Abstract
Il sistema delle competenze dell’Unione è fondato sul principio di attribuzione (art. 5, par. 1, TUE, art. 4, par. 1, TUE). Questo principio regola sia il riparto verticale delle competenze tra Stati membri ed Unione sia il rapporto orizzontale tra le istituzioni (art. 13, par. 2, TUE). La portata del principio è tuttavia ammorbidito grazie a istituti elaborati dalla giurisprudenza (interpretazione evolutiva e dottrina dei poteri impliciti) o previsti dal Trattato (clausola di flessibilità: art. 352 TFUE). Per quanto riguarda i tipi di competenze, i Trattati prevedono tre diverse categorie: competenze esclusive dell’Unione europea, competenze concorrenti ed azioni di sostegno, coordinamento e completamento (art. 2 TFUE). L’esercizio delle competenze è governato dai principi di proporzionalità e di sussidiarietà, il cui controllo a livello politico coinvolge anche i parlamenti nazionali (Protocollo n. 2).
Ai sensi dell’art. 5, par. 1 del Trattato sull’Unione europea (TUE), il sistema delle competenze dell’Unione è imperniato sul principio di attribuzione. Come puntualizzato al par. 2 del medesimo articolo, tale principio limita l’azione dell’UE entro i confini fissati dai Trattati, che predeterminano sia i settori di intervento delle istituzioni europee sia gli obiettivi ai quali esse devono tendere. L’UE, pertanto, non gode di competenza generale, bensì è legittimata ad intervenire solo se e nella misura in cui gli Stati membri, mediante specifiche disposizioni dei Trattati, abbiano inteso conferirle una determinata competenza. In questa ottica, il principio di attribuzione assume un’importanza decisiva nel rapporto fra Stati membri ed Unione europea, poiché ad ogni conferimento di competenza corrisponde una speculare cessione di sovranità nazionale.
Da questa impostazione deriva il carattere residuale delle attribuzioni europee, chiaramente espresso dall’art. 4, par. 1, TUE: da un lato, l’Unione è chiamata ad agire nel rispetto dei confini dettati dal diritto primario; dall’altro lato, si presume che ogni competenza ad essa non espressamente attribuita permanga nella sfera di intervento statale.
Il Trattato di Lisbona ha segnato un momento di profonda riflessione sulla portata del principio in esame e sull’esigenza di definirne con maggiore puntualità le implicazioni in merito al riparto di competenze fra Stati membri ed Unione. In tale prospettiva, la riforma dei Trattati del 2009 ha condotto ad una revisione della modalità con la quale sono identificati i settori di intervento delle istituzioni europee. Nel regime previgente, non privo di elementi di incertezza, essi risultavano dalla lettura combinata degli obiettivi generali dell’Unione e delle disposizioni relative alle singole politiche europee. Secondo l’attuale impostazione, invece, i Trattati propongono un’elencazione delle competenze conferite all’UE. Detta enumerazione ha il merito di orientare l’operato dell’Unione, sebbene persista, in tutta evidenza, la necessità di delimitare specificamente ciascun settore alla stregua della puntuale disciplina materiale di cui alla parte III del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
In definitiva, il principio di attribuzione funge da criterio regolatore del riparto verticale di competenze tra Stati membri ed Unione nelle molteplici sfere di intervento previste dai Trattati ed alla luce degli obiettivi che questi prospettano. Lo stesso principio si riflette nel rapporto orizzontale tra le istituzioni, come sancisce l’art. 13, par. 2, TUE. Esso va coniugato con la necessità di assicurare la coerenza complessiva del sistema delle competenze, potenzialmente posta a rischio dalla parcellizzazione delle politiche UE e delle loro rispettive finalità. Siffatta esigenza è manifestamente espressa all’art. 7 TFUE, a norma del quale l’Unione garantisce, appunto, «la coerenza tra le sue varie politiche e azioni, tenendo conto dell’insieme dei suoi obiettivi».
