Compositore
Nella fase 'preistorica' del cinema le proiezioni erano itineranti, in forma autonoma o associate al circo e alla fiera, mentre a un gradino più alto facevano parte di spettacoli compositi ospitati abitualmente nei caffè-concerto. In ciascuno di questi casi la presenza della musica, prodotta in forme diverse, anche meccanizzate, è tanto certa quanto scarsamente documentata, ma è presumibile che non si facesse ricorso al contributo di un c., attingendo piuttosto a quanto già utilizzato nel contesto. Con l'istituzione delle sale e con il pressoché contemporaneo avvento dell'industria cinematografica le accresciute ambizioni, in parte produttive in parte artistiche, investirono anche la musica, ma si concretizzarono nella tendenza soprattutto europea a trarre ispirazione dal teatro di prosa, dalla pantomima e dal melodramma, con l'obiettivo di riprodurre più che produrre, adattando alla pellicola un materiale preesistente ben collaudato. Perciò la presenza 'passiva' di c. come G. Bizet (numerose furono le trasposizioni filmiche di Carmen, affidate al fonografo) oppure quella 'attiva' di c. come Pasquale Mario Costa (Histoire d'un Pierrot, 1914, di Baldassarre Negroni) non possono intendersi come atti compositivi specifici, seppure in un'ipotetica storia della ricezione musicale relativa alla musica applicata non deve essere sottovalutata l'incidenza che simili presenze ebbero sul gusto dello spettatore. Non a caso l'editore Sonzogno manifestò l'intenzione di fondare una società di produzione, la Musical-Film, in cui coinvolgere Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Franco Alfano, mentre Ricordi pubblicò a uso filmico riduzioni per pianoforte di Iris di Mascagni, La Wally di Alfredo Catalani, Germania di Alberto Franchetti, fino al caso forse più significativo, la versione cinematografica di Robert Wiene del Der Rosenkavalier (1926), per la quale Richard Strauss compose parti originali con la collaborazione di Hugo von Hofmannsthal, già librettista dell'opera e in questo caso autore della sceneggiatura.
Se è vero che i modelli cui guardava il c. nel cinema della prima metà del Novecento erano il poema sinfonico, l'opera (con particolare riferimento alla concezione wagneriana del leitmotiv), l'incidental music e il mélo romantico, è altrettanto vero che tutto ciò non si realizzava inizialmente come atto compositivo propriamente detto bensì come collage, secondo un principio scompositivo e ricompositivo degno d'attenzione, quanto meno dall'ottica semiologica. Ciò avveniva, da una parte, sul versante popolare, recuperando quella sorta di prêt-à-porter musicale già utilizzato nel café-chantant e nel music hall; dall'altra, sul versante colto, privilegiando rispetto alla creazione ex novo l'elaborazione di materiali preesistenti. In tal senso il periodo fra gli anni Dieci e gli anni Venti fu caratterizzato da tre fenomeni parzialmente sovrapposti, ciascuno dei quali può essere definito un atto compositivo sui generis: le compilazioni, i repertori e i manuali. Le compilazioni, meglio note come cue sheets o Musikszenarium, sporadiche in Italia ma molto diffuse negli Stati Uniti e in Germania, sono il prodotto di una selezione di musiche preesistenti operata per ciascuna pellicola da un responsabile musicale della casa di produzione; una sorta di elenco dettagliato di titoli e indicazioni cronometriche rapportati ai rulli e alle relative scene. Poiché le sale cinematografiche di-sponevano di uno o più esecutori, che a seconda della