Comprensione
La nozione di comprensione (Verstehen) risale alla tradizione dello storicismo tedesco. In misura non trascurabile, essa è stata utilizzata anche dalla filosofia ermeneutica, che riprendeva, oltre ai temi della fenomenologia husserliana, quelli dello stesso storicismo, ridimensionandone tuttavia il carattere psicologistico. In tale contesto, infatti, il termine veniva utilizzato per intendere quella che, in tedesco, viene definita Einfühlung, ossia la c. empatica, la capacità di spiegare le azioni e i pensieri di altri soggetti mediante l'immedesimazione psicologica con i soggetti. La problematica della c. empatica non si conclude d'altra parte con l'evoluzione dello storicismo, e le sue frequenti riproposizioni, sotto la celebre formula secondo cui comprendere le azioni di un agente significa essenzialmente 'mettersi nei suoi panni', vanno ben oltre i tentativi ottocenteschi di fondazione delle Geisteswissenschaften.
Una forma di c., distante da quella basata sull'empatia, era stata teorizzata da L. Wittgenstein in opposizione ai tentativi di far rientrare le spiegazioni delle azioni umane nel dominio metodologico delle scienze naturali. All'interno di una prospettiva monistica riguardo al rapporto tra fisico e mentale, Wittgenstein e soprattutto i filosofi che a lui si ispiravano (G.E.M. Anscombe, P. Winch, G.H. von Wright) avevano sostenuto il carattere eminentemente sociale della comune pratica di spiegazione delle azioni umane: spiegare un comportamento in termini di scopi, intenzioni, motivi, credenze significherebbe, nella prospettiva wittgensteiniana, avere la padronanza di certi termini e saperli applicare nelle circostanze pertinenti. Lungi dal rinviare a caratteristici stati mentali provvisti di un oscuro potere causale o con cui l'interprete dovrebbe entrare in un rapporto epistemico di c. immaginativa basato su metodi introspettivi, i concetti di motivo e intenzione, per es., presupporrebbero la conoscenza del significato dei termini corrispondenti, conoscenza basata essenzialmente sulla capacità di applicarli in contesti pubblici.
Se la c. di tipo wittgensteiniano non implicava alcuna forma di conoscenza per immedesimazione, il riferimento ai modelli storici della c. empatica (il Verstehen di W. Dilthey e G. Simmel in Germania, il re-enactment di R.G. Collingwood in Gran Bretagna) è invece alla base del rinnovato dibattito sviluppatosi nell'ultimo quindicennio del 20° sec. nella filosofia della psicologia, nella filosofia della mente e nella psicologia cognitiva. Tale dibattito prende le mosse da una celebre tesi di W.V. Quine, che in Word and object (1960) aveva sottolineato come l'attribuzione dei cosiddetti atteggiamenti proposizionali o stati intenzionali (credenze, desideri, speranze ecc.), tramite i quali nella cosiddetta psicologia del senso comune (folk psychology) normalmente spieghiamo il comportamento dei nostri simili secondo il classico modello mezzi-scopi, si basi essenzialmente su una simulazione di tipo empatico. Per Quine, nel discorso indiretto, e più in generale nell'attribuzione di atteggiamenti proposizionali, l'enunciazione delle tipiche locuzioni "X crede che…", "X desidera che…" (mediante cui ci si riferisce agli stati mentali doxastici e conativi del soggetto di cui si intende spiegare il comportamento) sarebbe ottenuta a partire dalla proiezione in quello che, dall'osservazione del suo comportamento, immaginiamo debba essere stato lo stato mentale del soggetto. Le attribuzioni di credenza e desiderio si baserebbero sull'ipotesi che il soggetto da interpretare proferisca enunciati e abbia percezioni, credenze, desideri e in genere atteggiamenti proposizionali simili a quelli che, come interpreti, avremmo noi se ci trovassimo al suo posto. L'empatia costituirebbe per Quine una modalità epistemica naturale con cui correntemente e, spesso, inconsciamente attribuiamo credenze, desideri e percezioni; essa è anzi "la ragione per cui si attribuiscono enunciati di contenuto" (Quine 1992, p. 68), in altre parole enunciati di atteggiamento proposizionale. Si rende opportuno precisare che le capacità empatiche non costituiscono per Quine una caratteristica sui generis degli esseri umani in quanto esseri culturali, secondo le tradizionali concezioni continentali del Verstehen, ma dipendono piuttosto dall'accordo tra certe norme di "similarità soggettiva" di individui diversi: per es., nel caso dell'apprendimento linguistico il bambino pronuncia l'enunciato osservativo pertinente ('Rosso', 'Acqua') in presenza dell'appropriata stimolazione e si aspetta l'approvazione dell'adulto, perché percepisce che la sua situazione stimolatoria è simile a quelle che ha avuto il genitore allorché ha proferito il medesimo enunciato o ha approvato la sua emissione verbale. È questo accordo che ci consentirebbe di attribuire ad altri le medesime percezioni e credenze che avremmo noi se ci trovassimo nella loro stessa situazione. Presupposto dalla capacità di apprendere un linguaggio, esso è frutto in parte di una comune storia evolutiva, in parte di esperienze in un ambiente comune. In questo senso, le capacità psicologiche di empatizzazione sembrerebbero rientrare a pieno titolo nell'"epistemologia naturalizzata" (v. naturalismo) difesa da Quine, e, pertanto, risultare legittimi oggetti di studio della biologia evoluzionistica, della psicolinguistica e della neuropsicologia.
