Comunicazione e cognizione
Il modello corrente della comunicazione
Chi, verso la fine del primo decennio del 21° sec., provi a interrogare Internet, dando come chiave il termine comunicazione, si troverà davanti centinaia di migliaia di link che portano verso i più diversi campi della conoscenza e della pratica sociale: dalle tecnologie della comunicazione all’intelligenza artificiale, dal management del personale alle tecniche giornalistiche, dalle strategie pubblicitarie agli effetti sul pubblico dei programmi televisivi, dalla gestione dei processi didattici alle situazioni di interazione di gruppi provenienti da culture differenti (comunicazione ‘interculturale’), risulta con estrema chiarezza come il tema della comunicazione si sia guadagnato un posto centrale nell’organizzazione della cultura e più in generale negli stili di vita del mondo d’oggi. Si tratta di settori di ricerca e di esperienza strutturati in modo autonomo, ciascuno con tradizioni metodologiche più o meno stratificate e con apparati terminologici peculiari, accomunati però dal riferimento prevalente a una idea della comunicazione di matrice ingegneristica, quale fu concepita e formalizzata nel 1948 dal celebre matematico statunitense Claude Shannon (A mathematical theory of communication): l’idea, cioè, che la comunicazione consista essenzialmente nel processo che porta un mittente e un destinatario alla condivisione di un pacchetto di informazioni (un ‘messaggio’) mediante un ‘codice’, ovvero un sistema di corrispondenze fra certi segnali fisicamente percepibili e il loro valore convenuto (per es., determinate quantità), per mezzo delle quali il mittente ‘codifica’ il messaggio e il ricevente lo ‘decodifica’. Sembra pertanto di poter sottoscrivere l’affermazione, abbastanza paradossale ma confortata dai dati, che «c’è a tutt’oggi una sola teoria della comunicazione che meriti propriamente il nome di teoria, quella di Shannon (e Weaver)» (Gambarara 2005, p. 191). Essa, non a caso, ha un posto centrale anche nella teoria linguistica più accreditata: quella che, nelle sue varie versioni, prende il nome dal linguista statunitense Noam Chomsky.
Secondo questo schema, la comunicazione non avrebbe a che fare con l’elaborazione di certi significati (linguistici o d’altra natura), quanto con l’efficacia o meno della loro veicolazione, e, semmai, con l’indagine degli effetti raggiunti a carico del destinatario (umano, animale non umano o macchina che sia). Elaborazione dei significati e loro comunicazione, o, per usare i noti termini morrisiani, semantica e pragmatica, apparterrebbero dunque a fasi logicamente distinte: separazione perfettamente legittima entro la concezione originaria della teoria, finalizzata a ottimizzare processi ingegneristici, che coerentemente prescindeva dalle interpretazioni semantiche dei simboli (cioè dal loro riferimento a unità fisiche o concettuali), e ovviamente dai contesti circostanziali della comunicazione, contentandosi di «riprodurre in un certo punto, in modo esatto o approssimativamente esatto, un messaggio selezionato in un altro punto» (C. Shannon, The mathematical theory of communication, 19492, p. 1); ma altamente problematica non appena la teoria venga allargata a sistemi di comunicazione complessi, in primo luogo le lingue storico-naturali.
L’estrapolazione della teoria di Shannon e Weaver dal suo contesto originario è avvenuta nel clima epistemologico degli anni Cinquanta-Sessanta del 20° sec., caratterizzato dallo sforzo di modellare le scienze umane in base allo schema cibernetico, ed esemplarmente rappresentato dal lavoro di psicologi come George A. Miller (al cui libro del 1951, Language and communication, si deve la prima generalizzazione della teoria) e di linguisti come Roman Jakobson (che in una celebre conferenza del 1960, Linguistics and poetics, arricchì il modello introducendovi la nozione di ‘contesto’ e associando a ciascuno dei componenti del processo, a seconda della posizione di salienza volta per volta assunta, una specifica ‘funzione’: ‘emotiva’ nel caso del mittente, ‘conativa’ nel caso del destinatario, ‘metalinguistica’ nel caso del codice e così via). Il grande successo, fin dall’inizio degli anni Sessanta, della linguistica chomskyana, ambito specifico e insieme punta di diamante della rivoluzione cognitiva, facilitò l’assimilazione del modello della comunicazione, così ristrutturato, in settori-chiave cui il cognitivismo proponeva un approccio unificato (linguistica, psicologia, intelligenza artificiale), facendo leva su due presupposti teorici: il carattere eminentemente sintattico-combinatorio del linguaggio, espresso nei termini di una capacità generativa innata (grammatica universale), per cui gli umani sono in grado di fare uso infinito di mezzi finiti secondo certe regole ricorsivamente applicabili; la dissociazione tra il processo linguistico-comunicativo e l’elaborazione semantica, che apparterrebbe a un momento distinto della vita mentale e consisterebbe nella messa in corrispondenza dei significati linguistici con significati profondi, sostanzialmente innati, codificati in un ‘linguaggio del pensiero’ (secondo la celebre teoria di Jerry A. Fodor espressa nel libro The language of thought, 1975). Il risultato di questa lettura del rapporto fra linguaggio e comunicazione consiste nella riduzione del primo a un processo di ‘pura traduzione’. «Se questa visione è corretta – ha scritto di recente un fiero critico della concezione chomskyana-fodoria-na – allora il linguaggio che incontriamo (che sia parola scritta o parlata) serve soltanto ad attivare complessi di stati o rappresentazioni interne che sono i veri cavalli da lavoro cognitivi» (Clark 2006, p. 370).
Numerosi critici, tuttavia, mettono oggi in dubbio che il rapporto fra linguaggio, comunicazione e conoscenza possa essere visto in questi termini. La discussione della teoria tradizionale della comunicazione ha assunto in anni recenti la forma di una riflessione sull’intreccio fra comunicazione e cognizione e sul ruolo giocato dal linguaggio (come facoltà semiotica generale e come lingua/e concretamente appresa/e) nei processi cognitivi. Tale riflessione, variamente sviluppata in ambiti come la psicologia, la filosofia e l’antropologia, ma anche l’intelligenza artificiale e la zoosemiotica, e ovviamente la linguistica, caratterizza in modo specifico il primo decennio del secolo che si è aperto.
