Aggressivo, comportamento
Il termine 'aggressione' deriva dal verbo latino aggredi, che può essere inteso sia nel senso di assalire, sia nel senso di far fronte a una sfida: in senso figurato, si 'aggredisce' una difficoltà e si 'affronta' un compito. Già da questa terminologia appare chiaro che si tratta di far valere i propri desideri contro certe resistenze e, nel caso dell'aggressione vera e propria, di superare a viva forza un ostacolo mediante una lotta o un comportamento di minaccia. Nel corso di questa interazione l'avversario può essere ucciso, scacciato o assoggettato: comunque sia, il vincitore acquista dominanza sul vinto. L'aggressività, ossia la disposizione all'azione aggressiva, può essere causata sia da processi esterni, sia da processi che si svolgono nell'organismo stesso.
Nella nostra analisi dovremo distinguere l'aggressione interspecifica da quella intraspecifica. Gli animali predatori cercano in genere di uccidere rapidamente e con sicurezza le loro vittime, e in questo contesto funzionale l'aggressione interspecifica tende sempre alla distruzione della preda; invece la lotta tra individui della stessa specie si limita per lo più a duelli intimidatori, e anche quando si arriva a una prova di forza fisica essa è condotta spesso in modo incruento, secondo le regole di un torneo (v. Eibl-Eibesfeldt, 1970 e 1975). Così, ad esempio, si contendono il territorio i maschi dell'iguana marina: dopo una fase iniziale di minacce, ciascuno cerca di allontanare l'altro spingendolo con la testa; se a un certo punto uno dei due si rende conto di essere il più debole, si appiattisce al suolo dinanzi all'avversario e questi, rispettando l'atteggiamento di sottomissione del vinto, attende, sempre in posizione di minaccia, che abbandoni il campo. Combattimenti rituali di questo genere, simili a tornei, sono stati descritti in molti vertebrati, e vanno distinti dai combattimenti cruenti in cui gli animali si avventano l'uno contro l'altro con gli artigli o le zanne; tuttavia anche in questi casi il corpo a corpo viene per lo più interrotto e concluso in modo incruento, grazie a particolari atteggiamenti di sottomissione. Spesso al servizio di queste lotte rituali si sono sviluppate apposite armi, come ad esempio i vari tipi di corna delle antilopi.
L'aggressione intraspecifica è osservabile non solo negli animali predatori ma anche negli erbivori, che non sono affatto più pacifici dei primi: nella stagione degli amori i cervi intraprendono furiosi duelli e il gallo, che non è certo un predatore, è addirittura assurto a simbolo dell'animale con tendenza al combattimento. Anche nei primati l'aggressività intraspecifica è molto spiccata: ad esempio negli scimpanzé - gli animali più vicini alla specie umana - vi sono all'interno del gruppo violenti contrasti riguardo alle posizioni gerarchiche. Notevole è inoltre che gli appartenenti a gruppi diversi combattano aspramente fra loro in caso di sconfinamento nei rispettivi territori. Tuttavia le aggressioni contro un membro dello stesso gruppo sono di norma controllate e attenuate, così che in questo caso di rado si arriva a uccidere o a infliggere lesioni gravi; gli estranei al gruppo, invece, sono spesso oggetto di aggressioni non inibite, che sovente hanno anche esito letale. In linea di principio ciò vale anche per gli uomini, e pertanto nel seguito distingueremo le aggressioni all'interno di un gruppo da quelle contro i membri di un altro gruppo: nell'uomo queste ultime possono assumere la forma distruttiva della guerra.
Gli psicologi definiscono 'aggressivo' ogni comportamento che arrechi intenzionalmente danno a un altro individuo o a una cosa; nell'uomo l'intenzione che muove l'aggressore può essere talvolta identificata attraverso domande, ma per lo più va dedotta da osservazioni. Tuttavia, il legame fra intenzionalità e danno è valido limitatamente: vi sono infatti anche aggressioni fondate su intenti benevoli, come quelle a fini educativi praticate in molte culture. E anche il fattore 'danno', spesso utilizzato dagli psicologi, è pertinente solo in certi casi: di solito nei combattimenti del tipo di un torneo lo sconfitto non riporta lesioni, anche se può vedere diminuita la sua possibilità di riprodursi. Sarà meglio pertanto limitarsi a definire 'aggressivi' tutti quei moduli di comportamento mediante i quali l'uomo afferma i propri interessi contro la resistenza di altri individui, acquistando così dominanza.
L'aggressione è inserita funzionalmente nei più svariati contesti: può servire a conquistare l'accesso alle risorse, a respingere i rivali, a stabilire rapporti di dominanza, ecc. In generale, se un comportamento orientato verso uno scopo incontra degli ostacoli, per rimuoverli viene messa in atto un'aggressione. Ai comportamenti aggressivi sono correlati quelli di difesa, di sottomissione e di fuga, e tutti insieme formano un sistema funzionale coerente, che prende il nome di sistema 'di ostilità' o 'agonistico'. Ogni organismo deve avere infatti la possibilità di non comportarsi soltanto da lottatore, e il sottomettersi o il darsi alla fuga rappresentano alternative importanti ai fini dell'autoconservazione. "Un guerriero impavido non vive a lungo", usava dire a questo proposito Tinbergen. Le possibili relazioni sono raccolte nel seguente prospetto.
Comportamento ostile (o agonistico)
Sistema di lotta
1. Moduli comportamentali di aggressione
minaccia
lotta
2. Moduli comportamentali di difesa
minaccia
lotta
Sistema di fuga
3. Moduli comportamentali di sottomissione
4. Comportamento di fuga
Non sono mancati tentativi di distinguere nel comportamento aggressivo un certo numero di categorie, valendosi di criteri di classificazione disparati: si è fatto riferimento a presunti stimoli scatenanti (come il dolore), a presunte motivazioni (invidia, fame, ecc.) o a criteri funzionali (aggressione punitiva). È stato inoltre affermato che queste categorie corrispondono a forme di aggressione molto diverse tra loro, ma ciò non è assolutamente dimostrabile. Converrà partire dall'idea che vi sia un unico sistema di aggressione intraspecifica, attivabile in vario modo e tale da consentire a un organismo di superare gli ostacoli che gli si oppongono e di dominare così, in senso del tutto generale, una data situazione o i propri congeneri.