Nel contesto ora brevemente delineato, i Trattati disciplinano tre diverse categorie di competenze. Questa classificazione verte sulla differente portata della cessione di sovranità operata dagli Stati e, di conseguenza, sul diverso grado di incisività dell’intervento delle istituzioni europee sugli ordinamenti nazionali. In particolare, si distingue fra competenze esclusive dell’Unione europea, competenze concorrenti ed azioni di sostegno, coordinamento e completamento. Ciascuna categoria si caratterizza per un regime peculiare. Questa impostazione costituisce un’innovazione introdotta dal Trattato di Lisbona rispetto alla previgente sistematica dei Trattati. In passato, invero, pur sussistendo già quanto meno una summa divisio fra competenze esclusive e competenze concorrenti, non si rilevava alcuna indicazione circa le loro caratteristiche ed il loro contenuto. Occorre dunque analizzare le singole categorie di attribuzioni UE. La categoria delle competenze esclusive raggruppa i settori di intervento in toto attribuiti all’Unione. In questi ambiti, infatti, ai sensi dell’art. 2, par. 1, TFUE, solo l’UE è legittimata a adottare atti giuridicamente vincolanti, mentre tale potestà è esclusa per gli Stati membri. Questi ultimi, in particolare, possono legiferare solo ove espressamente autorizzati, oppure al fine di recepire o eseguire atti dell’Unione.
In ragione della delicatezza di questa classe di competenze per gli Stati membri, il TFUE, all’art. 3, elenca tassativamente i settori che vi rientrano: unione doganale, definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, politica monetaria per gli Stati membri che abbiano adottato l’euro, conservazione delle risorse biologiche del mare e politica commerciale comune. In forza dell’art. 3, par. 2, TFUE, è annoverata altresì la conclusione di accordi internazionali, se prevista da un atto legislativo dell’Unione, se necessaria per l’esercizio di competenze interne dell’UE o se capace di incidere su norme comuni o di modificarne la portata (v. infra, § 4.3).
Le competenze concorrenti rappresentano, quanto meno sotto il profilo quantitativo, il principale corpus di materie nelle quali l’Unione può legiferare. Ciò è reso evidente da due elementi. In primo luogo, questa classe di competenze ha natura residuale: se una materia non è espressamente annoverata fra le attribuzioni esclusive e le azioni di sostegno, coordinamento e completamento, essa rientra nella categoria in esame (art. 4, par. 1, TFUE). In secondo luogo, l’art. 4, par. 2, TFUE enumera una lista di settori di competenza concorrente, peraltro priva di esaustività: mercato interno, politica sociale, coesione economica, sociale e territoriale, agricoltura e pesca, ambiente, protezione dei consumatori, trasporti, reti transeuropee, energia, spazio di libertà, sicurezza e giustizia, problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica.
In tali settori, la dinamica fra intervento dell’Unione e competenze degli Stati membri appare più articolata. In linea di principio, infatti, entrambi hanno la possibilità di legiferare. Onde scongiurare sovrapposizioni normative, il Trattato dispone che l’adozione di un atto da parte del legislatore europeo precluda agli Stati la possibilità di regolamentare la medesima materia. L’esercizio della competenza europea determina dunque una preclusione in capo alle autorità nazionali, cd. preemption, la quale discende dal primato del diritto UE sugli ordinamenti statali. Ne deriva la possibilità di una progressiva espansione delle prerogative delle istituzioni europee, a discapito degli Stati membri, nel formale rispetto del principio di attribuzione.
Allo stesso tempo, detto effetto preclusivo non opera necessariamente in via definitiva: l’art. 2, par. 2, TFUE sancisce infatti il principio di reversibilità delle competenze dell’Unione, di talché il legislatore nazionale riacquista la potestà perduta laddove l’Unione cessi di esercitare una determinata competenza (Dichiarazione n. 18 relativa alla delimitazione delle competenze allegata al Trattato di Lisbona). Occorre inoltre puntualizzare come il Trattato selezioni alcuni settori esenti dal meccanismo della preemption. Innanzitutto, ai sensi dell’art. 2, par.4, TFEU, l’Unione ha competenza per definire e attuare una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune. Ai sensi dell’art. 4, par. 3, TFUE, l’Unione può agire in via parallela per condurre azioni e programmi nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio, senza impedire agli Stati membri l’esercizio delle loro competenze. Analogo approccio si riscontra, ex art. 4, par. 4, TFUE, in relazione alla politica comune in tema di cooperazione allo sviluppo ed aiuto umanitario.