Critiche e ambiti disciplinari coinvolti
Il ripensamento oggi in corso del modello tradizionale (cosiddetto lineare) della comunicazione è stato anticipato, nell’ultimo ventennio del Novecento, da linee di ricerca provenienti sia dalla linguistica e dalla psicologia sia dalla filosofia. Al modello sono stati volta a volta imputati i seguenti limiti:
a) una concezione rigida del codice, entità non riducibile a un elenco di corrispondenze fra significanti e significati, quale si dà solo nel caso di linguaggi elementari insensibili al contesto (per es., i sistemi di allarme, i semafori ecc.);
b) una visione omologante e astratta del rapporto fra mittente e destinatario, che solo in casi limite (o, che è lo stesso, casualmente) condividono esattamente lo stesso codice e comunque lo gestiscono in maniera asimmetrica, secondo strategie semiotiche non sovrapponibili (di qui l’imputazione di linearità);
c) l’incapacità di dare conto di fenomeni linguistici specifici come l’ironia e la metafora;
d) l’incapacità di dare conto della interpretazione come parte normale, non deviante, del processo comunicativo, con particolare riferimento alla pratica dell’inferenza;
e) l’incapacità, quindi, di collocare la mente all’interno del processo, rendendo in ultima analisi il modello inadeguato a dar conto della comunicazione umana, strutturalmente diversa non solo dalla interazione fra sistemi artificiali ma anche da quella di specie animali, pur evolute, differenti da Homo sapiens sapiens.
A linguisti generali e semiotici come Tullio De Mauro e Umberto Eco, ma anche a sociolinguisti ed etnolinguisti come Dell Hymes, Michael A.K. Halliday o Giorgio R. Cardona, si devono obiezioni di tipo (a)-(b); a filosofi come Paul Grice si deve l’obiezione (d), sviluppata da psicologi e linguisti come Dan Sperber e Deirdre Wilson nell’obiezione (e); mentre alla semantica cognitiva detta incarnata (embodied) riferibile a George Lakoff e Mark Johnson si deve l’obiezione (c) portata, per vie proprie, a conferma e rinforzo dei punti (a)-(b). Il ruolo giocato da fattori di tipo cognitivo nei processi di comunicazione, e più in generale dal rapporto comunicazione-mente, è pertanto in questi anni il punto su cui si gioca la partita della teoria della comunicazione nel suo insieme: ed è centrale la domanda di un modello integrato e polidimensionale che riesca a soddisfare le diverse esigenze teoriche.
Per molti versi è all’incontro fra teoria della comunicazione e filosofia che si deve la curvatura più interessante della discussione in corso. L’introduzione della nozione di mente è stata il catalizzatore che ha, fino a un certo punto almeno, unificato i vari filoni di ricerca coinvolti: a partire dalla revisione griceana delle dinamiche inferenziali che intervengono nello scambio comunicativo (sicché il significato letterale degli enunciati sarebbe solo la sponda della ricerca del ‘significato del parlante’, e la comunicazione procederebbe per mosse cooperative), è stata messa a punto una teoria della comunicazione come ricerca della ‘pertinenza’, quest’ultima intesa «come un tratto basilare della cognizione umana, che la comunicazione può sfruttare», elaborando in base al contesto e alle assunzioni disponibili gli input ricevuti (un suono, una luce, un enunciato, un ricordo), fino a ricavarne, con una sorta di legge del minimo sforzo, «un effetto cognitivo positivo» (Wilson, Sperber 2004, pp. 2-3, della versione on-line). Se in una prima fase, con il famoso volume del 1986, Relevance, gli autori di questa teoria hanno inteso caratterizzare in termini generali il meccanismo cognitivo della pertinenza, distinguendolo da quello, più generico, dell’inferenza, nei primi anni del Duemila l’agenda di ricerca include per un verso la ricerca di un’architettura della mente che sia compatibile con il funzionamento effettivo del meccanismo, per un altro lo sforzo di chiarirne la storia evolutiva.
Una dinamica per certi aspetti analoga si è osservata nei dibattiti circa le capacità cognitive degli animali non umani (in specie i primati). Mentre nel lavoro scientifico degli anni Sessanta-Settanta il focus era rivolto all’accertamento dell’esistenza e del funzionamento di sistemi di comunicazione in varie specie animali, con particolare attenzione alla possibilità per gli scimpanzé di apprendere in cattività, mediante un training altamente specifico, forme simil-umane di comunicazione (come nel caso di Washoe, addestrata da Allen e Beatrice Gardner all’apprendimento dell’American sign language), a partire dai tardi anni Settanta il problema centrale era la possibilità di attribuire a talune specie non umane una ‘teoria della mente’ (theory of mind), ovvero la capacità, sia pure embrionale, di leggere il comportamento altrui in termini di ‘stati intenzionali’ (credenze, desideri, intenzioni). Al famoso articolo apripista, e all’interrogativo, di David Premack e Guy Woodruff Does the chimpanzee have a theory of mind? («Behavioral and brain science», 1978, 4, pp. 515-26) fa in certo senso contrappunto il libro di Savage-Rumbaugh, Shanker, Taylor (1998, 20012) che, vent’anni dopo, al termine di una lunga esperienza di ricerca sui bonobo (una specie di primati, diversa dagli scimpanzé, che ha rivelato inattese capacità di apprendimento spontaneo e di adattabilità), dà una risposta positiva, nel senso dell’attribuzione ai bonobo di facoltà mentali e della capacità medesima di comprendere (anche se non di produrre) il linguaggio verbale. L’etologia cognitiva (inaugurata da Donald R. Griffin e debitrice del contributo teorico del filosofo Daniel C. Dennett) si muove dunque, anche se con riserve e problemi, verso una revisione del modello tradizionale della comunicazione, che viene normalmente utilizzato come riferimento (Dalla comunicazione al linguaggio, 2002) rendendo tuttavia più flessibile il concetto di codice (si pensi al rilievo dato alle strategie di ‘inganno’ rivelate allo stato di natura da parte di certe specie) e incorporandovi una sensibilità al contesto (in chiave spaziale e temporale: presenza di ‘dialetti’ animali e di tenui dinamiche evolutive) estranea alla formulazione originale. La psicologia (cognitiva e dello sviluppo) è il terzo settore strategico interessato alla svolta mentalista della teoria. Se la messa in gioco da parte dei filosofi di una nozione di mente, per così dire, senza aggettivi evocava uno scenario postcartesiano inteso a cogliere il quid dell’umano, la mente degli psicologi è anzitutto quella naïf del comportamento quotidiano, inteso a leggere le mosse altrui in chiave finalistico/intenzionale (nel senso della theory of mind). La