Negli ultimi anni l'aggressività intraspecifica è stata al centro di un vivace dibattito. L'accresciuto interesse per questo tema si spiega da un lato col fatto che nello stato attuale della tecnologia bellica una guerra potrebbe compromettere l'esistenza stessa dell'umanità civilizzata, e dall'altro col fatto che nell'anonima società di massa i fenomeni aggressivi turbano in misura sempre maggiore la pacifica convivenza. Secondo Konrad Lorenz (v., 1963), nell'attuale situazione storico-culturale e tecnologica dell'umanità, l'aggressività intraspecifica rappresenta il pericolo più grave; da qui la necessità d'identificare le cause di un simile comportamento. A questo proposito il biologo è portato naturalmente a supporre che un comportamento così diffuso debba assolvere funzioni utili alla sopravvivenza degli organismi che lo mettono in atto: la conoscenza di tali funzioni e delle loro basi fisiologiche è il presupposto per la comprensione dei disturbi del comportamento che minacciano oggi la nostra esistenza.Per spiegare la genesi dell'aggressività sono state elaborate varie teorie, tutte fondate su osservazioni ed esperimenti scientificamente corretti; non sono quindi giustificate le pretese di validità esclusiva avanzate talora per alcune di esse.
Il modello della psicologia dell'apprendimento parte dal presupposto che i moduli comportamentali aggressivi vengano appresi. Fin dalla prima infanzia le richieste fatte in modo aggressivo possono avere successo, e ciò rinforza un tale comportamento: il bambino impara a usare in modo strumentale i moduli aggressivi per conseguire determinati scopi. L'apprendimento può avvenire anche attraverso modelli sociali (v. Bandura, 1973). Ad esempio, è stato studiato sperimentalmente il modo di comportarsi di due gruppi di bambini, a uno solo dei quali si sono fatti osservare i maltrattamenti inflitti da adulti a un pupazzo di gomma: in seguito i membri di questo gruppo, in situazioni di frustrazione artificialmente provocate, hanno trattato i loro pupazzi con maggiore aggressività di quelli dell'altro gruppo, che non erano stati testimoni del comportamento degli adulti. Anche nella normale vita quotidiana il bambino tende a identificarsi col modello bellicoso o pacifico rappresentato dai suoi genitori, a condizione naturalmente che egli abbia con loro un rapporto positivo.
Secondo quest'ipotesi, il comportamento aggressivo è suscitato da esperienze di privazione subite nella prima infanzia (v. Dollard e altri, 1939). Ogni ostacolo a un comportamento orientato verso uno scopo (cioè ogni frustrazione) provoca un'aggressione che aiuta a superare l'ostacolo stesso; in tal caso il comportamento aggressivo è considerato al servizio di altre motivazioni, e non è necessario supporre che esista una vera e propria pulsione aggressiva. Secondo Dollard, che ha avanzato per primo quest'ipotesi, si tratterebbe di un comportamento reattivo, che si attua inevitabilmente, in quanto il reagire a una frustrazione con un'aggressione è un modello innato e le frustrazioni non vengono mai a mancare del tutto; sarebbe peraltro possibile ridurle al minimo durante l'età evolutiva e allevare in tal modo uomini con tendenze pacifiche. È stato dimostrato sperimentalmente che una frustrazione può avere come conseguenza diretta un'aggressione; rimane tuttavia aperto il problema se le esperienze di privazioni subite nella prima infanzia provochino in seguito un aumento dell'aggressività. Per dar ragione degli atteggiamenti aggressivi sono stati proposti i motivi più svariati: il trauma della nascita, lo svezzamento, l'educazione alla pulizia, la presunta repressione della sessualità infantile. Si tratta però di ipotesi non comprovate, e ciò inficia la validità delle proposte pedagogiche fondate su di esse.
Queste teorie sono fondate sull'ipotesi che in ogni uomo vi sia un impulso innato all'aggressione. Era questa l'opinione di Freud, il quale postulò l'esistenza di una mistica 'pulsione di morte' che spingerebbe l'uomo a un comportamento distruttivo; oggi la sua concezione è stata soppiantata dalla teoria biologica della pulsione aggressiva. Da osservazioni su animali è risultato che la disposizione al comportamento aggressivo è soggetta a fluttuazioni non riconducibili a corrispondenti modificazioni dell'ambiente esterno. In alcuni vertebrati i meccanismi motivazionali endogeni provocano un'appetenza all'aggressione, che in certe razze di galli da combattimento porta a interessanti azioni su oggetti sostitutivi: se allevati senza contatti sociali, questi animali cercano di colpire col becco e con gli speroni la loro stessa coda, e quando sono esposti al sole scaricano l'aggressività contro la propria ombra. Anche nell'uomo sembra che l'aggressività non sia un fenomeno puramente reattivo (v. Kruijt, 1964): gli androgeni, ad esempio, accrescono la disposizione alla reazione aggressiva. Sono stati più volte indagati sperimentalmente fenomeni di accumulo e di scarico (Abreaktion) dell'eccitazione aggressiva, ma la fisiologia dei meccanismi motivazionali è ancora poco conosciuta. Esistono strutture neuronali che sono alla base dell'aggressività: in molti casi di epilessia temporale sono stati osservati accessi d'ira spontanei, che i malati non riescono a dominare (v. Moyer, 1971).
Questa teoria presenta un quadro più ampio ed è fondata sull'ipotesi (v. Lorenz, 1963) che il comportamento aggressivo si sia sviluppato al servizio di varie funzioni e sia quindi programmato in anticipo mediante adattamenti filogenetici, diversi da una specie all'altra; nei vertebrati, tuttavia, questa programmazione è solo parziale, e in particolare nell'uomo ha una notevolissima importanza il successivo apprendimento.Gli adattamenti filogenetici determinano il comportamento agonistico dell'uomo in vari modi.
Situazioni stimolatorie scatenanti. - Fra i sei e gli otto mesi il bambino comincia a distinguere le persone conosciute da quelle estranee: mentre fino a quell'età egli sorrideva a chiunque gli si rivolgesse in modo amichevole, ora le persone estranee suscitano in lui un comportamento caratterizzato da una palese ambivalenza. Nel caso tipico il piccolo sorride al nuovo venuto, ma sembra poi impaurirsi e si volge verso la madre come in cerca di protezione, per riassumere, dopo una breve pausa, un atteggiamento amichevole verso l'estraneo: le sue reazioni oscillano cioè fra l'attrazione e la ripulsa. Se l'estraneo rimane a distanza, il bambino si abitua alla sua presenza e acquista fiducia; ma se l'estraneo si avvicina senza lasciar tempo al piccolo di assuefarsi a lui, provoca spesso forti reazioni di panico e di rifiuto. Queste reazioni sono state riscontrate finora in tutte le culture da noi studiate, e dunque si tratta di una costante antropologica (v. Eibl-Eibesfeldt, 1986²): il comportamento in questione non deriva da esperienze negative ed è presentato anche da bambini che non hanno mai ricevuto alcun danno da estranei. Evidentemente, a cominciare da una certa età e in seguito a processi di maturazione, l'uomo reagisce con paura a determinati segnali dei suoi simili, mentre altri segnali provocano in lui un atteggiamento amichevole.
