Compensazione delle spese di lite
A partire dal 2005 il legislatore è più volte intervenuto sull’art. 92 c.p.c. in materia di compensazione delle spese di lite, disciplina rimasta sostanzialmente immutata per oltre centocinquanta anni.
L’attivismo legislativo rappresenta in parte la reazione alla giurisprudenza, secondo cui la decisione sulle spese era pressoché insindacabile, anche a fronte di giustificazioni tautologiche.
Con il d.l. 12.9.2014, n. 132 il legislatore ha poi dichiaratamente inteso deflazionare il contenzioso intervenendo sulle spese di lite; ne è scaturito un assetto squilibrato con un elenco tassativo di ipotesi di compensazione e sacrificio delle esigenze di equità intrinseche all’istituto; gli esiti, ritenuti irragionevoli e forieri di disparità di trattamento, sono stati corretti dalla Corte costituzionale con la sentenza 7.3.2018, n. 77.
Con la sentenza 7.3.2018, n. 77, il giudice delle leggi è intervenuto sull’art. 92, co. 2, c.p.c. in tema di compensazione delle spese di lite. La norma, dopo la novella di cui all’art. 13 del d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito con modificazioni con la l. 10.11.2014, n. 162, disponeva che «se vi è soccombenza reciproca, ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero». Il termine «assoluta» è stato inserito in sede di conversione.
Con la sentenza n. 77/2018 della Corte costituzionale il novellato co. 2, art. 92 c.p.c., è stato ritenuto incompatibile con la Carta costituzionale «nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano analoghe gravi ed eccezionali ragioni»; la Corte ha così censurato l’aspirazione del legislatore a redigere un catalogo chiuso delle ipotesi di compensazione delle spese di lite.
Le spese di lite, di regola, seguono la soccombenza in forza del principio di causalità, secondo cui devono essere accollate a chi ha dato causa alla lite ‒ indebitamente proponendola o resistendovi ‒ così da evitare che il costo necessario per far valere un diritto gravi sul titolare dello stesso. Tuttavia la compensazione delle spese di lite è istituto risalente e, nella dottrina moderna, per offrire una ricostruzione unitaria della disciplina delle spese di lite, che tenga conto anche di questa possibilità e dei procedimenti in cui non è oggettivamente configurabile una soccombenza (processo esecutivo, volontaria giurisdizione), è stata proposta un’impostazione della problematica di carattere prettamente processuale, potenzialmente avulsa dall’esito nel merito della controversia1.
La ratio della compensazione veniva sintetizzata già nella relazione di Pisanelli al codice di procedura civile del Regno d’Italia del 1865 in questi termini: «la parte soccombente non ha sempre torto». In dottrina si era sottolineato che «non si può dichiarare a priori per quali motivi è permesso compensare le spese»2.
Storicamente infatti già l’art. 370 del c.p.c. del 1865 disponeva che «quando concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte». La previsione era stata riproposta nell’art. 92 del c.p.c. del 1940, secondo cui «se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».
A partire dal 2005 il legislatore ha più volte posto limiti al potere del giudice di compensare le spese di lite. La l. 28.12.2005, n. 263 ha imposto, in contrasto con la giurisprudenza all’epoca maggioritaria, di motivare esplicitamente la compensazione parziale o integrale; la l. 18.6.2009, n. 69 ha sostituito l’espressione storica «giusti motivi» di compensazione con quella «gravi ed eccezionali ragioni», con intento ulteriormente restrittivo; infine il d.l. n. 132/2014 ha redatto un catalogo delle ragioni di compensazione, inducendo la censura della Corte costituzionale. La sostituzione di una clausola aperta con un elenco tassativo è stata giustificata con lo scopo di disincentivare il contenzioso civile ed il suo abuso. Si legge infatti nella relazione di accompagnamento del testo di legge del 2004 che «nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti avere avuto ragione».
La nuova disposizione, tuttavia, è stata sottoposta al giudice delle leggi (Trib. Torino, ord., 30.1.2016, n. 132 e Trib. Reggio Emilia, ord., 28.2.2017, n. 863) sul presupposto, affermato nelle ordinanze di rimessione e condiviso dalla Corte, che, ferma l’impossibilità di un’interpretazione correttiva dell’art. 92 c.p.c. in termini esemplificativi e non tassativi, il disposto normativo violasse il principio di ragionevolezza e il diritto di difesa di cui agli artt. 3 e 24 Cost.