L'influenza di queste tesi quineane è difficilmente sottovalutabile. Esse sono state inizialmente utilizzate da S.P. Stich per l'attribuzione degli enunciati di credenza. In contrasto con le teorie di D. Davidson e D.C. Dennett sulla presunzione di razionalità (cognitiva e pratica) che guiderebbe l'interpretazione degli stati cognitivi e del comportamento altrui (v. razionalità), Stich (1983) metteva in evidenza come attribuire a un soggetto A la credenza che p, cioè asserire "A crede che p" (dove "p" è un qualsiasi enunciato) equivale a sostenere, da parte dell'attributore, che "A si trova nello stato di credenza che causerebbe me a proferire p". Le tesi di Quine sono anche alla base della più recente ed esplicita ripresa del concetto di c., nella filosofia della mente, relativamente alle spiegazioni e predizioni della psicologia del senso comune. Nel tentativo di rendere conto di una pratica la cui efficacia empirica è stata molto spesso sottolineata, questa ripresa, che ha dato origine a quella che è ampiamente nota come teoria della simulazione (simulation theory), intende contrastare essenzialmente un modello alternativo delle attribuzioni di atteggiamenti proposizionali e delle predizioni del comportamento difeso dai filosofi della mente di orientamento funzionalista (D.K. Lewis. J.A. Fodor), il modello correntemente denominato teoria della teoria (theory theory). Secondo questo modello tali attribuzioni e predizioni - intese come descrizioni di antecedenti causali (ragioni, motivi) di un comportamento già osservato o, anche, di un comportamento imminente (e quindi predicibile) - si baserebbero su un insieme di generalizzazioni o leggi di senso comune (correlanti stati mentali con altri stati mentali o con comportamenti) che costituiscono una vera e propria "teoria della mente", per quanto implicita e rozza. Con l'apprendimento e la socializzazione ciascun individuo acquisirebbe questa teoria (la folk psychology), imparando a usare le sue 'leggi' o generalizzazioni (per es., "Se A desidera x e crede che facendo y otterrà x, allora tenderà a fare y") come regole di inferenza sia per spiegare sia per predire il comportamento dei suoi simili.
Per contro, i difensori della teoria della simulazione hanno messo in evidenza come le nostre capacità esplicative e predittive del comportamento altrui siano in larga misura basate su un'attività di simulazione immaginativa (espressa controfattualmente) degli stati mentali altrui e delle azioni (verbali e non verbali) causate da tali stati. Tra i sostenitori della simulation theory vanno segnalati soprattutto J. Heal (1986), R.M. Gordon (1986) e A.I. Goldman (1989), oltre allo psicologo P.L. Harris (1987). L'idea centrale della teoria è che, nel predire o nello spiegare il comportamento altrui, l'interprete ne assumerebbe il punto di vista e lo stato cognitivo, impegnandosi in una vera e propria attività di finzione (pretending), un procedimento che nel caso predittivo condurrebbe alla decisione (ipotetica) di compiere l'azione che, se si trovasse nello stato mentale simulato, egli stesso compirebbe; nel caso esplicativo a individuare gli stati mentali intenzionali che, tramite un opportuno ragionamento pratico, avrebbero condotto lui stesso a eseguire il comportamento osservato. La conclusione (ossia il comportamento) dell'ipotesi controfattuale alla base dell'interpretazione verrebbe comunque soltanto immaginata (sarebbe off-line, come si esprimono i sostenitori della teoria).