Fenomeni simili sono stati osservati nel macaco reso. G. P. Sackett (1966) allevò questi animali entro gabbie d'isolamento nelle quali non potevano vedere né se stessi né altri esseri viventi, e mostrò loro dieci diapositive riproducenti vari soggetti, tra cui alcuni conspecifici. Dopo aver osservato ciascuna diapositiva le scimmiette potevano, premendo una leva, proiettarla di nuovo per una durata di 15 secondi, e ripetere ancora la proiezione più volte entro un periodo di 5 minuti; la frequenza di queste visioni autocomandate forniva un indice di gradimento delle varie immagini. Esso risultò molto maggiore per le diapositive raffiguranti scimmie che non per quelle con altri soggetti: le scimmie giovani, benché prive di qualsiasi esperienza sociale, trovavano più interessanti le prime, che provocavano in loro moduli comportamentali di avvicinamento e d'invito al gioco e vocalizzazioni tipiche della ricerca di contatto. Una delle immagini suddette rappresentava una scimmia in atteggiamento di minaccia; da principio anche questa diapositiva era tra le preferite, ma quando le scimmiette giunsero all'età di due mesi e mezzo vi fu un brusco mutamento. Mentre la frequenza delle visioni autocomandate relativa alle altre immagini di scimmie rimaneva elevata, quella relativa all'immagine minacciosa diminuì rapidamente, e al tempo stesso si ebbero negli animali evidenti manifestazioni di paura che li portavano a indietreggiare, a rattrappirsi e a emettere gridi di spavento. Poiché fino allora le scimmiette non avevano fatto alcuna esperienza sociale con individui conspecifici, questa capacità di discernimento dev'essere attribuita a processi di maturazione degli apparati percettivi.
Numerose ricerche etologiche hanno dimostrato che gli animali reagiscono con azioni aggressive ad alcuni semplici segnali dei loro congeneri. Tra questi esperimenti si possono considerare ormai classici quelli condotti da G. K. Noble e H. T. Bradley (1933) sugli iguanidi della specie Sceloporus undulatus, i cui maschi hanno sui fianchi delle strisce azzurre, mentre le femmine sono uniformemente grige. Il maschio tollera la presenza delle femmine, ma l'arrivo di un altro maschio scatena in lui l'aggressività; se però si dipingono sui fianchi di una femmina delle strisce azzurre, essa viene attaccata come se fosse un maschio, e viceversa, se vengono dipinte di grigio le strisce del maschio, questo non è più riconosciuto come rivale e viene tollerato. Il carattere distintivo costituito dalle strisce azzurre è dunque necessario e sufficiente a scatenare l'aggressione in questa specie animale, e gli esempi potrebbero moltiplicarsi a volontà.Per quanto riguarda invece l'uomo, occorrono ulteriori ricerche per stabilire esattamente quali segnali siano capaci di attivare un comportamento aggressivo. Un dato certo è l'ambivalenza con cui viene percepito lo sguardo. Se un essere umano vuole comunicare con un altro, deve guardarlo e segnalare così che il canale per il contatto è aperto; ma deve anche badare che lo sguardo non duri troppo a lungo e non diventi fisso, perché questo viene sentito come una minaccia. Per questa ragione chi parla ha cura d'interrompere continuamente il contatto visivo con l'interlocutore; questi invece può guardare l'altro con continuità, dovendo oltre tutto far attenzione ai segnali con cui gli verrà comunicato che sta per essergli ceduta la parola. I contatti mediante lo sguardo possono dunque essere sentiti come intimidatori, e ciò vale anche per altri modelli di esibizione visiva, che spesso vengono messi in evidenza culturalmente. Ad esempio, la moda maschile tende ad accentuare le spalle: presso i popoli primitivi ciò avviene mediante ornamenti di piume, così come corone di piume e altri copricapi vistosi servono a esaltare la statura. Vi è inoltre una mimica di minaccia fortemente differenziata, che a quanto pare costituisce un tratto universale del comportamento umano. Per quanto riguarda gli animali, tra i segnali di rifiuto ve ne sono alcuni di tipo olfattivo, come l'emissione di androstenolo, un feromone maschile che ha un effetto repellente sugli altri maschi. Infine, gli animali reagiscono con un'aggressione o con la fuga a certi segnali acustici: il canto territoriale di molti uccelli è una sfida ai rivali, e un valore analogo ha la percussione di tronchi d'albero da parte degli scimpanzé.
Tuttavia nell'uomo i segnali che scatenano la ripulsa e l'aggressione hanno efficacia soprattutto fra estranei, mentre fra persone che si conoscono il loro effetto è fortemente attenuato e il comportamento si orienta verso la fiducia. Per la maggior parte della sua storia l'uomo è vissuto in piccoli gruppi sociali, in cui ognuno conosceva tutti gli altri e in cui regnava quindi la reciproca confidenza; solo in tempi relativamente recenti si sono formate le società di massa, in cui avviene d'incontrare quotidianamente un gran numero di sconosciuti. Ciò provoca paure a livello subliminale che si rispecchiano nel comportamento. Bornstein (v., 1979) ha misurato la velocità con cui le persone camminano in alcune grandi città e ha trovato che essa aumenta con le dimensioni e con la densità dell'abitato. Inoltre nelle grandi collettività anonime gli individui evitano i contatti visivi, come chiunque può verificare usando l'ascensore in un albergo di una metropoli (v. Goffman, 1963). Nella società di massa gli individui tendono a celare la naturale espressione del volto, perché chi tradisce con la mimica facciale i propri stati d'animo invita alla comunicazione e si rende vulnerabile; un tale atteggiamento può peraltro irrigidirsi fino a impedire all'individuo di togliersi la maschera nello stesso ambito familiare, rendendo necessario il ricorso a una terapia di comunicazione.
