza degli uomini che allora sedevano in consiglio: infatti, dopo il ritratto di Cornaro rimanevano ventidue spazi vuoti da riempire con le effigi dei futuri dogi. Non si trattava semplicemente di ritratti, ma nella loro globalità confermavano la legittimità e la continuità del dogado e, per logica estensione, di Venezia stessa (168).
La cronologia e le date di esecuzione di tali lavori restano incerte. Guariento, probabilmente, iniziò a lavorarvi prima della fine del 1365 e continuò fino al 1368. Un documento del 1370, l'anno in cui morì, afferma che egli era stato impegnato per due anni e tre mesi, con un salario di 300 ducati l'anno, una somma abbastanza generosa, pur coprendo i costi del materiale e le paghe per i due aiutantio (169).
Sappiamo che il ritratto di Marino Falier era già stato dipinto nella sala il 16 dicembre 1366 quando furono avanzate due proposte dal consiglio dei dieci per la pubblica umiliazione del doge, quantunque molto tempo dopo il fatto. La prima proposta - quella che venne approvata - esigeva la damnatio memoriae, ordinando:
Che la figura di Ser Marino Falier, posta nella nuova sala del Maggior Consiglio; sia completamente rimossa e che lo spazio rimanga vuoto [e dipinto di> blu, e che vi sia scritto a lettere bianche sullo sfondo Questo era posto di Ser Marino Falier, decapitato per il crimine di tradimento, che rinnegò la propria Patria.
La seconda proposta richiedeva non solo una iscrizione simile a questa, ma anche una "pittura infamante" vera e propria, chiedendo che il ritratto "fosse ridotto in tal modo: la testa fosse sospesa, spiccata dal collo" (170). Non sorprende che la preferenza cadesse sulla prima versione: la "pittura" infamante ritraeva la precisa punizione del traditore, che era una forma popolare di pubblica umiliazione anche in altre città italiane, ma a cui più raramente si faceva ricorso a Venezia, poiché tendeva a gettare discredito sull'intera classe patrizia (171).
L'esistenza di questa deliberazione ha suggerito ad alcuni studiosi che il ritratto di Falier doveva essere già stato dipinto all'interno della sala prima dell'esecuzione nel 1355, ma non è necessariamente così: infatti, a parte la testimonianza di Sanudo, indicante che i ritratti furono iniziati sotto il doge Cornaro, disponiamo anche della menzione di Sansovino del breve originale di Falier, in seguito cancellato, che egli vide annotato in copie più antiche - "Temeritatis meae poenas lui" (ho scontato la pena per la mia temerarietà) (172). Ciò indicherebbe che il ritratto fu dipinto dopo la caduta in disgrazia di Falier, molto probabilmente nel corso dei primi diciotto mesi del dogado Cornaro, e, una volta sulla parete, considerato un monito ancora insufficiente a dissuadere altri che avessero voluto seguirne l'esempio. Ulteriori riferimenti dimostrano che vi era molta preoccupazione, in quell'epoca, riguardo a possibili attività sediziose nella classe patrizia, tanto è vero che nel 1364 fu eretta una "colonna dell'infamia" riferita a Baiamonte Tiepolo, più di cinquant'anni dopo la cospirazione che lo aveva visto protagonista, nel campiello del Remer, dove un tempo si trovava l'edificio in cui dimorava. Inoltre, nel gennaio 1365, il consiglio dei dieci decretò che la sentenza di Falier non poteva mai più essere annullata, neppure parzialmente (173). Tuttavia, non sorprende che il ritratto di Falier fosse stato dipinto in origine, perché come doge, sebbene traditore, egli faceva parte della successione ininterrotta che simboleggiava la continuità del governo.
È improbabile che Guariento fosse riuscito a completare i dipinti storici insieme al Paradiso durante il suo breve soggiorno a Venezia. Il Vasari afferma che la signoria veneziana aveva commissionato ad Antonio Veneziano, pittore di origine veneziana che però lavorava in Toscana, l'affresco di una delle pareti. Egli si comportò, sempre secondo il Vasari, mirabilmente nella città natale, creando un'opera degna di grande lode:
ma la emulazione o piuttosto invidia degli artefici ed il favore che ad altri pittori forestieri fecero alcuni gentiluomini, fu cagione che altramente andò la bisogna, onde il poverello Antonio, trovandosi così percosso ed abbattuto per miglior partito se ne ritornò a Fiorenza con proposito di non volere mai più a Vinegia ritornare (174).
Se da un lato il potere politico del doge era in fase di declino, dall'altro egli diventava sempre più una magnifica figura di rappresentanza. Il corno ducale ornato di pietre preziose, chiamato Zoia, era ormai così pesante che i dogi, anche nelle occasioni solenni, lo avevano sostituito con un berretto di forma simile, in raso e intessuto d'oro. Nel 1367, forse a causa del crescente splendore della sala che forniva un tono più elevato, il doge fu costretto a indossare nuovamente il pesante corno, riccamente adorno, in tutte le abituali occasioni di festività, anche in quelle di lutto, "per la consolazione e l'onore della città, a causa della quale proprio queste solennità furono stabilite nell'antichità" (175).
Cornaro morì nel gennaio 1368 e fu sepolto nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Nel testamento, egli pose una clausola curiosa: un artista veneziano doveva essere incaricato di eseguire solo l'effigie ducale, ma le altre cinque figure tombali dovevano essere commissionate a Nino Pisano a Pisa. Forse questo costituisce un ulteriore esempio del cambiamento del gusto, dove il prestigio risultava ora legato alla terraferma e non più allo stile bizantino (176).
6. "In grande pericolo di perdere lo Stato"
Andrea Contarini dovette essere minacciato di ammende e confisca della proprietà per indurlo ad accettare il dogado (1368-1382). Effettivamente, come Andrea Dandolo, egli avrebbe guidato la Repubblica attraverso uno dei periodi più pericolosi della sua storia. Come narrò Sanudo: "desiderava che la patria avesse pace, e ubertà. Ma fu in grande pericolo di perdere lo Stato" (177). Fu tuttavia sollevato da un piccolo fardello quando il maggior consiglio ordinò ai procuratori di alleggerire il prezioso corno "a tale abilità e leggerezza che il Doge la possa portare in testa. E 'l Doge la porti ne' dì solenni" (178), ma d'altra parte gli fu richiesto di avere, entro sei mesi dalla nomina, "vesti onorevoli, per onorare il Dogato, e almeno una bella roba lavorata d'oro" (179).
Ignorato dai dogi che erano succeduti a Lorenzo Celsi e infelice per un certo tempo, Petrarca abbandonò Venezia nel 1368, portando con sé la biblioteca personale. Vi avrebbe fatto ritorno soltanto per brevi visite e la donazione dei libri fu tacitamente dimenticata da entrambe le parti (180).
I primi cinque anni in carica di Contarini furono anche segnati dalla rivolta - e successiva sottomissione - di Trieste, oltre che dalla guerra con Padova e con l'Ungheria (181). Uno dei pochi atti di patrocinio statale in questo periodo - in realtà un atto Minore - fu strettamente legato a questa guerra. Costretta ad impiegare condottieri nelle battaglie sin da quando si era rivolta alla terraferma nel 1330, Venezia doveva stare continuamente in guardia per il timore che migliori offerenti avrebbero convinto i capi militari a cambiare parte. Messer buchino di Romagna, che portò 200 fanti e 600 cavalieri, partecipò alla guerra contro Padova nel 1373, durante la quale, però, passò dalla parte del nemico. Secondo Sanudo fu disonorato con una "pittura infamante":
E la Signoria diede gli taglia sulla vita, come a traditore, e fecelo dipignere per traditore appiccato co' piedi in giù, il qual poi fece gran danno al campo della nostra Signoria (182).
Dopo una primavera turbata da tre grandi terremoti, Venezia ottenne una vittoria decisiva su Padova, l'Ungheria e l'Austria il 1 luglio 1373, giorno di san Marciliano, che pose fine alla guerra. Le condizioni del trattato di pace garantirono una nuova riserva di fondi per le opere pubbliche, obbligando il comune di Padova e il suo signore, Francesco da Carrara, a pagare 300 ducati all'anno alla signoria di Venezia per quindici anni, "da essere spesi in onore della Chiesa e del Campanile di San Marco" (183).
