Competitività dei sistemi fiscali
Con il termine competizione fiscale (o concorrenza fiscale) si indicano comportamenti, sia di azione sia di reazione, posti in atto da pubbliche autorità e volti a ridurre il carico fiscale, con l’obiettivo di attirare attività economiche da fuori o di frenare l’esodo di quelle già localizzate all’interno della loro giurisdizione. La concorrenza fiscale è rivolta ad attrarre le basi imponibili più mobili, tipicamente gli investimenti diretti in capitale produttivo e quelli in capitale finanziario; ma può anche essere rivolta ad attrarre lavoro, in particolare quello più qualificato e ad alta remunerazione.
Si tratta di un fenomeno che ha acquistato crescente importanza dall’inizio degli anni Novanta del 20° secolo. La globalizzazione e la crescente integrazione delle economie hanno costretto le autorità a dedicare maggiore attenzione a tutti quei fattori che influenzano le scelte di localizzazione delle imprese e degli individui. Tra di essi la fiscalità, lungi dall’essere l’uni-co o il più rilevante, esercita tuttavia un’influenza non trascurabile e ampiamente riconosciuta.
La concorrenza fiscale può investire tutte le forme di prelievo, riguardando sia i tributi diretti sia quelli indiretti. Tende però a manifestarsi soprattutto nelle imposte sul reddito, sia quelle sulle società sia quelle sulle persone fisiche, e nei prelievi alla fonte (ritenute, imposte sostitutive) che gravano sui proventi degli strumenti di investimento finanziario.
La competizione fiscale può svolgersi all’interno di uno stesso Paese, tra Stato centrale e amministrazioni locali o tra diverse amministrazioni locali. Oppure, ed è il caso che assume maggiore rilevanza, può coinvolgere Stati sovrani: si ha allora una concorrenza fiscale internazionale, od orizzontale.
La concorrenza fiscale assume una pluralità di forme: il canale più immediato e visibile è dato dal livello delle aliquote, che può spingersi fino all’aliquota zero, ovvero all’esenzione. Ma un ruolo molto importante è svolto anche dalla definizione della base imponibile, che può consentire notevoli risparmi d’imposta e si presta, meglio dell’aliquota, a un uso selettivo, volto ad attirare attività economiche specifiche.
Talvolta i regimi fiscali di favore sono esplicitamente circoscritti ai soli non residenti (ring-fenced) e sono concessi sulla base delle condizioni soggettive degli investitori (nazionalità o residenza estera). I residenti rimangono sottoposti alla tassazione ordinaria: in questo modo le autorità minimizzano la perdita di gettito, che riguarda solo le nuove attività impiantate dagli investitori esteri. Talvolta i regimi concorrenziali del tipo ring-fenced sono anche limitati territorialmente: sono cioè concessi solo alle attività economiche insediate all’interno di alcune aree specifiche (le cosiddette zone franche).
Non sempre i regimi fiscali di favore traggono origine da provvedimenti legislativi: talvolta le autorità esercitano la concorrenza fiscale attraverso provvedimenti amministrativi, prevedendo disposizioni speciali (i cosiddetti ruling) che consentono, caso per caso e su richiesta del contribuente, di concedere trattamenti agevolati particolari. In altri casi la competizione fiscale si svolge sul piano dell’applicazione delle regole (enforcement): procedure, sanzioni, metodi di accertamento, collaborazione amministrativa con le altre autorità fiscali. Per es., la mancanza di collaborazione amministrativa e il diniego di informazioni alle autorità fiscali estere, rafforzati talvolta da norme di legge (o addirittura costituzionali) che sanciscono l’obbligo del segreto bancario per gli intermediari finanziari, possono esercitare una notevole attrazione sugli investitori stranieri, che sono messi così in condizione di sfuggire all’accertamento delle autorità fiscali del Paese in cui risiedono e restano soggetti solo alla tassazione, generalmente molto bassa se non addirittura nulla, del Paese in cui investono.
Ovviamente il livello della tassazione non può essere disgiunto dal resto dell’azione pubblica, in particolare dal livello e dalla qualità dei servizi pubblici offerti. La competizione fiscale è solo un aspetto della più generale competizione tra Stati. È probabile che le giurisdizioni di minori dimensioni siano più inclini a intraprendere strategie di competizione fiscale. La concessione di regimi fiscali di favore risulta poco costosa in termini di gettito: a livello domestico le attività che ne beneficiano sono poco presenti, o mancano del tutto, e attirarle dall’estero può produrre benefici effetti in termini di crescita economica, nonché di gettito fiscale addizionale. Questo tipo di considerazioni sta alla base della nascita dei cosiddetti paradisi fiscali, Stati a regime fiscale agevolato.
Sul piano delle evidenze empiriche, la competizione fiscale internazionale ha agito, in molti casi, come incentivo rivolto ad attrarre gli investimenti produttivi e i flussi di risparmio dall’estero; in altre circostanze, le misure concorrenziali sono state una risposta dei policy makers alle politiche aggressive di altri Paesi, e sono state quindi volte ad arginare il deflusso di capitali interni. A partire dagli anni Novanta, il fenomeno ha interessato particolarmente le aree della tassazione del risparmio e della fiscalità delle imprese. I comportamenti emulativi hanno innescato, in un effetto domino, un allineamento al ribasso (la cosiddetta race to the bottom) del carico fiscale sulle imprese, che ha preso la forma di una discesa generalizzata delle aliquote legali delle imposte sulle società (corporation tax). Nell’Unione Europea (UE), maggiori spinte competitive sono derivate da quei Paesi che ne sono entrati a far parte a metà degli anni Duemila, per effetto delle strategie e delle politiche di riduzione della tassazione societaria, attuate con efficacia non soltanto mediante regimi fiscali preferenziali esplicitamente finalizzati all’attrazione di basi imponibili mobili, ma anche attraverso riduzioni del livello generale di tassazione del capitale.