L'uomo reagisce anche a situazioni stimolatorie complesse: così, se qualcuno maltratta un bambino indifeso o assale un nostro amico, vengono attivate in noi reazioni di protezione di tipo aggressivo. Si tratta forse di reazioni fondate su modelli normativi innati. Va da sé, infine, che in situazioni di confronto agonistico l'uomo valuta con mezzi cognitivi le proprie possibilità di successo e di fallimento.Come vi sono segnali che scatenano l'aggressione, così ve ne sono altri capaci di bloccarla: molti animali dispongono a tale scopo di segnali di sottomissione e di acquietamento. La sottomissione viene espressa per lo più in modo antitetico alla minaccia, col ridurre le dimensioni corporee: i pesci ripiegano le pinne, i sauri si appiattiscono di fronte al vincitore e negli animali capaci di cambiare colore l'individuo che riconosce la propria inferiorità muta l'abito più vistoso in uno più modesto. Anche l'uomo si fa più piccolo quando si sottomette. Tra gli uccelli che covano e tra i mammiferi un adulto può acquietarne un altro assumendo un comportamento infantile: ad esempio, un uccello può mendicare il cibo; i lupi possono sottomettersi al vincitore stendendosi sul dorso e urinando, ossia mettendosi nelle condizioni in cui il cucciolo si mostra alla madre perché lo pulisca; spesso la minzione provoca un leccamento da parte del vincitore, permettendo così l'avvio di relazioni amichevoli. In situazioni di paura anche l'uomo tende ad assumere atteggiamenti infantili.
Moduli motori. - Le ricerche su bambini sordi e ciechi dalla nascita hanno dimostrato che anche in loro sono presenti molti dei movimenti espressivi che di norma accompagnano gli atti d'aggressione: se irritati, questi bambini digrignano i denti, aggrottano la fronte, serrano i pugni e pestano i piedi in terra (quest'ultimo comportamento è interpretabile come un moto aggressivo ritualizzato). Poiché questi individui non hanno potuto imitare nessun modello sociale, deve trattarsi di moduli motori innati, com'è confermato dal fatto che i tipi di comportamento sopra descritti sono stati riscontrati anche in culture diverse. Esistono poi altri universali espressivi, che non sono osservabili presso individui sordi e ciechi perché in questi comportamenti ha un ruolo essenziale il canale d'espressione visivo: ciò vale per gli sguardi intimidatori, che possono dare origine a un particolare tipo di duello. Nell'uomo, in seguito a una forte eccitazione aggressiva, i muscoli erettori dei peli, situati alla base dei follicoli, si contraggono provocando una sensazione di brivido e la formazione della cosiddetta pelle d'oca: si tratta di un residuo comportamentale ormai privo di funzione, derivante dal fatto che in tale situazione si drizzava il pelame di cui i nostri predecessori erano ricoperti. Un altro gesto d'intimidazione arcaico è la minaccia fallica. Se un gruppo di cercopitechi si ferma in un luogo per il pasto, alcuni maschi siedono a guardia del gruppo, volgendogli le spalle; nel far ciò tengono gli arti inferiori leggermente divaricati e mettono in mostra i genitali esterni, vivacemente colorati (scroto azzurro e pene rosso vivo). La funzione di segnale di quest'esibizione è evidente: il comportamento di sentinella è destinato a tenere a distanza i conspecifici appartenenti ad altri gruppi, e se questi si avvicinano troppo i guardiani hanno un'erezione, mostrando con il loro atteggiamento intenzioni di monta (v. Wickler, 1967).
Per molti primati - come pure per altri mammiferi - la monta è un'espressione di dominanza derivata dal comportamento sessuale, che nel caso in questione viene ritualizzata in un gesto di minaccia. Casi simili si riscontrano anche nell'uomo. Varie popolazioni della Nuova Guinea mettono in risalto il pene rivestendolo con un astuccio: se un indigeno della tribù Eipo, abitante nella parte occidentale dell'isola, intende schernire qualcuno, slega il laccio che sostiene l'estremità dell'astuccio penico all'altezza dei fianchi e si mette a saltare sul posto, in modo da far oscillare vistosamente l'astuccio su e giù. Spesso questo tipo di minaccia è rappresentato nelle immagini falliche di pietra o di legno usate per segnare i confini o per tenere lontani gli spiriti maligni; figure analoghe, ma più piccole, servono da amuleti. In generale il comportamento d'intimidazione dell'uomo ha molti elementi in comune con quello dello scimpanzé.
L'aggressione può essere neutralizzata con tutta una serie di moduli comportamentali innati nell'uomo, ad esempio con il pianto, che è un movimento espressivo a cui ricorrono uomini di tutte le culture (v. Eibl-Eibesfeldt, 1987⁷), oppure con la minaccia d'interruzione del contatto, anch'essa diffusa in tutto il mondo: quest'ultima può assumere una forma non verbale, consistente nel rivolgere ostentatamente altrove lo sguardo e spesso tutto il corpo, o una forma verbale consistente nel dire qualcosa come "non voglio più parlare con te". In questo modo l'individuo che si sottomette può riuscire a bloccare una contesa che si svolga senza uso di armi, e spesso ad attivare nell'avversario la compassione. È vero che l'uomo, con la sua abilità nel costruirsi attrezzi, ha creato armi con cui può colpire e uccidere rapidamente e a distanza; tuttavia, per evitare che i conflitti all'interno di un gruppo diventassero sempre più distruttivi, ha anche elaborato particolari convenzioni sull'uso delle armi, come ad esempio le regole del duello. La ritualizzazione culturale dell'aggressione ha un ruolo importante nella vita dell'uomo e tocca il massimo livello di articolazione nella disputa verbale.
Meccanismi motivazionali. - È ancora oggetto di discussione il problema se esistano meccanismi primari che attivano l'aggressione o se invece questa si produca secondariamente, al servizio di altre pulsioni, e sia quindi motivata. Vari autori ritengono che l'aggressione non possa avere una motivazione propria, essendo posta, secondo ogni evidenza, al servizio di funzioni molto diverse tra loro; ma l'argomento non regge, perché sappiamo che ad esempio in parecchi vertebrati i moduli comportamentali del moto d'avanzamento (nuoto, corsa) vengono attivati da gruppi di cellule operanti in modo spontaneo e automatico, nonostante che la locomozione, in quanto attività strumentale, serva all'appagamento di numerose pulsioni. Esistono tuttavia notevoli differenze tra le varie specie: nella martora l'impulso al moto è così forte che l'animale, pur di soddisfarlo, cammina in modo stereotipato per ore su e giù nella sua gabbia, mentre il leone rimane per lo più fermo e tranquillo al suo posto. Si è affermato inoltre che un impulso specifico all'aggressione potrebbe avere effetti dannosi, in quanto l'appetenza alla lotta (Kampfappetenz) spingerebbe l'individuo ad abbandonare il suo territorio per andare in cerca di un rivale. Se però si trattasse di un impulso di modesta entità, le cose non andrebbero necessariamente in questo modo: si può pensare infatti che un simile impulso generi una disposizione sia all'attacco che alla difesa, disposizione che risulta adattativa allorché è importante reagire con rapidità. Del resto l'ipotesi di meccanismi motivazionali endogeni non presuppone affatto l'esistenza di un meccanismo pulsionale unitario.