La sentenza della Corte affronta preliminarmente una questione in rito, ossia quella dell’ammissibilità di un incidente di costituzionalità in un giudizio integralmente deciso nel merito, esclusa la sola statuizione sulle spese proprio per interpellare il giudice delle leggi sulla pertinente disciplina.
Nella pronuncia del 13.12.2004, n. 395 la Corte aveva sancito l’inammissibilità di una rimessione proposta in esito all’integrale decisione del merito e limitata alla problematica delle spese; si legge in detta pronuncia che la rimessione si collocherebbe in tal caso a valle della consumazione del potere decisorio del giudice in una fase in cui, potenzialmente, la controversia pende davanti al giudice dell’impugnazione anche per censurare l’omessa pronuncia in punto spese. La soluzione adottata muoveva da una rigida lettura del principio dell’accessorietà della condanna alle spese.
La Corte ha più volte ribadito la natura accessoria della condanna alle spese (ad esempio al fine di affermarne la marginalità rispetto al principio del contraddittorio), in quanto statuizione non scindibile dalla decisione di merito e necessaria anche in mancanza di domanda (per la regolazione d’ufficio delle spese, salvo esplicita rinuncia, v. Cass., S.U., 10.10.1997, n. 9859), tanto che «il sistema processuale non ammette la proposizione di una domanda per conseguire il rimborso delle spese processuali, che sia formulata autonomamente e fuori della sede nella quale quelle spese furono prodotte, poiché il danno che una parte abbia subito per far valere in giudizio un diritto o per resistere a una pretesa di altri, non può essere oggetto di autonomo processo e deve essere invocato all’interno del processo in cui si discuta del merito» (C. cost., 29.7.2008, n. 314).
nella pronuncia del 2018, tuttavia, la Corte sembra aver ridimensionato il prospettato legame di accessorietà, negandone il carattere indissolubile. La statuizione sulle spese presenta una sua autonomia, tanto da poter essere il solo capo di sentenza oggetto di impugnazione; l’accessorietà è poi recessiva quando si profila un dubbio di legittimità costituzionale afferente proprio e solo alla disciplina delle spese di lite. In tal caso la natura necessariamente incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, che preclude al giudice di fare applicazione di una norma che sospetta di incostituzionalità e parimenti di disapplicarla, deve coniugarsi con il principio di ragionevole durata del processo. Il bilanciamento delle contrapposte esigenze porta a salvaguardare l’apprezzabile interesse delle parti alla sollecita definizione di quanto possa essere deciso a prescindere dalla disposizione censurata, con ammissibilità della questione proposta a valle della decisione di merito. Le considerazioni espresse sono corroborate dalla soluzione simmetricamente raggiunta per l’ipotesi in cui il giudice, che dubiti della legittimità costituzionale di una norma, conceda una misura cautelare interinale, contestualmente rimettendo la questione alla Corte ed aggiornando il giudizio cautelare all’esito della stessa (ex pluribus C. cost., 6.5.2013, n. 83). La Corte ha comunque precisato che la soluzione adottata non muta la natura della sentenza pronunciata senza statuire sulle spese, sentenza che resta definitiva per quanto concerne il regime dell’impugnazione, limitandosi a garantire l’ammissibilità di una questione di costituzionalità nel rispetto dei contrapposti interessi in gioco.
La giurisprudenza costituzionale in materia di spese di lite ha oscillato, nel tempo, tra una più rigorosa applicazione del principio della soccombenza, secondo parametri di causalità, e un maggior spazio per la compensazione, ritenuta espressione di principi di equità ed epifania di ipotesi di responsabilità senza colpa.
nella sentenza C. cost., 19.12.1986, n. 303 si legge che il normale completamento dell’accoglimento della domanda è «la liquidazione delle spese e delle competenze in difetto della quale il diritto di agire in giudizio, per antico insegnamento, sarebbe in guisa monca garantito», riproponendo in termini quasi letterali gli insegnamenti di Chiovenda. La soluzione risponde al generale principio di responsabilità.
Tuttavia, nella sentenza 18.11.1982, n. 196, la Corte precisava che «come emerge in particolare dall’art. 92, co. 2, c.p.c., l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile»; la compensazione «come è consentita al giudice quando nelle singole fattispecie ravvisi l’esistenza dei giusti motivi indicati nel citato art. 92, ugualmente può essere preveduta dalla legge quando ravvisi la presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale».