A partire dal 1378 Venezia si ritrovò in guerra contro un'antica nemica: Genova. Ma le battaglie non si svolgevano più nell'Egeo o nel mar Nero, relativamente distanti, bensì nello stesso Adriatico, molto vicino. Lo Stato versava in gravi ristrettezze finanziarie a causa della interruzione del commercio e delle enormi spese necessarie per equipaggiare la flotta (184). Perciò furono sospese le festività pubbliche, importanti per mantenere il consenso fra la gran massa della popolazione: la festa delle Marie - la più costosa delle celebrazioni annuali - fu abolita nel febbraio 1379, per non essere mai più ripristinata (185). In maggio, Vettor Pisani, capitano generale da mar di Venezia e comandante popolare, subì una cocente sconfitta a Pola e al rientro a Venezia venne arrestato e imprigionato. Ma in agosto la Repubblica ricevette un colpo ancora più duro, quando i Genovesi conquistarono Chioggia - uno degli ingressi alla laguna veneziana - grazie all'aiuto di un altro antico nemico, Francesco da Carrara. La città si trovava ad affrontare il pericolo di invasione più grande della sua storia e l'intera popolazione si mobilitò in sua difesa. Furono di nuovo tese le catene alle bocche di porto, navi armate stazionavano all'ancora nel canale e furono rimossi i pali indicanti i canali navigabili. Prestiti forzati procurarono altri 12 milioni di ducati e, secondo la tradizione, le dame veneziane rinunciarono ai loro gioielli per ammucchiarli ai piedi del doge.
Dopo un fervente discorso rivolto all'intera popolazione riunita nella Piazza, il settantaduenne Contarini ricevette il vessillo di San Marco presso l'altare grande della Basilica e andò egli stesso in battaglia. Ma i marinai rifiutarono di approntare la nave finché Vettor Pisani non fosse stato rilasciato e il governo dovette cedere, nominandolo ufficiale esecutivo di Contarini. Fu proprio Pisani a pianificare la brillante strategia che permise a Venezia di riconquistare Chioggia nel giugno 1380. Il doge tornò a Venezia "con grandissimo trionfo", ma Pisani morì per le ferite riportate nelle battaglie che seguirono (186). Fu onorato con esequie pari a un funerale di Stato e una tomba straordinaria (per un veneziano), sulla quale figurava l'effigie scolpita del comandante, vestito dell'armatura completa e in posizione eretta, sormontante il sarcofago. Le statue dei generali vittoriosi non facevano parte della tradizione veneziana, a causa del duraturo timore nutrito verso il culto della personalità dalla classe patrizia, tale da superare i desideri personali di gloria. Seppure toccasse comunque alla famiglia di Pisani scegliere l'artista e pagare le spese, la forma era così insolita da rendere necessaria ugualmente l'approvazione dello Stato (187).
La pace di Torino dell'agosto 1381 segnò l'inizio di una nuova era, che vide la definitiva risoluzione della questione genovese (188). Inoltre, il patriziato ricevette nuova linfa quando l'accesso, chiuso così saldamente dall'epoca della "Serrata", fu riaperto, anche se solo per un breve momento e solo per pochi: il 4 settembre trenta famiglie popolari vennero iscritte al maggior consiglio per il contributo fornito nella guerra di Chioggia (189). Il doge Contarini morì nel giugno dell'anno seguente e fu sepolto "con grandissimo onore", ma in un sepolcro molto semplice, privo di effigi e di iscrizioni, com'era suo desiderio, nella chiesa di Santo Stefano (190).
È emblematico del periodo il fatto che nessun importante programma di patrocinio statale fosse stato intrapreso durante il dogado di Contarini, sebbene, come sempre, ciò non avesse escluso le iniziative minori. Nel 1376 gli stendardi di piazza San Marco furono rifatti "i più belli possibile e tessuti con la migliore seta" (191). Il Tesoro del santo si arricchì l'anno seguente di una fortuna inaspettata, quando i gioielli della corona dell'imperatore bizantino, trattenuti come garanzia a partire dal 1343 a fronte di un debito di 30.000 ducati d'oro, furono consegnati ai procuratori dal doge Contarini: era l'epoca in cui il debito era salito a 80.000 ducati ed era diventato evidente che i Paleologhi non sarebbero mai riusciti a saldarlo. I dieci gioielli più importanti furono in seguito collocati sull'altare maggiore nei giorni delle festività solenni, insieme con il corno ducale ornato di pietre preziose, i pettorali e le corone delle Marie ed altri oggetti preziosi custoditi nel Tesoro (192).
7. Un nuovo periodo di ripresa economica
Il brevissimo dogado del doge Michele Morosini (giugno-ottobre 1382) ebbe inizio durante una recrudescenza della peste, che lo avrebbe ucciso insieme ad altri 19.000 Veneziani, ma, nonostante la brevità, segnò un'epoca di ripresa economica (193). In luglio, nel pieno infuriare della pestilenza, vennero stanziati fondi per il restauro dei nuovi affreschi nella sala del maggior consiglio, che si stavano già deteriorando: "tale era la paura che un'opera di pittura tanto solenne e altre cose fossero rovinate" (194). Quando il doge morì, in ottobre, dopo aver ricoperto la carica per soli quattro mesi, fu sepolto nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, in quella che può essere considerata la tomba veneziana più stravagante del Trecento: riuniva sculture, dipinti, mosaici e fu lodata da Caresini come un "solemnissimum monumentum" (195).
Il doge Antonio Venier (1382-1400) avrebbe governato in una città prospera nel corso delle due decadi tra le più vivaci del secolo dal punto di vista delle opere pubbliche di rilievo. Nel 1384 l'attenzione generale si rivolse ancora una volta a San Marco, quando si diede avvio alle decorazioni scultoree delle tre facciate. Si trattava di un esteso progetto, che comprendeva statue singole, gruppi di statue, rilievi, molti abbellimenti decorativi come il coronamento con edicole e guglie. Come Ruskin ebbe a dire una volta: "Ora, la prima marcata caratteristica dell'edificio, e l'origine di quasi ogni altra importante sua peculiarità, è il confessato rivestimento" (196). Il progetto impegnò quasi quarant'anni, trasformando di fatto la chiesa da bizantina a gotica, in uno stile che, però, non si richiamava al gotico francese, benché vi fossero coinvolti scultori toscani e lombardi, oltre che veneziani: essa raggiunse una nuova sintesi, pittorica nel concetto e tipicamente veneziana. Nel momento in cui venne condotta a termine, intorno al 1422, "la legittimazione ῾ufficiale' di uno stile creato oltre settant'anni prima, e allora `superato', ne fece lo stile veneziano per eccellenza" (197). Nell'agosto 1387 si diede inizio alla costruzione del grande organo di San Marco, insieme a un capitello (edicola) che racchiudesse le campane vicino all'altare maggiore; la costruzione dell'organo fu affidata ad un frate dei Frari, che lo concluse l'anno seguente (198). Forse entrarono a far parte dello stesso progetto i due tabernacoli del Santissimo Sacramento, eseguiti alla fine del 1388, che ancora fiancheggiano il presbiterio, in prossimità di ciascun lato della cappella, ma non vi è traccia che ci permetta di risalire allo scultore, pur potendo ipotizzare che essi fossero disegnati da Pierpaolo dalle Masegne e realizzati presso la sua bottega (199). In ogni caso, Pierpaolo e il fratello Jacobello furono incaricati di scolpire una nuova iconostasi in marmo per la chiesa, con la quale rimpiazzare uno schermo del secolo XIII che era probabilmente piuttosto diverso costruttivamente, e che risultò - a prescindere dalle due cappelle commissionate da Andrea Dandolo - la più importante e costosa opera di San Marco dopo le porte di bronzo del 1300. La sezione centrale dell'architrave conteneva un'iscrizione riportante la data "1394" e i nomi degli scultori erano accostati a quelli del doge Venier e dei procuratori che avevano commissionato l'opera. Nel 1395, i fratelli dalle Masegne furono ricompensati con 1.780 ducati, ma il lavoro proseguì oltre quella data sulla sezione laterale della cappella di San Clemente, recante la data del 1397 (200).