Gordon e Goldman hanno cercato di dimostrare il carattere istintivo e preteorico della simulazione mediante l'utilizzazione di un celebre esperimento di psicologia evolutiva, noto come false belief task (Wimmer, Perner 1983). Scopo dell'esperimento era quello di controllare la capacità del bambino di utilizzare il concetto di credenza attraverso il confronto fra le sue credenze e quelle di altre persone. Sul piano evolutivo esso mira a verificare a quale stadio della sua evoluzione psicologica il bambino acquisisce le nozioni intenzionali e la capacità di attribuire stati mentali agli altri, differenziandoli dai propri. Nell'esperimento, a bambini di età compresa fra i tre e i nove anni veniva mostrata una breve rappresentazione in cui un pupazzo mette una tavoletta di cioccolata in un certo luogo x; in sua assenza, sua madre sposta la cioccolata dal luogo x al luogo y. Veniva quindi chiesto ai soggetti di indicare dove, al suo ritorno, il pupazzo avrebbe cercato la cioccolata. I risultati dell'esperimento mostravano che soltanto i bambini intorno ai cinque anni indicavano, correttamente, che il pupazzo l'avrebbe cercata nel luogo x, attribuendogli quindi una credenza falsa, mentre quelli di età inferiore indicavano il luogo y, ossia il posto in cui effettivamente la cioccolata si trovava. Ciò dimostrerebbe che il bambino di età inferiore ai cinque anni non riesce ancora a distinguere tra la realtà effettiva come lui la vede e la realtà filtrata dalle credenze, che possono essere vere o false, in breve, che non possiede ancora il concetto di credenza; mentre a partire dai cinque anni il bambino acquisisce la capacità di rappresentare credenze false. La pertinenza dell'esperimento per la simulation theory è piuttosto ovvia. Indubbiamente, l'esperimento potrebbe essere - ed è stato - interpretato con le categorie della theory theory: dal punto di vista di quest'ultima il bambino di età inferiore ai cinque anni non avrebbe ancora la padronanza della teoria della mente su cui si basa la capacità di attribuire credenze e di predire (o spiegare) le azioni di altri attraverso i ruoli causali delle credenze. Dal punto di vista simulazionista, tuttavia, viene messo in evidenza soprattutto il fatto che nel bambino di età inferiore ai cinque anni le predizioni del comportamento altrui vengono compiute in modo egocentrico, ossia sarebbero basate sui fatti come lui li vede, mentre l'evoluzione dai quattro ai sei anni potrebbe essere spiegata nei termini dello sviluppo della capacità di attribuire certe credenze, capacità che si acquisirebbe nel contesto della simulazione del punto di vista altrui. In breve, il bambino di cinque anni riesce a simulare la situazione epistemica dell'altro, di cui osserva il comportamento, assumendone il ruolo e il punto di vista (Gordon 1986). Per suffragare tale ipotesi ci si è basati su alcuni noti esperimenti condotti sui bambini autistici (Baron-Cohen, Leslie, Firth 1985), i quali mostrerebbero un deficit nell'attribuzione di credenze ad altri simile a quello dei bambini di tre anni.
Benché non vi sia accordo sul tipo di presupposti metodologici che garantiscono la correttezza della procedura cognitiva di simulazione, è stato osservato da Goldman (1993) che la correttezza di una predizione o di una spiegazione del comportamento altrui in termini di simulazione si basa essenzialmente sulla condivisione, tra simulante e simulato, del sistema di decision-making, ossia del modo in cui traggono inferenze pratiche a partire da stati intenzionali. Ciò non esclude che si diano differenze anche di rilievo tra gli atteggiamenti di persone alquanto simili; una buona simulazione dovrebbe allora tener conto di una quantità di dati, difficilmente precisabile, sulle credenze e le esperienze di vita dell'agente, in breve, prendere in considerazione la situazione cognitiva del soggetto simulato apportando delle variazioni a quella di default da cui il simulante prende le mosse. Il vincolo della similarità tra interprete e soggetto interpretato relativamente ai modi di ragionare (che ripropone la vecchia tesi del comprendere storicistico, basato sull'affinità di soggetto conoscente e oggetto conosciuto nelle scienze umane) è apparso tuttavia piuttosto forte e non sempre soddisfacibile, con conseguenze negative sul piano della possibilità della simulazione. Nel caso delle capacità inferenziali (teoriche e pratiche) la simulazione comporterebbe pertinenti "aggiustamenti" da parte dell'interprete (è legittimo presumere che non tutti ragionino esattamente allo stesso modo), è possibile tuttavia che in alcuni casi vi siano difficoltà oggettive nell'assumere il punto di vista dell'altro: per es., quanta razionalità l'interprete deve presumere nell'altro perché possa simularne efficacemente il ragionamento pratico? È stato osservato al proposito che "le capacità inferenziali di un soggetto impongono dei limiti alle inferenze che questi può attribuire agli altri" (Botterill, Carruthers 1999; trad. it. 2001, p. 102), con la conseguenza che un interprete dotato di capacità razionali inferiori a quelle del soggetto interpretato non potrebbe essere in grado di simularne lo stato mentale e il conseguente comportamento. Un altro aspetto che ha suscitato obiezioni alla simulation theory è il suo riproporre una forma di conoscenza introspettiva, 'in prima persona', che sembrerebbe ormai obsoleta (obiezione tuttavia non insuperabile, dato che è dell'interpretazione da senso comune che qui si tratta): se l'introspezionismo è stato ampiamente rifiutato da Gordon, esso sembra infatti alquanto presente in Goldman, secondo cui l'interpretazione di tipo simulativo, pur essendo soggetta a certi vincoli imposti dalle variazioni a cui l'interprete deve sottoporre il suo sistema percettivo, emotivo e cognitivo per assumere efficacemente il ruolo dell'altro, si basa sulla similarità e ha il suo punto di partenza nell'esperienza personale dell'interprete.
