COMPROPRIETÀ (lat. communio; fr. copropriéte; sp. proprietad comun; ted. Miteigentum; ingl. joint-ownership)
La comproprietà o condominio è la comunione del diritto di proprietà. Per la posizione centrale che la proprietà occupa nel sistema dei diritti patrimoniali e per l'importanza intrinseca dell'istituto, lo studio della comproprietà ha un valore di prim'ordine per la dogmatica privatistica. Già la coordinazione dei concetti di comunione e di proprietà si palesa delicata quanto mai, se, come si deve, l'uno e l'altro sono formulati secondo il rigore della tradizione romanistica, il primo in relazione all'appartenenza a più soggetti del diritto idealmente diviso in quote, il secondo in relazione alla signoria assoluta ed esclusiva del titolare sulla cosa corporale.
Una teoria negatrice, partendo dal presupposto che l'esclusività è attributo essenziale della proprietà, non ammette che il comproprietario sia proprietario, e considera la cosa comune come sottratta alla proprietà di chicchessia: nella comunione si avrebbe una proprietà sospesa, una situazione intermedia fra quella della res nullius e quella della res propria (Perozzi, Coviello, Bonelli). Si può osservare che l'esclusività ha valore nei rapporti coi terzi, che non vantano diritti reali sulla cosa, non di fronte a chi ha pure dalla legge, su questa, un potere immediato, e che si dà per dimostrato ciò che si dovrebbe dimostrare, quando si contesta la possibilità di temperamenti all'esclusività.
La teoria della personificazione distrugge anch'essa la figura della comunione di proprietà, per affermare che la cosa comune appartiene in proprietà a un solo soggetto, costituito dal gruppo dei partecipanti elevato a persona (Luzzatto, Carnelutti). Si dimentica, con ciò, che il comproprietario ha una sfera giuridica autonoma, la misura della quale è determinata dalla quota, di modo che la pluralità e non l'unità caratterizza il collegamento soggettivo di questa.
La dottrina civilistica tradizionale è solita parlare di proprietà della quota, nel senso, o che la partecipazione di più soggetti implichi una divisione reale del diritto di proprietà, o che essa implichi il sorgere di altrettanti diritti di proprietà distinti e per sé stanti, ma che in ogni modo i singoli diritti, che vengono, così, a costituirsi, colpiscano non la cosa corporale nella sua interezza, ma abbiano ciascuno un oggetto diverso, consistente in una frazione ideale della cosa stessa. Una più raffinata concezione suppone una proprietà plurima parziale della cosa, cioè una pluralità di diritti gravanti la cosa, qualitativamente uguali alla proprietà solitaria, e, come tali, aventi essi pure natura di proprietà, ma quantitativamente più ristretti perché limitantisi l'un l'altro (Bonfante, Barassi). Vede invece una proprietà plurima integrale della cosa chi, supposta in linea astratta la parificazione fra il diritto di ciascun proprietario e un qualsiasi diritto di proprietà, ammette solo che in linea di fatto quello risulti compresso nel suo esercizio dalla concorrenza dei diritti degli altri comproprietarî: si avrebbe, in altri termini, una pluralità di diritti di proprietà distinti, gravanti non una frazione ideale, ma la cosa stessa, e, per la impossibilità pratica della loro attuazione solidale, assoggettati al regime della collisione di diritti (Scialoja, Ferrini, Simoncelli). Alla teoria tradizionale è stata contrapposta l'esigenza della corporalità dell'oggetto, alla quale s'ispira l'ordinamento della proprietà, ed è stato anche obiettato che essa implicherebbe, in caso di derelizione della quota, il divenire quest'ultima una res nullius, mentre in realtà nella misura della quota abbandonata si accresce la partecipazione degli altri comproprietarî. Contro la teoria della proprietà plurima integrale si obietta (oltre alla sua insufficienza nel caso di disuguaglianza delle quote) che il carattere di esclusività della proprietà fa sì che una collisione di più diritti di proprietà implichi necessariamente l'elisione di ciascuno di essi. Più aderente alla realtà è senza dubbio la teoria della proprietà plurima parziale, e le obiezioni che ad essa si fanno hanno più che altro un valore sistematico.
Vi è infine la teoria dell'unità del diritto di proprietà, con pluralità di soggetti, sulla cosa corporale comune, la quale però può assumere aspetti diversi, secondo che quel diritto si concepisca indiviso, ovvero idealmente diviso fra i partecipanti. Nel primo dei due aspetti, essa non riesce a superare critiche analoghe a taluna di quelle rivolte contro la teoria della proprietà plurima integrale, con l'aggravante della mancata spiegazione dell'asserito collegamento soggettivo plurimo dell'unico diritto.
