Compensi amministratori di società: novità IRES
L’art. 95, co. 5, d.P.R. 22.12.1986, n. 917 prevede che i compensi corrisposti agli amministratori delle società di capitali e delle altre società ed enti soggetti all’IRES sono deducibili nella determinazione del reddito di impresa. In presenza di compensi che appaiano sproporzionati rispetto alle dimensioni dell’attività, si è posto il problema della possibilità per l’amministrazione di sindacarne la congruità e di negarne, pro-parte, la deducibilità. Tale problematica è stata affrontata dalla Cassazione nelle ordd. n. 3243 e n. 9036 del 2013 che, ribaltando la precedente giurisprudenza della stessa Corte, hanno riconosciuto l'esistenza del detto potere in capo al fisco sulla base di un'interpretazione del principio di inerenza dei costi di impresa in chiave anche quantitativa. Le pronunce sono significative sia perché rappresentano un brusco revirement della giurisprudenza di legittimità sulla questione della valutazione della congruità dei compensi degli amministratori, sia perché si inseriscono nelle più ampie tematiche della sindacabilità dell’inerenza delle componenti negative del reddito d’impresa sotto il profilo anche quantitativo e dell’abuso del diritto in materia tributaria.
Con le ordd. 11.2.2013, n. 3243, e 15.4.2013, n. 9036 − pronunciate in camera di consiglio nella forma (l’ordinanza, appunto) prevista, nella specie, per i casi in cui la Corte di cassazione «riconosce di dovere … rigettare il ricorso principale … per manifesta … infondatezza» (art. 375, co. 1, n. 5, c.p.c.) − la Suprema Corte ha affermato che l’amministrazione finanziaria ha il potere di valutare la congruità dei compensi degli amministratori delle società (nella circostanza, di capitali), senza essere vincolata alle somme o ai valori indicati nelle delibere societarie o nei contratti1, e di negare, conseguentemente, la deducibilità dal reddito di impresa della parte di detti compensi che debba ritenersi sproporzionata rispetto ai ricavi o all’oggetto dell’impresa.
Prima di esaminare le motivazioni poste a fondamento delle ordd. n. 3243 e n. 9036 del 2013, è opportuno procedere a una ricognizione della precedente giurisprudenza della Corte di cassazione.
2.1 Il precedente orientamento della Corte di legittimità
Le ordd. n. 3243 e n. 9036 del 2013 costituiscono, come detto, un secco revirement rispetto al più recente orientamento della Cassazione che, a partire dal 2002, con la sent. 9.5.2002, n. 6599, e nelle successive sentt. 31.10.2005, n. 21155, 20.12.2008, n. 28595 e 10.12.2010, n. 24957, aveva escluso la sussistenza del potere, in capo agli uffici finanziari, di valutare la congruità dei compensi degli amministratori. Tale pronunce avevano, a loro volta, ribaltato il precedente indirizzo della Corte, espresso nelle sentt. 27.9.2000, n. 12813, 3.8.2001, n. 10650 e 30.10.2001, n. 13478, sicché può dirsi che le due ordinanze del 2013 rappresentano un ritorno al passato di quest’ultimo più risalente indirizzo (che esse non mancano, in effetti, di richiamare).