Il principio è stato ribadito da C. cost., 24.3.1999, n. 117, osservando che «il regolamento delle spese processuali non incide sulla tutela giurisdizionale del diritto di chi agisce o si difende in giudizio, non potendosi affatto sostenere che la possibilità di conseguire la ripetizione delle spese processuali (ovvero, dei diritti e degli onorari di avvocato) consenta alla parte di meglio difendere la sua posizione e di apprestare meglio le sue difese».
nella trama costituzionale vi è, in definitiva, da sempre spazio per deroghe, legislative o ope iudicis, al principio della soccombenza.
Con la pronuncia n. 77/2018, la Corte, dopo aver riassunto l’accelerato riformismo che ha investito l’art. 92 c.p.c. a partire dal 2005, e averne sottolineato le ragioni anche deflattive, ha evidenziato che le contrapposte esigenze avevano raggiunto un ragionevole equilibrio con la riforma del 2009, che aveva limitato alle «gravi ed eccezionali ragioni» la facoltà del giudice di compensare le spese di lite.
Per contro, la scelta del 2014 di rendere tassative le ipotesi di compensazione è stata ritenuta in contrasto con i principi di uguaglianza e ragionevolezza sanciti dalla Carta costituzionale.
Tra le ipotesi di compensazione individuate dal d.l. n. 132/2014 vi è il mutamento di giurisprudenza, soluzione in sintonia con l’accresciuta sensibilità della giurisprudenza per gli effetti che scelte di overruling di interpretazioni consolidate possono produrre sulla posizione processuale delle parti (Cass., S.U., 11.7.2011, n. 15144); tuttavia, sottolinea la Corte, nella pratica possono verificarsi casi analoghi di mutamento dei termini della controversia in corso di giudizio non imputabili alle parti, basti pensare alle norme di interpretazione autentica, allo ius superveniens, alle pronunce della Corte costituzionale o di una Corte europea. Ulteriore fisiologica incertezza dell’esito del giudizio si verifica ogni volta che la parte attrice non dispone a pieno e direttamente degli elementi necessari a provare le proprie ragioni (cd. giudizi a controprova).
Le sopraelencate fattispecie, risultando sostanzialmente comparabili a quelle tassativamente individuate dal legislatore, a parere della Corte, rendono la rigidità della riforma del 2014 contrastante con il canone del giusto processo e il diritto alla tutela giurisdizionale «perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti».
La Corte ha così riportato l’art. 92 c.p.c. alla sua originaria formulazione di clausola aperta e quindi di strumento di equità del caso concreto.
Il giudice delle leggi non ha invece condiviso parte dei dubbi esposti dai giudici rimettenti, là dove avevano ritenuto che si potessero individuare a priori «soggetti deboli», da privilegiare nella liquidazione delle spese di lite. I giudici a quo avevano invocato la giurisprudenza costituzionale che aveva avallato scelte legislative di favore per parti ritenute a priori deboli nel processo; si erano così ritenute coerenti con il sistema costituzionale norme settoriali in ambiti caratterizzati da disparità sostanziale tra le parti (quali i giudizi promossi dal lavoratore per ottenere prestazioni previdenziali, art. 57 l. 30.4.1969, n. 153), che stabilivano l’esenzione dal pagamento delle spese processuali della parte debole soccombente, con il solo limite della lite manifestamente infondata o temeraria.
Siffatta scelta normativa, si era detto, «lungi dal determinare una disparità di posizione tra le parti realizza, attraverso un meccanismo di neutralizzazione della notoria minor resistenza del lavoratori di fronte al rischio processuale, una situazione di sostanziale parità» (C. cost., 14.2.1973, n. 23).
L’eccezione alla regola generale, attenendo alla materia previdenziale, trovava inoltre «adeguato fondamento nel peculiare oggetto dei giudizi, che sono a rilevante contenuto sociale, e nella circostanza che parti sono gli enti che realizzano fini previdenziali ed assistenziali, quei fini cioè di natura sociale perseguiti dallo Stato e garantiti dalla Costituzione (art. 38 Cost.); … in definitiva ... il costo dei processi viene a gravare sulla generalità dei cittadini (ipotesi di lite in materia assistenziale) o sui lavoratori (ipotesi di lite in materia previdenziale)» (C. cost., 10.4.1987, n. 135).