Più precisamente, il paravento è una transenna a colonne, non un'iconostasi vera e propria; la parte anteriore supporta una Crocifissione in posizione centrale e, ai due lati di questa, sette statue in posizione eretta: il Redentore, la Madonna e i dodici Apostoli; ciascuna sezione laterale raffigura la Madonna accompagnata da quattro sante. La forma e l'iconografia fanno riferimento, in modo intenzionale oltre che evidente, all'iconostasi dell'antica San Pietro in Roma, edificata sotto Gregorio III nel secolo VIII; come per i progetti duecenteschi per San Marco, anche in questo caso l'approccio retrospettivo implicava molto di più del mero conservatorismo, in quanto Venezia stava nuovamente sforzandosi di consolidarsi in un passato venerabile, in rapporto diretto con la Roma paleocristiana (201).
L'epoca era contrassegnata da costanti riallineamenti politici e da alleanze mutevoli: Carrara, con l'appoggio visconteo ed estense, stava nuovamente creando fastidi, ma Venezia riuscì ad evitare il coinvolgimento militare attivo in terraferma attraverso un'abile diplomazia. Nel 1395, infatti, la Repubblica aveva stipulato un accordo con i Visconti, restaurando il governo comunale a Padova, con il Carrara di nuovo al potere però sotto la supervisione di Venezia e, successivamente, essa si unì alla lega difensiva antiviscontea, stringendo alleanza con lo stesso Carrara. In questa fase, l'obiettivo primario di Venezia consisteva nel tutelare i propri interessi economici, piuttosto che compiere conquiste territoriali in terraferma (202).
Sul versante orientale, Venezia stava di nuovo espandendo i domini nell'Egeo, proprio nel momento in cui la minaccia turca diventava sempre più tangibile. Nel 1386 i nobili di Corfù si posero volontariamente sotto la protezione della Repubblica, segnale questo di quanto sarebbe accaduto di lì a poco. Nel corso degli anni seguenti furono fondate colonie nei territori asiatici a dominazione turca e Costantinopoli decadde politicamente e militarmente. Alla fine del secolo Venezia disponeva di 36.000 marinai, 16.000 maestranze presso l'Arsenale e 3.300 navi d'alto mare (203). Era giunto il momento per il governo cittadino di volgere l'attenzione alla dimenticata area di Rialto. Questa s'appuntò inizialmente sull'orologio pubblico: apparentemente un problema minore, ma in realtà cruciale per il ritmo della vita quotidiana. Dopo il crollo del campanile di San Giovanni nel 1361, venne installato un orologio sul piccolo campanile di San Giacomo, il quale però non funzionò mai perfettamente, a causa del meccanismo eccessivamente complesso e dei pesanti contrappesi, producendo "spese grandi e intollerabili". Perciò nel 1394 si decise di installare un nuovo orologio latino, con "leggieri contrappesi, di bello e grande magistero, che batteva le ore senza difficoltà con una sonorità tripla del predecessore" e che doveva costituire un'opera bella e onorabile, "adeguata al notabile sito del luogo", la cui campana, inoltre, sarebbe stata udita attraverso tutta la città (204).
Da cosa nacque cosa e in agosto si proibì anche l'accesso ai cavalli nelle Mercerie a causa della grande affluenza di persone, poi lo stesso provvedimento fu preso per piazza San Marco, preclusa ai cavalli perfino nei giorni di festa (205). In dicembre, il maggior consiglio deliberò di pavimentare la piazza di Rialto in modo analogo a piazza San Marco, considerando che Rialto, "tesoro della città", era un luogo non meno importante dell'altro. Nei cinque anni che seguirono fu edificata una nuova loggia, vennero restaurate le facciate di San Giacomo, furono rinnovate la Pescaria e la Fruttaria e si procurò di rimuovere le macerie che ancora giacevano attorno al campanile di San Giovanni fin dal crollo avvenuto cinquant'anni prima, tutto ciò a pubbliche spese (206).
Le opere di rinnovamento sarebbero continuate nel nuovo secolo. Nel marzo 1400 il ponte di Rialto veniva descritto come "devastato e putrido", pertanto pericoloso da attraversare, e si trasmise ai provveditori sopra Rialto l'ordine di provvedere al rifacimento. Lo stesso campanile di San Giovanni sarebbe stato ricostruito, infine, fra 1408 e 1417 - opera finanziata grazie agli introiti della chiesa - e dotato di un altro nuovo orologio (207). Né si doveva trascurare il fasto: nel maggio 1400 il corno ducale, oggetto di continuo interesse, fu rifatto in una foggia rinnovata e più bella, e impreziosito utilizzando i gioielli della vecchia Zoia insieme ad altri conservati dai procuratori di San Marco (208).
Ma il maggior consiglio era costretto a riunirsi ancora nella vecchia, e presumibilmente inadeguata, sala costruita all'epoca del doge Pietro Gradenigo. L'avvento del nuovo secolo forse riportò l'attenzione al complesso architettonico di palazzo Ducale: infatti in luglio furono stanziati dei fondi per restaurare i dipinti storici della cappella di San Nicolò (209) e fu stipulato un contratto con Pierpaolo dalle Masegne per la realizzazione del grande finestrone chiamato poggiolo, sulla facciata meridionale della sala del maggior consiglio, che doveva essere eseguito "nella forma in cui era stato rappresentato e tracciato per qualche tempo", affermazione che ci indica che il progetto non era nuovo (210). Pierpaolo si trovava già al lavoro nell'ottobre 1400, data riportata su un documento che ne descrive l'impegno per "progettare, inventare e costruire l'opera disegnata su una carta pergamena, con il ritratto di tredici figure" (211) La struttura era da considerare molto più una struttura di tipo religioso che un'architettura secolare, rassomigliando stilisticamente e strutturalmente ai tabernacoli sacramentali di San Marco: due santi protettori veneziani molto popolari, i guerrieri san Teodoro e san Giorgio, erano collocati nelle edicole a livello della balaustra e sopra di essi stavano le Virtù, fiancheggianti nell'oculo la statua della Carità; tutti questi elementi si riferivano sia allo Stato che al doge stesso, raffigurato sulla piattaforma superiore, inginocchiato in segno di sottomissione al cospetto del Leone di San Marco (rimosso nel 1797); all'altezza del tetto si trovavano san Marco, san Pietro e san Paolo, in atto di proclamare Venezia figlia della Chiesa o forse addirittura equivalente alla Roma papale; infine, sulla sommità svettava una statua raffigurante Venezia, nelle vesti della Giustizia (212).
Sfortunatamente per il doge Antonio Venier, che morì in novembre proprio all'avvio del progetto, l'onore di essere ritratto nella rappresentazione toccò al successore, Michele Steno. In base ad una iscrizione, l'opera fu completata nel 1404 (213). Il doge Steno lasciò un'impronta anche all'interno della sala: nello stesso periodo, infatti, fu decorato un soffitto ligneo, probabilmente a forma di chiglia di nave come nel palazzo della Ragione di Padova, dove, a detta di Sansovino, "si fece il cielo compartito a quadretti d'oro, ripieni di stelle, ch'era la insegna del Doge Steno" (214).
Tutte queste opere non servirono a completare la sala, ma con l'acquisizione di Verona, Vicenza e Padova nel 1404-1406, Venezia divenne veramente il centro di uno Stato territoriale e si rese sempre più necessaria una sala del consiglio di sufficiente magnificenza. Il programma pittorico fu ripreso nel 1409 e durò per circa dieci anni: fu in questo lasso di tempo che Gentile da Fabriano e Pisanello dipinsero la sala, probabilmente con altri artisti. Nel 1415 fu costruita una nuova scalinata - a lungo rimandata - e il consiglio riferì che "tutti i signori e i nobili che vengono nella nostra terra sono desiderosi di vedere la sala famosa per la bellezza e le splendide opere che l'adornano". Finalmente, nel 1419, dopo una campagna di edificazione durata quasi ottant'anni, il maggior consiglio si riunì per la prima volta nella sala (215).