La sistematica delle attribuzioni UE comprende infine le azioni di sostegno, coordinamento e completamento, di cui all’art. 6 TFUE. In questa categoria di competenze, l’operato dell’Unione è funzionalmente circoscritto allo svolgimento di un ruolo sussidiario rispetto all’azione degli Stati membri, che l’UE si propone di coordinare e supportare in vista di obiettivi comuni. Anche in questa circostanza, pertanto, gli Stati non subiscono alcun effetto preclusivo in ordine alla loro potestà normativa. I settori enumerati includono la tutela ed il miglioramento della salute umana, l’industria, la cultura, il turismo, la protezione civile, la cooperazione amministrativa, l’istruzione e la formazione professionale, la gioventù e lo sport. L’art. 5 TFUE attribuisce espressamente al Consiglio il compito di coordinare le politiche economiche nazionali, mentre all’Unione è riconosciuto un ruolo di coordinamento delle politiche occupazionali e delle politiche sociali degli Stati membri.
La centralità del principio di attribuzione impone che ogni iniziativa UE sia puntualmente fondata su una disposizione del Trattato. Gli atti europei devono dunque precisare la base giuridica, ovverosia la norma del Trattato che legittima l’esercizio di tale competenza da parte delle istituzioni sovranazionali. Il radicamento in una disposizione di diritto primario è essenziale, poiché definisce l’estensione e la portata dell’azione dell’Unione, nonché le procedure da seguire allo scopo di adottare l’atto in questione.
La scelta della base giuridica è dunque un’operazione di strategica importanza, che garantisce la legittimità dell’operato dell’Unione al cospetto degli Stati membri. L’indicazione di una norma del Trattato non appropriata può infatti avere conseguenze decisive, determinando una pronuncia di nullità dell’atto. In questa ottica, la Corte di giustizia ha elaborato due criteri valutativi, destinati a garantire una verifica puntuale ed il più possibile oggettiva (C. giust., 26.3.1987, C-45/86, Commissione delle Comunità europee c. Parlamento europeo e Consiglio dell'Unione europea). L’analisi della Corte si sofferma in particolare sulle finalità dell’atto e sul suo contenuto, i quali vanno rapportati criticamente alle possibili basi giuridiche. La connessione tra tali elementi e l’articolo del Trattato prescelto deve risultare dalla motivazione dell’atto, nonché trasparire dal suo articolato.
Di regola, la base giuridica dovrebbe essere unica. Ciò implica l’esigenza di operare un’attenta selezione, poiché nella prassi l’impianto di un atto incide molto spesso su una molteplicità di settori. Ove più disposizioni del Trattato appaiono astrattamente idonee allo scopo, la selezione deve avvenire sulla base del cd. centro di gravità dell’atto, ossia tenendo conto della sua componente principale, preponderante (C. giust, 28.6.1994, C-187/93, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea). Tuttavia, se due basi giuridiche risultano coessenziali e inscindibili, la prassi normativa e la giurisprudenza ammettono il ricorso ad una duplice indicazione, sebbene limitatamente alle ipotesi in cui ciò si riveli necessario. In simili ipotesi, si pone il problema di individuare la procedura decisionale da seguire per l’adozione dell’atto. L’orientamento della Corte di giustizia prospetta al riguardo due soluzioni. Se le procedure previste dagli articoli del Trattato selezionati sono reciprocamente incompatibili, poiché frustrano l’equilibrio istituzionale e la ratio ad esse sottesi, urge comunque optare per una sola base giuridica (C. giust., 11.6.1991, C-300/89, Commissione delle Comunità europee c. Consiglio delle Comunità europee). Se invece le due procedure possono coesistere, occorre prediligere l’iter che valorizzi maggiormente le prerogative parlamentari, oppure elaborare un meccanismo ad hoc, che fonda le peculiarità delle procedure interessate (C. giust., 10.1.2006, C-178/03, Commissione delle Comunità europee c. Parlamento europeo e Consiglio dell'Unione europea).
La definizione dei limiti dell’operato dell’Unione per il tramite del principio di attribuzione e della classificazione dei settori di intervento UE pare offrire un’immagine alquanto rigida del sistema delle competenze. Al di là delle perfezioni teoriche, nondimeno, non è sempre facile stabilire la linea di demarcazione fra competenza europea e ruolo degli Stati membri. La delimitazione teorica deve inoltre misurarsi con la difficoltà di predeterminare nei Trattati in maniera esaustiva, anche pro futuro, i poteri attribuiti alle istituzioni europee. L’evoluzione del processo di integrazione può dunque determinare esigenze operative in origine non previste secondo un approccio prudente. Si presenta dunque l’opportunità di configurare meccanismi di flessibilità e di eventuale espansione delle competenze dell’Unione, in risposta ad una esigenza di dinamismo dell’equilibrio fra Unione e Stati connaturata allo sviluppo dell’ordinamento europeo. Tale flessibilità è assicurata da alcuni istituti, che traggono origine ora dalla prassi, ora dal testo dei Trattati stessi.