Nella seconda metà degli anni Novanta, su impulso del G7, l’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) ha lanciato un’iniziativa internazionale volta a contrastare la concorrenza fiscale ‘dannosa’, ovvero quei regimi fiscali privilegiati che mirano a ‘predare’ le basi imponibili mobili residenti in altre giurisdizioni. Negli stessi anni l’UE ha intrapreso un’iniziativa analoga, seppure con finalità, estensione e criteri in parte diversi. Entrambe le iniziative sono volte a rafforzare lo scambio di informazioni tra amministrazioni fiscali e a individuare e contrastare le misure di concorrenza fiscale adottate sia dagli Stati membri sia da Paesi terzi. La crisi finanziaria del 2008 ha impresso un rinnovato impulso alle iniziative internazionali, finalizzate in particolare a contrastare l’afflusso dei capitali verso i paradisi fiscali e, più in generale, verso le giurisdizioni che hanno evidenziato atteggiamenti non collaborativi sul fronte dello scambio di informazioni a fini fiscali.
In parallelo alle iniziative di carattere internazionale, gli Stati appartenenti all’Unione Europea hanno adottato anche misure unilaterali per contrastare la concorrenza fiscale. Le risposte nazionali agli effetti negativi della concorrenza costituiscono, per la loro caratteristica unilateralità, soluzioni meno efficaci e meno efficienti rispetto a quelle fornite dalla cooperazione internazionale.
Il dibattito teorico
La letteratura sulla competizione fiscale muove dall’assunto che la tassazione avvenga alla fonte (source principle), cioè nel luogo dove il reddito è prodotto: in condizioni di piena mobilità tra le diverse giurisdizioni, ciò consente alle unità economiche di ‘scegliere’ il livello di tassazione più favorevole. Assumere invece alla base dell’analisi che la tassazione del capitale avvenga secondo la residenza del percettore (residence principle) porterebbe a conclusioni diverse: in linea generale l’imposizione secondo la residenza, non consentendo al capitale di ‘sfuggire’ alla tassazione attraverso la sua mobilità, farebbe venir meno il fenomeno stesso della competizione fiscale o, quanto meno, ne ridurrebbe in misura rilevante la portata.
Il dibattito teorico sulla competizione fiscale si impernia su due filoni principali. Nell’approccio della public choice la competizione fiscale ha effetti positivi sul benessere complessivo perché, date le imperfezioni del processo politico, mette un freno alle dimensioni troppo ampie che lo Stato tende ad assumere. Invece, nell’approccio cosiddetto tradizionale, che analizza il livello ottimale di tassazione per il finanziamento dei beni pubblici, la competizione fiscale è dannosa per l’efficienza del sistema economico, perché tende a condurre a livelli troppo bassi di tassazione e di fornitura di beni pubblici.
La competizione fiscale ‘welfare-enhancing’
Nella letteratura che si ispira alla tradizione della public choice (Brennan, Buchanan 1980), la competizione fiscale può migliorare il benessere collettivo (cioè può essere welfare-enhancing). Infatti, questa scuola di pensiero abbandona l’ipotesi alla base dei modelli tradizionali, nei quali il governo agisce per massimizzare l’utilità dei suoi residenti: in realtà, i policy makers agirebbero non per il benessere della collettività, ma per ottenerne il consenso. Se la gestione della finanza pubblica è orientata a massimizzare le rendite dei policy makers, la concorrenza fiscale può avere l’effetto indubbiamente positivo di ridimensionare un settore pubblico inefficientemente ampio a causa delle imperfezioni del processo politico. In particolare, nei modelli di Leviatano fiscale di questa tradizione teorica (Edwards, Keen 1996), la concorrenza fiscale comporta una pressione verso il basso delle imposte, giudicata positivamente proprio perché limita una spesa pubblica inefficientemente ampia.
L’argomento addotto è però almeno in parte confutabile: se il processo politico è imperfetto, tale da consentire l’acquisizione di rendite da parte dei policy makers, i tagli alla spesa pubblica tenderebbero a verificarsi in settori in cui i politici hanno meno ‘rendite’ da difendere, piuttosto che in quelle in cui il settore pubblico è meno efficiente. La concorrenza fiscale sarebbe uno strumento molto indiretto e poco appropriato: la risposta migliore sarebbe quella di riformare il processo politico e le istituzioni del settore pubblico, tenendo a freno l’eccessiva influenza esercitata da alcuni gruppi d’interesse.
Implicazioni del modello-base della ‘race to the bottom’
Nella letteratura tradizionale gli ordinamenti fiscali competono, in un contesto di mobilità dei capitali e di tassazione all’origine, per attirare la risorsa scarsa ‘capitale’: il risultato finale consisterebbe in livelli di tassazione subottimali, con una sottoproduzione di beni pubblici (Wilson 1986; Zodrow, Mieszkowski 1986; Wildasin 1988).
I risultati del modello tradizionale di concorrenza fiscale si basano su una lunga lista di ipotesi semplificatrici: l’economia è piccola, tutto il capitale è ugualmente e perfettamente mobile, mentre il lavoro (o la terra) è immobile, non ci sono rendite economiche che possano essere trasferite da una giurisdizione all’altra, le decisioni di investimento sono influenzate soltanto dal costo del capitale, l’ottemperanza alle disposizioni tributarie non è costosa.
In ipotesi semplificate, in base alla teoria dell’ottima tassazione (Gordon 1986; Bucovetsky, Wilson 1991; Razin, Sadka 1991), un’economia aperta di piccole dimensioni non dovrebbe imporre nessuna tassazione alla fonte sul capitale. Infatti, in presenza di perfetta mobilità l’offerta di questo fattore è infinitamente elastica: tassare il capitale ne determina il deflusso verso l’estero, che spinge verso l’alto il suo saggio di rendimento al lordo delle imposte: l’imposta sul capitale è traslata sui fattori produttivi immobili (terra e lavoro). I rendimenti di questi fattori, infatti, si riducono per effetto della minore intensità di capitale. Per evitare queste perdite di produttività è più conveniente per il governo tassare direttamente i fattori immobili, evitando il deflusso dei capitali. In linea generale, anche in questi modelli la competizione fiscale conduce a una sottoproduzione di beni pubblici, perché le imposte sui fattori immobili, per es. sul lavoro, vengono fissate a un livello troppo basso.
Altre analisi avanzano l’ipotesi, più realistica, di asimmetria dimensionale tra le diverse regioni (Wilson 1999). Più un Paese è grande, maggiore sarà l’impatto sul tasso di interesse delle sue decisioni riguardo all’aliquota d’imposta, e minore sarà pertanto l’effetto sui flussi di capitale. Si può così ritenere che i Paesi più grandi saranno probabilmente meno attivi nel processo di concorrenza fiscale e finiranno con l’essere caratterizzati da aliquote d’imposta più elevate rispetto ai Paesi più piccoli.