Nella pronuncia 25.3.1994, n. 134 la C. cost. aveva poi censurato l’intervenuta abrogazione della normativa speciale, oggetto delle precitate pronunce; l’intervento legislativo era avvenuto, secondo la Corte, indiscriminatamente e senza distinzione tra lavoratori abbienti e non abbienti con effetto, in questo caso sì, di violazione del principio di uguaglianza sostanziale, pur a fronte di una formale parità di trattamento delle parti. nuovamente interpellata a contrario circa la presunta illegittimità del ripristinato ed indiscriminato esonero dal principio della soccombenza in favore dei lavoratori ricorrenti in materia previdenziale, la Corte aveva dichiarato la questione manifestamente infondata, affermando di non poter «invadere indebitamente la sfera discrezionale del legislatore in materia» né poter essa stessa individuare i (mancanti) criteri oggettivi di distinzione tra lavoratori abbienti e non abbienti, fermo restando che l’esonero dal principio della soccombenza doveva ritenersi strutturalmente differente dal patrocinio a spese dello Stato e non poteva quindi mutuare da questo criteri operativi di applicazione (C. cost., 12.3.1998, n. 71).
Il legislatore ha infine colmato la lacuna con il d.l. 30.9.2003, n. 269, art. 42, co. 11, che ha modificato l’art. 152 c.p.c. (che disciplina appunto la regolazione delle spese nelle cause previdenziali), nel senso di sottrarre all’applicazione del principio della soccombenza solo i soggetti che attestino di essere titolari, nell’anno precedente la pronuncia, di un reddito pari o inferiore al doppio di quello previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
La giurisprudenza della Corte, in definitiva, ha legittimato la possibilità che la compensazione delle spese di lite sia imposta dalla legge in nome di una parità sostanziale delle parti che superi quella formale.
Siffatta giurisprudenza è stata dunque invocata da uno dei giudici a quo (Trib. Reggio Emilia n. 86/2017) nel giudizio definito con la sentenza n. 77/2018, valorizzando la circostanza che la controversia – attinente la materia lavoristica – comportava il rischio di soccombenza a carico di una parte suscettibile di essere considerata debole. Il giudice rimettente ha sollecitato una pronuncia che consentisse di valorizzare la qualità soggettiva di «lavoratore» ai fini della compensazione delle spese di lite; come detto siffatta impostazione non è stata accolta dalla Corte. La Corte ha invece precisato che la speciale disciplina in materia previdenziale trovava il proprio fondamento non tanto nella qualità soggettiva dei ricorrenti, quanto nell’oggetto del contendere, trattandosi di applicazione al caso concreto dei vincoli di solidarietà sociale di cui le materie assistenziale e previdenziale sono espressione.
Quanto alla possibilità che le controversie lavoristiche scontino un’asimmetria informativa tra le parti rispetto alla conoscenza dei fatti rilevanti per la decisione (si pensi agli aspetti organizzativi aziendali, di cui il lavoratore non ha fisiologicamente precisa contezza) la Corte ha ritenuto sufficiente garanzia la riapertura della casistica delle «gravi ed eccezionali ragioni» che legittimano la compensazione delle spese di lite. La debolezza di una categoria di soggetti non è, per contro, stata ritenuta ex se ed in astratto rilevante, salva sempre l’elasticità del ridisegnato art. 92 c.p.c.
In definitiva, assunto che la compensazione appartiene a quel fisiologico margine di elasticità dell’ordinamento in fase di concreta attuazione che appare utopistico voler sopprimere, se da un lato è corretto imporre al giudice di motivare una scelta discrezionale (l’onere di motivazione è corollario della discrezionalità), diverso è immaginare un elenco astratto e tassativo di casi di compensazione delle spese di lite; tale soluzione, non solo priva la decisione sulle spese dei suoi intrinseci margini di equità, ma, in un ordinamento multilivello, complesso e talvolta mal coordinato come quello attuale, ove non è facile individuare soluzioni univoche, una grossolana applicazione del principio della soccombenza finisce anche per tradire lo stesso principio di causalità cui dichiara di ispirarsi.
La Corte di cassazione, per anni, ha di fatto esonerato il giudice di merito dall’onere di motivare in maniera puntuale la scelta di compensare le spese di lite, salvo il limite di non poterle accollare alla parte interamente vincitrice. La decisione di compensazione è stata ritenuta sostanzialmente non censurabile.
Il potere di compensare le spese di lite è stato ascritto alla discrezionalità del giudice, con la precisazione che i «giusti motivi» di compensazione sfuggono «per loro natura a qualsiasi specificazione o elencazione, sia pure esemplificativa» (Cass., S.U., 29.5.1963, n. 1422). L’insindacabilità della compensazione delle spese è stata più volte ribadita dal giudice di legittimità (Cass., S.U., 29.3.1973, n. 864) e trovava limite nei casi di compensazione giustificata con ragioni palesemente illogiche e tali da inficiare lo stesso procedimento formativo della volontà e quindi da legittimare il ricorso per cassazione (Cass., S.U., 15.11.1994, n. 9597).
