Competitività
Il termine competitività non ha un unico significato ma assume diverse accezioni a seconda dei soggetti cui si riferisce: se sono imprese è collegato ai margini di profitto o alle quote di mercato; se si riferisce a Paesi è collegato alla loro performance a livello nazionale e internazionale. Una definizione relativamente poco controversa riferita ai Paesi è quella dell'OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development, in Italia OCSE) del 1994: "la competitività è il grado con cui una nazione riesce, in condizioni di mercato libere ed eque, a produrre beni e servizi capaci di affrontare la concorrenza internazionale, allo stesso tempo mantenendo ed espandendo il reddito reale della propria popolazione nel lungo periodo". La c. è un concetto relativo e quindi non tutti i Paesi possono simultaneamente migliorare la propria. La concorrenza internazionale è determinata sia da fattori reali sia da fattori monetari e un miglioramento della c. può derivare da una buona performance in termini di produttività delle imprese o del Paese, ma anche da un deprezzamento della moneta nazionale.
Molte obiezioni sono sollevate riguardo l'uso del termine competitività a livello di Paesi invece che di imprese. P. Krugman sostiene che la c. "è un'espressione senza alcun significato quando fa riferimento alle economie nazionali", ciò perché "quando diversi sistemi economici interagiscono tra di loro non competono in modo antagonista (come le imprese) ma gareggiano all'interno di un gioco che non ha somma zero in quanto tutti ne traggono un reciproco beneficio" (1996, pp. 6 e 10). Si può affermare tuttavia che i Paesi hanno interesse ad attrarre capitale (sia fisico sia umano) e lavoro come motori per la produzione di ricchezza e quindi competono per attrarre queste risorse che a loro volta influenzano la competitività. La liberalizzazione dei mercati, l'aumento degli scambi commerciali e la globalizzazione degli ultimi decenni hanno acuito le preoccupazioni riguardanti le variazioni delle quote di mercato di alcune industrie nazionali, poiché capaci di influire, talvolta anche considerevolmente, sul prodotto interno lordo (PIL) di un Paese e sul suo tenore di vita.
Tra il 1993 e il 2004 la quota delle economie avanzate sulle esportazioni mondiali di merci è scesa dall'80% al 70%, a vantaggio dei Paesi emergenti. Oltre alla Cina e ad alcuni Paesi dell'Europa centro-orientale e del Sud-Est asiatico, incrementi notevoli sono stati conseguiti anche dal Messico e dall'India. Questi mutamenti sottintendono una trasformazione nella internazionale del lavoro', che impone alle nazioni e agli economisti di 'interessarsi' alla concorrenza internazionale, in quanto un adeguato livello di c. sembra essere divenuto il presupposto per la prosperità di una nazione, e tale c. è essenzialmente basata sul livello di produttività con cui si forniscono beni e servizi, a sua volta collegata all'intensità di ricerca e sviluppo e alla qualità del capitale umano a disposizione.
La misurazione della competitività
Data la complessità del concetto, non sorprende l'esistenza di un elevato numero di indicatori di c.: quello più usato per misurare la c. di prezzo di un Paese è il tasso di cambio effettivo reale, che, sintetizzando le variazioni di c. derivanti dalle variazioni del tasso di cambio e dei prezzi relativi, considera gli aspetti monetari. Esistono inoltre indicatori definiti sintetici, costruiti valutando il contributo di fattori di tipo economico e non-economico attraverso una sintesi di dati qualitativi, quantitativi e indagini dirette. Questi indicatori hanno il pregio di concentrare l'attenzione dell'opinione pubblica su alcuni fenomeni specifici. La caratteristica degli indicatori sintetici è cercare di quantificare il contributo dei diversi aspetti che incidono sulla competitività. Numerose istituzioni sovranazionali e centri di ricerca realizzano periodicamente analisi e graduatorie sulla c. internazionale. In particolare, il World Economic Forum (WEF) di Ginevra e l'International Institute for Management Development (IIMD) di Losanna elaborano e pubblicano annualmente indicatori sintetici di c. globale. Il Global Competitiveness Index del WEF è composto da tre sottoindici che esaminano rispettivamente il contesto macroeconomico, la situazione delle istituzioni pubbliche e la capacità di sviluppo tecnologico. La stabilità macroeconomica è un fattore essenziale per il mantenimento dei processi di crescita (per es., le imprese non possono operare al meglio se il tasso di inflazione è elevato e se i contratti e le leggi non sono rispettati: servono quindi trasparenza e capacità esecutiva delle istituzioni); il progresso tecnologico è il cuore della capacità di crescita di un Paese. Per il WEF, quindi, la c. di un Paese dipende dalla qualità del tessuto produttivo e dall'efficacia delle istituzioni e delle politiche che influenzano la produttività. Nella costruzione dell'indice viene fatta una distinzione fondamentale tra core economies, in cui l'innovazione tecnologica è un fattore critico per la crescita, e non-core economies, in cui la crescita può essere portata avanti anche acquisendo tecnologia dall'estero. Il World Competitiveness Scoreboard, elaborato dall'IIMD, classifica e analizza la capacità delle nazioni di creare e mantenere un contesto che favorisca l'efficienza delle imprese. La metodologia utilizzata conduce alla suddivisione del contesto del Paese in quattro fattori principali: risultati economici, efficienza di governo, efficienza degli affari, infrastrutture. Ognuno di tali fattori è scomposto a sua volta in vari sottofattori distinti in categorie. In totale i criteri scelti per cercare di esaminare tutte le sfaccettature della c. sono ben 323.