I modelli della nuova geografia economica
Le tesi a favore della race to the bottom e della ‘aliquota zero’ di tassazione del capitale in un contesto di piena mobilità dei capitali sono state in qualche misura mitigate dalla letteratura a sostegno dell’ipotesi dell’esistenza di ‘rendite di localizzazione’ degli investimenti. Tali rendite derivano, in particolare, dalla disponibilità di risorse naturali, dalle infrastrutture e dall’esistenza di manodopera qualificata in particolari aree o Paesi. Le rendite di localizzazione possono anche derivare dalla concentrazione delle attività produttive, le cosiddette economie di agglomerazione, secondo l’approccio teorico della ‘nuova geografia economica’ (Baldwin, Krugman 2000; Kind, Knarvik, Schjelderup 2000; Baldwin, Forslid, Martin et al. 2003). Questo filone di studi analizza i modelli di localizzazione delle attività produttive tenendo conto dei costi di trasporto e delle altre barriere agli scambi. Le economie di agglomerazione consentono al governo di tassare (almeno in parte) il capitale senza che ciò determini problemi di fughe di capitali.
Il processo di integrazione economica, che comporta la riduzione dei costi di transazione, avrebbe effetti ambigui sulle rendite di localizzazione. Da un lato tenderebbe a ridurle, perché si riduce il vantaggio dello ‘stare vicini’ (minori costi di scambio degli input); dall’altro tenderebbe ad accrescerle, perché si attenuano i costi della competizione (si riduce il vantaggio dello ‘stare distanti’). A seconda di quale dei due effetti prevalga, si potrebbe osservare un’accentuazione della race to the bottom oppure il contrario.
Come nei modelli di competizione fiscale che considerano l’asimmetria dimensionale degli Stati, i modelli del nuovo paradigma prevedono che i diversi Paesi tenderanno a differenziarsi in termini di tassazione del capitale in funzione, in questo caso, della diversa concentrazione della produzione. In sintesi, la principale indicazione è che la race to the bottom per la tassazione del capitale non è un effetto così scontato e immediato, anche in un contesto non cooperativo con un’accresciuta mobilità dei capitali. D’altra parte, anche i modelli della nuova geografia economica non escludono che in una situazione di crescente integrazione le spinte competitive alla race to the bottom possano via via acutizzarsi.
Le evidenze empiriche
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, la crescente integrazione dei mercati, unitamente alle innovazioni nei settori delle infrastrutture tecnologiche e delle comunicazioni, ha determinato una crescita senza precedenti sia delle transazioni finanziarie internazionali sia degli investimenti diretti esteri delle imprese. Questi sviluppi hanno anche impresso un forte stimolo alla competizione tra ordinamenti fiscali. La leva fiscale è stata utilizzata per favorire l’afflusso di capitali esteri sotto forma di investimenti di natura finanziaria e ha ben presto interessato gli investimenti di carattere reale, con l’adozione di regimi di tassazione in grado di favorire la localizzazione delle attività produttive o anche semplicemente il trasferimento degli utili delle imprese (profit shifting). In diversi casi, al fine di rendere ancora più attrattivi i regimi di tassazione agevolata delle imprese, sono state anche apportate riduzioni alla tassazione sui redditi da lavoro, mirate specificamente ai lavoratori esteri più qualificati sotto il profilo professionale.
L’offerta di un ambiente fiscale favorevole per gli investimenti internazionali ha contraddistinto i paradisi fiscali, che hanno individuato nell’offerta di servizi finanziari off-shore e di strutture per la pianificazione fiscale internazionale possibili fonti alternative di sviluppo economico. Ai vantaggi regolamentari proposti dai centri off-shore si è quindi affiancata la possibilità di consistenti risparmi d’imposta.
Al contempo, i principali Paesi industrializzati hanno intrapreso riforme fiscali basate sulla riduzione delle aliquote a fronte dell’ampliamento delle basi imponibili, nell’intento principale di rendere meno distorsivi i propri sistemi fiscali. In questo processo, un’attenzione crescente è stata riservata alla competitività dei sistemi di tassazione in un contesto internazionale sempre più integrato. Al fine di attirare le risorse contraddistinte da maggiore mobilità sono state adottate riduzioni unilaterali dell’imposizione alla fonte. Nel caso degli investimenti di portafoglio cross-border quasi tutti i Paesi hanno progressivamente esentato da ritenuta alla fonte gli interessi percepiti da investitori non residenti. Per le imprese si è assistito all’introduzione di regimi preferenziali variamente articolati, ma accomunati dall’essere diretti in via pressoché esclusiva agli investimenti di carattere internazionale (i cosiddetti regimi ring-fenced). Alcuni Paesi hanno fatto leva sui regimi preferenziali, unitamente ad altri elementi (come la regolamentazione), per proporsi quali poli di attrazione di specifici comparti: per es., risparmio gestito per il Lussemburgo e l’Irlanda, headquarters di grandi gruppi multinazionali per il Belgio e holdings per i Paesi Bassi. In parallelo sono state progressivamente ridotte le aliquote di tassazione societaria, che sembrano costituire un driver importante sia per gli investimenti diretti esteri delle imprese sia per l’allocazione dei profitti (profit shifting).
L’UE costituisce un caso di studio particolarmente rappresentativo dell’operare della concorrenza fiscale. La creazione di un mercato unico (con l’eliminazione dei principali ostacoli alla circolazione dei beni, dei capitali, dei servizi e delle persone) ha determinato stimoli molto forti alla competizione fra ordinamenti. Il fenomeno si è accentuato con il passaggio all’euro e con l’ingresso dei ‘Paesi dell’allargamento’. Nell’UE il motore della concorrenza ha agito lungo più direttrici, ma è stato particolarmente incisivo sui versanti della tassazione del risparmio e delle imprese.