L’interpretazione fatta propria dalla Cassazione a partire dal 2002 poggiava anzitutto sull’argomento che l’art. 62, co. 3, d.P.R. n. 917/1986 (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla riforma del 2003) non prevedeva − così come il vigente art. 95, co. 5, d.P.R. n. 917/1986 − alcun limite massimo di spesa, né alcun parametro cui commisurare lo stesso, oltre il quale i compensi erogati agli amministratori non potessero essere dedotti, con la conseguenza che «nel sistema attuale la spettanza e la deducibilità dei compensi agli amministratori è determinata dal consenso che si forma tra le parti o nell’ambito dell’ente sul punto» (sent. n. 24957/2010). L’inesistenza di un potere valutativo dell’amministrazione in ordine alla congruità dei compensi sarebbe emersa in modo evidente, in particolare, dal raffronto con il previgente art. 59 d.P.R. n. 597/1973, che, come visto, faceva riferimento, con riguardo agli amministratori che fossero anche soci, in funzione antielusiva dell’imposta dovuta dalla società, al limite delle «misure correnti per gli amministratori non soci»: l’eliminazione, nel d.P.R. n. 917/1986, del riferimento a tale limite, avrebbe «tolto all’amministrazione … il potere di ricondurre ai prezzi di mercato previsti per gli amministratori non soci … i compensi sproporzionati»5. Secondo le medesime pronunce, il potere dell’amministrazione di recuperare a tassazione compensi corrisposti agli amministratori in misura ritenuta incongrua ‒ per la parte, evidentemente, considerata eccessiva e, perciò, insuscettibile di deduzione ‒ non poteva trovare fondamento né nella qualificazione del comportamento in termini di elusione fiscale, ai sensi dell’art. 37 bis d.P.R. 29.9.1073, n. 600, o di interposizione fittizia di persona, ai sensi dell’art. 37, co. 3, d.P.R. n. 600/1973, né nel ricorso al principio di inerenza. Sotto il primo aspetto, la Corte affermò, da un lato, che l’art. 37 bis d.P.R. n. 600/19736 si riferisce a ipotesi tassative, tra le quali non è compresa quella in considerazione7; dall’altro, l’impossibilità di configurare un’interposizione di persona anche nel caso in cui compensi asseritamente incongrui siano stati corrisposti a amministratori che siano anche soci della società, atteso che il possessore effettivo del reddito costituito dal compenso è l’amministratore socio e non la società per interposta persona8. Sotto il secondo aspetto, la Suprema Corte affermava che il sindacato del fisco in ordine all’inerenza delle componenti negative del reddito di impresa poteva riguardare solo il profilo della qualità del costo, cioè della sua attinenza alla sfera dell’impresa − certamente sussistente nel caso dei compensi erogati agli amministratori − ma non quello della sua quantità, cioè della congruità, normalità o economicità della sua entità, «perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia di impresa»9. Questa esclusione del potere dell’amministrazione di sindacare il merito delle scelte imprenditoriali assumeva un rilevante significato anche sul piano del sistema.
2.2 Il ritorno alla sindacabilità dell’entità dei compensi
Come anticipato, con le ordd. n. 3243 e n. 9036 del 2013, la Cassazione è tornata al passato e ha riaffermato il potere degli uffici finanziari di sindacare la congruità dei corrispettivi degli amministratori risultanti dalle delibere sociali o dai contratti ed esposti nel bilancio e nella dichiarazione. L’interpretazione della Corte si fonda sull’argomento che il mutato quadro normativo, in particolare la mancanza, nell’art. 95, co. 5, d.P.R. n. 917/1986, dell’indicazione di limiti massimi di spesa oltre i quali i compensi corrisposti agli amministratori non possono essere dedotti, non esclude − contrariamente a quanto ritenuto, a partire dal 2002, nelle precedenti (e tuttavia qui neppure menzionate) pronunce − che possa anche nella specie operare il «principio generale»10 in base al quale l’amministrazione può valutare «la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non risultano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti». Sempre in base ai propri precedenti11, la Corte ha inoltre ribadito che la prova dell’inerenza di un costo all’attività di impresa grava sul contribuente e che, nel caso in cui l’amministrazione, nell’esercizio del menzionato potere di accertamento della congruità del costo, neghi la deducibilità di una parte di esso in quanto «sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa», detto onere probatorio del contribuente ha ad oggetto anche la congruità del costo. Nella sola ord. n. 3243/2013, la Cassazione, a sostegno della soluzione prescelta, ha utilizzato anche un altro argomento, costituito