commutazione di codice
La commutazione di codice (ingl. code-switching) è il passaggio da una lingua a un’altra all’interno del discorso di uno stesso parlante. Non va confusa con l’alternanza di codice, che è invece la scelta dell’una o l’altra delle lingue possedute da un parlante bilingue a seconda della situazione o dell’ambito comunicativo (famiglia, amici, scuola, università, uffici, negozi, ecc.; ➔ bilinguismo e diglossia). L’alternanza è un fenomeno rilevabile per mezzo di sondaggi su larga scala, mentre la commutazione è individuabile attraverso l’osservazione diretta del comportamento effettivo dei parlanti nelle varie circostanze della vita quotidiana.
Dal punto di vista linguistico, il passaggio da un sistema linguistico (o codice) all’altro può essere interfrasale (se si verifica al confine tra due frasi: es. 1) o intrafrasale (se ricorre all’interno della stessa frase: es. 2); in quest’ultimo caso si parla anche di enunciazione mistilingue (ingl. code-mixing) (come l’italiano / siciliano in Alfonzetti 1992: 146 e 192; ➔ mistilinguismo):
(1) Poi io non è che mi posso mettere a fare le telefonate per niente, ogni minuto. U telèfunu u pavu iù! («il telefono lo pago io»)
(2) Quannu fu ca mi pigghiài («Quando è stato che mi sono preso») quell’assegno
Dal punto di vista funzionale, cambiare codice nel discorso può avere una finalità comunicativa. Nella maggior parte dei casi, la commutazione interfrasale ha una funzione specifica, quella intrafrasale molto più di rado. Essa è dovuta all’incertezza nella scelta del codice, all’abitudine a usare entrambi i codici o, a volte, a un certo grado di sovrapposizione tra le due grammatiche.
Integrando i due criteri, quello linguistico e quello funzionale, si può definire commutazione di codice il passaggio, di solito interfrasale, da un codice a un altro dotato di una specifica funzione comunicativa, ed enunciazione mistilingue il passaggio, perlopiù non funzionale (ma talvolta dotato anche di intenzionalità comunicativa), tra i due codici all’interno della stessa frase. La commutazione può verificarsi tra l’italiano e uno dei dialetti locali o una delle lingue di minoranza, ma anche tra l’italiano e un’altra lingua (tedesco, francese, inglese, ecc.) in situazioni di emigrazione (➔ emigrazione, italiano dell’; ➔ italoamericano).
L’uso alterno di italiano e dialetto nell’interazione è molto diffuso e pienamente accettato in tutte le aree del paese. Le condizioni che favoriscono il fenomeno sono:
(a) il bilinguismo della quasi totalità della popolazione, che conosce e usa sia l’italiano che il dialetto, sebbene in percentuali e modalità differenti a seconda di vari fattori sociali;
(b) l’appartenenza dei parlanti bilingui a una stessa comunità sociale, dove non si hanno forti conflitti etnici o culturali;
(c) una larga intercambiabilità funzionale in molte circostanze: se nelle situazioni ufficiali e decisamente formali la scelta dell’italiano è d’obbligo, in tutte le situazioni della sfera privata, ma anche in alcune della sfera pubblica (lavoro, negozi abituali, ecc.), specie in provincia, si ha una ampia libertà nella scelta del codice, a seconda delle preferenze o competenze individuali. Ciò spiega la naturalezza con cui persone di diversa istruzione e collocazione sociale passano nella conversazione di ogni giorno dal dialetto alla lingua e viceversa.
La commutazione di codice è una risorsa di cui i parlanti bilingui possono servirsi con varie finalità espressive e comunicative. Cambiare codice può anzitutto dipendere da una limitata conoscenza di uno dei due sistemi linguistici. A questa motivazione sono riconducibili:
(a) le riformulazioni (Alfonzetti 1992: 56), dove il parlante, non essendo in grado di portare a termine la frase in italiano, la riformula in dialetto:
(3) Tutti dobbiamo … Cci avissim’a gghiri a ddari a ffocu («Dovremmo andare a dargli a fuoco»)
(b) i riempimenti di lacune lessicali (es. 4 a.: salentino / italiano) (Sobrero 1992: 37), frequenti soprattutto ove si parlano lingue minoritarie soggette a una drastica riduzione nell’uso rispetto alla lingua nazionale e al dialetto locale (come in 4 b., arbëresh / italiano: Dal Negro 2005: 164):
(4) a. Dice ca l’annu truvatu nu pocu de («dice che gli hanno trovato un poco di») broncopolmonite
b. Mu mir («meglio») sottovuoto … la cosa migliore è sottovuoto comungue
Il fatto di riformulare o ripetere in italiano il messaggio può essere dovuto anche ad autocensura del dialetto in situazioni pubbliche, come in (5) (Cerruti 2003): su un mezzo pubblico a Torino un’anziana signora, sollecitata dalla sua interlocutrice, ripete a voce più alta e in italiano quanto ha detto prima in piemontese, forse a causa della presenza di un giovane estraneo seduto al suo fianco:
(5) F60: t’ai pestà ’l kutin- («hai pestato la gonna»)
F70: kwé? («cosa?»)