concezione della ‘psicologia ingenua’ assume una fisionomia precisa nella nozione di mindreading (introdotta da Andrew Whiten nel 1991 nel testo da lui curato Natural theories of mind. Evolution, development and simulation of everyday mindreading) e soprattutto nella ‘teoria del meccanismo della mente’ (o TOMM, Theory of Mind Mechanism) discussa dallo psicologo inglese Alan M. Leslie in un saggio del 1994 e successivamente rielaborata (Leslie, Friedman, German 2004; per un quadro aggiornato di impostazione analitica cfr. Rainone 2005). L’idea è che gli umani siano dotati di un meccanismo innato inteso alla ‘metarappresentazione’, ovvero alla rappresentazione di rappresentazioni (altrui: del tipo A ‘crede che’ B ‘voglia’ mangiare la mela): tale meccanismo, non specificamente linguistico, dipenderebbe da un ‘modulo’ cognitivo (di tipo fodoriano: v. oltre) evolutosi selettivamente in Homo sapiens sapiens. La sussistenza di questo meccanismo viene testata nei bambini di età prescolare mediante esperimenti ad hoc, con risultati che inducono a collocarne l’attivazione intorno ai tre-quattro anni. A questa età il bambino è capace di fare anche giochi di finzione che sospendono i vincoli di referenza, di verità/falsità e di esistenza fra simboli e mondo, tutti caratteri ritenuti impraticabili per altre specie animali, anche molto evolute. In sintesi, «concetti altamente astratti di teoria della mente fanno la loro comparsa molto presto nel corso della vita, quando la conoscenza generale e le capacità di ragionamento sono ancora molto limitate. Essi sono il risultato di meccanismi di elaborazione specializzati al fine di stabilire e mantenere il riferimento dei concetti. I processi modulari che promuovono l’attenzione agli stati mentali e favoriscono l’apprendimento attorno a essi appaiono molto presto e si sviluppano rapidamente. Tuttavia i processi euristici che selezionano i contenuti appropriati per gli stati mentali hanno uno sviluppo molto lento e subiscono cambiamenti di grossa mole» (Leslie, Friedman, German 2004, p. 532). Il carattere innato di questi meccanismi sarebbe confermato sia dall’assenza di capacità di metarappresentazione in soggetti autistici sia dai limiti che essa presenta nel caso di patologie di minore entità.
L’importanza di questi argomenti per la teoria della comunicazione è evidente. Già l’apprendimento delle parole (suggerisce Bloom 2004) non si risolve in un processo imitativo-associativo, ma presuppone la capacità di metarappresentarsi le intenzioni del parlante, focalizzandone gli stati mentali. Si può dunque pensare che la comunicazione dipenda dall’attivazione di un modulo di comprensione delle menti, di cui la TOMM potrebbe costituire un modello adeguato.
Verso una nuova idea di comunicazione
L’annessione del tema della comunicazione al mentale procede dunque da settori di ricerca diversi e con argomenti qua e là convergenti. Tuttavia, la natura del rapporto comunicazione-cognizione muta profondamente a seconda del modello di mente utilizzato e più in generale dell’opzione fra una teoria prevalentemente innatista e una che per semplicità definiremo di tipo culturalista. Oggi l’idea che si va facendo spazio è che si debba uscire dall’alternativa secca del ‘prima’ e del ‘poi’, puntando sulla possibilità di una ‘coevoluzione’ fra cognizione e comunicazione, da collocare sullo sfondo di uno sviluppo filogenetico del cervello umano che sembra fare della semiosi (e quindi non solo del linguaggio verbale) per un verso il prodotto, per un altro la concausa del suo straordinario accrescimento in volume e complessità (T.W. Deacon, The symbolic species, 1997). Ma il profilarsi di una risposta complessiva abbastanza condivisa non esclude profonde differenze sia nelle strategie argomentative sia nell’impostazione stessa del problema.
Le ragioni del dibattito
Va osservato preliminarmente che l’esistenza stessa di un acceso dibattito intorno alla priorità del cognitivo rispetto al linguistico o viceversa è dovuta all’accettazione, da gran parte degli scienziati cognitivi, della concezione modularista della mente (elaborata da J.A. Fodor, The modularity of mind, 1983), secondo la quale il linguaggio sarebbe essenzialmente un modulo ‘informazionalmente incapsulato’, capace di accedere solo a un tipo particolare di informazioni: sarebbe insomma un sistema di input/output per il trasferimento di pensieri, e non parteciperebbe dei processi centrali della cognizione (Carruthers 2002). Il sodalizio fra questa teoria della mente e la vocazione asemantica della grammatica generativa ha come logica conseguenza il primato (sia in termini logici sia in termini evolutivi) del mentale sul linguistico e il rifiuto dell’idea che la cultura (quindi le dinamiche dell’apprendimento linguistico, i contesti socioculturali, le differenze sociopragmatiche ecc.) possa mediare in modo significativo l’accesso alla realtà. Gli effetti della cultura si scaricherebbero su livelli in definitiva superficiali del processo conoscitivo.
Di qui la rivendicazione di una natura, come suol dirsi, ricca e articolata della mente (prelinguistica) e la diffidenza verso ogni teoria che ne ridimensioni il ruolo (sia questa la dottrina whorfiana secondo cui a lingue differenti corrisponderebbero sistemi di conoscenza profondamente diversi nel tempo e nello spazio, sia la più moderata dottrina vygotskijana che affida al linguaggio la mediazione storico-culturale del pensiero: Bloom, Keil 2001). Fuori dall’orizzonte cognitivista resta pertanto l’imponente tradizione filosofico-linguistica centro-europea, riconducibile alla linea Humboldt-Saussure-Hjelmslev, che senza peraltro abdicare a un’idea ricca della mente (quale discendeva dalla comune matrice kantiana), e senza chiudersi al dialogo con la psicologia, aveva elaborato una concezione della lingua come sistema (storicamente costruito) di ritagliamento ‘radicalmente arbitrario’ sia della sostanza fonico-acustica sia della sostanza concettuale (lingua come ‘forma’). Sicché momento cognitivo e momento comunicativo (si ricordi lo schema saussuriano del ‘circuito della parole’) risultavano dialetticamente connessi da un punto di vista sia evolutivo sia fenomenologico. Di questa tradizione giunge al cognitivismo solo la versione estremizzata e spesso amatoriale di Benjamin Lee Whorf (presentata in celebri saggi degli anni Trenta), mentre Lev S. Vygotskij è oggetto di una veloce liquidazione (da parte di Fodor in uno dei primi numeri di «Cognition») sulla base di una conoscenza limitatissima del suo pensiero (ricavata da un collage di testi edito sotto il titolo Thought and language, 1962).
