Comparse
Nel linguaggio teatrale e cinematografico sono così indicate le persone che appaiono sulla scena, isolate, in gruppo o in massa, senza prendere la parola, dilettanti o mestieranti reclutati sul posto. Risultano all'ultimo posto nella scala gerarchica delle funzioni cinematografiche e sono scarsamente protette sul piano sindacale, sovente vittime di arruolatori e capigruppo che filtrano l'accesso al lavoro. Uscire dall'anonimato, porgere il volto alla macchina da presa, diventare famosi: questa l'aspirazione che pervade i protagonisti di I should have stayed home (1938; trad. it. 1994), la novella di H. McCoy che racconta il mondo delle c. a Hollywood. I figuranti discendono da lontano: esistevano nell'antica Grecia, nel Medioevo, nell'Inghilterra elisabettiana e nell'Ottocento. Nel cinema sono sinonimo di moltitudini, assembramenti brulicanti di teste, entità riunite per riempire la scena e animarla. Attività saltuaria quella delle c. che sono, però, fondamentali in alcuni generi: il kolossal storico, il film di guerra e di avventura, il biografico, il musical, il catastrofico, la fantascienza, il melodramma in costume. In Intolerance (1916), il regista David W. Griffith, superate le esperienze di Judith of Bethulia (1914; Giuditta di Betulia) e di The birth of a nation (1915; Nascita di una nazione), ingaggiò 16.000 c. per un'inquadratura battendo ogni record. Gli erano stati maestri i cineasti italiani affermatisi con ricostruzioni storiche realizzate per film come Quo vadis? (1913) di Enrico Guazzoni, Gli ultimi giorni di Pompei (1913) di Eleuterio Rodolfi, Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, accattivanti per l'imponenza dell'apparato scenografico e gli scenari affollati e movimentati. L'insegnamento fu raccolto dovunque: dai tedeschi (Ernst Lubitsch con Madame Dubarry, 1919, e Anna Boleyn, 1920, Anna Bolena; Fritz Lang con Die Nibelungen, 1924, La canzone dei Nibelunghi, e Metropolis, 1927, in cui la massa di c. assurge al ruolo di protagonista) ai sovietici (Aelita, 1924, di Jakov A. Protazanov; Bronenosec Potëmkim, 1925, La corazzata Potëmkim, e Oktjabr′, 1927, Ottobre, di Sergej M. Ejzen-štejn; Novyj Vavilon, 1929, La nuova Babilonia, di Grigorij M. Kozincev e Leonid Z. Trauberg), ai francesi (J'accuse, 1919, Per la patria, e Napoléon, 1927, Napoleone, di Abel Gance). È la Hollywood degli anni Venti, Trenta e Quaranta la mecca del cinema amato dalle c. (negli albi del collocamento ne erano iscritte oltre 20.000). Imbattibili orchestratori di masse furono Cecil B. DeMille (The ten commandments, 1923, I dieci comandamenti; The king of kings, 1927, Il Re dei re; The sign of the cross, 1932, Il segno della croce; The plainsman, 1937, La conquista del West), Raoul Walsh (The thief of Bagdad, 1924, Il ladro di Bagdad), Michael Curtiz (Captain Blood, 1935, Capitan Blood; The charge of the light brigade, 1936, La carica dei 600), Fred Niblo (Ben Hur, 1926) ed Erich von Stroheim in tutti i suoi affollati e sovraccarichi melodrammi. Nell'Europa continentale non mancarono in quegli anni i grandi affreschi cinematografici, popolati di masse, degni (se non, talora, a essi superiori) dei modelli con cui si confrontavano: in URSS Pëtr Pervyj (1937; Pietro il Grande) di Vladimir M. Petrov, Aleksandr Nevskij (1938) di S.M. Ejzenštejn, Ščors (1939) di Aleksandr P. Dovženko; in Francia La kermesse héroïque (1935; La kermesse eroica) di Jacques Feyder, La Marseillaise (1937; La Marsigliese) di Jean Renoir, Les enfants du paradis (1945; Amanti perduti) di Marcel Carné; in Germania Der Kaiser von Kalifornien (1936; L'imperatore della California) di Luis Trenker, Ohm Krüger (1941; Ohm Krüger, l'eroe dei boeri) di Hans Steinhoff, Münchhausen (1943; Le avventure del barone di Münchhausen) di Josef von Baky, Kolberg (1945) di Veit Harlan; in Italia Cavalleria (1936) di Goffredo Alessandrini, Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, L'assedio dell'Alcazar (1940) di Augusto Genina, La corona di ferro (1941) di Alessandro Blasetti, I promessi sposi (1941) di Mario Camerini.