La concorrenza fiscale e la tassazione del risparmio
Un peso rilevante nelle scelte di portafoglio relative agli investimenti transfrontalieri è svolto dalle ritenute fiscali sugli interessi e sui dividendi in uscita, cioè dai prelievi alla fonte previsti dagli Stati nei quali i redditi finanziari si generano. Questi prelievi si frappongono come ostacoli alle transazioni finanziarie cross-border: i rischi di doppia tassazione che essi comportano riducono infatti inevitabilmente il rendimento atteso dell’investimento.
Gli Stati Uniti sono stati il primo Paese ad abolire le ritenute alla fonte sugli interessi dei non residenti, nel 1984, al fine di non scoraggiare l’afflusso di capitali esteri. Successivamente l’internazionalizzazione dei mercati finanziari e, in Europa, il processo di integrazione monetaria hanno stimolato una corsa allo smantellamento dei sistemi nazionali di prelievo sugli interessi percepiti dai non residenti sui titoli obbligazionari pubblici e privati e sui depositi. Nella maggior parte dei casi all’esenzione degli interessi si affianca la non imponibilità dei capital gains e dei proventi da derivati conseguiti dagli investitori esteri, i quali rimangono in tal modo soggetti soltanto alla tassazione nel Paese di residenza.
La diffusione dei regimi di esenzione sugli interessi è espressione di un gioco competitivo volto ad attrarre gli investitori finanziari esteri. L’esenzione accordata ai non residenti ha rimosso le distorsioni derivanti dalla doppia tassazione e consentito di allineare il meccanismo di formazione dei prezzi dei titoli al rendimento lordo, contribuendo alla trasparenza del mercato. D’altra parte la corsa allo smantellamento delle ritenute alla fonte sugli interessi ha determinato rischi crescenti di doppia ‘non tassazione’, ovvero di evasione fiscale sui redditi finanziari transfrontalieri, a causa principalmente delle difficoltà di accertamento di questi redditi da parte delle amministrazioni finanziarie degli Stati di residenza degli investitori.
In mercati nazionali non più ‘isolati’ i sistemi di tassazione basati sulla dichiarazione dei redditi da parte dei contribuenti si sono scontrati con le difficoltà di controllo: la raccolta delle informazioni presso gli intermediari residenti non è più sufficiente a verificare l’intera base imponibile. La diffusione ancora molto limitata dello scambio di informazioni e di forme di cooperazione amministrativa tra le amministrazioni fiscali nazionali preclude di fatto, in molti casi, l’accertamento dei redditi di fonte estera. In questo contesto, la possibilità dei risparmiatori di evitare del tutto la tassazione sugli interessi spostando all’estero il risparmio è divenuta sempre più concreta (Ceriani 2004). Un parziale rimedio a questo problema è stato adottato nell’UE con l’approvazione, nel 2003, della cosiddetta direttiva sul risparmio (2003/48/CE) che, seppure con alcune eccezioni, ha introdotto lo scambio di informazioni automatico tra le amministrazioni fiscali sugli interessi percepiti da persone fisiche residenti in altri Stati membri.
La concorrenza fiscale non sembra avere sinora determinato un analogo effetto di attenuazione della tassazione in uscita per i dividendi: nonostante la crescente integrazione dei mercati azionari, la maggioranza dei Paesi applica tuttora ritenute alla fonte sui dividendi erogati a investitori non residenti.
La competizione tra ordinamenti fiscali si è invece manifestata in termini più ampi con riferimento all’industria finanziaria, in particolare nel comparto del risparmio gestito. Alcuni Paesi hanno fatto ricorso anche alla leva fiscale per proporsi quali centri di localizzazione degli organismi di investimento collettivo del risparmio e di altre forme di asset management. Nell’UE si riscontra una notevole concentrazione dei fondi comuni di investimento soprattutto in Lussemburgo e Irlanda. Nel tempo, facendo leva sull’armonizzazione della disciplina regolamentare, questi due Paesi sono infatti divenuti veri e propri hubs per la commercializzazione di strumenti di investimento collettivo di emanazione sia comunitaria sia extracomunitaria. Oltre che mediante regimi fiscali particolarmente vantaggiosi per gli stessi veicoli di investimento, questo risultato è stato perseguito anche attraverso agevolazioni mirate alla filiera produttiva dell’industria finanziaria, basate principalmente sulla detassazione dei profitti dei gestori.
Ben presto la concentrazione dei fondi nei due Paesi, inizialmente circoscritta agli organismi destinati alla commercializzazione sui mercati internazionali, si è estesa anche a quelli puramente nazionali, facendo emergere il fenomeno dei fondi cosiddetti round-trip, organismi di investimento di gestori residenti in un dato Paese, destinati esclusivamente alla commercializzazione presso investitori residenti nello stesso Paese, ma istituiti nello Stato estero che presenta il regime fiscale più favorevole. In diversi casi il fenomeno dei fondi round-trip ha assunto dimensioni rilevanti, destando la preoccupazione dei governi dei Paesi di provenienza per la perdita progressiva di quote significative dell’industria finanziaria, oltre che di gettito erariale.
La tassazione delle imprese
I regimi fiscali preferenziali. A partire dagli anni Ottanta, diversi Paesi, quasi sempre di piccola dimensione, hanno introdotto regimi fiscali preferenziali per la tassazione delle imprese. Tra gli esempi più noti si possono richiamare quelli adottati in Irlanda e Belgio, e altri esempi sono riscontrabili anche tra i nuovi Paesi dell’Unione Europea.
In Irlanda erano previsti, fino al 1999, regimi speciali a favore delle società insediate all’interno dell’International financial services center di Dublino o nell’area dell’aeroporto di Shannon, nonché delle imprese manifatturiere e minerarie. Le agevolazioni si traducevano nell’applicazione (fino al 2005) dell’imposta societaria con l’aliquota del 10% (in luogo di quella ordinaria) e nella possibilità di fruire di deduzioni e ammortamenti maggiorati, oltre che di finanziamenti a fondo perduto. Era inoltre prevista l’esenzione dalle imposte municipali sugli immobili. I benefici erano riconosciuti alle società che svolgessero attività qualificate, tra cui in primo luogo la prestazione di servizi finanziari (e di servizi accessori) a soggetti non residenti. Il Belgio ha cercato di affermarsi come centro di localizzazione degli headquarters di grandi gruppi multinazionali e come snodo delle strutture di pianificazione fiscale mediante l’introduzione di regimi speciali (centri di coordinamento, centri di distribuzione e centri di servizi) per le società che svolgono prestazione di servizi nell’ambito del gruppo multinazionale di appartenenza. Pur essendo soggette a tassazione ad aliquota ordinaria (40,17%), tali società hanno beneficiato fino al 2005 di un regime agevolato nella determinazione della base imponibile, calcolata come un margine molto contenuto su una parte dei costi operativi. Erano inoltre previste l’esenzione da ritenuta sui redditi percepiti sotto forma di interessi, dividendi e royalties e la non applicabilità di alcune imposte indirette.