Un primo contributo alla modulazione dinamica delle competenze dell’Unione è tradizionalmente pervenuto dalla Corte di giustizia, non di rado protagonista di una lettura evolutiva delle attribuzioni UE. Uno dei criteri principali per l’interpretazione delle norme di diritto primario è teso a garantire il loro effetto utile in rapporto agli obiettivi del processo di integrazione. Detto approccio si è dunque tradotto in un’interpretazione tendenzialmente estensiva delle disposizioni del Trattato, nell’ottica della piena effettività delle politiche dell’Unione.
Così, ad esempio, il Giudice dell’Unione ha ricondotto nell’alveo della politica commerciale comune misure non espressamente previste dalle relative norme primarie, come l’adozione di un sistema di preferenze generalizzate a favore dello sviluppo (art. 133 TCE, ora art. 207 TFUE, C. giust., 11.11.1975, C-1/75). Parimenti, la Corte ha considerato che l’art. 114 TFUE, in tema di misure di armonizzazione nel contesto del mercato interno, legittimi le istituzioni europee ad istituire nuovi organismi dell’Unione, come ad esempio un’agenzia dell’UE. La portata di tale base giuridica, infatti, non deve essere confinata alla sola armonizzazione normativa degli ordinamenti nazionali, in quanto anche la creazione di un organismo comune può costituire uno strumento efficace a tale scopo (C. giust., 2.5.2006, C-217/04, Regno Unito c. Parlamento europeo e Consiglio dell'Unione europea).
Un significativo impulso all’estensione delle competenze dell’Unione è stato assicurato altresì dalla dottrina dei poteri impliciti, anch’essa di elaborazione giurisprudenziale. Secondo questa teoria, la potestà di intervento dell’Unione non è necessariamente circoscritta a ciò che è espressamente puntualizzato nei Trattati. Infatti, le istituzioni europee devono poter beneficiare anche di quei poteri che, sebbene non codificati nel diritto primario, risultino indispensabili per l’esercizio di competenze attribuite. Ciò vale, in particolare, laddove l’intervento dell’Unione sia essenziale allo scopo di garantire l’effettività e la coerenza di una politica dell’Unione.
La dottrina in esame ha conosciuto la sua principale ed emblematica applicazione in relazione alla competenza dell’allora Comunità a adottare accordi internazionali. All’inizio degli anni ’70, infatti, tale potestà era riservata dai Trattati ad un novero ristretto di materie. Nondimeno, la Corte di giustizia ha rilevato un sostanziale parallelismo fra competenze interne ed esterne (C. giust., 31.3.1971, 22/70, Commissione delle comunità europee c. Consiglio delle Comunità europee). Sicché, ogniqualvolta le istituzioni europee godano di un determinato potere sul piano interno, occorre ritenere che l’Unione sia competente ad assumere gli impegni internazionali necessari a perseguire gli obiettivi prefissati dai Trattati per quella politica, finanche in assenza di una espressa dicitura del Trattato al riguardo. In concreto, invero, rileva la Corte, l’efficace regolamentazione di un settore di competenza UE costituisce spesso l’esito «dell’effetto combinato di provvedimenti interni ed esterni». Tale parallelismo, come già ricordato, è stato formalizzato nei Trattati e trova espresso riconoscimento nell’art. 3, par. 2, TFUE.
L’esigenza di attenuare la rigidità del principio di attribuzione trova infine espressione nei Trattati, in forza del disposto dell’art. 352 TFUE, il quale disciplina la cd. clausola di flessibilità. Questo articolo mira ad evitare che la difficoltà di predeterminare in modo esaustivo i poteri dei quali le istituzioni europee necessitino per lo svolgimento dei propri compiti si esaurisca in un ostacolo al conseguimento degli obiettivi posti dai Trattati. Esso infatti consente all’Unione di legiferare anche in assenza di una specifica investitura. La clausola di flessibilità, presente fin dalle origini del sistema dell’Unione, è stata valorizzata a più riprese come strumento per ampliare le sfere di intervento dell’Unione. Proprio su questa base giuridica, ad esempio, hanno trovato ingresso le prime iniziative nel campo del diritto ambientale e della tutela dei consumatori, due aree oggi in ampia misura governate dal diritto UE. A partire dalla riforma di Maastricht, tuttavia, si è inteso circoscrivere la portata di questa clausola, subordinandone l’attivazione ad una serie di rigorose condizioni sostanziali e procedurali, confermate anche nel testo vigente.