Esistono indicazioni che fanno sospettare che la pazienza e probabilmente anche le borse del patriziato fossero state sfruttate ai limiti delle loro possibilità per permettere l'esecuzione di queste opere: secondo la Cronaca Zancarola, ad esempio, nel 1424 il doge Tommaso Mocenigo dovette pagare una multa di 1.000 ducati soltanto per aver proposto un ulteriore rimaneggiamento:
[...> et finito el suo parlar subito li avogadori domandorno la pena al doxe per aver contrafato a la leze, el qual doxe cum animo pronto la pagò restando in la sua opinione, che si dovese fare la dita fabrica (216).
I risultati li possiamo ammirare nel palazzo odierno.
8. Conclusione
Nella Venezia trecentesca un patriziato di nuova aggregazione, appellandosi non solo all'onore ma anche all'utilità, realizzò un programma incomparabile di opere pubbliche che rafforzarono il consenso all'interno e abbagliarono il resto del mondo. Il patrocinio dell'arte e dell'architettura, e di altre forme più effimere di magnificenza civica quali le cerimonie e le celebrazioni rituali, giocarono sempre un ruolo rilevante nell'arte di governo. Il "palazzo commune", il ciclo di dipinti storici, la nuova Basilica sono tutte iniziative volte a esprimere l'idea che si ha dello Stato, soprattutto nel senso di esaltarne la grandezza: è con quest'immagine che si intende connotare la città. E, inoltre, il ponte, il cantiere navale, la piazza del mercato realtino vanno considerati come risposta ai bisogni più pratici della vita civica, una risposta che soddisfi, così, le esigenze effettive e quelle estetiche ed ideali. Lo si può dedurre dalla formula, non certo vuota, invocata dal maggior consiglio nel 1340 a sostegno di un generoso stanziamento di fondi pubblici per la costruzione di una nuova sala per le riunioni, "per la reputazione, l'onore e l'utilità della nostra terra". Fu proprio nel quadro di questo obiettivo composito che la basilica di San Marco venne continuamente rimodellata e abbellita durante tutta la sua storia e che la manutenzione di Rialto rimase a carico dell'iniziativa pubblica, che provvide anche alla edificazione di un monumentale granaio sul molo prospiciente palazzo Ducale: lo splendore di quest'ultimo era celebre in tutta Italia.
Traduzione di Luisa Contarello
1. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIIII libri, con note di Giustiniano Martinioni, II, Venetia 1663 (riprod. anast. Venezia 1968), p. 565.
2. V., in particolare, Frederic C. Lane, The Enlargement of the Great Council of Venice, in Florilegium Historiale: Essays Presented to Wallace K. Ferguson, a cura di John G. Rowe - W.H. Stockdale, Toronto 1971, pp. 236-274.
3. Secondo Deborah Howard, The Architectural History of Venice, New Haven-London 1980, p. 46, aveva una popolazione di quasi 120.000 abitanti.
4. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 128-129.
5. F. Sansovino, Venetia, pp. 292-293.
6. V. Otto Demus, The Church of San Marco in Venice: History, Architecture, Sculpture, Washington D.C. 1960 (Dumbarton Oaks Studies, 6), pp. 29, 112-114; e Edward Muir, Images of Power: Art and Pageantry in Renaissance Venice, "American Historical Review", 84, 1979, pp. 16-52; F. Sansovino, Venetia, p. 319, sostenne che il doge Gradenigo aveva installato la Pietra del bando, i "pilastri di Acri" e le quattro figure di porfido in questa posizione nel 1291.
7. Roberto Cessi-Annibale Alberti, Rialto: l'isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934, pp. 29-35, 163-165.
8. Elena Bassi-Egle R. Trincanato, Il Palazzo Ducale nella storia e nell'arte di Venezia, Milano 1960, pp. 9-11. Cf. Elena Bassi, Appunti per la storia del Palazzo Ducale di Venezia.1, "Critica d'Arte", 51, 1962, pp. 25-38; e Egle R. Trincanato, Palazzo Ducale. Venezia, "I Documentari", 23, 1969, p. 5. Ancora utile è Francesco Zanotto, Il Palazzo Ducale di Venezia, I, Venezia 1858, pp. 22-38.
9. E. Bassi, Appunti [...> 1, p. 37. Fra Girolamo Bardi, che scrisse nel secolo XVI, affermò che nel XIII, all'epoca del doge Jacopo Tiepolo (1229-1249), la sala era stata dipinta con la storia di Alessandro III: cf. Patricia Fortini Brown, Painting and History in Renaissance Venice, "Art History", 7, 1984, p. 270 (pp. 263-294).
10. Giambattista Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia. Parte I, Dal 1253 al 1600, Venezia 1868, nr. 15 (26 febbraio 1292); E. Bassi, Appunti [...> 1, p. 38, suppone questo, ma l'interpretazione è problematica poiché né Salam né canale si possono definire con certezza.
11. G. Lorenzi, Monumenti, nr. 16.
12. F.C. Lane, The Enlargement, p. 245, afferma che ve ne erano meno di 400 prima del 1297 e più di 1.100 nel 1320. Cf. Stanley Chojnacki, In Search of the Venetian Patriciate: Families and Factions in the Fourteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, p. 55 (pp. 47-90), che cita 210 famiglie di rango patrizio ben consolidato nel 1290.
13. V. F.C. Lane, The Enlargement, pp. 236-274.
14. G. Lorenzi, Monumenti, nr. 19.
15. Per questo periodo, v. Frederic C. Lane, Venice. A Maritime Republic, Baltimore 1973 (trad. it. Storia di Venezia, Torino 1978), pp. 75-84; Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, Firenze 1981, pp. 264 ss.; Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 1912-19212: II, pp. 332-337; Giorgio Cracco, Società e stato nel Medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967.
16. Horatio Brown, Venice, an Historical Sketch of the Republic, London 1893, pp. 159-161; S. Romanin, Storia documentata, II, pp. 337-340; F.C. Lane, Venice, p. 84.
17. Giulio Bistort, Il Magistrato alle Pompe nella Repubblica di Venezia, Venezia 1912, pp. 90-92, 323-329. Cf. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, I, Bergamo 1905, p. 267.
18. G. Lorenzi, Monumenti, nrr. 21, 23 (11 ottobre 1302).
19. F. Sansovino, Venetia, p. 324.
20. Ibid., p. 325. Cf. Patricia Fortini Brown, Venetian Narrative Painting in the Age of Carpaccio, New Haven -London 1988, p. 262.
21. Marino Sanuto, I diarii, a cura di Federico Stefani et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903: XXXIX, coll. 27-28 (5 giugno 1525). V. anche ibid., XXV, col. 120 (5 novembre 1523). La sala fu distrutta con la cappella di San Nicolò il 2 ottobre 1525: ibid., XL, col. 15. Cf. Wolfgang Wolters, Storia e politica nei dipinti di Palazzo Ducale. Aspetti dell'autocelebrazione della Repubblica di Venezia nel Cinquecento, Venezia 1987, pp. 18-19.
22. Cf. F. Zanotto, Il Palazzo Ducale, pp. 41-44, il quale suggerisce che fossero state dipinte nella sala un'incoronazione della Vergine e alcune mappe murali. Non c'è prova per sostenere la tesi (pp. 44-49) che il palazzo di Ziani fosse stato abbattuto subito dopo il 1310 e un nuovo palazzo innalzato a livello della loggia, fungendo poi da base per la sala del 1340; per altre sale del consiglio, si v. anche Staale Sinding-Larsen, Christ in the Council Hall: Studies in the Religious Iconograply of the Venetian Republic, Roma 1974 (Acta ad Archaeologiam et Artium Historiam Pertinentia, 5), pp. 49 ss.
23. F. Zanotto, Il Palazzo Ducale, p. 41.
24. In merito ai signori stranieri, a cui veniva garantita la cittadinanza veneziana e/o di diventare membri del maggior consiglio, si v. Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, pp. 48-49. Cf. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 177.
25. Raimondo Morozzo della Rocca, Cronologia veneziana del 300, in AA.VV., La civiltà veneziana del Trecento, Firenze 1956 (Civiltà veneziana, 2), p. 238 (pp. 231-263). Cf. S. Romanin, Storia documentata, III, p. 82.
26. La chiesa ducale di San Marco, I-IV, Venezia 1753: II, p. 49, che cita una parte del maggior consiglio (27 gennaio 1303 m.v.). Per la festa delle Marie, v. Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton (N.J.) 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984), pp. 135-156.