Entrambi questi indicatori globali hanno in comune la scelta dei dati qualitativi e quantitativi da analizzare, ma hanno una metodologia di raggruppamento e di scelta dei criteri differente e assegnano un ruolo molto diverso alla tecnologia come traino allo sviluppo economico. Il WEF, infatti, si basa sulla convinzione che un miglioramento costante della conoscenza abbia, in proporzione, maggiore influenza sulla crescita globale di un Paese rispetto alle altre variabili.
In ambedue le classifiche, l'Italia è relegata in posizioni lontane dai primi e comunque all'ultimo posto tra i Paesi industrializzati. Nel confronto internazionale il nostro Paese risulta penalizzato soprattutto dal forte peso del settore (e del debito) pubblico, dalla connessa burocrazia, dal basso livello di infrastrutture e di spesa in Ricerca e Sviluppo (R&S), dall'esistenza di mercati rigidi, regolamentati e poco competitivi (ivi compresi il sistema creditizio) e da una scarsa capacità di attrarre investimenti diretti esteri.
Questi indici di c. globale possono risultare arbitrari e opinabili, come testimoniato anche dalla diversità di posizionamento dei Paesi nelle classifiche elaborate dai diversi organismi, ma sono utili sia in un contesto di confronto intertemporale sia all'interno di uno schema logico in grado di delineare i fattori ritenuti essenziali nel favorire lo sviluppo economico di una nazione in una prospettiva di lungo periodo. Sembrerebbe, infatti, esistere una buona correlazione tra gli indicatori di c. globale e la crescita del reddito pro capite di un Paese.
Prescindendo dagli indicatori sintetici descritti, non è semplice misurare la competitività. Innanzitutto si devono distinguere i fattori di prezzo (c. in senso stretto) da quelli non di prezzo (fattori ambientali). In secondo luogo, una misura di c. internazionale deve soddisfare tre criteri basilari: 1) riguardare tutti i settori esposti alla concorrenza internazionale (per es., rappresentare tutti i beni commerciati e commerciabili che sono soggetti alla concorrenza e solo quelli); 2) includere tutti i mercati aperti alla concorrenza internazionale; 3) essere costruita con dati pienamente confrontabili a livello internazionale. Nella letteratura di economia internazionale, più che agli indici di c. globale, si fa allora ricorso a indicatori economici comunemente prodotti da organismi nazionali e internazionali quali, per es., il già menzionato tasso di cambio effettivo reale (Vona 1987 e 1990).
Il concetto di c., pur essendo strettamente legato a quello di specializzazione, dipende anche da altri fattori, come l'andamento del tasso di cambio e/o mutamenti sui mercati internazionali, che possono modificare la posizione relativa di un Paese nel commercio internazionale. Mentre è difficile misurare in modo omogeneo la qualità di un bene, è (almeno apparentemente) più semplice il confronto dei prezzi interni del Paese con quelli internazionali; si devono tuttavia considerare anche delle variazioni del tasso di cambio tra due valute. Ciò spiega l'utilizzo dei tassi di cambio effettivi reali, che tengono conto sia del valore della valuta, sia dei prezzi del Paese considerato rispetto a un insieme di Paesi che sono particolarmente importanti nel suo commercio estero. La componente relativa al tasso di cambio è rilevata attraverso un indicatore, che consente di seguire nel tempo l'andamento di una moneta rispetto alle altre. Tale indicatore, definito tasso di cambio effettivo nominale, è costruito ponderando le singole divise con un sistema di pesi che riflette la distribuzione geografica del commercio estero del Paese considerato. Il tasso di cambio effettivo nominale, corretto per la differenza tra l'incremento dei prezzi (o costi) del Paese e quello dei Paesi concorrenti, ci permette di definire il tasso di cambio reale. Una perdita di c. può quindi essere originata dall'apprezzamento del cambio, dalla dinamica dei prezzi e costi relativi, da entrambi.
