Comportamentismo
La mappa del comportamentismo nelle scienze sociali presenta complicate diramazioni. Al fine di orizzontarsi su tale mappa occorre un punto di riferimento. Per ragioni a un tempo storiche e metodologiche esso non può trovarsi che nella concezione classica del comportamentismo, o behaviorismo, elaborata nei primi decenni del Novecento da studiosi americani quali J.B. Watson, E.L. Thorndike, B.F. Skinner. Secondo tale concezione oggetti primari della ricerca psicologica non debbono essere i processi mentali, tradizionalmente privilegiati dagli studiosi europei; debbono piuttosto essere entità e attività osservabili e misurabili, quali un comportamento Y, assunto come variabile dipendente (anche se esso in una data situazione si presenta per primo, com'è il caso del comportamento operante teorizzato da Skinner), e un insieme di eventi X, assunto come causa o variabile indipendente. La ricerca deve mirare a porre in luce eventuali relazioni costanti tra X e Y, prescindendo da motivazioni, stati di coscienza, percezioni, emozioni e altri processi soggettivi.
Muovendo da tale punto di riferimento, che le successive modificazioni apportate alla concezione classica del comportamentismo non spostano in misura significativa per la nostra analisi, la mappa del comportamentismo nelle scienze sociali può venire sinteticamente ricostruita in questo modo.
1. Esiste almeno una scienza sociale - la scienza politica - in cui il concetto di comportamentismo è stato definito e ampiamente utilizzato in modo del tutto diverso rispetto alla concezione classica. Per designarlo può convenire l'etichetta, pur linguisticamente incongrua, di comportamentismo non behaviorista.
2. Parecchie scienze sociali fanno un uso esteso di forme di comportamentismo senza chiamarlo con tale nome, spesso all'interno di indirizzi di ricerca che si autodefiniscono estranei o ostili all'indirizzo comportamentista. Conviene parlare in tal caso di comportamentismo implicito.
3. In almeno un'altra scienza sociale - la sociologia - convivono due indirizzi del comportamentismo radicalmente differenti. Il primo costituisce un'applicazione relativamente ortodossa del comportamentismo classico al campo delle relazioni interpersonali, e viene di norma designato col nome di comportamentismo psicologico. Il secondo indirizzo si collega alla concezione della mente come costruzione sociale elaborata da George Herbert Mead, sulla base di una serrata critica dell'opera di Watson. Chiameremo comportamentismo interazionista questo secondo indirizzo.
Tutte le suddette forme di comportamentismo, sebbene le loro origini risalgano a molti decenni fa, sono presenti e vitali nelle scienze sociali contemporanee. Alcune di esse - in specie il comportamentismo interazionista - hanno anzi stabilito rapporti di grande interesse con nuovi campi di indagine quali il cognitivismo e l'intelligenza artificiale (v. cap. 5).
Porre in primo piano lo studio empirico dei comportamenti degli attori sociali, aventi natura o rilevanza politica, ha rappresentato, sin dagli inizi del Novecento, una peculiare forma di reazione della scienza politica statunitense agli indirizzi di ricerca storicamente seguiti dalla scienza politica europea. Lo sviluppo e la struttura degli Stati; i fondamenti e i limiti della sovranità; la natura dei regimi politici; le forme del dominio, del potere e dell'autorità; l'evoluzione delle istituzioni; la tipologia dei partiti: questi e altri affini erano stati i temi privilegiati dagli europei, lungo una linea che da Montesquieu e Vico arrivava a Tocqueville e a Mosca, a Mill e a Weber. Senza che ciò significasse un accantonamento totale dei temi accennati, tra molti studiosi statunitensi si affermò ben presto la convinzione che i fenomeni della politica potevano venir meglio compresi esaminando, mediante gli strumenti della ricerca sociale empirica, in qual modo determinati individui e gruppi intervengono con comportamenti osservabili sulla scena politica onde affermare specifici interessi.
Un'opera che grandemente pesò nel dare impulso all'approccio comportamentista (behavioral approach) tra gli studiosi statunitensi fu The process of government di Arthur F. Bentley (v., 1908), un esponente del pragmatismo che produsse anche opere sull'interazione individuo-società in collaborazione con John Dewey. All'organicismo degli europei e alla loro inclinazione a ragionare sulla politica all'ombra di categorie astratte, quale la 'volontà generale', Bentley contrapponeva l'esigenza di studiare da vicino i gruppi che sono indotti dai loro interessi materiali a esercitare forme di pressione diretta e indiretta sul legislativo, sull'esecutivo, sul giudiziario.