A contrario, è inoltre pacifico che, essendo la compensazione una facoltà del giudice in deroga all’ordinario principio della soccombenza, la mancata valutazione di ragioni che giustifichino la compensazione delle spese di lite non può essere censurata in sede di legittimità quale vizio di motivazione della sentenza (Cass., S.U., 15.7.2005, n. 14989).
Con la pronuncia 5.5.1999, n. 4455 la Corte di cassazione, dando atto dell’emergere di orientamenti difformi rispetto a quello tradizionalmente prevalente, ha ribadito che il diritto vivente non poteva ritenersi contrastante con gli artt. 111 e 24 Cost., pur temperando alcune affermazioni; infatti, tanto rispetto all’obbligo di motivazione che rispetto al diritto
di difesa, «il fondamento della non doverosità, per il giudice, della ‘motivazione specifica’ della decisione di compensazione delle spese processuali non sta affatto nel carattere discrezionale dell’esercizio del potere relativo attribuitogli dalla legge, bensì nella natura stessa della pronuncia sulle spese, ‘conseguenziale ed accessoria’ ... sicché ... essa non necessita di una ‘specifica’ motivazione, nel senso che le ragioni della condanna alle spese o della loro compensazione, se non debbono (bensì possono) essere specificamente esplicitate, devono, però, quantomeno, risultare dalla motivazione complessiva del provvedimento giurisdizionale (intesa nel senso precisato dal combinato disposto degli artt. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. e 118, co. 1 e 2, disp. att. c.p.c.), cui la pronuncia stessa accede».
Il legislatore del 2005, imponendo l’obbligo di esplicita motivazione in punto spese, ha quindi inteso reagire ad un consolidato orientamento giurisprudenziale.
Dopo la riforma del 2005, con due importanti pronunce del 2008 (Cass., S.U., 30.7.2008, nn. 20598 e 20599), il giudice di legittimità, per quanto concerneva il periodo anteriore alla novella, ha adottato una soluzione di compromesso, in sostanziale continuità con gli argomenti espressi nella pronuncia Cass. n. 4455/1999. In particolare si è ribadito che la compensazione per «giusti motivi» non necessitava di esplicita motivazione, purché le ragioni giustificatrici della soluzione adottata fossero inequivocabilmente desumibili dal complesso della motivazione; dalle argomentazioni della decisione avrebbe quindi dovuto evincersi, ad esempio, che la materia era stata interessata da oscillazioni giurisprudenziali, che i fatti erano di difficile accertamento, che vi era sproporzione tra i costi processuali e l’interesse concreto della parte vittoriosa o che vi era stata una condotta di parte restia a soluzioni transattive plausibili. Siffatta impostazione restava invece bandita per le controversie successive alla l. n. 263/2005, in esito alla quale la motivazione della compensazione, dovendo essere esplicita, non poteva più essere desunta per relationem dal contesto della pronuncia (ex pluribus Cass., 30.5.2008, n. 14563, che ha ritenuto «criptica» la compensazione disposta per la «peculiarità della fattispecie» e Cass., 20.10.2010, n. 21521, che ha sanzionato la compensazione disposta «per motivi di equità»).
Il testo normativo è stato ulteriormente irrigidito dal legislatore del 2009, sostituendo i «gravi motivi» di compensazione con le «gravi ed eccezionali ragioni», soluzione interpretata dalla giurisprudenza come volta a circoscrivere ulteriormente in termini di serietà le ragioni di compensazione e ad inibire motivazioni di carattere tautologico. Si legge ad esempio che «le gravi ed eccezionali ragioni da indicarsi esplicitamente nella motivazione, che legittimano la compensazione totale o parziale, devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa, non potendosi ritenere sufficiente il mero riferimento a ragioni di giustizia o al diverso esito del giudizio di primo grado» (Cass., 13.7.2015, n. 14546), né possono essere espresse con formula generica inidonea a consentirne il controllo (Cass., 14.7.2016, n. 14411).
Inoltre il «valore esiguo della causa» non integra giusto motivo di compensazione poiché «si traduce ‒ in specie ove l’importo delle spese sia tale da superare quello del pregiudizio economico che la parte abbia inteso evitare agendo in giudizio facendo valere il proprio diritto ‒ in una sostanziale soccombenza di fatto della parte vittoriosa con lesione del diritto di agire in giudizio e di difendersi ex art. 24 Cost., con conseguente violazione di legge per l’illogicità ed erroneità delle motivazioni addotte» (Cass., 10.6.2011, n. 12893; Cass., 1.6.2015, n. 11301).