categoria andavano dal semplice pianista all'orchestra, la produzione garantiva così un accompagnamento- commento studiato ad hoc e come tale immune da arbitrii. È comunque presumibile che le selezioni fossero accolte prevalentemente nelle sale di lusso, dove la presenza di un direttore d'orchestra stabile e di un organico ampio e qualificato offrivano tutte le garanzie del caso. Tradizione vuole che l'invenzione del cue sheet (1912) si debba a Max Winkler, impiegato presso l'editore Carl Fischer di New York, benché la rivista "Edison Kinetogram" avesse preso a pubblicare già dal 1909 delle Suggestions for music, e fu seguita l'anno dopo da "The mov-ing picture world" con la rubrica Music for the pictures. Il secondo fenomeno, anch'esso molto diffuso, riguarda i repertori e consiste in ampie raccolte di musiche in parte preesistenti (tratte dalla letteratura sinfonico-operistica e il più delle volte adattate, ovvero accorciate e semplificate nella componente armonica), in parte originali, ordinate secondo categorie diegetiche, psicologiche, etniche o meramente dinamiche. Fra i nomi più ricorrenti, che appartengono ad alcuni dei maggiori c. del cinema muto, occorre ricordare John S. Zamecnik (Sam Fox moving picture music, 1913), Samuel Lionel Rothapfel, Hugo Riesenfeld, James C. Bradford, Gaston Borch, Joseph Carl Breil, Ernö Rapée. Quest'ultimo pubblicò la raccolta Motion picture moods for pianists and organists (1924), costituita esclusivamente da riduzioni e adattamenti per pianoforte integralmente riprodotti, e la Encyclopedia of music for pictures (1925), rivolta ai direttori d'orchestra, che si colloca a metà fra i cue sheets e i repertori e, in base alle categorie già ricordate, suggerisce l'utilizzo di brani preesistenti, spesso di frammenti, con riferimenti molto dettagliati alla partitura. In Europa il pioniere di questa concezione compilativo-compositiva fu Giuseppe Becce, a cui si deve un'imponente Kinothek (abbreviazione di Kinobibliothek) pubblicata in Germania a partire dal 1919, mentre l'unico equivalente italiano di rilievo giunse quasi all'avvento del sonoro con la Biblioteca Cinema Ricordi (1926) che raccoglie numerosi titoli, tutti originali, di Vincenzo Billi, Aldo Cantarini e Franco Vittadini. Infine, per il terzo fenomeno, quello dei manuali, meritano di essere ricordati i più diffusi: Eugene Ahern, What and how to play for pictures, 1913; Edith Lang e George West, Musical accompaniment for moving pictures, 1920; George W. Beynon, Musical presentation of motion pictures, 1921; P. Kevin Buckley, The orchestral and cinema organist, 1923; Hans Erdmann e G. Becce, Allgemeines Handbuch der Film-Musik, 1927. Al di là delle differenze d'impostazione tecnica e di certe sfumature interpretative, questi testi sono accomunati da una visione disincantata e da un conseguente uso pragmatico dei linguaggi musicali più disparati, gettando così le basi della futura scuola hollywoodiana. Con le compilazioni e i repertori, di cui anticipano o ribadiscono le scelte di fondo, i manuali contribuirono al definitivo consolidarsi di una delineata drammaturgia filmico-musicale, che fu determinata essenzialmente da due fattori: il rapido consolidarsi dell'industria cinematografica e l'assenza, nella musica statunitense, di tradizioni colte dirette (ciò detto secondo un'ottica eurocentrica). Perciò negli Stati Uniti la figura del c. specialista nacque già con le prime compilazioni e giunse senza soluzione di continuità ai grandi maestri del cinema sonoro.