Anzitutto, le misure adottate devono risultare necessarie al fine di conseguire gli obiettivi stabiliti dai Trattati. Questo criterio, benché astrattamente stringente, assicura un certo margine discrezionale in capo alle istituzioni europee, imponendo in primis un puntuale dovere di motivazione.
La necessità si misura anche alla luce della possibilità di optare per altre basi giuridiche. Dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali, infatti, la Corte di giustizia ha chiarito che la clausola di flessibilità rappresenta una extrema ratio. Essa non può dunque fondare un’azione delle istituzioni europee se tale iniziativa possa essere ricondotta ad un’attribuzione di competenza consacrata in un’altra previsione dei Trattati. In presenza di alternative di adeguata efficacia, pertanto, verrebbe meno la necessità di ricorrere all’art. 352 TFUE (C. giust., 30.5.1989, 242/87, Commissione delle Comunità europee contro Consiglio delle Comunità europee).
Inoltre, la clausola di flessibilità non conferisce alle istituzioni europee un potere in bianco, idoneo a scardinare i limiti generali delle attribuzioni dell’Unione. Al contrario, la formula inaugurale dell’articolo in esame chiarisce espressamente che questa base giuridica può operare solo «nel quadro delle politiche definite dai Trattati». Come confermato dalla Corte di giustizia, dunque, la clausola in parola non può giustificare un’iniziativa svincolata dal complesso generale delle competenze dell’Unione (C. giust., 28.3.1996, 2/94).
Sotto il profilo istituzionale, si richiede che Commissione, Consiglio e Parlamento europeo condividano la volontà di ricorrere all’art. 352 TFUE. L’uso di questa base giuridica deve infatti essere proposto dalla Commissione e votato all’unanimità dal Consiglio, previa approvazione parlamentare. Si tratta, in sostanza, di una procedura legislativa di approvazione, che assicura un’ampia partecipazione istituzionale e un equilibrio fra i molteplici interessi in gioco.
Infine, la clausola di flessibilità incontra taluni limiti sotto il profilo del campo di applicazione. In primo luogo, essa non può essere utilizzata nel contesto della politica estera e di sicurezza comune (v. altresì la Dichiarazione n. 41 allegata al Trattato di Lisbona); in secondo luogo, l’art. 352 TFUE non può legittimare l’adozione di misure di armonizzazione degli ordinamenti nazionali.
Nel complesso, le condizioni fissate dal Trattato limitano fortemente l’utilizzo della clausola di flessibilità, che viene così a rappresentare una norma di chiusura del sistema.
A fronte della disciplina della ripartizione di attribuzioni fra Unione europea e Stati membri e dei meccanismi che ne determinano la moderata flessibilità, la sistematica delle competenze UE è ulteriormente ispirata a due principi: il principio di proporzionalità ed il principio di sussidiarietà. Essi operano in relazione all’esercizio delle competenze e concorrono dunque a definire il modus operandi dell’Unione, laddove si tratti di valutare se ed in quale misura dare seguito ad una attribuzione ad essa conferita dai Trattati. Congiuntamente intesi, i due principi rappresentano una rilevante garanzia per gli Stati membri, in quanto sono idonei a porre ulteriori limiti all’intervento dell’Unione o, quanto meno, all’incisività dell’azione delle istituzioni europee sugli ordinamenti nazionali.