Infine, in seguito alla riforma del 2014 poi censurata dalla Corte, la giurisprudenza ‒ da subito insofferente al definitivo svuotamento del potere di compensazione ‒ ha, nei limiti del possibile, dilatato il concetto di soccombenza reciproca, cercando così di riappropriarsi di margini di discrezionalità.
Secondo Cass., 22.2.2016, n. 3438 si ha soccombenza reciproca «sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, se articolata in più capi con l’accoglimento di uno o alcuni e il rigetto degli altri, sia se la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo» (idem Cass., 30.6.2017, n. 16270, secondo cui «anche il parziale accoglimento dell’appello, il quale a sua volta abbia determinato un accoglimento quantitativamente ridotto della domanda, legittima la pronuncia di compensazione»).
L’affermazione si contrappone al principio in precedenza affermato, secondo cui, in caso di accoglimento solo parziale della domanda, il giudice doveva considerare il contenuto del decisum e non quanto originariamente richiesto al fine di ridimensionare le pretese dell’attore in termini di quantum della liquidazione delle spese di lite e non al fine di dichiararle compensate (Cass., S.U., 11.9.2007, n. 19014).
Il giudice di legittimità ha giustificato il proprio mutato orientamento proprio alla luce del d.l. n. 132/2014, affermando che si rendeva necessaria una più accurata valutazione della reciproca soccombenza per evitare che l’esito del giudizio contrastasse, nella sostanza, con il principio di causalità e con quello di equità. Peraltro, in termini ancor più ampi, già secondo Cass., 22.9.2000, n. 12541, «quando l’attore ottiene l’accoglimento della domanda e il bene della vita richiesto sulla base di una delle argomentazioni svolte, dopo, però, che il giudice ne ha rigettate altre, non si versa in un’ipotesi di soccombenza in senso tecnico, ma lo svolgimento dell’attività processuale conseguente alle argomentazioni disattese è causalmente attribuibile a chi ha proposto la domanda, determinandosi così una situazione che non rende illegittima la compensazione delle spese con riferimento alla ‘soccombenza reciproca’». In sostanza la giurisprudenza ha reagito alla tassatività delle cause di compensazione trovando spazio per ampliare i margini di valutazione della reciproca soccombenza.
nel solco di queste argomentazioni, a simili conclusioni si può agevolmente pervenire per i giudizi articolati su specifici motivi di censura, dei quali solo una parte risulti fondata, pur a fronte di un esito complessivamente favorevole all’attore, o per il caso della prospettazione di questioni preliminari infondate, nonostante il favorevole esito nel merito. La giurisprudenza, a prescindere dalla pronuncia della Corte, ha così recuperato un margine di valutazione sulla definizione delle spese di lite, pur assecondando il fine deflattivo voluto dal legislatore: l’attore che, pur avendo delle buone ragioni, ne espone di infondate o avanza pretese eccessive, così obbligando controparti e giudici a svolgere attività inutile per ricondurre le domande alla loro effettiva portata, rischia di essere lato sensu sanzionato.
dopo l’intervento della Corte costituzionale è tornata di attualità l’intera casistica precedentemente elaborata in giurisprudenza quale «giusto motivo» di compensazione, fermo che restano bandite formule generiche e che i motivi di compensazione debbono essere «gravi ed eccezionali».
In particolare, sono valide ragioni di compensazione delle spese di lite, tuttora spendibili, oltre che la complessità e novità delle questioni (che permane tale sino alla formazione di uno stabile orientamento di legittimità, Cass., 20.1.2003, n. 770), le oscillazioni giurisprudenziali e le difficoltà di accertamento in fatto che rendono difficilmente valutabili a priori le rispettive ragioni delle parti (Cass., S.U., 30.7.2008, n. 20599), il concorso della parte totalmente vincitrice e di quella soccombente in un accordo contra legem o oggettivamente equivoco, tale da ingenerare fisiologicamente dubbi interpretativi (Cass., 28.11.2003, n. 18238), l’affidamento incolpevole della parte soccombente su dati risultanti da pubblico registro (Cass., 21.1.2013, n. 1371). Costituisce poi valida ragione di compensazione la sopravvenienza, rispetto all’instaurazione del giudizio, di modifiche normative e pronunce della Corte costituzionale o della Corte di giustizia (Cass., 29.11.2016, n. 24234).