Il ritardo con cui lo specialismo compositivo si sviluppò in Europa è dovuto a fattori diversi, variamente determinati da Paese a Paese ma tutti associabili al peso delle tradizioni accademiche e, per contro, all'avvento dirompente dei movimenti d'avanguardia. In Francia e in Italia si può riscontrare un'iniziale analogia di percorso, determinata da ambizioni prevalentemente artistiche, in base alle quali sorsero case di produzione specifiche, come la Film d'art in Francia, l'Itala film e la Cines in Italia, che affidavano la realizzazione di pellicole di alti contenuti a commediografi, letterati e c. illustri. Si spiega così il coinvolgimento, già dal 1908, di Camille Saint-Saëns per L'assassinat du duc de Guise di André Calmettes e Charles Le Bargy, a cui l'Italia rispose nel 1914 con il primo, grande sforzo produttivo nella storia del cinema mondiale, Cabiria, affidato ufficialmente a Gabriele D'Annunzio (che in realtà si limitò a scrivere le didascalie, mentre il film fu realizzato da Giovanni Pastrone) e Ildebrando Pizzetti. Fra il 1914 e il 1915 Mascagni completò il poema 'cinema-musicale' Rapsodia satanica per l'omonimo film di Nino Oxilia, tratto dai versi di F.M. Martini, proiettato soltanto nel 1917. In queste due operazioni, per molti versi analoghe, sono riassumibili le posizioni del c. italiano in rapporto al cinema. Mentre infatti Pizzetti mostrò imbarazzo, scetticismo e disprezzo tangibili, documentati dal sofferto carteggio intercorso con D'Annunzio e Pastrone, in cui anticipa o si allinea con la posizione assunta nei confronti del cinema da autori come G. Verga, G. Gozzano, L. Pirandello, Mascagni aderì invece con entusiasmo e con feconda dose d'umiltà. Pizzetti inoltre onorò l'incarico, lautamente compensato, in modo parziale, scrivendo un solo pezzo, la Sinfonia del fuoco, e affidando il resto all'allievo Manlio Mazza (puntando oltre tutto alla complessità, con il manifesto scopo di rendere ardua l'esecuzione della propria musica), mentre Mascagni, nell'analisi accurata delle scene e nella progettazione di una composizione attenta agli appuntamenti episodici, ma al tempo stesso dotata di una coerente gittata onnicomprensiva, musicalmente coerente e a suo modo 'autonoma', anticipò una tecnica e uno stile che sarebbero stati dei migliori specialisti del cinema sonoro. Da questi lo separa comunque un privilegio raramente accordato al c.: la possibilità di girare nuovo materiale filmico in funzione della musica già scritta. La forte tradizione accademica, poco o niente affatto incline, come s'è accennato, a sondare le possibilità di una drammaturgia filmico-musicale specifica, nascente da un atto di fede nei confronti del cinema, proseguì con musicisti d'area colta come Luigi Mancinelli (Frate Sole, 1918, e Giuliano l'apostata, 1919, entrambi di Ugo Falena) e Vittorio Gui (Fantasia bianca, 1919, di Alfredo Masi e Severo Pozzati), per riproporsi più tardi, pressoché intatta, nel cinema fascista con Gian Francesco Malipiero (Acciaio, 1933, di Walter Ruttmann) e Pizzetti (Scipione l'Africano, 1937, di Carmine Gallone). Ma l'ostilità nei confronti del cinema e il timore di 'prostituirsi' si sarebbero protratti addirittura oltre la stagione del Neorealismo, con Goffredo Petrassi (Non c'è pace tra gli ulivi, 1950, di Giuseppe De Santis; Cronaca familiare, 1962, di Valerio Zurlini).
L'ambiente musicale francese reagì invece in modo sostanzialmente positivo alle opportunità offerte dal film. Tanto con il cinema sperimentale, autonomamente inteso, oppure incarnazione occasionale del Dadaismo e del Surrealismo (osservato o incoraggiato da un letterato come Jean Cocteau), quanto con la nascente scuola cinematografica francese legata a un cinema tradizionalmente 'narrativo' ma rinnovato sul piano linguistico (Jean Epstein, Abel Gance, Marcel L'Herbier, René Clair in costante e stimolante polemica con il teorico italiano Ricciotto Canudo), collaborò, singolarmente, lo stesso gruppo di c. d'area colta: Erik Satie, lo statunitense George Antheil, il 'gruppo dei Sei' (soprattutto Arthur Honegger e Darius Milhaud, più tardi Georges Auric), Jacques Ibert, Florent Schmitt. Dal 1923 circa sino alla vigilia della Seconda guerra mondiale si determinò in Francia una rara coerenza fra poetica, linguaggio e tecniche (filmiche e compositive); si realizzò un modo non traumatico o schizofrenico di vivere il cinema che avrebbe trovato riscontro soltanto nella Germania della Repubblica di Weimar (Gottfried Huppertz, Wolfgang Zeller, Hans Erdmann, Paul Hindemith, Hanns Eisler, senza contare il potenziale interesse manifestato da Arnold Schönberg e Alban Berg) e nella Russia postrivoluzionaria, dove per gli esiti e la continuità spiccano i nomi di Dmitrij D. Šostakovič, dal memorabile Novyj Vavilon (1929; La Nuova Babilonia) di Grigorij M. Kozincev e Leonid Z. Trauberg in poi, e di Sergej S. Prokof′ev per la proverbiale collaborazione, stretta dal 1938, con Sergej M. Ejzenštejn. Analoga coerenza fra un comporre 'assoluto' e un comporre 'applicato' si sarebbe sviluppata, in piena epoca del sonoro, nel cinema britannico (Arthur Bliss, Benjamin Britten, Ralph Vaughan Williams, William Walton, Hubert Bath, Louis Levy, Ernest Irving, Arthur Benjamin, Brian Easdale), grazie a una consolidata tradizione che, a partire da W. Shakespeare e H. Purcell, non aveva posto l'incidental music tra i generi secondari.