F60: [volgendo lo sguardo verso M22, seduto di fianco a lei] STAI PESTANDO LA GONNA
Si può inoltre cambiare codice per adeguarsi all’interlocutore, allo scopo di facilitare la comunicazione e accorciare la distanza interpersonale, come in (6) (Alfonzetti 1992: 45) un’impiegata dell’anagrafe catanese, passando dall’italiano – scelta abituale nell’interazione con gli utenti negli uffici pubblici – al siciliano, usato dal giovane che richiede uno stato di famiglia:
(6) Imp.: Che deve fare?
M20: Stat’i famìgghia. Siccomu ai’ a ffari stat’i convivenza, a gghièssiri semplici? («Stato di famiglia. Siccome devo fare lo stato di convivenza, dev’essere semplice?»)
Imp.: Sì. Cincucentu spicci ll’ài? («cinquecento spiccioli li hai?»)
Nelle comunità dove si parlano lingue minoritarie, è frequente commutare in italiano quando ci si rivolge a interlocutori italofoni (come in 7, arbëresh / italiano: Dal Negro 2005: 164):
(7) A: njo, pjei këtë («ecco, chiedi a lei»), … mara, cosa fanno?
M: ma, quando fanno la salsa sono lì in dieci persone
Restando nell’ambito della commutazione connessa all’interlocutore, in molte zone d’Italia è frequente che gli adulti commutino verso l’italiano nel parlare a bambini, come se il dialetto fosse una scelta inadatta con interlocutori così piccoli (➔ baby talk). In casi come questi, la commutazione ha forte significato sociale, perché chiama in causa i diversi valori socio-simbolici e il diverso prestigio dei due codici nella comunità, rivelando un atteggiamento negativo nei confronti del dialetto, che spiega la sua mancata trasmissione da parte dei genitori ai figli all’interno della famiglia.
Un altro tipo di commutazione che presuppone e sfrutta il diverso valore socio-simbolico dei due codici è quello che svolge funzione espressiva: cambiare codice cioè serve per segnalare coinvolgimento emotivo, modificare il tono in senso ironico o scherzoso o mettere in primo piano i sentimenti del parlante. In tutti questi casi la direzione prevalente è dall’italiano verso il dialetto. In (8) (Alfonzetti 1992: 140), un giovane ricercatore passa al siciliano per sfogare l’indignazione causatagli da un ambiente lavorativo deludente:
(8) Purtroppo è questa la situazione e:: e andrà, penso, sempre a peggiorare. Infatti ormai io non … non lo so, boh! […] Com’è che io prima appena sto per en/ per arrivare all’università, già … comincio a … ca mi mi svota mi svota u stòmacu! («che mi mi si rivolta lo stomaco!»)
Al contrario, spesso si passa all’italiano nei titoli quali signora, signorina, dottore, avvocato, professore, ecc., che servono a manifestare distanza, rispetto e cortesia verso l’interlocutore (come in 9, siciliano / italiano: Alfonzetti 1992: 165):
(9) Cincucentumila liri ogni ddu misi, signora, pigghiu («cinquecentomila lire ogni due mesi […] piglio»)
La commutazione di codice svolge inoltre una pluralità di funzioni connesse alle dinamiche della conversazione. In questi casi non è rilevante il diverso prestigio e valore simbolico dei due codici, ma piuttosto il contrasto creato dalla loro mera giustapposizione nel discorso. Di conseguenza la direzione della commutazione è reversibile, nel senso che una stessa funzione può essere svolta passando sia dal dialetto all’italiano che viceversa.