Sviluppi della dottrina della pertinenza
La teoria di Sperber e Wilson, oggi considerata dai più la migliore alternativa alla teoria standard della comunicazione, cerca di chiarire il lavoro che la mente compie elaborando le informazioni disponibili nel corso dell’interazione comunicativa. Questa elaborazione è affidata a una procedura in larga misura automatica, dipendente da moduli specializzati di processamento degli input. La suddetta procedura si riduce a due passaggi essenziali: «a. Segui la via del minimo sforzo nel calcolare gli effetti cognitivi: metti alla prova le ipotesi (disambiguazioni, risoluzioni del riferimento, implicature ecc.) in ordine di accessibilità; b. fermati quando la tua aspettativa di pertinenza è soddisfatta» (Wilson, Sperber 2004, p. 9 della versione on-line). Ogni informazione accessibile nel contesto dato (di tipo percettivo, segnaletico, memoriale ecc.) è soggetta a questo tipo di elaborazione, che la mente compie in modo automatico, perché è naturalmente strutturata per farlo. Vengono in tal modo costruite ipotesi di comprensione a partire sia dai dati linguistici, sia dalle più realistiche assunzioni di sfondo e implicazioni contestuali del locutore: quando l’ipotesi raggiunge un grado soddisfacente di integrazione tra le informazioni utilizzate (il che ovviamente non significa un risultato ottimale, e tanto meno giusto), il processo di pertinentizzazione si ferma. Come si vede, lo schema proposto ha il vantaggio di arricchire in chiave mentalista il modello tradizionale della comunicazione, incorporandovi un elemento dinamico che rimaneva estraneo alla nozione di codice; condivide, tuttavia, con quel modello e con la teoria chomskyana in genere, l’orizzonte di un parlante-ascoltatore ‘ideale’, del tutto sganciato da ogni qualificazione storico-sociale e culturale, evidentemente ritenuta non significativa.
L’idea ulteriore (Sperber 2005) è che ai processi di comprensione e comunicazione linguistici (detti ostensivo-inferenziali) presieda un micromodulo specializzato, evolutosi all’interno della più ampia capacità di costruire metarappresentazioni tipica degli umani. In nessun modo, dunque, la dottrina della pertinenza abdica alla concezione modularista della mente, che anzi viene sottoscritta nella sua variante radicale per cui sarebbe lecito ipotizzare (almeno in linea di principio) che ciascuna funzione specializzata sia implementabile in un programma per computer. Si tratta ora di comprendere in che modo una mente ‘massivamente modulare’ (che tende, cioè, a ridurre al minimo il peso dell’elaborazione centrale) possa essere flessibile e sensibile al contesto in modo da armonizzarsi con le modalità di funzionamento della pertinentizzazione. Anche se al raggiungimento di questo obiettivo vengono per adesso consegnate ipotesi «vaghe e speculative» (Sperber), esso andrebbe tenuto fermo in quanto basato sulla migliore concezione dell’architettura della mente a oggi disponibile.
Tomasello: una dottrina culturalista del linguaggio e della comunicazione
Se il modello Sperber-Wilson può essere ritenuto tipico di un’analisi del rapporto mente-comunicazione in un’ottica cognitivista radicale, negli ultimi quindici, venti anni molto è stato fatto per saldare le più generali istanze cognitiviste con una presa in carico dei processi storici e culturali che mediano l’origine e il funzionamento della mente, sia in ottica filogenetica sia dal punto di vista dei meccanismi di apprendimento e adattamento. Esemplare in questo quadro è il lavoro di Michael Tomasello (1999), volto a comprendere, in chiave comparativa rispetto agli altri primati, «le origini culturali della cognizione umana». Aderendo come la maggior parte degli scienziati cognitivi alla dottrina evoluzionistica darwiniana, Tomasello suggerisce che il tratto differenziale della nostra specie, l’adattamento evolutivo essenziale che ne ha determinato il vorticoso sviluppo, sia consistito nella capacità di rendere stabili gli apprendimenti e trasmetterli tramite la cultura. La cultura rappresenta quindi il ‘dente di arresto’ della conoscenza: essa consente alla generazione successiva di non ripartire da zero, movendo dal sapere incorporato negli artefatti umani, e quindi fra l’altro nei simboli linguistici. Come l’invenzione delle forbici ha consentito di risolvere una volta per sempre il problema di tagliare certi tipi di oggetti, così le forme linguistiche codificate immettono i piccoli della specie nel patrimonio di conoscenze e di esperienze che la società ha accumulato nel corso della storia, mediando dunque in modo significativo lo sviluppo delle facoltà mentali. Formulazioni di questo genere per un verso rivelano la ripresa delle idee di Vygotskij intorno all’intreccio storico-culturale tra forme di pensiero e apprendimenti linguistici, secondo una linea di analisi sociale della mente che si è affermata negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta del 20° sec. e che presenta analogie con certa ricerca filosofico-linguistica e pedagogica continentale; dall’altro dialogano con il filone degli studi cognitivisti che teorizza una relativa priorità del linguaggio rispetto al mentale, vale a dire con la dottrina secondo cui le lingue e in generale i simboli comunicativi, con la loro carica semantica istituzionalizzata, funzionerebbero da supporto esterno alla mente (scaffolding), stimolandone lo sviluppo ontogenetico e alleggerendone il carico cognitivo con importanti conseguenze nei processi di astrazione. Il lavoro di filosofi come Dennett (Kinds of minds, 1996) e Andy Clark (Being there, 1997; Clark 2006) è evidentemente una sponda costante per l’elaborazione di questa problematica.
Tomasello vede dunque la comunicazione come il teatro sociale in cui si dispiega a fondo la capacità umana di comprendere gli altri come «agenti intenzionali al pari del Sé, agenti le cui relazioni con le realtà esterne possono essere riprodotte, orientate o condivise» (Tomasello 1999; trad. it. 2005, p. 83). Questa capacità a suo modo metarappresentazionale si accende nel piccolo umano dai nove mesi e si sviluppa in età prescolare mediante situazioni di ‘attenzione congiunta’ nelle quali il bambino apprende interagendo ‘triadicamente’ con l’adulto e con i referenti esterni presenti nello spazio ambientale. Come molte ricerche degli anni Ottanta-Novanta illustrano, anche altri primati (come gli scimpanzé) sono capaci di socializzare in modo significativo, ma la loro resterebbe una comunicazione diadica, inetta alla necessaria, continua sponda fra l’‘altro’ e il mondo esterno, e quindi a una vera comprensione esternalizzata del Sé e dell’altro come agenti dotati di desideri, credenze, intenzioni. L’intenzionalità condivisa (shared intentionality) è quindi il nocciolo della pratica comunicativa.