L'aggressività umana presenta una notevole correlazione con il livello ormonale, nel senso che gli androgeni favoriscono la disposizione all'azione aggressiva; a questo proposito è interessante il fatto che nei tennisti il tasso di testosterone nel sangue aumenta dopo una vittoria e diminuisce sensibilmente dopo una sconfitta. Lo stesso avviene in campo intellettuale: in esperimenti eseguiti su studenti di medicina il tasso di testosterone è risultato più elevato in chi aveva sostenuto con successo un esame e più basso in chi non aveva superato la prova (v. Mazur e Lamb, 1980). Anche le catecolammine (dopammina, norepinefrina, epinefrina) hanno l'effetto di modificare la disposizione all'azione aggressiva.
Spesso l'uomo cerca situazioni in cui possa scaricare la sua aggressività partecipando o assistendo ad avvenimenti che lo coinvolgano in un'identificazione: senza dubbio egli è spinto da motivazioni aggressive e avverte anche soggettivamente un'appetenza alla lotta. Con particolari disposizioni sperimentali si è riusciti a evidenziare e a misurare l'accumulo e lo scarico dell'aggressività. Ad esempio, un ricercatore sottopose un gruppo di studenti a trattamenti che provocavano in loro uno stato d'irritazione, con conseguente aumento della pressione sanguigna; annunziò poi agli studenti che avrebbe eseguito alcune operazioni e che essi avrebbero potuto segnalare gli eventuali errori da lui commessi premendo un tasto. A una metà degli studenti fu fatto credere che la pressione del tasto avrebbe trasmesso al ricercatore una scossa elettrica, mentre all'altra metà fu detto che avrebbe fatto semplicemente accendere una lampadina; il risultato fu che nei membri del primo gruppo, convinti di poter inviare un impulso elettrico 'punitivo', la pressione sanguigna scese, mentre negli altri si mantenne su valori elevati e anche lo stato soggettivo di malumore perdurò a lungo (v. Hokanson e Shetler, 1961). Altre ricerche hanno dimostrato che l'irritazione indotta nei soggetti esaminati veniva meno se era data loro la possibilità di assistere a film con personaggi aggressivi: evidentemente in tal caso essi s'identificavano con tali personaggi e potevano così esteriorizzare la propria aggressività (v. Feshbach, 1961). Tuttavia l'effetto catartico ha sempre una durata limitata e dopo ripetute abreazioni tende a scomparire. Nel comportamento aggressivo vi è senza dubbio una componente dinamica, ma non è ancora accertato se i sistemi d'impulso fisiologici che ne sono alla base vengano acquisiti - come vorrebbe la teoria della frustrazione-aggressione - attraverso processi di apprendimento nel corso dell'età evolutiva; in tal caso la motivazione avrebbe carattere secondario. Gli etologi propendono piuttosto per l'ipotesi di un impulso primario, a favore della quale vi sono fra l'altro i risultati di alcune ricerche di fisiologia cerebrale (v. Moyer, 1971).
L'aggressione può essere al servizio di scopi molto diversi. In generale essa è un mezzo per acquisire e difendere risorse e per superare le resistenze che si oppongono ai comportamenti orientati verso uno scopo: può quindi servire a tener lontano dal partner sessuale un rivale, a conquistare o a conservare un territorio, a raggiungere una posizione di dominanza, a sondare con ricognizioni nell'ambiente sociale le possibilità d'azione.
In molti vertebrati, a cominciare dai pesci, il comportamento aggressivo intraspecifico serve ad assicurare a un individuo, a una coppia o a un gruppo il possesso di un territorio, che una volta conquistato viene difeso contro i conspecifici estranei. Questo comportamento può essere definito di 'intolleranza spaziale', in quanto di regola il detentore di un territorio assume in esso un atteggiamento di dominanza, come ha dimostrato fin dal 1951 Tinbergen (v., 1951) coi suoi classici esperimenti sugli spinarelli. Collocando i maschi entro contenitori di vetro, Tinbergen poté allontanarne uno dal suo territorio e trasportarlo verso la zona occupata da un altro spinarello. All'aumentare della distanza dal territorio la disposizione all'aggressione si convertiva in disposizione alla fuga; al confine tra le due zone le opposte disposizioni tendevano a equilibrarsi e gli animali ivi affiancati si minacciavano l'un l'altro; una volta entrato nel territorio dell'avversario, lo spinarello trasferito mostrava un netto aumento della disposizione alla fuga, mentre il detentore del territorio presentava una disposizione alla lotta e cercava di attaccare il rivale attraverso le pareti trasparenti del contenitore usato per il trasporto.
Con tale comportamento gli animali assicurano a sé o al loro gruppo le risorse necessarie per la sopravvivenza: cibi, nascondigli, partners sessuali, ecc. Spesso i territori vengono delimitati con particolari modalità ( 'marcatura'): da parte degli uccelli ciò avviene mediante appositi canti, mentre i mammiferi usano spesso segnali olfattivi. La territorialità è molto accentuata anche fra i primati: un gruppo di scimpanzé difende il suo territorio attaccando con violenza gli estranei, laddove ai membri del gruppo è consentito muoversi liberamente in esso.
Negli anni settanta la questione se anche l'uomo sia naturalmente predisposto alla territorialità è stata discussa con grande vivacità dagli studiosi, alcuni dei quali sono apparsi fortemente influenzati dal desiderio di caratterizzare l'uomo come un essere intrinsecamente pacifico. L'idea che egli sia buono per natura e venga poi corrotto dalla civiltà (in particolare dalla proprietà) risale a Rousseau, secondo cui la discordia fece la sua comparsa nel mondo quando per la prima volta un uomo recinse il proprio orto. Questa tesi è stata sostenuta da numerosi antropologi, sulla base di una presunta natura pacifica dei popoli cacciatori e raccoglitori tuttora esistenti: stando a ciò che riferiscono i suddetti autori, gli eschimesi, i pigmei e i boscimani del Kalahari non userebbero delimitare il territorio, ma vivrebbero in società aperte, di composizione variabile. Tali affermazioni sono però fondate su osservazioni superficiali e ignorano completamente la ricca letteratura in cui è comprovata la tesi opposta. Esiste in effetti tutta una serie di studi sulle pitture rupestri dei boscimani (analoghe a quelle rintracciabili nell'Europa del Mesolitico) che mostrano lo svolgersi di eventi bellici fra gruppi locali; vi è inoltre un gran numero di pubblicazioni antiche e recenti in cui è documentato il comportamento territoriale di tutte le popolazioni sopra citate e sono descritti anche fatti di guerra (v. Eibl-Eibesfeldt, 1975). Ad esempio Divale (v., 1972) ha studiato l'attività bellica di 99 gruppi locali di popoli cacciatori e raccoglitori, appartenenti a 37 culture diverse. Al tempo dell'indagine 68 di questi gruppi, distribuiti in 31 culture, praticavano ancora la guerra; 20 gruppi, appartenenti a 5 culture, avevano smesso di combattere da 25-50 anni e i rimanenti 11 da una data ancora più remota; non risultava che fra i gruppi esaminati ve ne fosse qualcuno che non avesse mai guerreggiato. Secondo un'esplicita affermazione di Service (v., 1962), tutti i popoli cacciatori e raccoglitori posseggono territori.