Sta di fatto che il diritto di proprietà è realmente unico, e non può essere che tale, sull'unica cosa corporale indivisa: ma non è necessaria l'appartenenza a un'unica persona. L'appartenenza a più soggetti si spiega anche per la proprietà con il concetto della divisione ideale, che a differenza della divisione reale, non genera la pluralità di diritti di proprietà, ma rende possibile una ripartizione delle facoltà, che alla proprietà sono connesse, fra coloro ai quali l'unico diritto di proprietà appartiene. La partecipazione di più soggetti a questo diritto dà ragione, già di per sé, della divisione ideale, che non è poi una mera astrazione logica, ma è la precisa espressione della necessità di un coordinamento fra le sfere giuridiche di costoro, dato il carattere fondamentalmente unitario del contenuto del diritto stesso. Così ciascun comproprietario ha il diritto di proprietà sulla cosa comune, ma l'ha mentre l'hanno gli altri e in correlazione agli altri: si ammette, in altri termini, che il medesimo diritto di proprietà appartenga a più soggetti, come apparterrebbe a uno solo, soltanto ricevendo dalla legge un ordinamento atto a giustificare la partecipazione di costoro e le sue conseguenze (divisione ideale). La posizione del singolo proprietario si può giuridicamente costruire anche indipendentemente dall'attribuzione d'un diritto soggettivo sui generis, d'un vero e proprio diritto di quota": il comproprietario non è infatti che il termine attivo di un rapporto reale, il cui contenuto è unico e identico rispetto a quello degli altri analoghi rapporti reali, facenti capo agli altri comproprietarî, e cioè il contenuto dell'unico diritto di proprietà. Questa concezione, ben considerata, spiega adeguatamente così la figura generale della comproprietà come i caratteri particolari conferiti a quest'ultima dai singoli ordinamenti positivi.
La disciplina della comproprietà s'impernia su due principî fondamentali. È riconosciuta una sfera d'azione del singolo comproprietario, entro cui egli può agire liberamente: la misura delle sue facoltà di godimento è determinata dalla quota, trovando il suo limite nell'interesse degli altri comproprietarî. Ove l'interesse di tutti è in giuoco, è nella sfera d'azione della totalità dei comproprietarî: in particolare, le innovazioni di qualsiasi specie, ossia le alterazioni dello stato economico (innovazioni di fatto) o giuridico (innovazioni di diritto) della cosa comune, non possono essere consentite, se non da tutti i comproprietarî d'accordo.
Presso talune legislazioni (art. 678 cod. civ. it., § 745 BGB., art. 647 cod. civ. svizz.) è costituita anche una sfera d'azione della maggioranza. vi rientra, sempre, l'interesse comune dei comproprietarî, ma nei limiti dell'utilizzazione della cosa secondo la sua destinazione normale, cioè dell'amministrazione ordinaria. Altro canone fondamentale caratteristico dei codici di tipo latino (art. 883 cod. civ. fr., art. 1034 cod. civ. it) è la cosiddetta natura dichiarativa della divisione, in virtù della quale risulta meglio marcato il carattere provvisorio attribuito in massima dai legislatori alla comproprietà. Non solo ciascun partecipante può, in linea di principio, far cessare la comproprietà in qualunque momento provocando la divisione, ma, di più, la divisione effettuata ha valore retroattivo, nel senso che la porzione materiale della cosa, assegnata al singolo condividente, si considera essere stata di sua proprietà esclusiva fino dal momento in cui lo stato di comproprietà ebbe principio. La dichiaratività della divisione, contrastante con la tradizione romanistica, dà luogo a inconvenienti logici e pratici non lievi: la divisione, razionalmente, è traslativa, poiché in virtù di essa, nella realtà, viene a modificarsi la titolarità del diritto di proprietà sulla cosa.