27. Si v. Reinhold C. Mueller, The Procurators of San i'vlarco in the Thirteenth and Fourteenth Centuries: A Study of the Office as a Financial and Trust Institution, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 108-112 (pp. 105-220); e O. Demus, The Church of San Marco, pp. 52-54.
28. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 422.
29. Hans R. Hahnloser, Opere occidentali dei secoli XII-XIV, in Il tesoro di San Marco, II, Il tesoro e il museo, a cura di Id., Firenze 1971, cat. 152, pp. 152-156.
30. Per le porte di bronzo, si v. Renato Polacco, Porte e cancelli bronzei medioevali in San Marco a Venezia, "Venezia Arti", 3, 1989, pp. 14-23; e Alessandro Prosdocimi, Le porte antiche dell'atrio di San Marco a Venezia, "Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei", Rendiconti. Cl. Scienze morali, storiche, filologiche, ser. VIII, 2, 1947, pp. 529-539. Per la renovatio del secolo XIII, v. O. Demus, The Church of San Marco, p. 57; e Kurt Weitzmann, The Genesis Mosaics of San Marco and the Cotton Genesis Miniatures, in Otto Demus, The Mosaics of San Marco, I-II, Chicago-London 1984: II, pp. 105-142.
31. R. Polacco, Porte e cancelli, pp. 21-22.
32. O. Demus, The Church of San Marco, pp. 140, 180-181; cf. A. Prosdocimi, Le porte antiche, pp. 532-534.
33. Bartolomeo Cecchetti, Documenti per la storia dell'augusta ducale basilica di San Marco a Venezia dal nono secolo sino alla fine del decimo ottavo, Venezia 1886, p. 13, doc. 99.
34. Wolfgang Wolters, La scultura veneziana gotica (1300-1460), Venezia 1976, p. 148; O. Demus, The Church of San Marco, pp. 188-190; Id., The Mosaics of San Marco, I, pp. 5, 41.
35. R. Cessi-A. Alberti, Rialto, pp. 29-34.
36. Frederic C. Lane, The Rope Factory and Hemp Trade in the Fifteenth and Sixteenth Centuries, in Id., Venice and History, Baltimore 1966, pp. 269-270 (pp. 269-284). Cf. Giorgio Bellavitis, L'Arsenale di Venezia. Storia di una grande struttura urbana, Venezia 1983, pp. 44-49.
37. F.C. Tane, Venice, pp. 170-172. Cf. S. Romanin, Storia documentata, III, pp. 15-16; R. Cessi, Storia, pp. 280-287.
38. S. Romanin, Storia documentata, III, pp. 10-24.
39. Ibid., pp. 28-39; Cf. G. Cracco, Società e stato, pp. 364-373; F.C. Lane, Venice, pp. 114-115.
40. Marin Sanudo, Vitae ducum Venetorum (421-1493), in R.I.S., XXII, 1733, col. 588. Cf. S. Romanin, Storia documentata, III, p. 80. Per le tombe ducali nel Trecento, v. il libro di Debra Pincus, The Tombs of the Medieval Doges of Venice, in corso di stampa, che tratterà del periodo che va dal 1250 al 1413.
41. M. Sanudo, Vitae, coll. 592-594.
42. Ibid., coll. 594-600. Cf. La chiesa ducale, IV, p. 87.
43. F. Sansovino, Venetia, p. 567. V. Nicolò Papadopoli Aldobrandini, Le monete di Venezia, I, Venezia 1893 (riprod. anast. Bologna 1967), p. 209, per i prezzi di varie merci nel 1382.
44. S. Romanin, Storia documentata, III, pp. 89-105. Cf. R. Cessi, Storia, pp. 290-294; e F.C. Lane, Venice, pp. 129 ss.
45. Frederic C. Lane, Medieval Political Ideas and the Venetian Constitution, in Id., Venice and History, Baltimore 1966, p. 286 (pp. 285-308).
46. Emmanuele A. Cicogna, Lettera a Cleandro conte di Prata, intorno ad alcune Regatte pubbliche e private Veneziane, Venezia 1845, p. 21.
47. M. Sanudo, Vitae, col. 594.
48. H. Brown, Venice, p. 188; Gina Fasoli, Nascita di un mito, in AA.VV., Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, p. 476 (pp. 445-479); Lina Padoan Urban, La festa della Sensa nelle arti e nell'iconografia, "Studi Veneziani", 10, 1968, pp. 317-329 (pp. 291-353).
49. R. Cessi-A. Alberti, Rialto, p. 38. La citazione della cronaca di Guilombardo di F. Sansovino (Venetia, p. 363) confonde due diversi progetti: la costruzione del palazzo del comune, completata nel giugno-agosto 1322, e altre opere eseguite tra il 1322 e il 1325, fra cui la costruzione della loggia, con una decorazione pittorica di rilievo. Cf. M. Sanudo, Vitae, col. 782.
50. R. Cessi-A. Alberti, Rialto, p. 38; e P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, p. 268 e passim, in particolare il capitolo quinto.
51. Eugenia Bevilacqua, Geografi e cosmografi, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 356-358 (pp. 355-374). Cf. Giorgio Bellavitis-Giandomenico Romanelli, Venezia, Roma-Bari 1985, p. 53.
52. R. Cessi - A. Alberti, Rialto, p. 39 doc. III, pp. 258-259, 312-315; cf. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, pp. 83-84, 261, 268.
53. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, pp. 37-39, 259, cat. II, docc. 1, 10-11. Cf. anche doc. 7, dove Sanudo riferisce che Ziani lo aveva fatto eseguire con scene della pace di Venezia del 1177: "la storia di suo padre". Per il testo dove Sanudo riporta l'avvenimento riguardante Bonincontro de' Bovi, v. R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, pp. 374-410. Cf. Oddone Zenatti, Il poemetto di Pietro de' Natali sulla pace di Venezia tra Alessandro III e Federico Barbarossa, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano", 26, 1905, p. 123 (pp. 105-198).
54. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, pp. 37, 259 e passim, in particolare il capitolo quinto.
55. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 19-20, 150-151; O. Demus, The Church of San Marco, p. 79. Cf. Edoardo Arslan, Venezia gotica. L'architettura civile gotica veneziana, Venezia 1970, p. 82.
56. O. Demus, The Church of San Marco, pp. 45-47.
57. B. Cecchetti, Documenti, p. 13, doc. 100 (11 gennaio 1328 m.v.).
58. M. Sanudo, Vitae, col. 600. Cf. G. Cracco, Società e stato, p. 385.
59. S. Romanin, Storia documentata, III, pp. 109-118.
60. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 20, 136 n. 15; F. Sansovino, Venetia, p. 317. Il Leone era al suo posto già nel 1293: Marilyn Perry, Saint Mark's Trophies: Legend, Superstition and Archaeology in Renaissance Venice, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 40, 1977, pp. 48-49 (pp. 27-49); cf. Werner Haftmann, Das italienische Säulenmonument, Leipzig-Berlin 1939, pp. 125-127; e Ingo Herklotz, ῾Sepulcra' e ῾monumenti' del Medioevo: studi sull'arte sepolcrale in Italia, Roma 1985, pp. 211-212.
61. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, pp. 40, 89 e 259, cat. II, doc. 3.
62. Rodolfo Gallo, Il Tesoro di San Marco e la sua storia, Venezia-Roma 1967, pp. 194-195. Cf. Giuseppe Cadorin, Notizie storiche della fabbrica del Palazzo Ducale e de' suoi architetti nei secoli XIV e XV, Venezia 1837, p. 8.
63. S. Romanin, Storia documentata, III, pp. 109-118.
64. R. Gallo, Il Tesoro, pp. 200-201, che annota che un inventario del 1325 elencava quattro gorzariae e dodici corone decorate con perle e pietre preziose.
65. B. Cecchetti, Documenti, p. 13, doc. 101.
66. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, pp. 92-93, 106, 329-352 e passim.