A un'osservazione più approfondita la tesi della natura pacifica di questi popoli si rivela dunque un mito ottimistico, la cui tenace sopravvivenza è dovuta al fatto di corrispondere a una concezione idealizzata dell'uomo. Per quanto riguarda in particolare la territorialità presso i boscimani, in questi ultimi anni le nostre conoscenze si sono notevolmente estese. Heinz (v., 1972 e 1979) ha studiato i comportamenti dei boscimani !Ko, presso i quali ciascun gruppo locale possiede un suo territorio dai limiti ben definiti, vigilato dal capo del gruppo: a lui deve rivolgersi ogni visitatore che desideri trattenersi per un certo tempo nella zona. Presso questa popolazione vige inoltre un sistema di alleanze (chiamato da Heinz Nexus-System) in cui sono associati più gruppi locali. Gli appartenenti a un sistema scelgono i loro partners matrimoniali all'interno di esso. Essi si distinguono per alcune particolarità del dialetto e si riuniscono a celebrare certi riti, ad esempio danze estatiche; in tempi di crisi i membri di un gruppo possono chiedere il permesso di andare a caccia nel territorio di un altro gruppo dello stesso sistema, e una tale richiesta non viene mai respinta, mentre l'uso delle zone di proprietà di un sistema è vietato ai membri di un altro. Anche nel caso dei !Kung - che ancora Lee e DeVore (v., 1968) consideravano come una popolazione 'non territoriale' - è risultato da recenti ricerche che i pozzi dei vari gruppi locali appartengono a determinati individui, i quali trasmettono i diritti di proprietà ai loro discendenti. Il territorio dell'orda attorno a ciascun pozzo ha un'estensione variabile da 300 a 600 chilometri quadrati ed è delimitato rispetto ai territori riservati agli altri gruppi; i membri di questi ultimi possono stabilirsi temporaneamente nell'area in questione, ma devono chiedere formalmente il permesso di farlo.
Abbiamo qui esaminato un po' più a fondo la situazione presso i boscimani perché proprio questi popoli cacciatori e raccoglitori della savana arida sono stati portati erroneamente ad esempio di una società primitiva aperta e non territoriale. Da quanto si è detto bisogna invece concludere che la territorialità è una costante antropologica; tuttavia essa assume forme culturali molteplici, ed esiste tutta una gamma di istituzioni interessanti grazie alle quali viene impedito che le controversie territoriali degenerino in combattimenti.
Le tribù dell'Australia centrale hanno messo praticamente fine ai conflitti di questo tipo istituendo vincoli locali fondati su miti e attribuendo a ciascun gruppo territoriale una funzione che lo rende importante per tutti gli altri. Secondo Meggitt (v., 1962), gli stretti legami emotivi con determinate località, esistenti nei gruppi patrilineari dei Walbiri, hanno origine da miti. Ogni gruppo fa risalire la propria esistenza ad antenati totemici (in parte uomini e in parte animali) che nei tempi più remoti popolarono il paese, lasciando tracce della loro attività sotto forma di montagne, massi, caverne, pozzi, ecc.: ad esempio, i massi rotondeggianti sono interpretati come uova o come escrementi e le caverne come luoghi attraverso cui gli antenati totemici uscirono dalla terra (v. Mountford, 1968). Ciascun gruppo ha ricevuto in assegnazione il territorio in cui vive dai suoi antenati, e i luoghi in cui questi hanno lasciato le loro tracce sono ritenuti sacri e vengono regolarmente frequentati per scopi cultuali: l'attaccamento a tali luoghi, che possono essere visitati solo dagli uomini del clan totemico e da ospiti espressamente invitati, ha una forte carica emotiva. I possessori di un territorio ne parlano come della propria terra, e ogni uomo adulto possiede una rappresentazione simbolica del luogo, consistente in una tavoletta o in una pietra sacra su cui sono indicati in modo stilizzato i punti caratteristici della località e le peregrinazioni compiute dagli antenati totemici: esse costituiscono in un certo senso il 'blasone' del clan.
Gli indigeni dell'Australia centrale sono legati al loro paese da questi simboli e dai riti celebrati nei luoghi sacri; nei rapporti con altre località questi vincoli vengono a mancare, e a tale proposito Meggitt osserva che ogni appropriazione di un territorio straniero metterebbe in gravi difficoltà i nuovi occupanti, perché su di esso continuerebbero a vegliare gli antenati totemici del gruppo sconfitto. Il timore fa quindi da freno al desiderio di conquista e induce i vari gruppi territoriali ad associarsi fra loro mediante una ripartizione dei compiti. Ciascun gruppo cura infatti, con riti particolari, che gli animali e le piante aventi origine dai suoi antenati totemici crescano bene, non solo nel territorio del gruppo stesso ma nell'intera regione. Ad esempio il clan delle formiche del miele si occupa di questi animali e così il clan degli emù o quello dei canguri; vi è anche un clan della pioggia, responsabile di quest'evento atmosferico. In tal modo ogni gruppo svolge una funzione importante per l'intera comunità, e sarebbe assurdo che un gruppo ne sterminasse un altro. L'esempio è di particolare interesse perché dimostra che l'uomo sente il bisogno di mantenere la pace e talvolta riesce a farlo mediante specifiche istituzioni culturali; naturalmente ciò presuppone fra l'altro che la popolazione rimanga costante e che le condizioni climatiche si mantengano stabili, così che gli abitanti non siano costretti a continue migrazioni.