Dall'avvento del sonoro (Don Juan, 1926, Don Giovanni e Lucrezia Borgia, e The jazz singer, 1927, Il cantante di jazz, entrambi di Alan Crosland), in un nuovo confronto tra costume compositivo europeo e statunitense occorre precisare subito che quest'ultimo, pur rafforzando la figura dello specialista, la sottopose ben presto a una rigida prassi produttiva capace di sopprimere ogni carattere d'individualità. Dopo i fasti dei primi kolossal (1915-1929) di David W. Griffith, Cecil B. DeMille e John Ford, in cui ai nomi già ricordati si erano affiancati quelli di eccellenti artigiani come Jack Snyder, William Axt, J.S. Zamecnick e Louis S. Gottschalk, dal 1930 l'atto compositivo iniziò a rientrare in una complessa pianificazione, che si potrebbe paragonare ai meccanismi dell'industrial design, in cui la figura dell'orchestratore, citato o meno nei credits, assumeva un ruolo determinante, mentre alle scelte musicali si arrivava attraverso un progetto collettivo in cui il produttore, o per meglio dire i molti che ne facevano le veci, venivano ad avere voce in capitolo non meno del compositore. Fu Max Steiner, già direttore della sezione musicale della RKO e collaboratore di film storici come King Kong (1933) di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, The lost patrol (1934) e The informer (1935; Il traditore), entrambi di Ford, Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming, a imporre la nuova prassi, alla quale avrebbero aderito tutti i maggiori esponenti del-la prima generazione hollywoodiana del sonoro: Alfred Newman, Dimitri Tiomkin, Franz Waxman, Wolfgang Erich Korngold, David Raksin, Victor Young, Miklós Rózsa. Non è difficile notare tra questi nomi la presenza predominante di c. di origine e formazione mitteleuropea. La tendenza al sinfonismo che ne derivò, già favorita dai precedenti, trovò tuttavia un opportuno ridimensionamento nel contributo di numerosi c. provenienti da Broadway e confluiti nel musical: autori come Frederick Hollander (propr. Friedrich Holländer), Irving Berlin, Hoagy Carmichael, George Gershwin, Jerome Kern, Cole Porter, Richard Rodgers rappresentano forse quanto di più genuino la musica statunitense abbia dato al cinema. Dopo il blues, il jazz e la diffusione delle danze latinoamericane, un successivo cambiamento di rotta si determinò con l'avvento del rock. Esaminando le partiture scritte per il cinema del secondo dopoguerra da Bernard Herrmann, Elmer Bernstein, Jerry Goldsmith, Alex North, John Williams, John Barry e molti altri (orchestratori compresi), i caratteri del rock non sono ravvisabili che raramente, ma è legittimo credere in una sua influenza indiretta, che spinse i c. a svincolare il proprio linguaggio, in una certa misura, dagli schemi convenzionali del sinfonismo ottocentesco, assumendo da una parte stilemi contemporanei (I.F. Stravinskij sarà tra i più 'saccheggiati'), dall'altra, superato l'esotismo di facciata che aveva caratterizzato molta musica prodotta dalla prima generazione, cercando una fusione più profonda tra stilemi occidentali e modi musicali provenienti dalle culture più disparate, nel tempo e nello spazio.