dal richiamo – non ulteriormente approfondito – della propria giurisprudenza sul divieto di abuso del diritto in materia tributaria12, secondo la quale è inopponibile all’amministrazione finanziaria il risultato elusivo ottenuto mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Le due ordinanze trovano, dunque, il proprio principale fondamento nell’affermazione − non compiutamente esplicitata ma che emerge dall’argomentare della Corte − del potere dell’amministrazione di rettificare le componenti negative del reddito societario che risultino «sproporzionate», in applicazione del principio di inerenza inteso, come già era avvenuto nelle pronunce anteriori al primo revirement del 2002, nonché in altri arresti della Suprema Corte anche estranei al tema dei compensi degli amministratori13, in chiave anche quantitativa. Secondo i giudici, infatti, la sproporzione del costo non consente di considerarlo (interamente) funzionale all’attività dell’impresa e, quindi, (interamente) inerente14. Quanto al parametro di riferimento di detta sproporzione, la Corte lo individua nei «ricavi o […] oggetto dell’impresa». Il sindacato di congruità dei compensi è dunque consentito, nella specie, non tanto con riguardo al rapporto di amministrazione, in relazione, cioè, all’attività richiesta all’amministratore e da questi effettivamente prestata, quanto, piuttosto, in relazione all’attività dell’impresa nel suo complesso e, in particolare, alla sua dimensione15. Il richiamo, in conclusione della prima delle due ordinanze, alla giurisprudenza della stessa Corte di cassazione in tema di abuso del diritto mostra, infine, come la Corte ritenga che sussista un nesso tra inerenza ed elusione fiscale (come condotta abusiva).
Le due pronunce, ancorché del tutto innovative rispetto ai precedenti, non hanno dato alcun conto, in motivazione, di questi ultimi, e sono state adottate con una forma e un procedimento che, per essere previsti in relazione ai casi di fondatezza o infondatezza manifesta del ricorso, poco si addicevano a un vero e proprio revirement. Ciò potrebbe fare dubitare che esse possano costituire il definitivo approdo della giurisprudenza della Cassazione in materia.
La riconosciuta sindacabilità della misura dei compensi degli amministratori lascia aperte, poi, alcune problematiche sul piano applicativo. Anzitutto, sembra necessario che il controllo dell’inerenza quantitativa dei compensi degli amministratori sia condotto – in primis, dall’amministrazione finanziaria – nella prospettiva che dovrebbe essere quella propria di un giudizio di inerenza, e che esso sia perciò diretto non a contestare il merito delle scelte imprenditoriali ma a individuare quei compensi che, per la loro palese sproporzione con le dimensioni dell’attività esercitata, disvelano una natura non di atti produttivi di reddito ma di erogazione di quest’ultimo. In secondo luogo, l’indagine sulla congruità di un costo è, in tutta evidenza, meno agevole di quella – attinente all’inerenza nella sua dimensione qualitativa – tesa a fare emergere l’assoluta estraneità di una componente negativa alla sfera dell’impresa. La verifica dell’inerenza quantitativa pone infatti il problema di distinguere la parte di costo deducibile da quella non deducibile e, quindi, di individuare quale sia la misura di un compenso «proporzionato» alle dimensioni dell’attività svolta; ciò che, evidentemente, implica margini di arbitrarietà piuttosto accentuati16. Quanto, poi, al richiamo operato da una delle due ordinanze al generale principio antielusivo in cui si traduce, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto, va osservato che, nel caso dei compensi degli amministratori, fenomeni elusivi sembrerebbero difficilmente ipotizzabili o, comunque, nell’eventualità, di entità ridotta. Si è detto infatti all’inizio che detti compensi sono tassati in capo agli amministratori che li hanno percepiti come redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, sicché, nella gran parte dei casi, l’erogazione all’amministratore di compensi sproporzionati (che potrebbe celare, nel caso di amministratore socio, una distribuzione di utili occulti) non comporta, complessivamente, il conseguimento di vantaggi fiscali, salvi i casi in cui il reddito dell’amministratore sia soggetto a un’aliquota inferiore a quella applicabile al reddito della società. Le due ordinanze non affrontano, infine, il problema derivante dalla possibilità che la negazione della deducibilità, in capo alla società, di compensi corrisposti all’amministratore e la sottoposizione a tassazione degli stessi in capo a quest’ultimo determini una doppia imposizione sul medesimo presupposto.