I valori medi unitari (VMU) all'esportazione sono particolarmente adatti a valutare il grado di c. delle esportazioni in quanto si riferiscono direttamente ai prezzi di quei beni che stanno lasciando il territorio nazionale per essere venduti all'estero. Ma il loro utilizzo presenta alcuni limiti, che dipendono dalla scarsa omogeneità a livello internazionale nella loro costruzione, dalla limitata variabilità e significatività dei prezzi relativi in mercati oligopolistici o competitivi, dal fatto che essi ignorano scambi e mercati potenziali e, conseguentemente, non segnalano mutamenti nelle condizioni di profittabilità. Inoltre, i VMU non consentono di considerare la c. dell'intero sistema dei beni commerciabili, bensì soltanto di quelli effettivamente venduti sul mercato estero. D'altra parte i costi del lavoro per unità di prodotto (CLUP), pur consentendo di prendere in considerazione il complesso dei prodotti manufatti, hanno il limite di essere condizionati dalla diversa incidenza del fattore lavoro nella produzione dei beni di ogni Paese. Inoltre, le statistiche nazionali riguardo ai CLUP sono spesso soggette a revisioni e trovano difficoltà metodologiche e pratiche a misurare e comparare la produttività del lavoro. I prezzi alla produzione rendono molto bene l'andamento dei costi dell'insieme completo dei prodotti esportabili e, inoltre, consentono di tenere conto anche della concorrenza esercitata dai prodotti nazionali destinati al mercato interno di ciascun Paese. Tuttavia, ciò può essere uno svantaggio quando la struttura dei beni destinati al mercato interno differisce di molto da quella destinata all'esportazione. Inoltre, i prezzi alla produzione sono calcolati in modo diverso nei diversi Paesi e non tengono conto di altri fattori non di prezzo (principalmente riconducibili alla tecnologia incorporata nei beni prodotti) altrettanto rilevanti nell'influenzare la performance delle esportazioni. Si cita al riguardo il cosiddetto paradosso di Kaldor (1978), consistente nell'osservazione che spesso, tra nazioni, quote di mercato e prezzi relativi sembrano muoversi insieme piuttosto che in direzioni opposte.
In realtà non esiste ancora alcun indicatore che soddisfi pienamente i tre criteri citati in precedenza, ma tutti rappresentano una sorta di compromesso fra i dati disponibili e un trade-off fra obiettivi e differenti criteri di valutazione. Pertanto, per un'analisi approfondita sulla c. di un Paese sembrerebbe essere utile mettere a confronto tutti gli indicatori esistenti, perché solo da un loro raffronto e da una prospettiva ampia è possibile ricavare indicazioni le più complete possibili sull'andamento competitivo di un Paese, nonché sulle strategie di prezzo delle imprese produttive e/o di distribuzione. Mettendo, per es., a confronto per i principali Paesi dell'area dell'euro (Italia, Francia, Germania e Spagna) le dinamiche più recenti relative agli indicatori di c. di prezzo elaborati dalla Banca d'Italia emergono alcune differenze tra i partner europei che non possono essere spiegate dall'andamento del cambio. Misurando la c. con l'indicatore basato sui prezzi alla produzione dei manufatti a partire dal 2001, l'Italia non registra una perdita particolarmente accentuata, ma, osservando gli indicatori calcolati sui prezzi all'esportazione (non più calcolato dalla Banca d'Italia) e sul costo del lavoro per unità di prodotto, l'Italia figura come il Paese che ha subito la più forte perdita di competitività. Nel 2004 essa ha raggiunto il 5,5% rispetto allo stesso periodo del 2003, contro una perdita ben più contenuta dell'1,1% per la Francia e del 2,3% per la Spagna, mentre la Germania ha, nel periodo, addirittura conseguito un recupero di c. di prezzo (+0,8%).
Nelle fasi in cui la spinta della svalutazione viene meno, emerge che l'elemento discriminante della performance competitiva italiana risiede nelle diverse dinamiche dei prezzi interni e della produttività dei fattori, piuttosto che nella variazione dei tassi di cambio. Nei primi anni del 21° sec., l'incremento del costo del lavoro per dipendente nel settore dell'industria manifatturiera italiana ha costantemente superato quello dei Paesi principali dell'area dell'euro. Se a questo si associa la dinamica della produttività del lavoro che, a eccezione del 2001, è stata costantemente inferiore a quella del campione di Paesi considerato, si spiega la sostenuta dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto, che ha registrato un incremento più elevato rispetto a quello mostrato dall'area nel suo complesso. Osservando nel dettaglio le componenti del CLUP, emerge che all'origine della deludente dinamica della produttività vi è un andamento della forza lavoro occupata 'disallineato' rispetto a quello dei nostri principali concorrenti: in aumento o in impercettibile flessione, laddove questi ultimi registravano invece variazioni negative. Queste dinamiche possono contribuire in parte a spiegare il fenomeno della perdita di c. dell'industria italiana, benché non sembrino sufficienti, essendo necessario fare ricorso anche a fattori di più lungo periodo (ICE 2005).
bibliografia
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