Rientrano in questo gruppo le commutazioni delle quali il parlante si serve per: correggere errori di vario tipo; cambiare argomento (come in 10, ove la commutazione avviene tra italiano e tedesco in una situazione di emigrazione in Germania; Auer 1984: 13); segnalare l’inizio, la fine o il punto culminante di una storia; specificare quanto appena detto; fare commenti marginali rispetto all’argomento principale; citare, sotto forma di discorso diretto o indiretto, le parole pronunciate da altri parlanti (come in 11, italiano / piemontese: Cerruti 2003: 6; cfr. anche Berruto 1990):
(10) Daniela: io non ne voglio; quindi si butta (lunga pausa) die Nudeln schmecken besser, als alles («gli spaghetti sono più buoni di tutto») [la conversazione sul cibo continua in tedesco]
(11) F50: ma lì dovrebbero esserci … come si chiama … i treni a tutte le ore
F50: i treni a tutte le ore, sì però … loro dicono [---] ah, andè giy’, piè ‘l trenu («ah, andare giù, prendere il treno»), poi … bisogna aspettare … poi bisogna venire fino qua, si perde un sacco di tempo.
Dal punto di vista strettamente linguistico, la commutazione intrafrasale tra italiano e dialetto gode di grandissima libertà. Il passaggio può infatti verificarsi in qualsiasi punto della frase e interessare segmenti di qualsiasi composizione e lunghezza: proposizioni subordinate e sintagmi di vario tipo, cioè gruppi di parole formati, ad es., da articolo + nome (come in 12, piemontese / italiano: Regis 2005: 30), verbo + complemento, preposizione + nome, ecc.; singole parole, come sostantivi (come in 13, piemontese / italiano: Regis 2005: 34), verbi, aggettivi e persino elementi funzionali quali pronomi, preposizioni, congiunzioni, articoli (come in 14, italiano / siciliano: Alfonzetti 1992: 203):
(12) er prosim an fuma tüti («l’anno prossimo facciamo tutti») la tessera
(13) mio marito ha il ringret («rimorso») perché quel giorno …
(14) prima di tutto u («il») portiere non c’è
Tale libertà è favorita dal fatto che italiano e dialetto hanno strutture morfosintattiche simili, per via sia della comune origine sia del prolungato contatto. A ciò si aggiunga una consistente quantità di parole identiche in italiano e dialetto, che facilitano la transizione facendo da ponte, per così dire, tra i due codici (come in 15: Alfonzetti 1992: 240), dove a far scattare la commutazione è la parola campagna, identica in italiano e siciliano:
(15) Ma picchì non m’a potti n («Ma perché non me la porti in») campagna quest’estate
In linea generale, la commutazione tra italiano e dialetto si realizza in modo graduale e impercettibile: i passaggi, sia inter- che intrafrasali, vengono segnalati solo di rado da esitazioni, interruzioni, pause, cambiamenti di intonazione o di ritmo, commenti espliciti che spezzano il flusso del discorso nel punto di transizione, attirando l’attenzione su di essa. Ciò rivela l’atteggiamento positivo della collettività nei confronti del discorso bilingue, sentito come comportamento naturale e quindi non stigmatizzato.
La commutazione di codice così com’è stata sin qui descritta è tipica di parlanti adulti in possesso di una competenza bilanciata del dialetto e dell’italiano. Il declino del bilinguismo a favore dell’italiano nei giovani, specialmente in contesti urbani, determina differenze sostanziali non solo nella frequenza del fenomeno, ma anche nelle sue modalità funzionali e sintattiche. Nei giovani di città appartenenti ai ceti medio-alti, infatti, la commutazione consiste quasi esclusivamente nell’inserire in un discorso italiano frasi dialettali brevi e sintatticamente elementari, intercalari, singole parole, esclamazioni; tutti elementi che presuppongono conoscenza minima del dialetto e la cui funzione è quasi solo scherzosa o espressiva. In questi casi si usano spesso vari meccanismi (intonazione, volume della voce, commenti espliciti, risata) per segnalare il cambiamento di codice, al fine di mostrare che si tratta di una strategia intenzionalmente adoperata e stilisticamente motivata.