67. S. Romanin, Storia documentata, III, p. 118.
68. Ibid., pp. 118-131. Cf. R. Cessi, Storia, pp. 294-297; G. Cracco, Società e stato, pp. 391 e ss. Per le insegne v. Gioacchino Volpe, L'Italia e Venezia, in AA.VV., La civiltà veneziana del Trecento, Firenze 1956 (Civiltà veneziana, 2), p. 59 (pp. 23-83).
69. R. Cessi - A. Alberti, Rialto, p. 40; P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 53.
70. W. Wolters, Storia e politica, p. 18 n. 1, che propone come architetto dei granai Filippo Calendario.
71. Giuseppe Cadorin, Pareri di XV architetti e notizie storiche intorno al palazzo ducale di Venezia, Venezia 1838, p. 187; e G. Bellavitis-G. Romanelli, Venezia, p. 65.
72. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 30, 163-164.
73. Michelangelo Muraro, Paolo da Venezia, Milano 1969, pp. 40, 145-146; Rodolfo Pallucchini, La pittura veneziana del Trecento, Venezia-Roma 1964, pp. 34-35.
74. M. Muraro, Paolo da Venezia, p. 64, con il testo completo dell'iscrizione a p. 78 n. 110.
75. F. Sansovino, Venetia, p. 567.
76. M. Sanudo, Vitae, coll. 608-609. Cf. Giuseppe Pavanello, San Marco nella leggenda e nella storia, "Rivista di Venezia", 7, 1928, pp. 293-324; e P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, cat. XIX, doc. 2.
77. H. Brown, Venice, p. 164.
78. G. Lorenzi, Monumenti, nrr. 78, 80. Cf. E. Bassi, Appunti [...> 1, p. 38; e Ead., Appunti per la storia del Palazzo Ducale di Venezia. 2, "Critica d'Arte", 52, 1962, p. 42 (pp. 41-53): probabilmente all'inizio si intendeva che la sala si sarebbe posta sul perimetro delle mura sottostanti senza estendersi sulla loggia.
79. V. G. Lorenzi, Monumenti, nrr. 82, 85.
80. Per un sommario di opinioni, v. E. Arslan, Venezia gotica, pp. 148-149. Cf. Vittorio Lazzarini, Filippo Calendario, l'architetto della tradizione del Palazzo Ducale, "Nuovo Archivio Veneto", 7, 1894, pp. 429-446; e G. Cadorin, Notizie storiche, pp. 9-12.
81. E. Arslan, Venezia gotica, pp. 137-143. Cf. D. Howard, The Architectural History, pp. 81, 240 n. 18, la quale dimostra che la sala e i portici sottostanti furono largamente ricostruiti in un isolato programma di riedificazione fra il 1340 e il 1365; e F. Zanotto, Il Palazzo Ducale, pp. 54-59, il quale sostenne che i primi due piani erano stati costruiti nel 1309-1340.
82. E. Bassi, Appunti [...> 2, p. 43.
83. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 31, 165; M. Sanudo, Vitae, col. 609; iscrizione in La chiesa ducale, I, p. 52.
84. O. Demus, The Church of San Marco, p. 82.
85. Per la biografia di Dandolo, v. Ester Pastorello, Introduzione a Andreae Danduli Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ead., in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958. Cf. Giorgio Ravegnani, Dandolo, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 432-440.
86. G. Cracco, Società e stato, p. 395.
87. M. Sanudo, Vitae, col. 628.
88. Francesco Petrarca, Familiari, VIII 5 (scritto a Luca Cristiani, 19 maggio 1349), in Id., Le Familiari, a cura di Vittorio Rossi, II, Firenze 1934, p. 172 (pp. 169-173).
89. Girolamo Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 127-268. Cf. G. Cracco, Società e stato, pp. 399-440; e Debra Pincus, Andrea Dandolo (1343-1354) and Visual History: The San Marco Projects, in Art and Politics in Late Medieval and Early Renaissance Italy: 1250-1500, a cura di Charles M. Rosenberg, Notre Dame-London 1990, pp. 191-206.
90. Lino Lazzarini, ῾Dux ille Danduleus'. Andrea Dandolo e la cultura veneziana a metà del Trecento, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di Giorgio Padoan, Firenze 1976, pp. 131-132 (pp. 123-156).
91. G. Cadorin, Pareri, p. 188. Cf. B. Cecchetti, Documenti, docc. 102, 103, 830; E. Pastorello, Introduzione, p. VIII. D. Pincus, Andrea Dandolo (1343-1354) and Visual History, p. 194, vede la visione di Dandolo del doge potente come motivo guida di tutto il suo patrocinio di San Marco.
92. Wolfgang F. Volbach, Gli smalti della Pala d'Oro, e Hans R. Hahnloser, Le oreficerie della Pala d'Oro, in Il tesoro di San Marco, I, La Pala d'oro, a cura di Id., Firenze 1965, pp. 3-71 e 79-111. Cf. J. Deer, Die Pala d'Oro in neuer Sicht, "Byzantinische Zeitschrift", 62, 1969, pp. 308-344; R. Gallo, Il Tesoro, pp. 157-166; e Margaret Fraser, The Pala d'Oro and the Cult of St. Mark in Venice, in XVI Internationaler Byzantinistenkongress. Akten, II/5, Vienna, 4-9 ottobre 1981, "Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik", 32/5, 1982, pp. 273-279.
93. Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890, p. 143; e Andreae Danduli Chronica, p. 180. R. Gallo, Il Tesoro, pp. 175-178, afferma che il pannello superiore dell'attuale Pala d'oro fu fatto dalla tabula d'argento di Orseolo.
94. H.R. Hahnloser, Le oreficerie, p. 87, con l'originale latino a p. 9.
95. Andreae Danduli Chronica, p. 255.
96. Sebbene M. Fraser, The Pala d'Oro, p. 277, dimostri la sua inclusione nella pala originale del 1105, J. Deer, Die Pala d'Oro, pp. 320-340, presenta una forte prova a favore dell'aggiunta nel 1209. Cf. W.F. Volbach, Gli smalti, cat. 1, pp. 5-7.
97. Andreae Danduli Chronica, p. 284.
98. H.R. Hanhloser, Le oreficerie, p. 87, con l'originale latino a p. 9.
99. Cf. D. Pincus, Andrea Dandolo (1343-1354) and Visual History, pp. 197-198, che sottolinea l'interesse di Dandolo per il ruolo storicamente centrale del doge: "In the reworking, the Pala d'oro became a piece that Venice possessed because of its doges, again, in terms of a line of succession that creates a living chain across the face of history".
100. M. Muraro, Paolo da Venezia, pp. 16-17, 53, 87, 143-144, il quale annotò che Paolo fu pagato anche per dipingere un altare per la cappella di San Nicolò nel palazzo Ducale il 20 giugno 1347 (per le date v. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, p. 259). Cf. R. Gallo, Il Tesoro, pp. 189-190; R. Pallucchini, La pittura veneziana, pp. 36-40; Giuseppe Fiocco, Le pale feriali, in Il tesoro di San Marco, I, La Pala d'oro, a cura di Hans R. Hahnloser, Firenze 1965, pp. 115-119 (pp. 115-123).
101. W. Wolters, La scultura veneziana, p. 160, la data circa 1331-1350; per una ricostruzione v. H.R. Hahnloser, Le oreficerie, pp. 81-83, tavv. LXV-LXVI; R. Gallo, Il Tesoro, pp. 189- 190.
102. Andreae Danduli Chronica, p. 53. Cf. Vittorio Lazzarini, Il preteso documento della fondazione di Venezia e la cronaca del medico Jacopo Dondi, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti, 75, 1915-1916, pp. 1263-1281; Ezio Franceschini, La cronachetta di Maestro Jacopo Dondi, ibid., 99, 1939-1940, pp. 969-984.
103. Andreae Danduli Chronica, pp. 59-60; Id., Chronica brevis, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 351.
104. Hugo Buchthal, Historia Troian. Studies in the History of Mediaeval Secular Illustration, London-Leiden 1971, p. 24. Cf. Bernhard Degenhart-Annegrit Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen, 1300-1450. Teil II, Venedig, Addenda zu Sud- und Mittelitalien, II, 1, Berlin 1980, p. 101; e Ranee Katzenstein, Three Liturgical Manuscripts from San Marco: Art and Patronage in Mid-Trecento Venice, tesi di Ph.D., Harvard University 1987.