A metà del secolo l'approccio 'comportamentista' nella scienza politica fu codificato da Lasswell e Kaplan (v., 1950). Una scorsa alla loro opera è sufficiente a provare che il comportamentismo da essa propugnato non ha virtualmente alcuna parentela con il comportamentismo psicologico, o behaviorismo. Infatti sin dalle prime pagine si parla di personalità, del concetto di 'Sé', di identificazioni, di valori e sentimenti dell'attore, come di elementi essenziali per la comprensione del comportamento politico: giusto quegli elementi che il comportamentismo classico tende a escludere o - anche nelle successive revisioni - a porre comunque in secondo piano nello schema esplicativo del comportamento.
L'uso invalso di definire comportamentismo lo studio della politica centrato sull'agire di individui e gruppi, anziché sulle istituzioni o sullo Stato, ha tuttavia recato non pochi problemi alla definizione della propria identità da parte della scienza politica statunitense. Non sono infatti mancati i tentativi, da parte di politologi sia favorevoli che contrari a esso, di interpretare il programma di ricerca comportamentista come una proposta di applicare il comportamentismo psicologico strettamente inteso allo studio del comportamento politico. In tale situazione, quasi vent'anni dopo l'opera di Lasswell e Kaplan, vari studiosi di primo piano dovevano mobilitare una vera batteria di argomenti metodologici e storici per ribadire che abbracciare il comportamentismo nella scienza politica non significa affatto far propri i principî del comportamentismo psicologico (v. Easton e altri, 1967; cfr. Dahl, in Sartori, 1970).
Mentre nella scienza politica si designa tuttora con 'comportamentismo' un indirizzo di ricerca che in modo esplicito rifiuta di venir confuso con il comportamentismo psicologico, diverse scienze sociali - inclusa la scienza politica - hanno prodotto e producono un gran numero di ricerche che contengono forme di comportamentismo radicale, ma non dichiarate.
Come prospettava con la consueta incisività Pitirim A. Sorokin nella prima delle sue storie della sociologia, uno studio rigorosamente comportamentista "parte con uno stimolo trans-soggettivo che può essere misurato, procede con fenomeni trans-soggettivi, e finisce con fatti trans-soggettivi". Seguiva la precisazione che "la catena causale dei fenomeni trans-soggettivi non deve venire spezzata dall'inserimento di istanze o esperienze psichiche interiori" (v. Sorokin, 1928, p. 628). Lo stesso autore affermava di aver utilizzato egli stesso un simile procedimento per esaminare gli effetti della fame (lo stimolo) sul comportamento umano, l'organizzazione sociale e la vita sociale (le risposte), che egli poté osservare di persona durante la terribile carestia verificatasi in Russia ai tempi della guerra civile (1918-1920).
L'archetipo del suddetto procedimento è ovviamente reperibile, sin dalle origini, nella scienza economica. Le correlazioni che essa stabilisce tra il prezzo e la domanda d'un bene da parte dei consumatori, tra investimenti e occupazione, tra profitti di impresa e valori di borsa, tra costo del lavoro e costo del prodotto, tra spese pubblicitarie e permanenza media d'un prodotto sul mercato, e innumerevoli altre consimili, sono appropriatamente interpretabili come correlazioni tra stimoli e fenomeni o atti, ovvero risposte, trans-soggettivi.
In siffatte correlazioni sono presenti i principali criteri di definizione del comportamentismo psicologico, con le sue varianti. Uno stimolo la cui intensità è misurabile (la diminuzione di prezzo) è seguito da una risposta (l'aumento della domanda), anch'essa misurabile: è il criterio del comportamento riflesso. Se un consumatore acquista casualmente varie unità d'un bene prodotto da differenti marche, e il bene d'una data marca lo soddisfa più di altri, comincerà a cercare e acquistare più spesso il bene di quella marca: un nitido caso di comportamento operante. Se la pubblicità insiste a lungo sui pregi di quel bene, la fedeltà del consumatore ne risulterà proporzionalmente accresciuta, secondo quanto prevede, nel comportamentismo psicologico, il criterio del rinforzo.