Lo specialismo compositivo nel cinema francese fu il primo ad affermarsi in Europa e si manifestò come sviluppo naturale di quel clima insolitamente uniforme caratteristico del periodo tra le due guerre. Su di esso si innestò naturalmente, in modo altrettanto insolito, un patrimonio musicale tipicamente francese (o per meglio dire parigino: si pensi alla figura dello chansonnier e al ruolo che il cabaret aveva assunto tra gli intellettuali dal tempo delle avanguardie), definibile riduttivamente come musica popolare e d'intrattenimento. Il c. che per primo raccolse tutto ciò in uno stile personale ma sensibilissimo alle esigenze della narrazione filmica fu Maurice Jaubert, con le musiche realizzate per Die wunderbare Lüge der Nina Petrowna (1929; Sublime menzogna), di Hanns Schwarz, L'affaire est dans le sac (1932; Affare fatto) di Pierre Prévert, Quatorze juillet (1932; Per le vie di Parigi) di René Clair, Zéro de conduite (1934; Zero in condotta) e L'Atalante (1934), entrambi di Jean Vigo, Carnet de bal (1937; Carnet di ballo) di Julien Duvivier, e Drôle de drame (1937; Lo strano dramma del dottor Molyneux), Quai des brumes (1938; Il porto delle nebbie) e Le jour se lève (1939; Alba tragica), tutti di Marcel Carné. L'anno dopo Jaubert morì, quarantenne, sul fronte francese, ma la sua lezione è ravvisabile nella produzione coeva e successiva, sebbene in modo non altrettanto uniforme, di Georges Auric (collaboratore fisso di Cocteau), Roger Désormières, Joseph Kosma e Georges Van Parys. La perdita dei connotati tipicamente francesi, colti e popolari, appartiene alla generazione attiva dal dopoguerra a oggi e va dal buon artigianato di Georges Delerue e Philippe Sarde alla standardizzazione cosmopolita di Michel Legrand e Francis Lai, fino alla completa acquisizione dei modi hollywoodiani di Maurice Jarre (Lawrence of Arabia, 1962, Lawrence d'Arabia; Doctor Zhivago, 1965, Il dottor Zivago, entrambi di David Lean; La Bibbia, 1966, di John Huston).
Un distacco decisivo dai caratteri delle scuole nazionali e dalla prassi dello specialismo si deve al contribu-to dei minimalisti Philip Glass (Koyaanisqatsi, 1983, e Powaqqatsi, 1988, entrambi documentari di Godfrey Reg-gio; Mishima: a life in four chapters, 1985, Mishima, di Paul Schrader) e Michael Nyman, del quale occorre segnalare almeno il sodalizio con Peter Greenaway (da The draughtman's contract, 1982, I misteri del giardino di Compton House in poi) e le musiche per The piano (1993; Lezioni di piano) di Jane Campion. Glass porta nel cinema un meccanicismo ossessivamente ripetitivo, sempre invadente e come tale adattabile ad alcune produzioni particolari, mentre Nyman, sia pure nel segno del linguaggio minimalista, ma al tempo stesso ben consapevole della lezione di Purcell e del cosiddetto stile a terrazze, opera in modo più elegante e ammiccante, con blocchi tematici in veste di siparietti di chiara ascendenza teatrale. In entrambi i casi, però, prevale la scelta di una musica 'oggettiva', estranea all'interpretazione, perciò indifferente nei confronti della narrazione filmica, quella stessa che Satie aveva già anticipato nel 1924 in Entr'acte di Clair. Su un versante diametralmente opposto, ovvero nell'ambito di quell'internazionalismo su basi hollywoodiane di cui si è già detto a proposito di Jarre, merita citare Hans Zimmer, che in A world apart (1987; Un mondo a parte) di Chris Menges, The last emper-or (1987; L'ultimo imperatore) di Bernardo Bertolucci, Black rain (1989; Black rain ‒ Pioggia sporca) di Ridley Scott e soprattutto in The thin red line (1998; La sottile linea rossa) di Terrence Malick si mostra capace di risolvere in modo molto convincente ogni genere cinematografico, fondendo in uno stile contaminato ma paradossalmente personale quanto di meglio è stato prodotto negli anni Ottanta e Novanta (dal Morricone di The mission, 1986, Mission, di Roland Joffé, al Barry di Dances with wolves, 1990, Balla coi lupi, di Kevin Costner).