105. Cf. la recensione a H. Buchthal, Historia Troiana, di Silvana Ozoeze Collodo, "Archivio Storico Italiano", 130, 1972, pp. 553-561.
106. N. Papadopoli Aldobrandini, Le monete, pp. 177-180. Il Leone dapprima comparve su una moneta veneziana durante il dogado di Francesco Dandolo (1329- 1339), ma era raffigurato rampante, senza ali e con vessillo nella zampa (ibid., p. 158).
107. Raphayni de Caresinis cancellarii Venetiarum Chronica a. 1343-1388, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 2, 1922, p. 8: "iuxta Sanctum Marcum quiescit, in capella baptismali, quam nobili opere musaico decoravit". Cf. La chiesa ducale, I, pp. 61-67; B. Cecchetti, Documenti, nrr. 831-832, 834.
108. M. Muraro, Paolo da Venezia, pp. 33 e 121. Cf. Rosanna Tozzi, I mosaici del battistero di San Marco a Venezia e l'arte bizantina, "Bollettino d'Arte", 26, 1932-1933, pp. 418-432; R. Pallucchini, La pittura veneziana, pp. 75-78.
109. Cf. Michelangelo Muraro, Petrarca, Paolo Veneziano e la cultura artistica alla corte del doge Andrea Dandolo, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di Giorgio Padoan, Firenze 1976, pp. 161-162 (pp. 157-168), che data i mosaici al 1330 circa sulla base dello stile e suggerisce che il doge ritratto sia Francesco Dandolo. L'argomento non è convincente.
110. Su Ravignani G. Arnaldi, Andrea Dandolo, pp. 154, 205 n. 4; R. Tozzi, I mosaici, p. 426; Agostino Pertusi, Quaedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 46-47 (pp. 3-123); Fritz Saxl, Petrarch in Venice, in Id., Lectures, I, London 1957, p. 43. Su Pistorini: M. Muraro, Paolo da Venezia, pp. 31, 81 n. 2. Si deve escludere Raffaino Caresini (suggerito da O. Demus, The Church of San Marco, p. 79) che entrò in carica solo nel 1465.
111. La statua ha un volto mascolino e indossa abiti maschili. R. Tozzi, I mosaici, p. 426, si riferisce ad esso come a "un altro personaggio sconosciuto, certo un magistrato". P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 169, lo identifica con il cancelliere grande. Un costume simile, tranne il copricapo, si vede nella miniatura del Capitolare di Paolo Belegno, procuratore di San Marco (1367), illustrato ibid., p. 86. Cf. Laudadeo Testi, La storia della pittura veneziana, I, Bergamo 1909, p. 514, per un consigliere nello stesso costume. Rimangono solo due ritratti normali di dogaresse del secolo XIV (sulle tombe di Francesco Dandolo, 1339, e Michele Morosini, 1382). Entrambe le donne indossano abiti religiosi, indicando una tradizione che sarebbe probabilmente stata seguita anche dalla moglie di Andrea Dandolo in un ritratto funerario. D. Pincus, Andrea Dandolo (1343-1354) and Visual Histor, p. 196, identificò nella statua il capo degli avogadori, corporazione che "fu di solito un primo incarico per assicurare ai giovani nobili l'entrata al servizio del governo".
112. G. Arnaldi, Andrea Dandolo, p. 205. Cf. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 170; R. Pallucchini, La pittura veneziana, pp. 84 ss.; O. Demus, The Church of San Marco, p. 45.
113. D. Pincus, Andrea Dandolo (1343-1354) and Visual History, p. 196.
114. Ibid., p. 199. V. anche Ead., The Fourteenth Century Venetian Ducal Tomb and Italian Mainland Traditions, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien, a cura di Jörg Garms - Angiola Maria Romanini, Wien 1990, pp. 393-400.
115. G. Lorenzi, Monumenti, nr. 91. Cf. E. Bassi, Appunti [...> 2, pp. 41-43.
116. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 40-45, 173- 174; E. Arslan, Venezia gotica, pp. 139-143.
117. S. Sinding-Larsen, Christ in the Council Hall, pp. 167-174.
118. V., in particolare, David Rosand, Venetia Figurata: The Iconography of a Myth, in Interpretazioni veneziane: studi di storia dell'arte in onore di Michelangelo Muraro, a cura di Id., Venezia 1984, pp. 180-188. Cf. W. Wolters, La scultura veneziana, p. 47.
119. R. Cessi, Storia, pp. 300-305.
120. M. Sanudo, Vitae, col. 614. Cf. G. Cracco, Società e stato, p. 395.
121. A.S.V., Miscellanea Codici, ser. I, cod. 60, c. 56v, citato in AA.VV., Difesa della sanità a Venezia, secoli XIII-XIX, catalogo della mostra, Archivio di Stato, Venezia, Venezia 1979, p. 25.
122. Ibid. Sembra esserci scarso accordo fra gli studiosi sul numero dei morti: secondo M. Sanudo, Vitae, coll. 614-616, un terzo della popolazione; secondo G. Cracco, Società e stato, pp. 395-396, il 40%; secondo F.C. Lane, Venice, p. 169, il 50%; secondo E. Pastorello, Introduzione, p. XIII, i due terzi.
123. Difesa della sanità, p. 25.
124. R. Gallo, Il Tesoro, p. 179.
125. M. Sanudo, Vitae, coll. 617-618.
126. G. Lorenzi, Monumenti, nrr. 94, 95, che cita anche le traduzioni in vernacolo usate qui, tratte da un manoscritto conservato a Wien, Staatsbibliothek, Collezione Foscarini, cod. 264.
127. R. Cessi, Storia, p. 305.
128. A.S.V., Senato, Misti, reg. 24, cc. 159v-160, citato in Difesa della sanità, p. 26.
129. G. Lorenzi, Monumenti, nr. 96.
130. Bartolomeo Cecchetti, La vita dei Veneziani nel 1300. La città e la laguna. Pt. III, "Archivio Veneto", 29, 1885, p. 29 (pp. 9-48).
131. L. Lazzarini, ῾Dux ille Danduleus'; E. Pastorello, Introduzione, p. XXVI; H. Brown, Venice, pp. 196-201.
132. Cf. D. Pincus, Andrea Dandolo (1343-1354) and Visual History, pp. 198-199.
133. La chiesa ducale, I, pp. 65-66; W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 52, 190.
134. B. Cecchetti, Documenti, p. 14, doc. 105. Cf. M. Sanudo, Vitae, coll. 627-628.
135. Andreae Danduli Chronica, pp. 234-235.
136. Raphayni de Caresinis Chronica, p. 8.
137. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 53, 189; e La chiesa ducale, II, pp. 78-80; III, p. 34.
138. Sergio Bettini, Mosaici antichi di San Marco a Venezia, Bergamo 1944, pp. 27-29; M. Muraro, Paolo da Venezia, pp. 68-69, 142-143; R. Pallucchini, La pittura veneziana, pp. 78-79; O. Demus, The Church of San Marco, pp. 46, 47, 79; B. Degenhart-A. Schmitt, Corpus, p. 116.
139. V. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, passim.
140. D. Pincus, Andrea Dandolo (1343-1354) and Visual History, pp. 196-197. La studiosa suggerisce anche che il programma di Dandolo di una storia visuale ispirò l'aggiunta nell'ultima metà del secolo XIV di una lunga iscrizione alla tomba del secolo XIII dei dogi Jacopo e Lorenzo Tiepolo, che era stata posta sulla facciata della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo poco dopo il 1249.
141. M. Sanudo, Vitae, col. 629. Cf. H. Brown, Venice, p. 202.
142. R. Cessi, Storia, pp. 313-320.
143. M. Sanudo, Vitae, coll. 631-635. Cf. Raphayni de Caresinis Chronica, p. 9; Vittorio Lazzarini, Marino Falier: la congiura, "Nuovo Archivio Veneto", 13, 1897, pp. 5-107, 277-374 (ristampa Firenze 1963); Id., Filippo Calendario, pp. 429-446.