Il dibattito sulla concezione simulazionista della spiegazione e della predizione del comportamento è piuttosto ampio e articolato (Davies, Stone 1995; Empathy and agency, 2000) e interessa tanto gli psicologi quanto i filosofi. La teoria della simulazione viene ampiamente basata su una prospettiva naturalistica (Perspectives on imitation, 2005) che accomunerebbe esseri umani e animali in certe capacità cognitive di c. empatica: la simulazione, insieme con i processi emulativi che caratterizzano tanto il mondo umano quanto quello animale, costituisce - forse anche grazie alle tesi di Quine, che è stato tra i primi a riproporne la rilevanza epistemica su basi e con obiettivi diversi da quelli della tradizionale impostazione ermeneutico-storicistica - uno dei temi al centro di indagini che sembrano fornirle un fondamento neuroscientifico, ancorché alquanto indiretto. Di particolare rilievo appaiono, da questo punto di vista, le ricerche che hanno condotto alla scoperta - da parte del gruppo del neurofisiologo G. Rizzolatti - dei cosiddetti neuroni specchio (mirror neurons) nella corteccia premotoria (area F5) delle scimmie (Rizzolatti, Fadiga, Gallese, et al. 1996). La caratteristica di questi neuroni è quella di attivarsi sia quando la scimmia esegue un comportamento finalizzato (intenzionale; per es. cercare di afferrare un oggetto) sia quando osserva un comportamento analogo in un individuo conspecifico (di qui il nome dato a questo tipo di neuroni). L'occorrenza di tale attività neurale in corrispondenza di azioni non soltanto eseguite ma anche semplicemente osservate potrebbe essere interpretata come una sorta di c. o simulazione a livello subpersonale. A partire da questa scoperta è stata esplorata da V. Gallese e A.I. Goldman (1998) la possibilità di connettere l'attività di questo tipo di neuroni a quella della simulazione; in altri termini, la possibilità che il processo neurocerebrale di attivazione dei neuroni mirror costituisca una forma primitiva e rudimentale, probabilmente una sorta di "precursore filogenetico", dei processi simulativi utilizzati comunemente nella folk psychology per l'attribuzione di stati intenzionali. Secondo i due autori l'attività del sistema di tali neuroni potrebbe rivestire innanzitutto una funzione evolutiva nell'apprendimento per imitazione; inoltre, la capacità di 'rispecchiamento' neurale del comportamento di individui conspecifici che il sistema presenta potrebbe essere interpretata come un meccanismo atto a favorire la sopravvivenza in quanto in grado di influenzare e modificare le proprie risposte comportamentali sulla base del comportamento osservato di un altro individuo (che potrebbe essere cooperativo o anche aggressivo). Esisterebbe quindi "una continuità cognitiva nell'ambito dell'attribuzione di stati intenzionali dai primati non umani agli esseri umani" (Gallese, Goldman 1998, p. 500), e i neuroni mirror potrebbero essere considerati come il "correlato neurale" dell'attribuzione di stati intenzionali su basi simulative. Ancorché basata su comportamenti finalizzati molto elementari, la connessione tra simulazione e attivazione dei neuroni mirror, se confermata, costituirebbe una prova notevole a sostegno della simulation theory e del radicarsi dei processi epistemici simulativi nell'architettura neurofisiologica prima ancora che in quella cognitiva.
bibliografia
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