L’idea è che l’apprendimento del linguaggio sia profondamente radicato in dinamiche di questo tipo. Dietro il proferimento e l’elaborazione comunicativa di un enunciato (per es.: «Dai, apriamo la scatola!») operano numerosi presupposti: a) la comprensione dell’altro come agente intenzionale; b) la partecipazione a una situazione di attenzione congiunta che definisca lo sfondo sociale e cognitivo delle parole utilizzate; c) la comprensione delle specifiche intenzionalità comunicative coinvolte nella situazione; d) la capacità di scambiare la propria prospettiva con quella dell’altro, vedendo i simboli linguistici come il luogo stesso del patto sociale che ha luogo. La natura prospettica dei segni linguistici (il loro offrirsi a entrambi i partner come snodo della intenzionalità condivisa) spiega perché la concezione tradizionale della comunicazione sia banale e fuorviante: gli enunciati non si limitano a funzionare da trasmettitori di pensieri, ma sono dispositivi che favoriscono e mediano la formazione e la stabilizzazione delle conoscenze. D’accordo con Ludwig Wittgenstein (Philosophische Untersuchungen, 1953) e con le dottrine di Jerome Bruner, Tomasello ritiene quindi che il linguaggio abbia a che fare con i format interattivi (o, se si preferisce, con le ‘forme di vita’, Lebensformen) in cui esso viene utilizzato e appreso. Da una parte, dunque, esso non azzera né sacrifica il ruolo della mente (perché, come si è visto, presuppone l’attivazione di capacità di mentalizzazione dell’esperienza), dall’altro non si esaurisce in compiti di trasmissione di concetti (perché si forma in, e reagisce su, spazi socioculturali volta a volta determinati).
La comunicazione dal punto di vista evolutivo
L’origine del linguaggio
Collocare la comunicazione nello scenario darwiniano della selezione naturale sembra oggi una mossa normale per la maggioranza degli scienziati cognitivi, nell’area dell’etologia e della psicologia comparata. Complessa è l’agenda teorica e sperimentale che ne discende: la discussione delle possibili cause che hanno portato la specie umana allo sviluppo di tale capacità (se la comunicazione sia stato un vero e proprio adattamento specie-specifico, come sostenuto da Steven Pinker e Paul Bloom in Natural language and natural selection, 1990, o se esso sia il frutto di storie evolutive complesse che hanno portato alla rifunzionalizzazione per il linguaggio di organi e capacità originariamente rivolti ad altri fini: si parlerà allora, con Stephen J. Gould, di exaptation); l’indagine delle affinità fra la comunicazione negli umani e in altre specie animali, in base alla presenza di questa o quella caratteristica (per es., l’espressività o la referenzialità); la ricerca intorno ai sistemi di comunicazione degli animali non umani e al loro possibile radicamento in un background cognitivo specifico; lo studio dei deficit cognitivo-comunicazionali negli umani, dovuti a handicap più o meno gravi, che sembrano illustrare il punto di confine fra i comportamenti comunicativi della nostra specie e quelli di specie diverse. Talvolta si riassume sotto l’etichetta di origine del linguaggio (non sempre però distinguendo con la dovuta chiarezza fra language e speech) l’insieme di queste ricerche, riabilitando così in maniera definitiva un tema che nel 1875 la Société linguistique de Paris aveva estromesso d’autorità dagli studi linguistici. Questa direzione di ricerca, avviata dalla zoosemiotica degli anni Cinquanta-Sessanta e promossa dal celebre convegno della New York academy of sciences su Origins and evolution of language and speech (1975), conosce dunque tra la fine del 20° sec. e il primo decennio del 21° uno sviluppo straordinario nel segno della interdisciplinarità (Language evolution, 2003; Johansson 2005). Non a caso N. Chomsky, in alcuni lavori degli ultimi anni scritti in collaborazione con specialisti della comunicazione animale (Hauser, Chomsky, Fitch 2002; Fitch, Hauser, Chomsky 2005), ha scorporato le diverse componenti sensomotorie, logiche e computazionali che di solito si confondono nell’accezione di language utilizzata nella scienza cognitiva. Risultato di questo sforzo, una più chiara distinzione, ma anche un accorciamento di distanze, fra la componente (ipoteticamente) specie-specifica del linguaggio umano, il suo congegno computazionale-ricorsivo (FLN, Faculty of Language in Narrow sense) e le diverse componenti che costituiscono la facoltà del linguaggio in senso ampio (broad sense), fra cui al primo posto la capacità di comunicare e una almeno limitata capacità di mentalizzazione, condivise, come appare dalle ricerche in corso, da molte altre specie animali.
Gli altri animali ‘comunicano’?
È molto probabile che questa nuova fase di studi porti a una riformulazione della nozione stessa di comunicazione, termine-ombrello, come si è visto, sotto il quale vengono presentati fenomeni molto differenti fra di loro. Un buon punto d’avvio sono alcune risultanze della ricerca sui sistemi di comunicazione degli animali non umani. Stimolati dalle incursioni di Dorothy L. Cheney e Robert M. Seyfarth «dentro la mente di un’altra specie» (How monkeys see the world. Inside the mind of another species, 1990), gli studi più recenti hanno approfondito le nostre conoscenze sui comportamenti comunicativi di numerose specie: a parte scimpanzé e bonobo, che hanno riservato le maggiori sorprese, non poco di nuovo si è appreso sulle capacità combinatorie nella produzione di segnali da parte di certe specie di uccelli e di balene, capacità che si accompagnano, negli uccelli, all’esistenza di vere e proprie varietà locali di canto, trasmissibili mediante apprendimento (ma già Aristotele, Historia animalium IV 9, si era accorto di ciò); e una componente protoculturale sembra sussistere anche nel caso del canto delle balene. Se specie che appaiono promettenti a fini etologico-cognitivi, come i delfini, rappresentano un campo di studio ancora allo stato iniziale (Johansson 2005), di altre specie, come i pinguini, si è imparato a riconoscere e descrivere le qualità fonico-acustiche che consentono l’identificazione parentale all’interno di branchi di migliaia di individui, come pure i rituali codificati che presiedono all’accoppiamento e alla riproduzione. La ricerca di Irene Pepperberg (cfr. la sintesi offerta in Dalla comunicazione al linguaggio, 2002, pp. 68-73) ha persino riabilitato le capacità cognitive-comunicative dei pappagalli, uno dei quali, sotto addestramento, ha rivelato rudimentali attitudini a dare senso referenziale alle proprie produzioni simil-linguistiche; e la circostanza merita rilievo, perché il pappagallo ha rappresentato per millenni, dagli stoici a una influentissima pagina del Discours de la méthode (1637) di René Descartes, l’esempio prediletto per argomentare l’insussistenza di capacità mentali e/o di semantizzazione nel mondo animale.