1 Sul piano civilistico, una disciplina dei compensi degli amministratori è espressamente prevista, per le sole società per azioni, dagli artt. 2364, co. 1, n. 3), e 2389 c.c.
2 Aggiunta dall’art. 34, co. 1, lett. b), l. 21.11.2000, n. 342.
3 Attuata con il d.lgs. 12.12.2003, n. 344.
4 Può essere ormai ricordata come un incidente di percorso l’ordinanza della Corte di cassazione, 13.8.2010, n. 18702, che escluse la deducibilità dei compensi degli amministratori delle società di capitali in base all’argomento che l’art. 62, co. 3, d.P.R. n. 917/1986 (nel testo anteriore alla riforma del 2003) limitava la deducibilità ai compensi degli amministratori delle sole società di persone, adducendo anche, a sostegno di detta esclusione, l’affermazione secondo cui la posizione dell’amministratore di società di capitali «è … equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore» (il cui compenso non era ammesso in deduzione a norma del co. 2 dello stesso art. 62). Tale ricostruzione è stata, infatti, prontamente smentita dalla stessa Corte di cassazione che, con la sent. 10.12.2010, n. 24957, ribadì che l’art. 62 d.P.R. n. 917/1986 era applicabile anche alle società di capitali in forza del rinvio operato dall’art. 95, co. 1, dello stesso d.P.R. Anche l’equiparazione del compenso dell’amministratore a quello dell’imprenditore individuale è, in realtà, improponibile, perché il compenso per il lavoro prestato percepito dal secondo non costituisce un costo ma coincide, piuttosto, con il profitto derivante dall’esercizio dell’impresa (in tale senso, Cass. 17.7.2000, n. 9417).
5 Sent. 9.5.2002, n. 6599 e sent. n. 24957/2010. La sent. n. 6599/2002 critica, peraltro, l’eliminazione di detto limite che giudica effettuata «verosimilmente in maniera immotivata e senza che ve ne fossero ragioni convincenti e condivisibili».
6 Aggiunto dall’art. 7, comma 1, d. lgs. 8 ottobre 1997, n. 358.
7 Sentt. n. 6599/2002 e n. 24957/2010. Quest’ultima sentenza, peraltro, lascia aperta l’eventualità, nel caso di compensi «che appaiano insoliti o sproporzionati», del ricorso, in funzione antielusiva, agli istituti civilistici della simulazione e del negozio in frode alla legge.
8 Sent. n. 6599/2002.
9 Sentt. n. 6599/2002 e n. 24957/2010.
10 È citata, al riguardo, la sent. 11.4.2008, n. 9497, relativa a costi di operazioni di raffinazione del greggio commissionate dalla società contribuente ad altra società da essa interamente controllata e oggetto di rideterminazione da parte del fisco.
11 Sono citate le sentenze 25.2.2010, n. 4554 e 30.12.2010, n. 26480.
12 Vengono richiamate, specificamente, le sentt. 23.12.2008, n. 30055 (resa a sezioni unite) e 20.7.2012, n. 12622.
13 Possono essere citate, in proposito, le sentt. 25.9.2006, n. 20748 e 30.7.2002, n. 11240.
14 Si potrebbe osservare che la sproporzione tra il costo e la dimensione dell’attività svolta evidenzia una finalità della spesa riconducibile non tanto all’interesse dell’impresa quanto alla sfera personale dell’imprenditore, dei soci o di terzi.
15 Diversamente dall’ipotesi di costi completamente estranei alla sfera dell’impresa, non sembra infatti che un’indagine sulla congruità di un costo possa fondarsi sulla sola considerazione dell’oggetto dell’impresa, senza considerare canoni espressivi della sua dimensione (che la Corte ha individuato, specificamente, nei ricavi).
16 Richiedendo una non facile indagine in ordine ai compensi riconosciuti agli amministratori di società similari sotto i profili del settore economico e della dimensione.