Essendo la commutazione di codice un fenomeno tipico della lingua parlata è impossibile studiarla dal punto di vista storico, se non mediante testi scritti, letterari e non, in cui maggiormente affiorano tracce dell’oralità, come testi dettati o verbalizzati. Un esempio di commutazione si trova in uno dei primi documenti ufficiali della lingua italiana, il Placito Capuano (960), verbale notarile redatto interamente in latino, dove la formula dei tre testimoni è riportata in volgare: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti».
Nel corso dei secoli, via via che l’italiano si diffonde anche nell’uso parlato, si intensifica il contatto con i dialetti, soprattutto nei grandi centri, creando le condizioni per il verificarsi della commutazione. A Venezia, per es., nel Settecento il discorso pubblico in sedi istituzionali è mistilingue, come testimonia sia un’ammonizione dei magistrati veneziani nei confronti dell’inquisitore sia, sul versante letterario, la commedia di Goldoni Avvocato Veneziano (1749-50). In Goldoni il ricorso al dialetto non ha più le finalità comiche e caricaturali prevalenti nella commedia del Cinquecento, ma risponde all’esigenza d’inventare quella lingua parlata che ai suoi tempi non esisteva ancora. In I Rusteghi e Sior Todaro brontolon la commutazione tra veneziano e italiano è sfruttata per caratterizzare un personaggio che cerca di parlare in modo forbito.
Nella narrativa dell’Ottocento, il tentativo di mimesi dell’oralità e di rappresentazione della realtà locale spinge alcuni autori all’uso del dialetto soprattutto nei dialoghi. Ad es., in Piccolo mondo antico (1895) di Antonio Fogazzaro, alcuni personaggi secondari parlano nei dialetti di origine, altri commutano tra italiano e dialetto. I personaggi principali, invece, si limitano all’uso di intercalari dialettali (ad es. neh, che accompagna i saluti). Molti autori del Novecento si sono serviti a scopi diversi della commutazione di codice. Cesare Pavese, ad es., nei racconti di Ciau Masino (1968), compie una sofisticata operazione basata su vari codici che vengono giustapposti mediante un procedimento a incastri successivi. All’intento mimetico di riprodurre situazioni di plurilinguismo, si aggiunge quello di evocare con l’uso del dialetto significati simbolici più profondi, legati al mito del passato e della vita in campagna. Connotazioni simboliche possiede il dialetto anche nella favola teatrale Lunaria di Vincenzo Consolo, ambientata in una sorta di Arcadia idilliaca, i cui abitanti parlano il sanfratellano (uno dei dialetti galloitalici ancora vitali in Sicilia), con varie commutazioni in italiano e tra italiano e spagnolo, usato con funzione di mimesi della realtà linguistica della corte vicereale di Palermo (Trovato 1989).
Alfonzetti, Giovanna (1992), Il discorso bilingue. Italiano e dialetto a Catania, Milano, Franco Angeli.
Auer, J.C. Peter (1984), Bilingual conversation, Amsterdam - Philadelphia, John Benjamins.
Berruto, Gaetano (1990), Italiano regionale, commutazione di codice e enunciati mistilingui, in L’italiano regionale. Atti del XVIII congresso internazionale di studi della Società di linguistica italiana (Padova - Vicenza, 14-16 settembre 1984), a cura di M.A. Cortellazzo & A.M. Mioni, Roma, Bulzoni, pp. 105-130.
Cerruti, Massimo (2003), Il dialetto oggi nello spazio sociolinguistico urbano. Indagine in un quartiere di Torino, «Rivista italiana di dialettologia» 27, pp. 33-88.
Dal Negro, Silvia (2005), Il code switching in contesti minoritari soggetti a regressione linguistica, «Italian journal of linguistics» 17, pp. 157-178.
Regis, Riccardo (2005), Appunti grammaticali sull’enunciazione mistilingue, München, Lincom Europa.
Sobrero, Alberto A. (1992), Paesi e città del Salento: come cambia il cambio di codice, in Id. (a cura di), Il dialetto nella conversazione. Ricerche di dialettologia pragmatica, Galatina, Congedo, pp. 31-41.
Trovato, Salvatore C. (1989), Valori e funzioni del sanfratellano nel pastiche linguistico consoliano del Sorriso dell’ignoto marinaio e di Lunaria, in Dialetto e letteratura. Atti del II convegno di studi sul dialetto siciliano (Pachino, 28-30 aprile 1987), a cura di G. Gulino & E. Scuderi, Pachino, Assessorato ai Beni culturali, pp. 113-146.