Analoghe forme di comportamentismo implicito sono presenti nelle ricerche di sociologia che studiano con strumenti statistici, ad esempio, la relazione tra dimensioni delle aziende e attribuzione del voto a determinate formazioni sindacali; tra classe sociale e completamento degli studi universitari; tra grandezza delle città e partecipazione a cerimonie religiose; tra numero dei medici per n abitanti e tasso di mortalità infantile; tra composizione d'una popolazione per sesso, età e razza, e profilo delle persone arrestate (per un campione di tabelle così impostate, v. Smelser, 1981).
Quanto detto vale ugualmente per le ricerche politologiche che studiano i rapporti tra composizione dei consigli degli enti locali e processi di formazione delle decisioni; tra spese statali o comunali e distribuzione del voto alle elezioni politiche; tra stratificazione sociale e socializzazione politica; tra stadio di sviluppo economico, o di modernizzazione d'una società, e tipo e livello di sviluppo politico che in essa si osserva (v. Sartori, 1970).
Come notava a suo tempo ancora Sorokin, lo studio delle relazioni osservabili e misurabili in modo valido e affidabile tra fenomeni trans-soggettivi è una componente fondamentale della ricerca sociale. Il suo valore risulterebbe tuttavia accresciuto se le varie forme di comportamentismo insite in gran parte delle odierne ricerche economiche, sociologiche e politologiche venissero rese maggiormente esplicite. Ciò permetterebbe sia di fare un uso più sistematico delle teorie comportamentiste, sia di far emergere eventuali incompatibilità - che si possono presumere assai frequenti - tra il paradigma teorico cui il ricercatore afferma di ispirarsi e il paradigma comportamentista che di fatto utilizza nelle sue ricerche.
Benché sia di gran lunga il più diffuso, il comportamentismo insito nella ricerca di covariazioni o correlazioni statisticamente misurabili tra fenomeni trans-soggettivi non è l'unica forma di comportamentismo implicito nelle scienze sociali. Come ha rilevato di recente George C. Homans - il maggior esponente del comportamentismo psicologico in sociologia - "molti scienziati sociali usano il comportamentismo senza rendersene conto. Lo chiamano utilitarismo o teoria della scelta razionale. [In tal modo] assomigliano al Monsieur Jourdain di Molière, che alla fine scoprì che da più di quarant'anni stava parlando in prosa" (v. Homans, 1987, p. 65).Questa critica di Homans si addice sicuramente a parecchi teorici della razionalità, ma non può essere generalizzata. Da un lato, infatti, troviamo autori come John C. Harsanyi - non a caso un economista - secondo i quali le teorie del comportamento razionale debbono il loro notevole potere esplicativo a "una caratteristica empirica generale e fondamentale del comportamento umano, cioè al suo essere diretto verso uno scopo, orientato al perseguimento di un fine" (v. Harsanyi, 1977; tr. it., p. 26). Nessun tipo di processo mentale soggettivo è necessario addurre per spiegare il comportamento razionale; al peggio, come postulava già Pareto, bisogna ricorrere a qualcuno di essi quando si vogliano spiegare le deviazioni dalla razionalità. In simili casi sembra lecito concludere che si è in presenza, tra i teorici della razionalità, d'una forma di comportamentismo implicito.
Dall'altro lato, sociologi come Jon Elster, o filosofi dell'azione come Donald Davidson, definiscono azione razionale "quella che si trova in un certo rapporto con le credenze e i desideri dell'attore" (v. Elster, 1983; tr. it., p. 11, corsivo nostro). Per Davidson (v., 1980), anzi, ciò che un attore vuole, apprezza, gradisce, o ritiene obbligatorio, è da considerare, sia pure a certe condizioni, come vera e propria causa dell'azione. Ora, credenze e desideri, apprezzamenti e sensi di obbligo rientrano appunto tra quei processi mentali che un comportamentista rigoroso tenderebbe a escludere dal suo schema esplicativo, quantomeno dal lato delle cause. Non tutti i teorici della razionalità, dunque, parlano in prosa senza saperlo.