Ai sensi dell’art. 5, par. 4, TUE, «il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati». Questa definizione tratteggia i caratteri distintivi del principio di proporzionalità, il quale evoca l’esigenza di ponderazione e misura dell’azione dell’Unione. Specifica declinazione di un consolidato principio generale dell’ordinamento europeo, il principio in parola sollecita infatti l’Unione ad evitare ingerenze non necessarie nel diritto degli Stati membri o ingiustificatamente penalizzanti per le competenze delle istituzioni nazionali. Esso opera trasversalmente in rapporto ad ogni categoria di competenza ed ha due principali ripercussioni. Sotto il profilo sostanziale, la proporzionalità argina la modalità di esercizio delle competenze europee. Cionondimeno, lo scrutinio sull’adeguatezza delle scelte effettuate dalle istituzioni dell’Unione in rapporto al canone di proporzionalità è tradizionalmente alquanto limitato. Stante l’esigenza di assicurare l’equilibrio fra poteri, la Corte di giustizia limita le proprie censure ai casi errore manifesto, sviamento di potere o patente travalicamento del margine discrezionale accordato (C. giust., 13.5.1997, C-233/94, Germania c. Parlamento e Consiglio). Dal punto di vista procedurale, invece, il principio in esame orienta la scelta del tipo di atto da adottare. Ciò si riscontra nel dettame dell’art. 296 TFUE, a norma del quale, in assenza di indicazioni nella disciplina primaria, le istituzioni decidono su base casistica la veste formale dell’atto, in ossequio al principio di proporzionalità.
Il principio di sussidiarietà è annoverato fra i principi generali dell’ordinamento UE ed ha trovato la sua prima consacrazione ufficiale nei Trattati in occasione della riforma di Maastricht del 1992. Da allora, l’elaborazione teorica e la prassi applicativa hanno contribuito in maniera significativa all’evoluzione concettuale del principio, che presenta forti connotazioni politiche, prima ancora che giuridiche.
L’istituto in esame opera nei soli settori che non rientrino fra le attribuzioni esclusive dell’Unione. In tali contesti, secondo il disposto dell’art. 5, par. 3 TUE, le istituzioni europee sono legittimate ad intervenire solo se e nella misura in cui gli obiettivi di tale azione non possano essere conseguiti in maniera sufficiente dagli Stati, tanto a livello centrale quanto regionale o locale. Si richiede inoltre che tali finalità possano essere meglio raggiunte grazie al contributo dell’UE, a motivo della portata e degli effetti dell’iniziativa intrapresa.
La complessa formulazione della norma in esame implica, quanto meno, un duplice vaglio di efficacia, diversamente modulato a seconda del coinvolgimento dell’Unione o degli Stati membri. Nel primo caso, occorre dimostrare che l’intervento delle istituzioni europee risponda con evidenza ed in misura migliore agli obiettivi prefissati; di converso, la potestà normativa può essere allocata al livello statale ove l’azione delle autorità nazionali si dimostri all’uopo sufficiente.
Questa impostazione implica un necessario sforzo argomentativo da parte delle istituzioni europee, allorquando intendano motivare l’esercizio di una determinata competenza in relazione al rispetto del principio in esame. Non è dunque sufficiente richiamare l’esistenza di una competenza attribuita, bensì occorre indicare gli elementi che ne giustifichino l’attrazione nell’alveo europeo. Ciò comporta inevitabili ricadute politiche, che non hanno mancato di porre sotto una luce critica la reale possibilità di verificare il compiuto rispetto del principio di sussidiarietà. Ne è conseguita una riflessioni interistituzionale che, anche grazie al contributo degli Stati membri, ha veicolato l’adozione di una regolamentazione ad hoc in materia. Tale complesso di regole e procedure è consacrato nel Protocollo n. 2 sul controllo dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, le cui previsioni, come noto, hanno valore di diritto primario.
La verifica sul rispetto del principio di sussidiarietà si dipana, al contempo, su un piano politico ed a livello giurisdizionale.
Quanto alla dimensione politica, il Protocollo n. 2 investe anzitutto la Commissione europea di una serie di obblighi procedurali che devono accompagnare l’esercizio del potere di iniziativa normativa accordatole dai Trattati, anche per assicurare il rispetto del principio di proporzionalità. In questo contesto, infatti, l’istituzione in questione è chiamata ad effettuare ampie consultazioni con i soggetti potenzialmente interessati da un atto del quale si prospetti l’adozione. Le consultazioni possono coinvolgere organizzazioni della società civile, così come enti pubblici infrastatali (sulle varie forme della consultazione, v. il Pacchetto Better Regulation COM (2015) 615).
Inoltre, la Commissione è tenuta a corredare la propria proposta di una valutazione di impatto, volta a chiarire le principali ricadute future dell’atto sugli ordinamenti nazionali (valutazione ora affidata a un organismo indipendente, il “comitato per il controllo normativo”, istituito con Decisione del Presidente della Commissione, C(2015)3263). A ciò si affianca altresì l’obbligo di enunciare le motivazioni sulla base delle quali si ritiene rispettato il principio di sussidiarietà e di proporzionalità (ribadito anche nell’Accordo interistituzionale Legiferare meglio del 13.4.2016).