Nel corso degli anni Novanta, sempre per assicurare un trattamento fiscale di favore alle holdings si è diffuso l’istituto della participation exemption, che si traduce nell’esenzione delle plusvalenze su partecipazioni infrasocietarie, quasi sempre connessa con la detassazione dei dividendi (in entrata e in uscita) derivanti dalle medesime partecipazioni. L’esenzione è in genere subordinata al ricorrere di determinati requisiti in termini di soglia di partecipazione e di periodo minimo di detenzione. La participation exemption è stata inizialmente introdotta dai Paesi del Benelux con l’obiettivo primario di attrarre la localizzazione delle holdings di grandi gruppi multinazionali. A partire dai primi anni Duemila l’istituto si è progressivamente esteso a tutti i principali Paesi europei.
Più recentemente la concorrenza fiscale si è manifestata in alcuni Paesi con l’introduzione di misure agevolative di applicazione generalizzata, ma di fatto volte ad attrarre la localizzazione di società appartenenti a gruppi multinazionali deputate a gestire particolari attività, quali la tesoreria di gruppo o la titolarità di beni immateriali (per es. brevetti, diritti di autore su software e così via).
L’attrazione di imprese e investitori esteri può produrre effetti positivi sulla crescita economica e sull’occupazione, oltre a un possibile incremento nelle entrate fiscali a causa dell’ampliamento delle basi imponibili dovuto alla tassazione (seppure contenuta) dei redditi dei non residenti e a quella (ordinaria) dei maggiori redditi e consumi dei residenti. In tal senso sono registrabili chiare evidenze che alcuni regimi preferenziali, come i centri di coordinamento del Belgio e i centri dei servizi finanziari irlandesi, hanno determinato effettivamente una crescita delle attività economiche e, correlativamente, delle entrate tributarie (Valenduc 2000).
La riduzione delle aliquote della tassazione sulle società. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, le aliquote generali di tassazione societaria sono state progressivamente ridotte nei principali Paesi industrializzati. Le politiche di riduzione delle aliquote e di ampliamento delle basi imponibili vengono tradizionalmente viste come una risposta dei ‘grandi’ Paesi alla concorrenza fiscale messa in atto dai Paesi ‘piccoli’ tramite regimi preferenziali (assieme all’adozione e al rafforzamento delle misure interne antielusione). L’evidenza empirica mostra che sia il volume complessivo sia le scelte di localizzazione degli investimenti diretti esteri sono influenzati dal livello di tassazione. A parità di altre condizioni, la decisione di ‘dove’ effettuare investimenti che generino extraprofitti, contraddistinti cioè da un tasso di rendimento superiore al costo del capitale, è influenzata dall’aliquota fiscale effettiva media; l’aliquota marginale effettiva incide invece sulla dimensione dell’investimento. All’aumentare della profittabilità dell’investimento, l’aliquota media effettiva tende ad avvicinarsi all’aliquota legale; quest’ultima, quindi, diviene la variabile fiscale più rilevante nelle scelte di localizzazione degli investimenti (Commission of the European communities 2001). La tendenza a ridurre le aliquote nominali che è stata osservata nei Paesi appartenenti all’Unione Europea a partire dalla metà degli anni Novanta è riconducibile a queste osservazioni. Un’altra possibile spiegazione dell’attenzione riservata dai singoli governi nazionali al mantenimento di aliquote di tassazione societaria sufficientemente competitive risiede nel fatto che tali aliquote assumono anche un ruolo segnaletico dell’orientamento più generale nei confronti degli investitori esteri. Infine, un’ulteriore motivazione è legata alla circostanza che le aliquote nominali di tassazione, oltre a influenzare la localizzazione dell’attività economica reale, incidono nello stesso tempo anche sul cosiddetto profit shifting, ossia sullo spostamento delle basi imponibili più mobili in quei Paesi che offrono le migliori condizioni di convenienza fiscale.
Passando all’analisi dell’andamento delle aliquote nominali di tassazione societaria in un campione di 19 Paesi OECD, tra cui Stati Uniti e Giappone, si può osservare che la media delle aliquote nominali complessive è scesa, fra il 1982 e il 2004, dal 48 al 32% circa. Per l’insieme dei 30 Paesi OECD, i dati disponibili permettono di ricostruire l’andamento delle aliquote solo fra il 2000 e il 2008: anche in questo caso, è evidente la discesa ininterrotta del livello medio delle aliquote, passato dal 33,61 al 26,48% (fig. 1).
La tendenza alla riduzione delle aliquote nominali dell’imposta so-cietaria si è manifestata in modo più marcato nell’ambito dei Paesi europei: essa ha subito una prima accelerazione alla fine degli anni Novan-ta, e si è ulteriormente accentuata a partire dal 2004, a seguito dell’ingresso nell’UE dei nuovi Stati, che presentano aliquote generalmente inferiori a quelle dei Paesi già membri dell’UE a 15.
La discesa delle aliquote legali ha interessato sia i vecchi sia i nuovi Stati membri, ma il processo non si è tradotto nella convergenza verso un livello comune per l’Unione Europea nel suo insieme. Tra i due blocchi persiste infatti un differenziale consistente, che si è accentuato nel tempo: in termini di aliquote nominali complessive (nazionali e locali), il divario è passato da circa 6 punti percentuali nel 1995 a oltre 9 nel 2008 (fig. 2).
Anche nell’ambito di ciascun gruppo persistono ampie differenziazioni. Il campo di variazione delle aliquote si attestava nel giugno 2008, per i Paesi della UE a 15, sui 22 punti percentuali (da un massimo del 34,4% circa in Francia al 12,5% dell’Irlanda). Tra i nuovi Stati membri era pari a 25 punti, dal 35% di Malta (la cui aliquota nominale è tuttavia puramente indicativa, essendo previste ampie aree di esenzione) al 10% di Cipro e Bulgaria.