In una storiella che circola tra gli psicologi, un topo appena arrivato chiede a un altro topo, da tempo sul posto, come si trovi in un certo laboratorio. "Non male - risponde il topo anziano -, sono riuscito a condizionare così bene un paio di ricercatori che ogni volta che premo questa levetta essi mi danno subito del cibo". Per quanto esile, la storiella contiene una seria critica dell'asimmetria insita nello schema esplicativo del comportamentismo psicologico classico e una proposta di revisione. Tale schema esplicativo implica infatti un soggetto agente, o un ambiente, che sottopone a condizionamento un altro soggetto, senza mai risultare, in effetti, condizionato a sua volta.
Il comportamentismo psicologico trasferito alla sociologia, in specie nel campo delle relazioni interpersonali, pone in un certo senso riparo a tale asimmetria. Esso prevede infatti due soggetti - di norma due individui, ma talora un individuo e un gruppo, o due gruppi - che si scambiano risorse sociali. A seconda degli ambienti e della situazione, tali risorse consisteranno di informazioni o di supporto affettivo, di doni o di consigli, di comandi o di consenso. A codesto scambio sociale si applicano, con vari affinamenti, le principali proposizioni del comportamentismo psicologico, ovvero quelle attinenti al comportamento riflesso, al comportamento operante, al rinforzo, al valore incrementale o decrementale dei compensi e delle privazioni.
Così, se in un ufficio l'impiegato A, sopportando un costo perché ammette un'inferiorità, chiede un consiglio a B, e lo ottiene con gentilezza perché B si sente gratificato in termini di prestigio dalla richiesta di A, diventa più probabile che A chieda di nuovo consigli a B alla prima occasione. Ma, dopo aver soddisfatto alcune richieste, B comincerà a essere meno gentile, deprivando A, perché B è ormai sazio di gratificazione in termini di prestigio, mentre comincia a trovare deprivante il tempo dedicato ad A. A sua volta il comportamento di A, prima rinforzato dalla gentilezza di B, viene a essere de-rinforzato sia dal calare di questa, sia dal fatto che dopo un certo numero di richieste il suo senso di inferiorità comincia a essere troppo costoso (v. Blau, 1964).
Con gli strumenti del comportamentismo psicologico sono stati studiati una gran varietà di comportamenti e di processi sociali: la dinamica dei gruppi di lavoro come i rapporti di coppia; i doni tra amici e parenti come l'organizzazione interna di diversi tipi di associazione; la formazione e il declino di forme di autorità come le concezioni sociali della giustizia (v. Homans, 1961 e 1987; v. Opp, 1972; v. Raub e Voss, 1981).
Alle proposizioni del comportamentismo psicologico, e agli adattamenti e affinamenti resi opportuni dall'uso in un ambito diverso, i sociologi aggiungono in genere l'impiego delle leggi di composizione. Con questa espressione, che risale al System of logic di John Stuart Mill, ci si riferisce al fatto che un gran numero di azioni individuali razionalmente perseguite e dalle conseguenze prevedibili sul piano personale, come il citato scambio di consigli e prestigio tra l'impiegato A e l'impiegato B, possono interagire tra loro dando origine a effetti collettivi imprevedibili, e spesso indesiderati o 'perversi'.
A causa dell'operare delle leggi di composizione, accade che singoli individui vadano in cerca di un'abitazione in un vicinato che non presenti forme accentuate di segregazione per razza, classe sociale o religione, e finiscano per generare collettivamente un vicinato completamente segregato (v. Schelling, 1978). Masse di individui manifestano un aumento considerevole della domanda di istruzione nelle società industriali, allo scopo di accrescere le loro opportunità di mobilità sociale e di ottenere quindi una maggior uguaglianza, ma come risultato collettivo le disuguaglianze permangono o aumentano (v. Boudon, 1977). I processi che collegano questi fenomeni trans-soggettivi sono coerenti tanto con i principî del comportamentismo psicologico, quanto con quelli dell'individualismo metodologico, al punto che ci si può chiedere, con Homans, se il secondo non implichi in ogni caso il primo.