Il fenomeno della gerarchia sociale è stato descritto per la prima volta da Schjelderup-Ebbe (v., 1922). Egli osservò che se si mettono insieme un certo numero di polli, questi cominciano subito a combattere tra loro e si dispongono, in seguito ai risultati degli scontri, in un 'ordine di beccata'. Ogni animale ricorda da quali avversari è stato sconfitto e quali ha invece vinto: ai primi cede il passo, mentre becca i secondi se non gli danno la precedenza. La gerarchia può essere lineare se l'animale α becca β, questo becca γ e così via fino all'animale ω; ma di solito i rapporti sono un po' più complessi. Può accadere, ad esempio, che il pollo α abbia vinto quelli β e γ, ma sia stato casualmente battuto dal pollo δ: α risulta quindi sottoposto a δ, pur rimanendo superiore a β e a γ per averli sconfitti. Una volta che dagli scontri sia emersa una gerarchia, la vita nel pollaio si fa relativamente pacifica: di solito basta un accenno di minaccia da parte di un animale di rango più elevato per scoraggiare le velleità di un inferiore. Queste gerarchie sociali, fondate sull'ordine di beccata e quindi sulla pura e semplice dominanza, differiscono da quelle proprie dei mammiferi superiori, presso i quali si manifestano anche moduli comportamentali di accettazione. In questo caso l'individuo di rango elevato è riconosciuto come tale non solo perché lo si teme, ma perché presenta certe qualità sociali che lo fanno in qualche modo preferire come capo: ad esempio perché è capace di difendere efficacemente il gruppo, perché riesce a comporre le liti tra i suoi membri, perché protegge gli individui di rango inferiore, ecc.
Specialmente nell'uomo queste qualità assumono un ruolo importante nella formazione delle gerarchie sociali. Gli individui di rango elevato devono peraltro essere in grado di difendere la loro posizione, e spesso la loro aspirazione alla dominanza è connessa con tattiche aggressive. Di recente DeWaal (v., 1982) ha descritto rapporti di questo tipo tra i primati a noi più vicini, gli scimpanzé. Presso questi animali un fattore importante di ascesa sociale è costituito dalla capacità di stringere amicizie; inoltre, in caso di pericolo gli individui di rango inferiore cercano rifugio presso i capi anche se li temono, di un timore che potrebbe definirsi 'reverenziale'. Tra i primati superiori - come del resto tra gli uomini - gli individui di rango elevato sono al centro dell'attenzione, tanto che l'individuo dominante è riconoscibile dal fatto che a lui vengono rivolti il maggior numero di sguardi (v. Chance, 1967; v. Hold-Cavell, 1977). La comparazione culturale mostra che rango e prestigio hanno quasi sempre, in una forma o in un'altra, una funzione importante. Esistono anche società egualitarie, ma in esse l'uguaglianza è imposta da forti pressioni sociali uniformanti; dove ciò non avviene, alcuni individui finiscono sempre con l'emergere sugli altri in virtù delle loro prestazioni in determinati campi. L'aspirazione al rango e alla considerazione sociale si traduce nelle varie culture in manifestazioni di prestigio, spesso singolari: così nella nostra cultura chi non riesce ad affermarsi si crea ugualmente delle glorificazioni sostitutive, magari come campione degli allevatori di pesci ornamentali o dei collezionisti di sottobicchieri da birra.
Un tipo notevole di aggressione intraspecifica è quella verso i devianti, ossia verso quei membri di un gruppo che nell'aspetto o nel comportamento si discostano dalla norma. Ad esempio Schjelderup-Ebbe ha scoperto che i polli attaccano i congeneri ai quali sia stata artificialmente modificata la cresta, e van Lawick-Goodall (v., 1971) ha riferito che gli scimpanzé da lei studiati reagivano con violente aggressioni contro alcuni membri del gruppo che presentavano alterazioni del comportamento per essere stati colpiti dalla poliomielite. Anche l'uomo ha la tendenza a schernire e ad aggredire coloro che appaiono diversi o che si comportano in modo anomalo: a scuola i ragazzi grassi, balbuzienti o dai capelli rossi sono di solito oggetto di derisione. Se la devianza riguarda un tratto del comportamento, lo scherno può tradursi in un'aggressione a fini educativi che costringe il deviante ad adeguarsi alle norme del gruppo: forse è questa la funzione originaria di un simile atteggiamento, importante per i piccoli gruppi, la cui sopravvivenza richiede che il comportamento di ciascun membro sia sempre facilmente prevedibile dagli altri. Nell'odierna società di massa questa pressione uniformante cessa di essere adattativa, perché spesso i devianti sono individui dotati di preziose capacità specifiche; nei piccoli gruppi, invece, coloro che non riescono a conformarsi alla norma finiscono con l'essere addirittura esclusi dalla comunità.
Una forma di aggressione di cui spesso non viene riconosciuta l'importanza, ma che è essenziale per lo sviluppo dell'individuo umano, è quella esplorativa o informativa (v. Hassenstein, 1973). Il bambino può rivolgere al suo ambiente sociale domande su ciò che gli è lecito fare e sui limiti del suo comportamento, per esempio provocando in vario modo un altro bambino (picchiandolo, urtandolo, portandogli via un oggetto). Se a queste domande di tipo aggressivo non viene data nessuna risposta, il bambino ne formulerà altre, più insistenti, giacché egli usa l'aggressione in modo strumentale, per ottenere risposte circa le norme sociali. L'errore dell'educazione permissiva consiste fra l'altro nel presupporre che ogni divieto stimoli, attraverso la frustrazione, l'aggressività: ciò porta ad abolire qualsiasi proibizione, ma i bambini così allevati, lungi dal diventare individui particolarmente pacifici, mostrano di non conoscere freni alla loro aggressività e di essere incapaci di dominarsi (v. Rothchild e Wolf, 1976).
La strategia dell'aggressione esplorativa non è limitata all'età giovanile: anche i capi degli Stati di recente formazione e gli appartenenti alle subculture interrogano in questo modo il loro ambiente. Ogni volta che una persona o un gruppo entrano in una nuova fase di sviluppo, esplorano il campo d'azione sociale che a essi si apre, e anche in questo caso la mancanza di una risposta porta a un crescendo delle richieste. Mentre all'inizio un dialogo chiarificatore e un pacato ma esplicito rifiuto potrebbero bastare a risolvere il conflitto, per contenere un'aggressione d'intensità crescente occorrono di solito provvedimenti sempre più repressivi.
Sarebbe tuttavia errato valutare negativamente, a causa dei suddetti rischi, l'aggressione esplorativa. Essa ci fa capire che il bambino non è un semplice destinatario passivo di istruzioni, ma si confronta in modo attivo con l'ambiente e sfida al dialogo la controparte; esiste in lui anche la disposizione ad apprendere, e solo quando le domande che egli pone restano senza risposta c'è da temere un intensificarsi della sua aggressività.Abbiamo qui messo in luce solo alcune delle più notevoli funzioni del comportamento aggressivo, senza con ciò esaurirne l'elencazione. Ricordiamo a tale proposito che in generale l'aggressione serve a superare ostacoli e ad acquisire e difendere risorse: intendendo per risorse, in senso lato, non soltanto gli oggetti materiali ma anche la possibilità di rapporti coi partners.