144. F. Zanotto, Il Palazzo Ducale, p. 61.
145. M. Sanudo, Vitae, col. 637.
146. Ibid., col. 641; La chiesa ducale, IV, pp. 88, 90.
147. H. Brown, Venice, pp. 208-212; R. Cessi, Storia, pp. 316-320. Una legge suntuaria simile a quella del 1334 fu approvata nel 1360: S. Romanin, Storia documentata, III, pp. 386-389.
148. G. Cadorin, Notizie storiche, p. 10.
149. B. Cecchetti, La vita, p. 29.
150. M. Sanudo, Vitae, col. 643.
151. R. Cessi-A. Alberti, Rialto, pp. 47-49. Ma cf. M. Sanudo, Vitae, col. 643, che afferma che il campanile crollò l'8 agosto 1357.
152. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 54 e 193; M. Sanudo, Vitae, col. 643.
153. M. Sanudo, Vitae, col. 660.
154. Ibid., coll. 654-655. Cf. H. Brown, Venice, pp. 215-217.
155. Marino Zorzi, La libreria di San Marco, Milano 1987, pp. 9-15.
156. E. Bassi, Appunti [...> 1, p. 36.
157. G. Lorenzi, Monumenti, nr. 103 (15 dicembre 1362).
158. Francesco Petrarca, Le senili, 4 (IV, 3) in Id., Prose, a cura di Guido Martellotti, Milano-Napoli 1955, pp. 1083-1087 (pp. 1077-1089).
159. M. Sanudo, Vitae, col. 660.
160. Ibid., col. 661.
161. Ibid., col. 664.
162. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, pp. 39-42 e cat. IV, pp. 261-265. Tutti questi lavori sono ora persi, a parte alcuni frammenti del Paradiso. Nel 1577 l'intera sala venne rovinata dal fuoco, che distrusse tutti i dipinti.
163. R. Pallucchini, La pittura veneziana, pp. 106-117. Cf. Da Giotto al tardogotico. Dipinti dei Musei Civici di Padova del Trecento e della prima metà del Cinquecento, a cura di Davide Ranzato-Franca Pellegrini, Roma 1989, pp. 65-75.
164. S. Sinding-Larsen, Christ in the Council Hall, pp. 48-55. Cf. F. Saxl, Petrarch in Venice, pp. 139-149.
165. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, pp. 38-40 e cat. IV, pp. 261-265.
166. V. Mirella Levi D'ancona, Giustino del fu Gherardino da Forlì e gli affreschi perduti del Guariento nel Palazzo Ducale di Venezia, "Arte Veneta", 21, 1967, pp. 34-44. Cf. R. Pallucchini, La pittura veneziana, p. 220; e P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, p. 260.
167. H. Buchthal, Historia Troiana; e B. Degenhart-A. Schmitt, Corpus, p. 99.
168. V. Giandomenico Romanelli, Ritrattistica dogale: ombre, immagini e volti, in I dogi, a cura di Gino Benzoni, Milano 1982, p. 125 (pp. 125-161); Giulio Lorenzetti, Ritratti di dogi in Palazzo Ducale, "Rivista di Venezia", 12, 1933, pp. 387-398; Jurg Meyer Zur Capellen, Zum venezianischen Dogenbildniss in der zweiten Hälfte des Quattrocento, "Konsthistorisk Tidskrift", 50, 1981, pp. 70-86.
169. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, pp. 262-263. Cf. R. Pallucchini, La pittura veneziana, pp. 113-118; e Francesca Flores d'Arcais, Guariento, Venezia 1974, p. 82.
170. G. Lorenzi, Monumenti, p. 38, nr. 104.
171. Gherardo Ortalli, "...pingatur in Palatio...". La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979, pp. 30, 168-172. Cf. Samuel Y. Edgertonjr., Picturesb and Punishment. Art and Criminal Prosecution during the Florentine Renaissance, Ithaca-London 1985, p. 74.
172. F. Sansovino, Venetia, p. 569; cf. E. Bassi, Appunti [...> 2, pp. 42-43.
173. S. Romanin, Storia documentata, III, pp. 38, 191, il quale annota anche che le accuse scritte contro il doge Celsi furono dichiarate false e distrutte dal consiglio dei dieci il 30 luglio 1365, subito dopo la sua morte. Cf. V. Lazzarini, Marino Falier, pp. 262-263.
174. Giorgio Vasari, Le Vite de' più eccellenti pittori scultori ed architettori [...>, a cura di Gaetano Milanesi, I, Firenze 1906, p. 662. Cf. R. Pallucchini, La pittura veneta, pp. 210-211.
175. R. Gallo, Il Tesoro, p. 195.
176. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 56-57.
177. M. Sanudo, Vitae, coll. 668-669; cf. La chiesa ducale, III, p. 37.
178. R. Gallo, Il Tesoro, p. 195.
179. M. Sanudo, Vitae, col. 667.
180. M. Zorzi, La libreria, p. 16.
181. S. Romanin, Storia documentata, III, p. 136. Cf. R. Cessi, Storia, pp. 324-327.
182. M. Sanudo, Vitae, coll. 673-674. Cf. G. Ortalli, "...pingatur in Palatio... ", passim.
183. M. Sanudo, Vitae, coll. 673-676. Cf. H. Brown, Venice, p. 220.
184. H. Brown, Venice, pp. 220-225; R. Cessi, Storia, pp. 327-332; F.C. Lane, Venice, pp. 186-195.
185. P. G. Molmenti, La storia di Venezia, pp. 224-225; S. Romanin, Storia documentata, III, p. 348.
186. H. Brown, Venice, pp. 230-234.
187. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 57, 204. Cf. ibid., p. 58, per la tomba di Jacopo Cavalli, capitano di terra (morto il 24 gennaio 1385). F. Sansovino (Venetia, p. 337) riferì di aver visto una statua di condottiero, Giberto da Correggio, nella sala dell'Armamento nel 1581. Questi era un generale della Repubblica che portò Venezia alla vittoria nel giorno di san Marciliano nel 1373. Non c'è prova che questa fosse commissionata dallo Stato, ma è significativo che non fosse cittadino veneziano.
188. H. Brown, Venice, pp. 234-237; R. Cessi, Storia, pp. 330-332.
189. M. Sanudo, Vitae, col. 733. Cf. Reinhold C. Mueller, Effetti della guerra di Chioggia (1378-1381) sulla vita economica e sociale di Venezia, "Ateneo Veneto", n. ser., 19, 1981, pp. 27-42.
190. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 57, 205; M. Sanudo, Vitae, col. 733.
191. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 48-49: "tantum pulchra quantum fieri possunt et de optimo cendali torto" (A.S.V., Collegio, Notatorio, 15 gennaio 1376).
192. R. Gallo, Il Tesoro, p. 31; La chiesa ducale, III, p. 35.
193. M. Sanudo, Vitae, col. 748.
194. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, p. 262, cat. IV, doc. 3.
195. Raphayni de Caresinis Chronica, p. 60. Cf. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 57-58, 206.
196. John Ruskin, The Stones of Venice, III, New York s.d., p. 79.
197. W. Wolters, La scultura veneziana, p. 88 (e v. pp. 82-88, 244 ss.).
198. B. Cecchetti, Documenti, p. 212, docc. 836, 837.
199. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 64, 216.
200. Ibid., pp. 62-67, 146, 213-214, 223.
201. Ibid., pp. 67, 223.
202. H. Brown, Venice, pp. 240-244; R. Cessi, Storia, pp. 341-346.
203. R. Cessi, Storia, pp. 333-340; P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 137.
204. R. Cessi-A. Alberti, Rialto, pp. 49-51.
205. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 42.
206. R. Cessi-A. Alberti, Rialto, pp. 51-52.
207. Ibid., pp. 52-54, 167.
208. R. Gallo, Il Tesoro, p. 195.
209. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, cat. II, p. 259, doc. 6.
210. G. Lorenzi, Monumenti, nr. 126.
211. Pietro Paoletti, L'architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, I, Venezia 1893, pp. 2-3.
212. W. Wolters, La scultura veneziana, pp. 70-71, 222; e E. Arslan, Venezia gotica, pp. 149-150.
213. M. Sanudo, Vitae, col. 766.
214. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIIII libri, Venetia 1581, c. 123v (p. 325 dell'ediz. 1663).
215. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting, pp. 41, 261-265.
216. G. Cadorin, Notizie storiche, pp. 12-13.