Gigantismo produttivo a parte, le c. popolarono anche i film di medio calibro industriale e riempirono gli sfondi di bar, alberghi, grandi magazzini, sale da ballo, mercati, di 'esterni' dal vero ed 'esterni' ricomposti in studio. Josef von Sternberg in Shanghai Express (1932) le usa come materiale plastico di notevole efficacia drammatica, plasmandole con dardeggianti tagli di luce ed effetti di chiaroscuro. Il Neorealismo italiano, snidando le troupe dagli stabilimenti di posa, cambiò in parte le regole. Nell'episodio fiorentino e in quello padano di Paisà (1946), Roberto Rossellini illustra scontri armati ricorrendo agli spazi vuoti attraversati da rari passanti e pochi combattenti. In varie occasioni (La terra trema, 1948, di Luchino Visconti; Caccia tragica, 1947, e Riso amaro, 1949, entrambi di Giuseppe De Santis) la coralità fu raggiunta attraverso una collaborazione che spesso aveva una base volontaristica. Piombata in ambienti autentici, la cinepresa, a volte nascosta, spesso mescolava gli attori della fiction allo scorrere della vita quotidiana.
Hollywood non fu insensibile alla lezione italiana, come dimostrato da The naked city (1948; La città nuda) di Jules Dassin e Call Northside 777 (1948; Chiamate Nord 777) di Henry Hathaway, film in cui la collettività è sorpresa dall'obiettivo cinematografico, un procedimento che negli anni Sessanta venne largamente adottato grazie all'agilità dei nuovi sistemi di ripresa e di illuminazione. In tal senso, in Francia sia il Cinéma vérité sia la Nouvelle vague coinvolsero nel contesto filmico la vita urbana e le masse metropolitane colte nella loro immediatezza. Hollywood, comunque, non rinunciò alla spettacolarità più appariscente e seduttiva, un filone che, rifiorito nel secondo dopoguerra con Quo vadis (1951; Quo vadis?) di Mervin LeRoy, comprende le grandi ricostruzioni storiche di kolossal, anche d'autore, come Exodus (1960) di Otto Preminger, Spartacus (1960) di Stanley Kubrick, Lawrence of Arabia (1962; Lawrence d'Arabia) di David Lean. L'apporto di capitali statunitensi e l'intraprendenza di produttori come Carlo Ponti e Dino De Laurentiis facilitarono il rilancio di film di produzione italiana in cui le c. abbondano, da Ulisse (1954) di Camerini a War and peace (1955; Guerra e pace) di King Vidor sino a La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, Il giudizio universale (1961) di Vittorio De Sica, Le quattro giornate di Napoli (1962) di Nanni Loy. Il fenomeno ebbe ripercussioni, sia pure più modeste, nei peplum e nei western all'italiana. Negli anni Cinquanta e Sessanta, fiorenti in Italia l'industria e il mercato, le grandi produzioni e i grandi set di Cinecittà, chiamata allora 'Hollywood sul Tevere', diedero lavoro a un numero elevatissimo di c., creando in molti speranze rapidamente disilluse. Questo mondo e questa atmosfera sono resi in film come Bellissima (1951) di Visconti, Il viale della speranza (1953) di Dino Risi, Risate di gioia (1960) di Monicelli, mentre le c. acquistano addirittura un valore emblematico e metaforico in opere come La dolce vita (1960) e 8 1/2 (1963) di Federico Fellini e negli accenti amari dell'apologo di Pier Paolo Pasolini La ricotta (1963, episodio di RO.GO.PA.G., diretto anche da Rossellini, Ugo Gregoretti, Jean-Luc Godard), che racconta il 'calvario' di una c. sul set di un kolossal religioso. È stato proprio il cinema di Fellini e Pasolini a mettere in discussione l'uso 'massificato' delle c. e a esaltare la presenza di volti e corpi nel tessuto figurativo dei film, riproponendo la stessa tipologia di c. di opera in opera.
Nei decenni successivi il drastico ridimensionamento subito dal mercato cinematografico (soprattutto in Europa ma non solo), dovuto in buona parte all'exploit della televisione, ha ridotto le possibilità materiali di realizzare prodotti impegnativi sotto il profilo dello spettacolo. Molti autori si sono indirizzati verso un cinema minimalista, centrato su pochi personaggi, rinunciando programmaticamente alle formule spettacolari. Negli anni Settanta e Ottanta gli orditi narrativi più ariosi e corposi, ancora praticabili per gli statunitensi, sono risultati penalizzati nelle altre cinematografie. Un colpo micidiale è dunque stato inferto anche a quel cinema che faceva un ampio uso delle comparse. Inoltre, già negli anni Novanta lo sviluppo delle tecnologie digitali ha amplificato le tecniche degli effetti speciali ottici, rendendo relativamente semplice allestire con immagini virtuali grandi scene di massa. E così, in film come Titanic (1997) di James Cameron o Gladiator (2000; Il gladiatore) di Ridley Scott, che, per altri versi, richiamano i kolossal classici, è stato possibile moltiplicare, grazie al computer, il numero effettivo delle c. utilizzate, riducendo ulteriormente la necessità di ricorrere alle moltitudini impiegate un tempo.
I.C. Jarvie, Towards a sociology of the cinema: a comparative essay on the structure and functioning of major entertainment industry, London 1970 (trad. it. Una sociologia del cinema, Milano 1977); R. Sklar, Movie-made America: a social cultural history of American movies, New York 1975 (trad. it. Milano 1982).