Nell'ambito della sfera d'azione del singolo comproprietario, e sotto l'aspetto, anzitutto, del godimento della cosa comune: conviene distinguere le facoltà divisibili dalle facoltà indivisibili pur tenendo presente, che così per le une come per le altre, con efficacia diversa, è vero, la quota rappresenta la misura oggettiva della partecipazione, in quanto è l'espressione della divisione ideale del diritto di proprietà in sé e per sé considerato. L'acquisto dei frutti si compie a vantaggio del singolo, nella proporzione della quota: se sono cose corporali, si tratterà sempre di entità frazionabili; se sono frutti civili, diritti di credito, il frazionamento reale avverrà automaticamente, poiché per le obbligazioni, se divisibili, vale il principio concursu partes fiunt. Analoga situazione viene a crearsi per gli altri proventi. Per quanto concerne l'uso della cosa comune, poiché esso non può aver luogo partitamente, il diritto oggettivo ci fornisce (art. 675 cod. civ. it.) i generali criterî direttivi della distribuzione: l'attuazione concreta di tali criterî è normalmente subordinata all'accordo dei partecipanti (regolamento convenzionale) o all'intervento dell'autorità giudiziaria (regolamento giudiziale): si ha un esempio classico nell'adozione del sistema del turno, che è una distribuzione dell'uso nel tempo, così come è praticata anche la distribuzione dell'uso nello spazio, e altri sistemi ancora vengono con varia frequenza applicati. Il regolamento convenzionale o giudiziale non mancherà di riferirsi, come a punto di partenza, alla rispettiva misura delle quote. Similmente, il possesso della cosa comune non è attribuito in modo esclusivo a un comproprietario se non in forza del regolamento legale, convenzionale o giudiziale della comproprietà: di modo che quegli sarà contemporaneamente possessore in nome proprio e possessore in nome altrui, e quindi, ad ogni effetto, possessore precario. La più normale resta l'ipotesi pura del compossesso, nella quale tutti i comproprietarî esercitano insieme la disponibilità fisica della cosa, ciascuno nei limiti della quota propria.
Ma, sempre nell'esercizio del godimento della cosa comune, vi sono certe attività, che il comproprietario, anche operando da solo, svolge necessariamente non nel semplice interesse proprio bensì nell'interesse di tutti, e per le quali quindi egli non è vincolato al rispetto della quota: in esse apparisce, in più chiara luce che nelle altre attività, la vera figura della comproprietà, non risultante da una pluralità di diritti parziarî ma dalla partecipazione a un unico diritto. Quale sia la loro portata, la loro estensione, è controverso, e la soluzione varia a seconda dei diversi ordinamenti positivi.
Per l'art. 676 cod. civ. it., il singolo comproprietario può obbligare gli altri a contribuire alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune (salva a costoro la facoltà di liberarsi con l'abbandono "dei loro diritti di comproprietà"). Di portata assai più vasta è la norma del § 1011 BGB., per cui ogni comproprietario può esercitare di fronte ai terzi le azioni a tutela della proprietà in relazione all'intera cosa.
Le facoltà di disposizione della cosa comune sono, per il singolo comproprietario, necessariamente circoscritte dalla quota. Usualmente, se anche non esattamente, si dice che ciascuno può alienare la propria quota (art. 679 cod. civ. it.). Ma un'ulteriore riserva è da formulare per il caso in cui l'atto dispositivo si concreti nella costituzione, a vantaggio di un terzo, di un diritto indivisibile, per es., di una servitù prediale, sulla cosa comune. Poiché non si dà servitù prediale pro parte, la costituzione consentita da uno solo dei comproprietarî di quello che dovrebbe essere il fondo servente, non produce effetti, almeno reali, neanche a carico di costui.
La cosiddetta alienazione della quota dovrebbe logicamente porre l'acquirente in quella stessa posizione giuridica in cui si trovava prima l'alienante: e cosi era infatti per il diritto romano. Ma, ove impera il principio della dichiaratività della divisione, l'efficacia dell'alienazione si limita alla parte che effettivamente nella divisione verrà a spettare all'alienante (alt. 679 cod. civ. it.): donde la necessità di organizzare a favore dell'acquirente una particolare tutela.
La totalità dei comproprietarî entra in azione, nel realizzare le innovazioni economico-giuridiche sulla cosa comune, attraverso la preventiva unione dei consensi espliciti.
Quando si abbia l'alterazione dello stato economico della cosa, non è sempre agevole stabilire; ma in massima può dirsi che essa sussista tutte le volte che la destinazione della cosa stessa venga ad essere mutata. L'alterazione dello stato giuridico si verifica allorché un atto dispositivo colpisce la cosa in sé senza limitazioni di quota. Il divieto delle innovazioni non consentite unanimemente ha sanzioni diverse nei due casi: nel primo, la restituzione in pristino, ovvero, se questa non sia possibile, il risarcimento dei danni; nel secondo, la nullità dell'atto, parziale o totale, a seconda che si riferisca a un diritto divisibile o indivisibile.