Dai contributi sostanzialmente fallimentari dei c. d'area colta al cinema italiano, complice una sorta di egemonia estetica dell'idealismo crociano in ambito musicale, che l'ideologia fascista contribuì a rafforzare negli esiti, si salvano soltanto, seppure parzialmente, Giorgio Federico Ghedini (Don Bosco, 1935, e La vedova, 1939, entrambi di Goffredo Alessandrini; Pietro Micca, 1938, di Aldo Vergano) e Antonio Veretti (Le scarpe al sole, 1935, di Marco Elter, e Squadrone bianco, 1936, di Augusto Genina), mentre il contributo di c. come Riccardo Zandonai, Lorenzo Perosi, Valentino Bucchi, Roman Vlad e altri dello stesso calibro fu troppo marginale per rientrare in questa sintesi. In realtà, l'avvento del sonoro in Italia (1930) segnò l'inizio di un periodo di sensibile decadenza cinemusicale, in cui il film si fece veicolo della musica leggera (La canzone dell'amore, 1930, di Gennaro Righelli; Gli uomini, che mascalzoni…, 1932, di Mario Camerini ecc.) con la partecipazione di celebri cantanti (Tito Schipa, Beniamino Gigli) in veste di interpreti. Su un versante apparentemente più ambizioso, ma altrettanto passivo, si apriva con C. Gallone, a partire dal 1935 e fino al 1956, un vasto e fortunato filone operistico. Il risultato di questo ripiegamento, da cui si salvò soprattutto Enzo Masetti, specialista ante litteram ma penalizzato da un contesto non ancora maturo (Cavalleria, 1936, di G. Alessandrini; La fossa degli angeli, 1937, di Carlo Ludovico Bragaglia; Addio giovinezza!, 1940, di Ferdinando M. Poggioli; Piccolo mondo antico, 1941, di Mario Soldati), si può verificare nel contributo del tutto inadeguato dei c. italiani al cinema neorealista, in cui Alessandro Cicognini, Giuseppe Rosati e Renzo Rossellini riproposero e si videro accettare gli stessi stereotipi già utilizzati nel ventennio fascista, a riprova di un'assenza generalizzata di esigenze specifiche. Per assistere alla nascita dello specialismo bisogna attendere i contributi di c. come Angelo Francesco Lavagnino (ecco il miglior Pizzetti, ma tramite un allievo, in Othello, 1952, Otello, di Orson Welles), Carlo Rustichelli, forse il più 'neorealista' e genuino dei c. italiani (si pensi al sodalizio con Pietro Germi), Giovanni Fusco (legato a Michelangelo Antonioni), Mario Nascimbene e Piero Piccioni, ai quali va il merito di avere contribuito a sprovincializzare la musica per film. Su queste figure, sospese tra vecchio artigianato e neoprofessionismo, spiccano i nomi di Nino Rota e di Ennio Morricone. Al di là dei discutibili intenti della Lux Film di G.M. Gatti e degli auspici di F. d'Amico, intesi a sottrarre il cinema agli specialisti, Rota risolse candidamente la dicotomia tra musica colta e musica applicata assimilando con naturalezza elementi popolari, che propose in collaborazioni memorabili con Federico Fellini, Luchino Visconti, Renato Castellani. Quanto a Morricone, attivo dal 1961, la sua vastissima produzione comporta l'ardua ma progressiva fusione di tecniche diverse, sperimentate negli arrangiamenti della nascente industria discografica (applicate nel sodalizio ventennale con Sergio Leone), nel determinismo postweberniano e nella musica aleatoria postcageiana della sua produzione per concerto (riscontrabili soprattutto nella collaborazione con Elio Petri).
Il mutamento che ha attraversato il cinema italiano dagli anni Settanta ha imposto un'autoriduzione dei mezzi espressivi e un maggiore distacco critico; in tal senso prevalgono le figure di c. come Nicola Piovani (attivo dal 1971 con Marco Bellocchio) e Franco Piersanti, segnatamente con Nanni Moretti, dal 1977 al 1984, e con Gianni Amelio, dal 1982.
Per i repertori di musica per uso filmico per il cinema muto e per quelli di tecnica compositiva e di tecniche audiovisive correlate per il cinema sonoro si rinvia a S. Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Milano 2000, con bibl., ed E. Morricone, S. Miceli, Comporre per il cinema. Teoria e prassi della musica nel film, a cura di L. Gallenga, Roma 2001, con bibliografia.