Un elemento qualificante del Protocollo si rinviene nel meccanismo di early warning, mediante il quale la Commissione attiva un dialogo diretto con i parlamenti nazionali. Questa procedura di controllo politico ex ante prevede che l’istituzione proponente trasmetta alle assemblee nazionali ogni proposta di atto legislativo dell’Unione. Spetta ai parlamenti, entro il rigoroso termine di otto settimane, formulare un parere sul progetto analizzato, con particolare riguardo per la ritenuta violazione del principio di sussidiarietà. A ciascuna assemblea sono accordati due voti, che nell’ipotesi di sistemi bicamerali vengono suddivisi fra i due rami parlamentari. Se i pareri negativi corrispondono ad almeno un terzo dei voti complessivi (quorum ridotto ad un quarto per le iniziative in tema di spazio di libertà, sicurezza e giustizia), ha luogo la procedura cd. del cartellino giallo. Essa prevede che la Commissione sia tenuta a riesaminare la sua proposta e che possa successivamente decidere se ritirarla, emendarla o lasciarla inalterata. In quest’ultimo caso, la Commissione deve motivare con particolare cura la scelta operata. Il Protocollo prospetta altresì la procedura del cartellino arancione, azionata nell’eventualità in cui i voti negativi superino la metà del totale. Ciò impone alla Commissione di riesaminare il testo proposto e di trasmetterlo al Consiglio ed al Parlamento europeo per un’ulteriore valutazione. Se però il Consiglio, a maggioranza del 55% dei suoi membri, o il Parlamento europeo, a maggioranza semplice, formulino opposizione avverso la proposta, questa dovrà essere abbandonata.
Nella prassi, è stato raggiunto in tre casi il quorum previsto per la procedura del cartellino giallo, mentre l’iter aggravato non ha ancora avuto riscontro operativo. In una prima occasione, la Commissione ha ritirato la sua proposta volta all’adozione di un regolamento in materia di azioni collettive nell’ambito della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Successivamente, invece, la Commissione ha ritenuto di conservare la proposta di regolamento istitutivo della procura europea, alla quale tuttavia non è stato dato seguito (in discussione ora l’avvio di una cooperazione rafforzata). La terza occasione riguarda la proposta di modifica della direttiva distacco nell’ambito della prestazione dei servizi, che la Commissione ha deciso di mantenere e che ora è oggetto di un intenso dibattito nel merito.
Occorre infine evidenziare come il rispetto del principio di sussidiarietà sia parimenti suscettibile di verifica in sede giurisdizionale. Lo strumento elettivo, al riguardo, è rappresentato dal ricorso per annullamento, ex art. 263 TFUE. La violazione del principio in esame è stata in un primo momento inquadrata come vizio di motivazione, afferente dunque alla violazione delle forme sostanziali. Nondimeno, nell’orientamento ormai consolidato della Corte di giustizia, essa è ora considerata una censura autonoma, riconducibile alla violazione dei Trattati (C. giust., 10.12.2002, C-491/01, British American Tobacco (Investments) e Imperial Tobacco). La Corte usualmente affianca alla doppia valutazione di efficacia sopra ricordata anche un giudizio di adeguatezza dell’azione dell’Unione in rapporto all’obiettivo perseguito. Trattandosi di valutazioni spesso complesse e legate a ben precise scelte politiche, lo scrutinio del Giudice dell’Unione si arresta di regola ad una valutazione di massima della ragionevolezza dell’intervento normativo e della motivazione che lo accompagna (C. giust., 12.7.2005, C-154/04 e C-155/04, Alliance for Natural Health e a.).
Sul punto, merita precisare come la riforma di Lisbona abbia incluso fra i ricorrenti semiprivilegiati il Comitato delle regioni, la cui legittimazione attiva –ad oggi rimasta sulla carta – si fonda proprio sulla possibilità di lamentare la violazione del principio di sussidiarietà. Infine, il Protocollo n. 2 dispone che gli Stati membri provvedano a dare seguito alla richiesta dei rispettivi parlamenti di promuovere un ricorso per annullamento per denunciare analogo vizio.
Artt. 4-5 e 13 TUE; artt. 2-7 e 352 TFUE; Protocollo n. 2, Dichiarazione nn. 18 e 41.
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