Il fatto che la concorrenza fiscale non abbia dato luogo finora a un processo di convergenza nelle aliquote conferma il ruolo svolto da altri fattori (extrafiscali) nella competizione fra ordinamenti. Importanti a questo riguardo risultano probabilmente le economie di agglomerazione legate alle differenze nella dimensione dei mercati domestici, nella qualità del ‘fattore pubblico’ (infrastrutture, regolamentazione a tutela dei diritti di proprietà e dei contratti, qualità dell’istruzione, investimenti in ricerca e sviluppo) e nella dotazione di risorse. Per alcuni degli Stati maggiori, come la Francia, l’Italia e la Germania, questi fattori possono avere consentito il mantenimento di aliquote di tassazione societaria che appaiono significativamente più elevate della media UE (Saint-Étienne, Le Cacheux 2005). Non può comunque escludersi che in prospettiva la crescente integrazione economica porti a una riduzione di queste rendite e, di conseguenza, a una maggiore convergenza delle aliquote.
È stato prospettato il rischio che la continua riduzione delle aliquote possa condurre alla scomparsa della tassazione sulle società; parallelamente, il carico fiscale si sposterebbe sui fattori meno mobili, quali il lavoro e i terreni e fabbricati. Ma fino a ora la riduzione delle aliquote legali non si è tradotta in un risultato così estremo quale la scomparsa della tassazione societaria paventato nella letteratura economica. Diversamente dalle aliquote, infatti, il gettito derivante dalla tassazione delle imprese non ha evidenziato nell’UE una tendenza al declino. In percentuale del PIL, nei Paesi membri le entrate derivanti dalla tassazione societaria sono cresciute nel periodo che va dal 1995 al 2000, per poi iniziare a decrescere, e tornare ad aumentare dal 2004 in poi (fig. 3).
Anche se nel periodo esaminato il gettito dell’imposta sul reddito societario sembra aver retto bene alla crescente concorrenza fra ordinamenti, resta da vedere cosa riserva il futuro. In passato, infatti, in aggiunta all’ampliamento delle basi imponibili, possono avere avuto un effetto positivo sul gettito le misure antiabuso adottate dai singoli Stati per contrastare il profit shifting e, più in generale, l’elusione fiscale internazionale. Questi presidi, comunque, stanno perdendo progressivamente efficacia, soprattutto a causa degli orientamenti assunti dalla Corte di giustizia europea in difesa delle libertà fondamentali sancite dal Trattato sull’Unione Europea.
Le iniziative internazionali sulla concorrenza fiscale
Le iniziative in materia di tassazione del risparmio
Il dibattito politico sulla fuga di capitali verso i Paesi a bassa fiscalità, sviluppatosi in parallelo all’integrazione dei mercati finanziari e alla liberalizzazione valutaria, è incentrato da tempo sulla necessità di un rafforzamento dello scambio di informazioni tra Paesi. Tale scambio è coerente con la scelta degli Stati membri dell’UE di non rinunciare alla propria sovranità nazionale in materia fiscale. Su questo ‘interesse all’informazione’ dei singoli Paesi si basano sia le iniziative di cooperazione sviluppate dall’OECD in tema di lotta ai paradisi fiscali sia quelle di coordinamento fiscale adottate dall’Unione Europea.
Nell’UE il dibattito politico si è focalizzato, a partire dagli anni Ottanta, sulla possibilità di pervenire a una soluzione coordinata di tassazione del risparmio. Alimentava il dibattito la preoccupazione che, con il venir meno delle barriere valutarie, si scatenasse una sorta di dumping fiscale a favore degli Stati con sistemi di tassazione dei capitali più favorevoli. La prima proposta di direttiva, presentata nel febbraio 1989, prevedeva un’armonizzazione, ed era fondata su un sistema di ritenuta unica per tutti i dodici Stati membri, pari al 15% (poi ridotta al 10%), da applicare sia agli interessi in uscita sia a quelli domestici. Nonostante le preoccupazioni di possibili fughe dei capitali, a svantaggio dei Paesi esportatori di capitali, la proposta risultò evidentemente troppo ambiziosa e non venne approvata.
Nel decennio successivo l’avversione degli Stati membri verso forme di armonizzazione fiscale nella tassazione del risparmio ha portato a elaborare proposte di coordinamento che salvaguardassero la sovranità fiscale dei singoli Stati. A seguito di questo cambio di rotta è stato riavviato il dibattito, che si è tradotto in un nuovo progetto di direttiva sulla tassazione del risparmio nell’ambito del cosiddetto pacchetto Monti (dal nome dell’allora Commissario europeo sugli affari fiscali, Mario Monti), approvato nel dicembre 1997 all’Ecofin (Economic and financial affairs council) di Lussemburgo. La direttiva, approvata nel 2003 e in vigore dal 1° luglio 2005, viene applicata, oltre che nei 27 Stati dell’UE, anche in 5 Paesi terzi (Andorra, Liechtenstein, Monaco, San Marino, Svizzera) e in 10 territori dipendenti o associati del Regno Unito e dei Paesi Bassi. La direttiva (2003/48/CE), nel sancire il principio di tassazione degli interessi nel Paese di residenza del beneficiario effettivo, non modifica i regimi nazionali di tassazione del risparmio, ma introduce uno scambio automatico di informazioni, su base annuale, tra autorità fiscali dei diversi Paesi. L’obiettivo perseguito da tale norma è principalmente quello di rendere più efficace il contrasto all’evasione, sin qui facilitata dal generalizzato regime di esenzione sugli interessi erogati a soggetti non residenti e dall’inefficacia dei sistemi interni di monitoraggio degli investimenti all’estero. In via transitoria fanno eccezione al sistema dello scambio di informazioni tre Stati (Austria, Belgio, Lussemburgo), ai quali è consentita l’applicazione di una ritenuta alla fonte. Analoga alternativa è consentita ai Paesi terzi (in particolare alla Svizzera) e ad alcuni territori dipendenti o associati.