In conseguenza dell'accoglimento del principio maggioritario, l'amministrazione (che non è più la conservazione pura e semplice, ma non è ancora la trasformazione della cosa comune) è affiddata a tanti comproprietarî quanti formino in relazione alle rispettive quote la maggioranza degl'interessi nella collettività. Questo criterio, della maggioranza di somma, che si trova applicato nell'art. 678 cod. civ., è assai più confacente, che non quello della maggioranza numerica, al carattere strettamente patrimoniale della gestione. Occorre peraltro che la volontà della maggioranza si possa legalmente considerare manifestata attraverso una deliberazione collettiva. Ma può anche darsi che in qualche caso il principio maggioritario non serva più, perché o non è possibile formare la maggioranza assoluta, o la deliberazione di maggioranza reca grave danno alla cosa comune: il diritto oggettivo appronta allora un opportuno rimedio nel ricorso all'autorità giudiziaria (art. 678, capov. 2°, cod. civ.).
In ordine alla cessazione dello stato di comproprietà, riprende il suo pieno impero la volontà del singolo comproprietario, essendo massima fondamentale che, fatta eccezione per quelle cose, che servono all'uso cui sono destinate, solo in quanto appartengono a più soggetti (es., muro comune), la divisione possa essere provocata da chiunque in qualunque momento. È pubblico interesse che, in linea di principio, la divisione avvenga liberamente: donde le limitazioni alla validità delle clausole negoziali, contrattuali (art.815 cod. civ. fr., art. 681 cod. civ. it., § 749 BGB., ait. 650 cod. civ. svizz.) o testamentarie (art. 984 cod. civ. it., § 2044 BGB.), d'indivisione.
Bibl.: Fra le molte opere importanti, si possono consultare: B. Windscheid, Il diritto delle Pandette, trad. Fadda e Bensa, I, parte 2ª, pp. 12-13, 127 segg.; F.C. di Savigny, Le obbligazioni, trad. Pacchioni, I, p. 288 segg.; F. Eisele, Zur Lehre vom Miteigenthum, in Arch. für die civ. Prax., LXIII (1880), p. 27 segg.; G. Rümelin, Zur Lehre von der Theilung der Rechte, Bedeutung des Begriffsbildung und legislatorische Behandlung, in Jahrbücher für die Dogm. des heut. röm. u. deut. Privatrechts, XXVIII (1889), p. 386 segg.; K. Engländer, Die regelmässige Rechtsgemeinschaft, I, Berlino 1914; G. Segrè, Sulla natura della comproprietà in diritto romano, in Riv. it. per le sc. giur., VI (1888), p. 353 segg.; VIII (1889), pp. 145 segg., 329 segg.; S. Perozzi, Saggio critico sulla teoria della comproprietà, in Filangieri, XV (1890), pp. 1 segg., 65 segg., 305 segg., 345 segg.; V. Scialoja, L'actio ex stipulatu in caso di evizione parziale e la l. 64 D de evictionibus 21, 2, in Arch. giur. XXX (1883), p. 184; id., Teoria della proprietà nel diritto romano, lezioni ordinate curate edite da P. Bonfante, Roma 1928, p. 425 segg.; L. Ramponi, Della comunione di proprietà o comproprietà, nel Diritto civ. it. del Fiore, Napoli-Torino 1922; G. Fornari, Della comunione dei beni, Napoli 1881; M. Vitalevi, Della comunione dei beni, voll. 3, Torino 1884-1901; R. Luzzatto, La comproprietà nel diritto italiano, Torino 1908; id., La comproprietà nel diritto italiano, Nuovi studi, Torino 1909; L. Coviello, La quota indivisa e il divieto di espropriazione forzata, in Giur. it., LV (1903), parte 4ª, p. 225 segg.; G. Bonelli, I concetti di comunione e di personalità nella teorica delle società commerciali, in Riv. di dir. comm., I (1903), parte 1ª, p. 285 segg.; C. Manenti, Concetto della communio relativamente alle cose private, alle pubbliche ed alle communes omnium, in Filangieri, XIX (1894), pp. 321 segg., 492 segg.; F. Carnelutti, Personalità giuridica e autonomia patrimoniale nella società e nella comunione, in Studi di dir. civ., Roma 1916, p. 113 e segg.; P. Bonfante, Il regime positivo e le costruzioni teoriche del condominio, in Scritti giur. varii, III, Torino 1926, p. 453 segg.; P. Bonfante e F. Maroi, Note al Windscheid, I, iii, p. 78 segg.; L. Barassi, L'art. 2077 cod. civ. e la pretesa natura dichiarativa della divisione secondo l'art. 1034, in Foro it., XXVI (1901), p. 1366 segg.; C. Ferrini, Manuale di Pandette, 3ª ed., Milano 1908, n. 337 segg.; Riccobono, Dalla communio del diritto quiritario alla comproprietà moderna, in Essays on legal history, Oxford 1913, p. 33 segg.