In definitiva, con la sentenza n. 77/2018, il giudice delle leggi ha avallato il fil rouge seguito dalla giurisprudenza, secondo cui l’istituto della compensazione delle spese non si presta, per sua natura, ad alcuna elencazione tassativa (in tal senso già Cass., 6.12.2003, n. 18705 e Cass., 22.4.2000, n. 5305). È così caduto il maldestro tentativo del legislatore di tipizzare la casistica della compensazione, soluzione che poco si armonizzava con la natura propria dell’istituto, non strutturalmente né unicamente deflattiva (tale essendo invece, ad esempio, la condanna per lite temeraria), in quanto storicamente volta al diverso fine di adattare il giudizio al caso concreto secondo la funzione propria della giurisdizione.
Anche in esito alla pronuncia della Corte permane invece l’onere di puntuale motivazione; si legge infatti nella pronuncia n. 77/2018 che «l’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite discende dalla generale prescrizione dell’art. 111, co. 6, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati». I primi sforzi di ricondurre a ragionevolezza il dettato normativo hanno, infine, fatto emergere, nella giurisprudenza recente, una più sensibile valutazione delle «reciproca soccombenza», frutto della consapevolezza, individuata anche dalla Corte costituzionale quale uno dei fondamenti del nuovo corso riformatore, «che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso ... debbano essere messe in opera».
Il nostro ordinamento conosce più sistemi processuali, ciascuno dei quali contempla una propria disciplina della compensazione delle spese di lite.
In particolare:
• l’art. 541 c.p.p., che regolamenta le spese dell’azione civile esercitata nel processo penale, recita: «con la sentenza che accoglie la domanda di restituzione o di risarcimento del danno, il giudice condanna l’imputato e il responsabile civile in solido al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, salvo che ritenga di disporne, per giusti motivi, la compensazione totale o parziale»;
• l’art. 444, co. 2, c.p.p., che impone la regolazione delle spese di lite nei confronti della parte civile anche in caso di patteggiamento, prevede che «se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda; l’imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale»;
• l’art. 15 del d.lgs. 31.12.1992, n. 546, nell’ambito del processo tributario, prevede oggi che «la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza. Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate»; l’attuale formulazione è frutto delle modifiche introdotte dal d.lgs. 24.9.2015, n. 156, che ha soppresso l’originario rinvio all’art. 92 c.p.c., e inserito una previsione che evoca la riforma del c.p.c. del 2009;
• l’art. 26 c.p.a., recita: «quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2»;
• l’art. 31 del d.lgs. 26.8.2016, n. 174, codice di giustizia contabile, recita al co. 3: «il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, quando vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, ovvero quando definisce il giudizio decidendo soltanto questioni pregiudiziali o preliminari» e precisa, al co. 6, che «per quanto non espressamente disciplinato dai commi da 1 a 5, il giudice nel regolare le spese applica gli articoli 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile».
Da una disamina dei diversi modelli processuali presenti nel nostro ordinamento emerge in ogni caso che l’asse portante della disciplina resta, anche attraverso il sistema dei rinvii, il c.p.c., e, per quanto qui di interesse, l’art. 92 c.p.c.
Permangono specifici disallineamenti che sono in astratto legittimi, posto che è pacifico, nella giurisprudenza costituzionale, che il legislatore gode di ampia discrezionalità nel disegnare i sistemi processuali per rispondere a specifiche esigenze di settore, con il solo limite dell’irragionevolezza.
A mero titolo esemplificativo si ricorda che l’art. 489 c.p.p., approvato con il R.d. 19.10.1930, n. 1399, non prevedeva, a differenza del coevo c.p.c. e del vigente c.p.p., la possibilità di compensare le spese di lite in favore dell’imputato condannato a risarcire i danni alla parte civile. nella sentenza C. cost., 12.7.1985, n. 222 la differente disciplina è stata tuttavia ritenuta legittima, in quanto rispondente ad un orientamento di favore per la parte civile e volta a «non frapporre remore alla costituzione del danneggiato anche in vista dell’apporto che la sua partecipazione può dare alla dialettica del processo e quindi all’accertamento della responsabilità penale».
Per la strutturale differenza, anche ai fini della regolazione delle spese, tra processo civile e processo penale, più recentemente, C. cost., 23.10.2012, n. 270.