Laddove il comportamentismo psicologico, discendente da Watson, aveva proposto di studiare il segmento che va dallo stimolo alla risposta comportamentale escludendo l'intermediazione della coscienza, George Herbert Mead reintrodusse con forza la coscienza al centro del segmento, e prolungò quest'ultimo dai due lati sino a includervi tutte le relazioni sociali in cui un individuo è coinvolto. Esse non sono viste da Mead come fattori che influenzano la mente, bensì come elementi costitutivi di essa. Denunciati i limiti del comportamentismo watsoniano, e designato esplicitamente il proprio approccio al comportamentismo sociale (etichetta oggi debole, perché anche il comportamentismo di Blau o di Homans è a suo modo 'sociale'), così Mead definiva la mente: "Il campo della mente va considerato coestensivo con il campo sociale nel quale scorrono l'esperienza e il comportamento, e inclusivo di tutte le sue componenti. Tale campo è la matrice delle relazioni e interazioni sociali fra gli individui che la mente presuppone e dalla quale essa emerge o viene in essere. Se la mente è socialmente costituita, allora il campo o luogo d'una data mente individuale deve estendersi quanto si estende l'attività sociale o l'apparato di relazioni sociali che la costituisce; tale campo, perciò, non può essere limitato dalla pelle dell'organismo individuale a cui appartiene" (v. Mead, 1934, p. 223).Insita in siffatta concezione sociale della mente è l'ipotesi che il soggetto che induce nell'altro, con i propri atti o gesti intenzionali, volutamente significativi, una determinata risposta tende poi ad agire come agisce l'altro individuo. Detto altrimenti, Ego sviluppa l'inclinazione ad assumere il ruolo di Alter, visualizzando il proprio agire dal punto di vista di questi. È codesto l'aspetto propriamente interazionista del comportamentismo di Mead. Non per questo esso cessa di essere una forma genuina di comportamentismo, poiché l'intero processo è identificabile con una forma di apprendimento affatto conforme ai dettami del comportamentismo classico, benché l'apprendimento stesso sia anche in questo caso, come nelle altre applicazioni sociologiche del comportamentismo prima menzionate, bilaterale. Nel corso di tale apprendimento la risposta di Ego non soltanto viene rinforzata da quella di Alter, ma viene applicata dall'attore a se medesimo divenendo una componente strutturale della coscienza del Sé.Uno dei contributi più significativi recati alla sociologia dal comportamentismo sociale di Mead è infatti il concetto di altro generalizzato. Attribuendo particolare peso al linguaggio, che consente di sviluppare il dialogo interiore tra 'io' e 'me', Mead concepiva l'altro generalizzato come l'insieme degli atteggiamenti di una comunità che l'attore percepisce, avverte, riconosce nel corso dell'interazione con altri. Sono, questi, tanto gli atteggiamenti che la comunità manifesta verso il soggetto, quanto quelli che essa esprime rispetto ad altri attori o a problemi collettivi. Essi penetrano stabilmente nel pensiero del soggetto, contribuendo alla formazione sia di un Sé unitario, sia di un interlocutore interno che costituisce il primo elemento di confronto al momento di concepire e attuare un atto socialmente significativo (v. Gallino, 1987).
Il comportamentismo sociale o meglio interazionista di Mead ha dato origine a vari indirizzi della sociologia contemporanea, oppure è entrato in essi quale componente di grande rilievo. Tra questi indirizzi vanno ricordati l'interazionismo simbolico, la etnometodologia e l'approccio drammaturgico allo studio delle relazioni interpersonali elaborato da Erving Goffman. Tuttavia, se può dirsi che in tali indirizzi è stata pienamente conservata la concezione meadiana dell'estensione della mente e dell'azione o comportamento al di là dell'individuo, minor attenzione hanno ricevuto i processi di apprendimento interattivo che sono alla base della formazione del Sé e dell'altro generalizzato. Entro la mente dell'attore modellizzata da Mead fluiva e agiva l'intera società; entro la mente degli attori sociali modellizzati dai citati indirizzi della sociologia attuale, essa appare penetrare solo a tratti, in modo contingente, come una sequenza discreta di spezzoni di società tra loro non comunicanti.
Al comportamentismo interazionista è toccato sostenere il ruolo, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, del maggior critico dell'impostazione dominante in due campi di ricerca, strettamente collegati, che sono stati annoverati tra le innovazioni più rivoluzionarie verificatesi nelle scienze umane e sociali nella seconda metà del XX secolo: il cognitivismo e l'intelligenza artificiale (v. Gardner, 1985). Secondo tale impostazione, la mente viene modellizzata - in modo esplicito dai cognitivisti, in modo spesso implicito dagli esperti d'intelligenza artificiale - come un contenitore autosufficiente, in cui si ipotizza siano inserite tutte le regole e le conoscenze necessarie per risolvere un determinato problema: come compiere una diagnosi medica, ricostruire il senso di un racconto, decidere e attuare una forma di comportamento.