La portata della direttiva è tuttavia limitata sotto diversi aspetti: in primo luogo, essa riguarda solo i Paesi dell’UE (nonché i territori dipendenti o associati, e alcuni altri Stati europei); in secondo luogo, lo scambio di informazioni si estende ai soli interessi, mentre restano esclusi altri redditi finanziari, quali i dividendi, le plusvalenze o i proventi da contratti derivati. Ne deriva la possibilità di eludere le segnalazioni, tenuto conto della relativa facilità con cui nei moderni mercati finanziari è possibile trasformare proventi di una categoria (per es. interessi inclusi nel sistema di segnalazioni) in altri (per es. plusvalenze, escluse dalla direttiva). Anche dal punto di vista soggettivo la direttiva presenta aree di non copertura: lo scambio di informazioni riguarda infatti i soli interessi percepiti da persone fisiche residenti in altri Stati dell’UE, mentre sono escluse diverse forme di investitori istituzionali, interessati dalle segnalazioni soltanto indirettamente e in casi limitati.
La proposta di revisione della direttiva, presentata nel 2008, prevede l’ampliamento della copertura, sia soggettiva, con una più puntuale inclusione dei veicoli di investimento collettivo e dei trust, sia oggettiva, estesa in particolare alle polizze assicurative a prevalente contenuto finanziario e agli strumenti fi-nanziari innovativi (quali, per es., i titoli strutturati). Parallelamente, la Commissione europea ha proposto di rivedere la direttiva sulla cooperazione amministrativa in materia fiscale, con l’obiettivo di assicurare uno scambio di informazioni completo, non limitato dal segreto bancario.
La concorrenza fiscale ‘dannosa’
Sul versante delle imprese, il dibattito politico si è incentrato, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, sulla concorrenza fiscale ‘dannosa’ (o sleale). Dal 1996 l’OECD e l’UE si sono mosse in parallelo, definendo misure che si rafforzano a vicenda in un’azione sinergica. La filosofia sottostante a questo dibattito non risulta più incentrata sugli effetti e sulla opportunità della concorrenza fiscale, ma si è spostata sulla contrapposizione tra concorrenza ‘dannosa’ e ‘non dannosa’. Sul piano politico questa svolta ha sancito l’intenzione dei governi, più o meno esplicita, di non volere tenere a freno la concorrenza fiscale in quanto tale. L’attenzione si è focalizzata sui casi di concorrenza fiscale ‘dannosa’ derivanti dall’introduzione dei regimi preferenziali speciali, aventi come principale obiettivo l’attrazione di attività mobili dall’estero. L’utilizzo di questi regimi speciali può permettere ad alcuni contribuenti di agire come free riders che beneficiano della spesa pubblica nel loro Paese ed evitano di contribuire al finanziamento della stessa.
Le iniziative dell’Unione Europea relativealla concorrenza fiscale ‘dannosa’
L’UE ha avviato, nella seconda metà degli anni Novanta, un progetto articolato volto a contrastare la concorrenza fiscale dannosa nell’area dell’imposizione diretta. Il progetto si inquadra nel suddetto pacchetto Monti, che prevedeva l’adozione di un Codice di condotta sulla tassazione delle imprese accanto alla proposta di direttiva sul risparmio, già richiamata, e a un’ulteriore proposta di direttiva volta a eliminare la doppia imposizione sugli interessi e sulle royalties delle imprese. Entrambe le proposte di direttiva sono state approvate nel 2003.
Il Codice di condotta è un atto non normativo, che ha natura di impegno politico ed è applicabile solo negli Stati membri dell’UE e nei territori dipendenti o associati (alcuni dei quali sono considerati paradisi fiscali dall’OECD), anche se in realtà esso impegna gli Stati membri alla promozione dei suoi principi anche a livello internazionale.
Sotto il profilo della copertura geografica l’iniziativa dell’UE si è mossa in sinergia con quella dell’OECD: l’azione nella sola Europa sarebbe stata priva di senso, in quanto avrebbe semplicemente determinato un vantaggio competitivo per i Paesi al di fuori dell’Unione Europea. Allo stesso tempo, l’azione dell’OECD relativa ai paradisi fiscali e ad altri Paesi avrebbe incontrato seri ostacoli sul suo percorso (in primo luogo, per l’assenza di credibilità) se gli Stati membri dell’UE aderenti all’OECD non si fossero seriamente impegnati a rimuovere le caratteristiche dannose dei loro stessi sistemi tributari.
Il Codice prevede che gli Stati dell’UE si impegnino ad astenersi dall’introduzione di nuovi regimi dannosi (stand-still) e a rimuovere quelli esistenti, correggendo tutte le caratteristiche dannose presenti nei loro regimi tributari (roll-back). Fin dal 2000 un apposito gruppo di lavoro ha monitorato costantemente le procedure di stand-still e di roll-back, riportando periodicamente i risultati al consiglio. La rimozione dei benefici dei regimi soggetti a roll-back, originariamente fissata al 2003, è stata differita alla fine del 2005. Nel frattempo gli Stati membri e i loro territori dipendenti o associati (quali l’isola di Man, Jersey, Aruba, Gibilterra, le Antille olandesi) hanno avviato a conclusione il processo di smantellamento delle leggi, dei regolamenti e delle prassi amministrative dannose. Il rispetto del Codice di condotta è stato inserito nell’acquis communautaire, il complesso del diritto comunitario nel contesto dell’Unione Europea. I nuovi Stati membri hanno dovuto rivedere i regimi preferenziali a favore degli investitori esteri. Contestualmente, in diversi casi è stata ridotta l’aliquota ordinaria dell’imposta societaria.
Questa evidenza suggerisce che quanto più l’azione di contrasto alla concorrenza fiscale dannosa ha successo nella messa al bando dei regimi preferenziali, tanto più le politiche di riduzione generalizzata delle aliquote tendono ad affermarsi come la modalità prevalente di concorrenza fiscale. Rispetto alle misure preferenziali speciali, la riduzione generalizzata delle aliquote è una manovra trasparente, non opaca come altri interventi fiscali. D’altra parte, come evidenziato dalla letteratura economica, anche la riduzione delle aliquote può distorcere l’allocazione del capitale e delle attività produttive. In altri termini si può sostenere che l’eliminazione dei regimi preferenziali può non essere una misura sufficiente per ridurre le inefficienze economiche causate dalla concorrenza fiscale e per limitare la sottotassazione del capitale rispetto al lavoro, meno mobile.