Chi, dunque, rielaborasse oggi la tavola dei ‘tratti costitutivi’ (design features) dei vari linguaggi, proposta nel 1968 da Charles Francis Hockett e Stuart A. Altmann (A note on design features, in Animal communication, ed. Th. A. Sebeok), potrebbe selezionare le caselle riservate a parecchie caratteristiche semiotiche (perfino la creatività ‘regolare’) un tempo ritenute esclusive degli umani. Ma l’avvento dell’approccio cognitivista e l’insorgenza di domande di natura filosofico-mentalista imporrebbero non solo una riorganizzazione del sistema classificatorio, ma più a fondo una discussione sul senso da dare a ciascun risultato scientifico. Ecco qualche esempio attinto dal dibattito in corso.
La nozione di sistema di comunicazione viene utilizzata ora per identificare un dispositivo importante della vita cognitiva umana, ora per spiegare certi comportamenti di specie enormemente meno complesse, poniamo, la segnaletica ormonale dei tritoni o quella olfattiva di roditori e canidi. È lecito usare lo stesso termine – comunicazione, appunto – per situazioni così differenti? È chiaro che l’assunzione di uno schema inferenzialista (à-la Grice o à-la Sperber-Wilson) indurrebbe a rispondere di no, e a riservare il termine per attività cognitive superiori. Per dirla con Daniele Gambarara, «la comunicazione non verbale [di queste e altre specie animali] non è una ‘prassi’ in senso pieno, non ha una sua autonomia. La comunicazione è inserita in un insieme di azioni [...] che mirano a qualche aspetto della sopravvivenza, e da cui non può essere staccata. Essa è un aspetto di un più complesso comportamento ambientale» (2005, p. 197). Un altro esempio: i pinguini in occasione del corteggiamento e dello stabilirsi di una ‘famiglia’ di specie esibiscono una interessantissima serie di mosse, ciascuna delle quali sembra avere una precisa valenza semantica all’interno della situazione sociale codificata (P. Jouventin, T. Aubin, A. Searby, Il pinguino: un modello di comunicazione, in Dalla comunicazione al linguaggio, 2002, p. 59). Segni di questa natura smentiscono, probabilmente in maniera definitiva, l’idea tradizionale e darwiniana che gli animali condividano del linguaggio umano solo la funzione ‘espressiva’, volta alla manifestazione di stati emozionali (paura, collera ecc.). Naturalmente è tutto da verificare che tali segni siano spiegabili nei termini di un comportamento semiotico volontario: non siamo piuttosto in presenza di mosse obbligate, per quanto complesse, dettate cioè dall’istruzione genetica all’interno di un bagaglio semiotico vincolato alle esigenze della sopravvivenza/perpetuazione, e conseguentemente ‘chiuso’? Dunque, o si scioglie la nozione di segno in componenti differenti, e pertanto si ridefinisce lo status semiotico della comunicazione nei pinguini, oppure – di nuovo – la qualifica di comunicazione scricchiola per la sua genericità. E infine un’obiezione molto generale: tutto il dibattito sembra ruotare intorno a una nozione antropocentrica di mente, modellata su capacità di tipo umano, rispetto alla quale anche le specie animali più evolute appaiono deficitarie. Occorrerebbe dunque storicizzare questo concetto e il metalinguaggio scientifico che ne consegue, alleggerendo la discussione dai presupposti più o meno cartesiani che l’hanno contraddistinta, e liberalizzando o meglio relativizzando il dominio del mentale. (È questa la strada scelta, fin dal titolo, in Altre menti, da Vallortigara 2000). Correlativamente, anche la nozione di sistema di comunicazione non solo andrebbe resa più elastica, ma anche ripensata nel suo insieme come un continuum articolato di opportunità, anziché come un repertorio chiuso di ruoli e meccanismi rispetto al quale i soggetti si situino in una logica sì/no.
Fra intelligenza machiavellica e neuroni specchio
Lo studio dei nostri più vicini parenti nell’universo animale, i primati, ha ancora nell’ultimo decennio la posizione più rilevante. Le linee di ricerca attuali ruotano intorno a tre indirizzi principali: a) lo studio dei comportamenti sociali che sembrano rivelare un’intelligenza ‘machiavellica’ (secondo la fortunata espressione introdotta da R.W. Whiten e A. Byrne nel 1988), insomma la capacità di relazionarsi agli altri mediante strategie di manipolazione, inganno ecc.; b) lo studio delle capacità semiotiche, anticipato dalle sperimentazioni su scimpanzé dei coniugi Gardner e di Premack, e ora portato avanti soprattutto su esemplari di bonobo; c) lo studio delle contiguità cerebrali fra primati superiori e umani, già avviato da tempo, ma divenuto di straordinaria attualità dopo la scoperta, da parte dell’équipe diretta da Giacomo Rizzolatti, dei ‘neuroni specchio’.