Il processo tributario, a sua volta, era originariamente regolato in materia con rinvio al c.p.c.; nel 2015 il d.lgs. n. 546/1992 è stato modificato, inserendo la formula delle «gravi ed eccezionali ragioni di compensazione», ossia quella prevista anche nel c.p.c. dopo la l. n. 69/2009; la soluzione non era tuttavia volta ad armonizzare il processo tributario e quello civile, posto che, nel 2015, il processo civile era già governato dalla tassatività della cause di compensazione delle spese introdotta nel 2014. Il legislatore tributario aveva dunque inteso discostarsi dalle scelte operate nell’ambito del processo civile e, ex post, ha trovato conforto nella sentenza della Corte n. 77/2018, che ha indicato proprio la riforma del processo tributario del 2015 quale possibile modello di riconduzione a legittimità del censurato art. 92 c.p.c.
Per quanto concerne il processo amministrativo si è scelto il rinvio al c.p.c., con l’ulteriore precisazione che, ai fini della compensazione, il giudice può valutare il rispetto del principio di sinteticità degli atti. Tale ultima previsione, specifica del processo amministrativo, è allineata con i principi affermati dalla Corte nella sentenza n. 77/2018, la quale ha indicato la salvaguardia della limitata risorsa di giustizia quale una delle legittime ragioni della disciplina dei limiti di compensazione delle spese processuali; la soluzione è quindi coerente con i valori costituzionali e può rappresentare una ipotesi suscettibile di “circolazione” nell’ambito degli altri sistemi processuali governati da una regola aperta della compensazione.
In termini critici si può invece osservare che la giurisprudenza amministrativa pare in buona parte rimasta insensibile alle modifiche che hanno nel tempo interessato l’art. 92 c.p.c., pur sempre oggetto di un rinvio che appare dinamico e non statico.
Ancora secondo Cons. St., 17.10.2017, n. 4795 «la giurisprudenza amministrativa, ha avuto modo di affermare che la statuizione del primo giudice sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisce espressione di un ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l’ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate»; nello stesso senso Cons. St., 21.11.2017, n. 5364 secondo cui «in sede di regolazione delle spese, il G.A. gode di una amplissima discrezionalità, da esercitarsi nella considerazione, oltre che del criterio della soccombenza, degli ulteriori elementi indicati dagli artt. 91 ss. c.p.c. richiamati dall’art. 26, co. 1 c.p.a.; ne consegue che il giudice dell’impugnazione può intervenire su tale determinazione esclusivamente per il caso di evidente abnormità».
Dopo la pronuncia della Corte, che, nel sancire la natura aperta delle ipotesi di compensazione ha tuttavia esplicitato che l’obbligo di motivazione sul punto discende direttamente dall’art. 111 Cost. (cui non si sottrae il processo amministrativo, artt. 2 e 3 c.p.a.), la giurisprudenza amministrativa dovrebbe meglio allinearsi al principio enunciato dal giudice delle leggi; tanto più che, in un sistema processuale articolato per motivi di ricorso, una puntuale analisi della reciproca soccombenza secondo la ricordata più recente giurisprudenza di legittimità consente ampi margini di giustificazione esplicita della compensazione.
Da ultimo il codice del processo contabile, entrato in vigore quando l’art. 92 c.p.c. elencava le ipotesi di compensazione, si è adeguato all’ormai censurata tassatività; se si escludono infatti i casi di assoluzione dalla responsabilità amministrativa, che sono regolati specificatamente dal co. 2, dell’art. 31 del d.lgs. n. 174/2016 e rispondono ad una logica del tutto peculiare del processo contabile, il menzionato co. 3 disegna una disciplina parallela a quella all’epoca dettata dal c.p.c. ed imperniata su un elenco tassativo di casi di compensazione integrato con l’ipotesi delle pronunce in rito.
La norma risulta oggi in verosimile contrasto con la pronuncia n. 77/2018 del la Corte costituzionale. Quanto alla possibilità di compensare le spese di lite nelle pronunce in rito trattasi, anche i n tal caso, di fattispecie evocabile dal giudice anche nei giudizi governati da una disciplina “aperta” della compensazione delle spese di lite; la previsione è sintomatica di una presa d’atto, da parte del legislatore, della complessità dell’ordinamento che rende giustificabili errori processuali relativi a condizioni preliminari dell’azione quali la giurisdizione e la competenza.
1 Cordopatri, F., Spese giudiziali (dir. proc. civ.), in Enc. Dir., XLIII, Milano, 1990, 331 ss.
2 Mortara, L., Commentario al codice di procedura civile, IV, Milano, 1923, 140.
3 Entrambe consultabili in pluris.utetgiuridica.it.