Le contromisure nazionali
L’importanza che i singoli Paesi membri adottino unilateralmente specifiche contromisure per difendersi dalla concorrenza fiscale viene segnalata sia dall’UE (nel Codice di condotta) sia dall’OECD, pur nella consapevolezza della contenuta efficacia di queste misure, che è insita nei limiti stessi della loro portata e che più in generale discende dal fatto che la sovranità fiscale nazionale è chiaramente circoscritta ai confini di ciascun Paese.
Il ricorso a specifiche misure nazionali dirette a contrastare le spinte alla delocalizzazione del risparmio e delle attività produttive è comunque cresciuto nel tempo, ed è aumentata altresì la varietà dello strumentario utilizzato. Ne sono un esempio le regole sulla cosiddetta residenza fiscale fittizia dei soggetti (persone fisiche e imprese) trasferiti all’estero. Altre regole antielusive si innestano nei vari istituti, limitandone l’ambito applicativo: molto diffusa nelle legislazioni interne è la tecnica di sterilizzare il regime ordinario o alcuni benefici (per es. i regimi di esenzione, aliquote o ritenute ridotte) nel caso di rapporti con soggetti residenti o insediati in paradisi fiscali.
In generale, l’introduzione di queste contromisure, che si affiancano in molti casi alle GAAR (General Anti-Avoidance Rules), impone maggiori costi amministrativi alle imprese e rende i sistemi fiscali nazionali più complessi. In qualche misura li rende quindi meno competitivi rispetto alle giurisdizioni concorrenti, alimentando una sorta di circolo vizioso.
Le misure difensive nella tassazione del risparmio
Nell’area della tassazione del risparmio le contromisure dei singoli Paesi si sono sviluppate in parallelo al processo di liberalizzazione valutaria, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Nell’UE, sia la direttiva sulla liberalizzazione valutaria (1988/361/CE) sia lo stesso Trattato sull’Unione Europea, nel prevedere il divieto di ogni restrizione ai movimenti di capitali tra gli Stati membri (nonché con i Paesi terzi), hanno salvaguardato il diritto dei singoli Stati a prendere tutte le misure per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale.
Il ‘monitoraggio fiscale’. In alcuni casi (come in Francia e Italia) sono stati adottati sistemi di controllo dei movimenti transfrontalieri di capitali finanziari. Questi sistemi si basano sulle segnalazioni alle autorità fiscali da parte degli intermediari che intervengono nelle operazioni transfrontaliere con investitori diversi dalle imprese. Sul piano concreto, queste misure non hanno mostrato grande efficacia: in molti casi (per es. nelle operazioni cosiddette estero-su-estero, che non coinvolgono intermediari residenti) le informazioni sono affidate all’esclusiva volontà dei contribuenti, che dovrebbero effettuare autodichiarazioni. In queste circostanze le sanzioni per il mancato rispetto degli obblighi di segnalazione non riescono a svolgere un’efficace azione deterrente.
Le legislazioni sui veicoli di investimento esteri. La fuga di capitali verso i Paesi a bassa fiscalità e il loro successivo impiego in attività finanziarie effettuate nei Paesi di provenienza (cosiddetta ‘esterovestizione’ del risparmio) si sono spesso avvalsi di veicoli di investimento esteri: passive foreign investment funds (PFIF) o foreign investment companies (FIC). L’utilizzo di questi veicoli consente di occultare i redditi finanziari alle autorità fiscali dello Stato di residenza e di beneficiare del differimento delle imposte sui redditi percepiti all’estero, fino al momento del loro rimpatrio. Un ruolo pionieristico nelle politiche di contrasto all’utilizzo di questi veicoli è stato svolto dagli Stati Uniti, la cui legislazione risale al 1962. Il sistema statunitense sanziona i veicoli esteri che non rispettano gli obblighi di reporting necessari per consentire la tassazione dei proventi negli Stati Uniti. Anche i Paesi dell’UE hanno adottato misure analoghe, sempre con l’intento di contrastare l’opacità di alcuni veicoli esteri e di ridurre la possibilità, per i residenti, di eludere o differire la tassazione attraverso tali veicoli.
Le misure difensive nella tassazione delle imprese
Una misura che ha avuto larga diffusione nell’UE è la legislazione sulle società estere controllate (comunemente nota come legislazione sulle Controlled foreign companies, CFC), il cui obiettivo principale è quello di ricondurre a tassazione secondo le regole del Paese di residenza della casamadre gli utili delle imprese controllate costituite in Paesi esteri a bassa fiscalità, evitando così che i redditi delle controllate sfuggano alla tassazione del Paese di residenza degli azionisti o godano del differimento delle imposte fino a quando gli utili non siano distribuiti e rimpatriati. In forza di questa disciplina i contribuenti (generalmente imprese e persone fisiche) sono obbligati a pagare le imposte del Paese di residenza sulla loro quota di utili della società partecipata estera, anche se non distribuiti e quindi non effettivamente percepiti.
All’interno dell’UE questa normativa ha costituito un presidio anticoncorrenziale nei confronti di quei Paesi che hanno adottato politiche fiscali particolarmente aggressive nell’attirare capitali esteri. È da notare che nell’UE a 15 la maggioranza dei Paesi aveva una disciplina CFC, ma ne erano sprovvisti l’Irlanda, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e il Belgio, cioè gli Stati che più di altri avevano attivato pratiche di concorrenza fiscale. Dei nuovi 12 Paesi membri, solo 3 (Estonia, Lituania e Ungheria) hanno una disciplina riguardante le Controlled foreign companies.
La portata di questa tipologia di regole all’interno dell’UE è destinata a ridursi per effetto delle decisioni della Corte di giustizia della comunità europea, che ravvisa nella disciplina CFC una possibile violazione del diritto di stabilimento.
In ogni caso la normativa CFC, per la sua stessa natura unilaterale, presenta dei limiti: le scelte effettuate dai diversi Paesi nella fissazione dei requisiti e dei parametri per l’applicazione finiscono per riattivare tra i singoli ordinamenti nuove forme di competizione fiscale. Infatti, tra i profili presi in esame nelle scelte di pianificazione fiscale internazionale, le imprese multinazionali valutano anche il grado di rigore della disciplina nelle Controlled foreign companies.
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