Quanto al primo punto, una svolta è stata impressa agli studi con il passaggio da una sperimentazione in cattività a una osservazione del comportamento in the wild, cioè in natura, senza alcun intervento umano. Gli studi del primatologo inglese Robin Dunbar (Groom;ing, gossip and the evolution of language, 1996) hanno illustrato i meccanismi di socializzazione/comunicazione non verbale (in particolare la pulizia reciproca della pelliccia) che presiedono alla formazione e al consolidamento dei gruppi di scimmie, e persino l’ampiezza numerica delle relazioni (fino a 50-55) che ciascun individuo potrebbe intrattenere: da una parte, dunque, lo sviluppo cerebrale dei primati (notoriamente anomalo in rapporto al peso corporeo) troverebbe giustificazione nella necessità di governare un numero di rapporti sociali così alto; dall’altra la logica del gruppo e le sue tradizioni comunicative (dal groom;ing alle vocalizzazioni in coro) consentirebbero di identificare un precedente reale allo sviluppo del linguaggio umano in quanto linguaggio verbale, illustrando sia la prevalenza data al canale fonico-acustico sia la naturale tendenza (spesso trascurata in questo genere di studi) alla diversificazione in ‘dialetti’ (Language evolution, 2003, pp. 229-31). Comportamenti evoluti come quelli indagati da Dunbar formano il punto di partenza di quasi tutti gli studi di settore. È tuttavia controverso il senso ultimo da dar loro in termini di capacità cognitive. Una delle équipe più autorevoli, quella diretta da Daniel Povinelli presso l’Università della Louisiana a Lafayette, propende per una ipotesi restrittiva, la cosiddetta ipotesi dell’astrazione comportamentale: certamente gli scimpanzé «(a) costruiscono categorie astratte di comportamento, (b) fanno predizioni circa i comportamenti futuri che conseguono dai comportamenti tenuti in passato, (c) modificano conformemente a ciò i comportamenti propri» (Povinelli, Vonk 2003, p. 157); ma questo rappresenterebbe solo la fase evolutiva iniziale di una facoltà di rappresentazione del comportamento altrui, fase ovviamente presente anche negli umani. Nei quali ultimi si aggiungerebbe una decisiva facoltà di mentalizzazione di secondo ordine, corrispondente alla capacità di attribuire agli altri individui «la stessa abilità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri» (p. 158). Un punto di vista differente è proposto da Tomasello e collaboratori. Senza ricadere in un puro continuismo della gradualità, il gruppo lipsiense ritiene provato che i primati superiori non umani possiedano «la capacità di comprendere l’azione intenzionale in termini di scopi e percezioni» (Tomasello, Carpenter, Call et al. 2004, p. 684), esibendo atteggiamenti verso i comportamenti altrui simili a quelli di bambini di 9-12 mesi; tuttavia, la loro attitudine a inserirsi in situazioni di intenzionalità condivisa (tipicamente triadici) appare enormemente inferiore rispetto già a bambini di 18 mesi, il che induce a fissare un limite preciso all’area operativa delle loro capacità mentali. Il caso dei bambini autistici (nei quali l’apprezzamento dell’altro in termini di attribuzioni di intenzionalità è compromesso) rappresenterebbe un analogon dello schema evolutivo ipotizzato: a una embrionale capacità di leggere il comportamento come intenzionale non corrisponde, in questi bambini come nei primati non umani, quella di collaborare con l’altro in situazioni sia protoconversazionali (interazioni diadiche) sia di impegni condivisi (triadiche).
Le capacità propriamente semiolinguistiche dei primati non umani hanno trovato sviluppo nei lavori di S. Savage-Rumbaugh e dei suoi collaboratori, che, diversamente dai tentativi degli anni Sessanta di insegnare a scimmie allevate in modo simil-umano una lingua segnata, hanno concentrato i loro sforzi sulla comprensione del linguaggio verbale. Il celebre piccolo di bonobo protagonista di questi esperimenti, Kanzi, è divenuto oggetto di sperimentazione dopo aver rivelato la comprensione spontanea di dispositivi simbolici al cui uso aveva solo assistito (in occasione del training della madre). Kanzi ha così mostrato la capacità di identificare correttamente su una tastiera i simboli degli oggetti cui le parole pronunciate dallo sperimentatore si riferivano, ma anche quella di utilizzare tali simboli per comunicare attivamente; ha correttamente compreso richieste formulate con parole e frasi (del tipo «Metti la bottiglia nel frigo») e si è comportato di conseguenza; ha rivelato la capacità di comprendere anche frasi sintatticamente non elementari, valicando una soglia – quella della sintassi, appunto – che il prevalente paradigma generativo ha sempre ritenuto una peculiarità umana. In sostanza, una parte rilevante del meccanismo simbolico di base sul quale è fondato il linguaggio umano appare alla portata di Kanzi, ed è particolarmente interessante che il focus della ricerca si sia concentrato sul momento della comprensione, evidentemente di grande importanza sia dal punto di vista intenzionalistico-mentalista di cui si è ampiamente discusso sia dal punto di vista specificamente semiotico, dove è canonico il riferimento alla asimmetria fra comprensione e produzione di segni (tanto più che qui si parla di comunicazione interspecifica, fra un umano e un primate anatomicamente impossibilitato a produrre verbalità). La ricchezza della vita non solo comunicativa, ma più generalmente affettiva e cognitiva di Kanzi (ricchezza che include la capacità di informare gli altri, quella di partecipare a giochi di finzione ecc.) ha indotto Savage-Rumbaugh, Shanker e Taylor (1998, 20012) a proporre una tesi fortemente continuista: dal modo in cui Kanzi ha mostrato di poter «passare la soglia» del linguaggio verbale e della capacità mentali di tipo umano, sembra giusto concludere che gli umani «non sono la sola specie che può acquisire il linguaggio [verbale] se viene esposta a esso nella prima età» (1998, 20012, p. 74) e che, più in generale, la teoria della mente, la teoria di cosa davvero significhi cognizione, va liberata dai presupposti antropocentrici che l’hanno finora contraddistinta.
In direzione di una ipotesi continuista vanno oggi anche evidenze ottenute nello studio comparato dell’architettura cerebrale e di brain imaging sul cervello umano. Il caso dei neuroni specchio rappresenta da una decina di anni un punto di riferimento per la discussione, in chiave sia evolutiva sia comparata, anche a proposito della comunicazione. La scoperta (risalente ai primi anni Novanta) che nel cervello dei macachi un’area della corteccia premotoria (area F5) produce scariche neuronali sia quando la scimmia afferra qualcosa sia quando vede eseguire un’azione uguale o simile da un’altra scimmia, ha non solo dato basi nuove alla nozione di ‘imitazione’, con le connesse valutazioni di tipo mentalista, ma ha anche suggerito di verificare se negli umani esistano strutture evolutivamente corrispondenti che formino la base neuronale dei processi di comunicazione. Gli studi di brain imaging degli ultimi anni hanno rivelato che nell’emisfero sinistro del cervello umano c’è un’area che scarica – analogamente all’area F5 dei macachi – sia quando il soggetto afferra un oggetto sia quando vede altri fare ciò: si tratta dell’area di Broca, decisiva per la produzione del linguaggio. A partire da questa ulteriore scoperta, G. Rizzolatti, M. Arbib e collaboratori hanno disegnato uno schema evolutivo per la comunicazione che ipotizza il suo sviluppo interattivamente con successive ristrutturazioni della corteccia motoria: si può dunque assumere che l’antenato che abbiamo in comune con le scimmie (vissuto forse 20 milioni di anni fa) già possedesse un sistema di neuroni specchio che gli permetteva di eseguire e riconoscere atti di prensione; che il nostro più recente antenato in comune con lo scimpanzé (5-6 milioni di anni fa) disponesse di un sistema di neuroni specchio attrezzato per l’imitazione; che tale sistema si sia infine successivamente modificato nelle varie specie ominidi, in linea con le ristrutturazioni delle circonvoluzioni cerebrali attestate dai fossili, formando in ultima analisi «il substrato neurale per la formazione di quella ‘cultura mimica’ […] che avrebbe trovato piena espressione con la comparsa del Homo erectus» (da 1,5 milioni a 300.000 anni fa; Rizzolatti, Sinigaglia 2006, p. 155).