Tale modello viene poi trasdotto in un programma per elaboratore. Le regole sono organizzate in un motore inferenziale, un modulo di programma che simula passi di ragionamento logico, fondato in genere sulla logica dei predicati del primo ordine. Le conoscenze sono strutturate e rappresentate in apposite basi di conoscenza. Soltanto i dati contingenti del problema vengono immessi di volta in volta dall'esterno, benché sia sempre possibile aggiornare o integrare le basi di conoscenza con nuove informazioni. Alla luce del comportamentismo interazionista la concezione della mente presupposta da simile modello appare difficilmente sostenibile. Per il comportamentismo interazionista la mente e il comportamento si presentano e sono modellizzabili solamente come un processo distribuito, trans-personale non meno che personale. Il comportamento sociale non viene strutturato a priori da regole e conoscenze che fuoriescono, compiutamente preformate, da un contenitore mentale. Esso consta piuttosto di flussi di atti significativi ampiamente distribuiti, alternantisi e alimentantisi a vicenda, in situazioni che comprendono sempre una varietà di attori e di altri oggetti fisici, sociali e culturali.I limiti dell'impostazione dominante nel cognitivismo e nell'intelligenza artificiale emergono con particolare evidenza, agli occhi dei critici che si rifanno al comportamentismo interazionista, dagli scarsi successi ottenuti finora dalle due discipline nel tentativo di generare forme di discorso prive di ambiguità mediante sistemi informatici, insiemi talora assai vasti e complessi di programmi cooperativi. La tecnica più seguita consiste nel dotare il sistema del maggior numero di regole - strutturate in questo caso non in un motore inferenziale, ma in un analizzatore sintattico (parser) - allo scopo di fargli capire che lo stesso termine ha un significato diverso a seconda del contesto di altri termini nel quale si colloca. Ad esempio se, nel contesto del discorso, 'vecchia' è già stata designata come persona, capace di compiere azioni, il sistema deve comprendere che la frase "la vecchia legge la regola" avrà un significato diverso rispetto a un contesto dove 'vecchia' è un aggettivo, 'legge' è un oggetto di normativa giuridica e non una forma verbale, e l'azione è attuata o attuabile da un oggetto, non da una persona.
Ciò che i fautori di tale tecnica sembrano ignorare è che la risoluzione delle ambiguità in qualsiasi tipo di discorso è di fatto una pratica pubblica. Dalla situazione in cui si vede collocato, ossia dagli attori con i quali interagisce, un attore sociale trae, di momento in momento, gruppi di indizi circa il significato di ciò che sta accadendo e a cui partecipa con i suoi atti. In base a tali indizi l'attore costruisce varie presupposizioni che procede quindi a vagliare e via via a scartare, osservando e anticipando azioni e re-azioni degli altri attori-in-situazione, sino a soffermarsi sulla presupposizione che si rivelerà esatta, o comunque efficace per la sua azione.
Perciò la risoluzione dell'ambiguità attiene all'essenza della comunicazione sociale e dei processi d'interazione mediante i quali diversi attori giungono a condividere significati comuni, senza doverne fare oggetto di discussione esplicita. Se non si coglie questa sua essenza pubblica, generazione e disambiguazione del discorso non saranno mai alla portata di sistemi d'intelligenza artificiale capaci di funzionare in modo adeguato in situazioni reali (v. Coulter, 1977; cfr. Coulter e altri, in Gilbert e Heath, 1985).
A parte i suoi possibili effetti diretti sul cognitivismo e sull'intelligenza artificiale, tale confronto ha comunque ridato nuova e manifesta vitalità a un indirizzo della sociologia - non soltanto il comportamentismo interazionista, ma il comportamentismo 'sociale' in genere - che in varie occasioni era stato giudicato ormai irrilevante per la ricerca sociale contemporanea, nonostante che, come si è visto, esso risulti tuttora praticato, quantomeno in modo implicito, dalla maggior parte dei ricercatori. (V. anche Psicologia sociale; Sociobiologia).
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