È stato più volte affermato che l'ipotesi di una programmazione filogenetica dell'aggressione conduce inevitabilmente a un atteggiamento di base fatalistico, non essendo possibile intraprendere nulla contro ciò che è innato; si tratta però di un'argomentazione assurda. Nessuno dubita che la componente pulsionale della sessualità umana sia determinata in modo decisivo da adattamenti filogenetici; ma al tempo stesso è chiaro a chiunque che l'uomo riesce a dominare efficacemente tale pulsione. Analogamente l'uomo è in grado di controllare altri programmi comportamentali innati: ogni comportamento istintivo è infatti sensibile all'educazione. L'aggressività viene socializzata in vario modo, in relazione alle particolari esigenze ecologiche delle singole culture: per esempio un pastore di bovini delle zone semiaride dell'Africa non ha bisogno di controllare la propria aggressività allo stesso modo di un boscimano che vive di caccia e di raccolta. Sui processi di socializzazione tipici delle varie culture esiste una ricca documentazione. Margaret Mead (v., 1935) ha fatto risalire l'aggressività dei Mundugumur al trattamento poco amorevole da parte delle loro madri, che abbandonano a se stessi i bambini entro ceste e li allattano malvolentieri; invece i piccoli Arapesh, che sono allevati con grande affetto e con frequenti contatti corporei, diventano da grandi pacifici e ben disposti. Si tratta di un modello seducente, ma non rispondente alla realtà, se non altro perché gli Arapesh non sono affatto così pacifici ed è noto che anch'essi conducono guerre.
È semplicistico affermare che genitori poco affettuosi formano personalità aggressive e che, al contrario, l'affabilità dei genitori si riflette in quella dei figli. La privazione d'amore, oltre a deformare in senso aggressivo la personalità, la rende asociale e non permette lo sviluppo di virtù guerriere come la lealtà, l'abnegazione, il dominio di sé, il coraggio, che presuppongono l'identificazione dell'individuo con gli altri membri del gruppo. Nella documentazione della Cineteca di etologia umana della Max Planck-Gesellschaft sono rappresentate anche culture bellicose - come quelle delle popolazioni Eipo, Himba e Yanomami - nelle quali i bambini, trattati fin dalla primissima età con affettuosa dedizione e con frequenti contatti corporei, non risentono di nessuna privazione d'amore: ciò nonostante, da grandi essi diventano coraggiosi guerrieri. L'affetto dei genitori crea piuttosto una disposizione a identificarsi col modello da loro offerto e a imitarlo, diventando bellicosi o pacifici secondo il carattere degli stessi; il modello parentale viene riprodotto e provato nei giochi, come quando i piccoli degli Yanomami o degli Eipo lanciano delle frecce giocattolo (v. Eibl-Eibesfeldt, 1976 e 1986²). L'atteggiamento amorevole verso i bambini e i contatti corporei non sono dunque sufficienti a formare individui pacifici, giacché per questo occorrono un'educazione finalizzata e un modello sociale fornito dagli adulti; d'altra parte, la privazione d'amore non basta a creare uomini bellicosi, perché un comportamento bellicoso richiede tutta una serie di qualità sociali. È accertato invece che le carenze affettive sono causa di alcune forme patologiche di aggressività: nei processi penali accade molto spesso che i difensori si richiamino all'infanzia priva d'amore degli imputati, e da un'indagine svolta da Kaiser (v., 1978) nelle prigioni tedesche è risultato che solo il 5% dei detenuti da lui presi in esame avevano avuto da piccoli una persona di riferimento fissa, mentre il 50% di essi avevano dovuto far riferimento prima dei 15 anni a più di cinque persone diverse. Le carenze sociali ed emotive sofferte nella prima età giovanile provocano dunque un deficit di socializzazione che predispone l'individuo alla criminalità.
Le forme di aggressione individuale finora esaminate vanno distinte dalla guerra, intesa come aggressione di gruppo con effetti distruttivi. Essa utilizza le già citate disposizioni dell'uomo, in particolare la tendenza a difendere la propria famiglia, tendenza che viene qui estesa all'intero gruppo; contemporaneamente vengono represse altre disposizioni innate, come quella alla solidarietà umana, che in condizioni normali creano inibizioni all'uccisione dei congeneri. Gli appartenenti a un gruppo possono inoltre 'indottrinarsi' coltivando l'idea che i membri del gruppo nemico non siano propriamente uomini, e spesso arrivando a considerarli addirittura come belve; il conflitto viene così spostato artificiosamente sul piano della lotta interspecifica, in cui viene a mancare ogni inibizione.
Al filtro normativo biologico che vieta di uccidere si sovrappone in un certo senso un filtro normativo culturale che impone di distruggere i nemici; tuttavia il primo non viene abolito e ciò porta a un conflitto di norme che è avvertito come cattiva coscienza e che rappresenta una delle radici del diffuso anelito di pace dell'umanità (v. Eibl-Eibesfeldt, 1975).
La disumanizzazione dell'avversario, associata allo sviluppo di armi che consentono di uccidere rapidamente e a distanza, ha fatto sì che gruppi contrapposti di uomini siano scesi in campo per distruggersi; è stato così istituito, a livello culturale, un efficace mezzo di appropriazione delle risorse e del territorio. La storia fornisce innumerevoli esempi di popoli sterminati con la guerra; spesso dei vinti sono rimasti solo i ruderi di località incendiate, riportati alla luce dal piccone dell'archeologo. Ciò non significa, peraltro, che si debba rimanere invischiati senza speranza in questa spirale: a parte il dubbio che una futura guerra possa avere ancora dei vincitori, il grado di consapevolezza da noi raggiunto ci fa apparire la lotta armata come un mezzo inaccettabile per risolvere i conflitti.
È insita nella natura umana qualche possibilità, per quanto piccola, di superare il ricorso alla guerra? Se continueremo ad accontentarci di semplici esercitazioni verbali intese a confermare la nostra volontà di pace e a condannare la guerra come un male, non otterremo certamente nulla di concreto; d'altra parte, chi pretendesse di liquidare la guerra come un fatto patologico, degenerativo, evitabile mediante la sola educazione alla pace, finirebbe - nonostante ogni idealismo - col nascondersi in modo irresponsabile il problema. Occorre piuttosto prendere coscienza del fatto che la guerra assolve certe funzioni, perché solo così si avrà modo di riflettere su come quelle medesime funzioni possano essere svolte senza spargimenti di sangue: è questo il vero presupposto per evitare un conflitto armato. La volontà di pace che l'uomo ha manifestato in ogni tempo trova rispondenza nella sua struttura motivazionale biologica (v. Eibl-Eibesfeldt, 1975): ciò costituisce una premessa importante, anche se non sufficiente, perché tale volontà possa attuarsi.
(V. anche Etologia; Guerra).
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