L’idea è quindi che Homo sapiens (250.000 anni fa) via via raffinasse il suo patrimonio motorio fino ad asservirlo a funzioni di vera e propria comunicazione. Il linguaggio (in senso ampio: la ‘semiosi’) nascerebbe dunque – come è stato sostenuto per altre vie da Michael C. Corballis (2002; trad. it. 2008) – come linguaggio gestuale, sviluppandosi successivamente nell’appoggio alla vocalizzazione, finché questa non è risultata selettivamente più efficace (possibilità di essere utilizzata in assenza di luce e anche in presenza di ostacoli fisici fra i partner). In sintesi, gli studi comparati rinverdirebbero oggi, con il supporto di importanti risultanze neurologiche, la stagionata teoria delle origini non verbali della comunicazione, radicata nel movimento del corpo, nel gesto, insomma nell’«azione» (come si esprimeva Étienne Bonnot de Condillac nel suo Essai sur l’origine des connaissances humaines, 1746). Comprensibilmente, inoltre, studi del genere si intersecano e si danno luce reciproca con quell’importante filone della ricerca semiotica contemporanea che verte sulle lingue segnate degli umani. Radicate nelle stesse aree cerebrali della verbalità, equivalenti a queste per potenziale semantico, contraddistinte da identiche proprietà di specificazione culturale e di articolazione in dialetti, in senso sia diatopico sia diacronico, le lingue segnate, acquisite agli studi linguistici e psicologici da pochi decenni, sono oggi un campo di ricerca assai promettente, anche nella direzione comparatistica di cui si diceva (Russo, Volterra 2007). L’ipotesi delle origini gestuali del linguaggio, per quanto seducente, non è tuttavia esente da critiche severe: come mostrano le citate osservazioni di Dunbar o quelle, concentrate sul problema dei neuroni specchio, di James Hurford (2004).
I dibattiti odierni e la storia della filosofia
Il dibattito su comunicazione e cognizione, per quanto strutturalmente aperto alla collaborazione interdisciplinare, ha mostrato finora una modesta capacità di ancorare i propri temi (anche solo per differenziarsi in modo radicale) a tradizioni di pensiero spesso plurisecolari, o di storicizzare le proprie assunzioni di principio e il proprio metalinguaggio. Intanto, la stessa opposizione di un approccio ‘cognitivo’ a uno ‘comunicativo’ ha la sua (inconsapevole?) radice nella critica rivolta da Gottfried Leibniz a Descartes e alle cosiddette lingue universali della metà del Seicento. E a Leibniz e a Condillac si devono le prime indicazioni circa la capacità del linguaggio di supportare, grazie alla sua simbolicità, i limiti operativi della mente. Più in generale, colpisce l’uso spesso aproblematico della nozione di mente, fatto entro un quadro di presupposti rigidamente cartesiano il quale non solo occulta la varietà di opportunità teoriche che la ricerca sul mentale ha reso storicamente disponibili, ma mistifica la stessa concezione di Descartes, svincolandola dal suo contesto culturale e appiattendola su una sola delle sue dimensioni (cfr. al proposito i contributi raccolti in Per una storia del concetto di mente, 2005-2007). Un ulteriore esempio viene dal campo della ricerca comparata, normalmente poco attenta (a parte i rituali riferimenti, in questo caso polemici, a Descartes, o, positivi, a Condillac e ovviamente a Charles Darwin) alla enorme tradizione di osservazione e analisi filosofica dei linguaggi animali, che da Aristotele e i grandi naturalisti della tarda antichità porta ai pionieristici studi anatomici sulla produzione della voce di fine Cinquecento, alle ricerche sul sordomutismo, all’ampia messe di studi di taglio ‘continuistico’ che precede e segue il lavoro di Darwin. Un attento confronto diacronico consentirebbe, presumibilmente, non soltanto di dare profondità storica ai dibattiti in corso, ma anche di modulare in maniera migliore, da un punto di vista critico, le nozioni in gioco: anzitutto quelle di ‘segno’ e di comunicazione.
La semiotica generale e la filosofia del linguaggio, per loro natura discipline filosofiche, intese però all’analisi di oggetti empirici, i linguaggi, in questo contesto dovrebbero e potrebbero rappresentare un ponte fra gli ambiti di ricerca e le competenze che concorrono allo studio del rapporto fra comunicazione e cognizione. La vaghezza e talvolta l’ingenuità con cui viene correntemente utilizzata la nozione di language (termine che copre ambiguamente una quantità di livelli differenti, tutti estremamente delicati, lessicalizzati diversamente nelle diverse lingue) è il miglior esempio dell’urgenza di una ‘iniezione’ di teoria semiotica nei dibattiti qui presentati. Tuttavia le due discipline menzionate, nei loro orientamenti prevalenti, sembrano oggi solo moderatamente interessate alla dimensione evolutiva e comparativa dei linguaggi, ovvero al tema di confine che forma l’asse di molta ricerca di settore. Che il richiamo all’esigenza di una saldatura interdisciplinare sia venuto pochi anni fa non da un semiotico, ma da uno studioso di antropologia biologica, il citato Deacon (The symbolic species, 1997), è molto significativo.
È dunque auspicabile che le discipline che hanno istituzionalmente a che fare con i linguaggi (umani e delle specie animali diverse dall’uomo) cooperino più attivamente, grazie all’apporto delle loro insostituibili competenze, a una integrazione degli orizzonti scientifici, in vista di quell’obiettivo di una nuova e meglio articolata definizione del concetto di comunicazione che lo stato attuale della ricerca sembra non soltanto richiedere, ma anche rendere metodologicamente e tecnicamente possibile.
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